Mostra on line “GROSSETO LIBERATA. Storia di un lungo antifascismo e di una Resistenza breve in Maremma”

Nel giugno 2020, poco dopo la fine del lockdown, l’istituto storico della Resistenza di Grosseto ha pubblicato on line una mostra dal taglio storico-divulgativo sugli eventi che portarono alla liberazione del capoluogo e, in poco più di due settimane, dell’intero territorio provinciale grossetano. La scelta, in linea con un progetto di ricerca i cui esiti sono stati poi pubblicato alla fine del 2021 nel volume “Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma” (a cura di Stefano Campagna e Adolfo Turbanti), fu quella di una prospettiva allargata nei tempi e negli spazi, interpretando singoli episodi della lotta di Liberazione, spesso già conosciuti e studiati, alla luce delle strategie belliche degli eserciti contrapposti, degli effetti della guerra totale sul territorio e sulla popolazione civile, dell’attività delle bande partigiane e del Comitato di Liberazione provinciale. La mostra raccoglie e rielabora materiali originali prodotti dall’Isgrec in quasi 30 anni di attività e offre spunti ulteriori per l’approfondimento del contesto provinciale: documenti, fotografie, testimonianze edite e inedite.  Nel corso degli anni la mostra è stata implementata con nuova documentazione.

Link alla mostra >>https://grossetoliberata.weebly.com/




Immagine e realtà di una provincia rurale: Grosseto e la Maremma alla vigilia della seconda guerra mondiale

designer roveretano aveva scelto il grifone, simbolo del capoluogo, un aratro stilizzato, e lo slogan «Provincia rurale: abbiate questo orgoglio e restate rurali» che era tratto dal discorso pronunciato da Mussolini ai maremmani il 10 maggio 1930 dal balcone del Palazzo del Governo (2).

Scavi sul fiume Bruna, 1933-1938. Archivio fotografico del Consorzio Bonifica Grossetana

Felice Andreis, San Donato. Lavorazione della ricotta, 1935

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. Ma tutto ciò non filtrava nel discorso pubblico. Il regime era unicamente interessato a celebrare, in una dimensione palingenetica, la Maremma come terra redenta, liberata dalla piaga della malaria e pronta a essere colonizzata.

Angelo Mazzoni, Palazzo delle Poste di Grosseto: il portale con il gruppo scultoreo  "La Maremma domata" di Napoleone Martinuzzi, 1929-1932. Fotografia Anderson. Rovereto, Mart Archivio del '900

Angelo Mazzoni, Palazzo delle Poste di Grosseto: il portale con il gruppo scultoreo “La Maremma domata” di Napoleone Martinuzzi, 1929-1932. Fotografia Anderson. Rovereto, Mart Archivio del ‘900

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Palazzo del Governo

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Memo Vagaggini, La foce della Bruna (Castiglione della Pescaia, la Casa Rossa), 1932. Grosseto, Collezione privata

Memo Vagaggini, La foce della Bruna (Castiglione della Pescaia, la Casa Rossa), 1932. Grosseto, Collezione privata

La narrazione della palingenesi della Maremma, in cui, come ricorda Geno Pampaloni «le bonifiche [e] gli appoderamenti» erano stati elevati ad «oggetti di fede» (21), occultava insomma le difficili condizioni materiali d’esistenza di una parte consistente della popolazione locale che il regime non era stato in grado di migliorare. Dinamiche che riflettevano tanto fenomeni di lunga durata, legati alla geografia del territorio, quanto mutamenti congiunturali che si erano realizzati sotto la spinta delle interazioni tra l’azione politica del fascismo e le forze economiche e sociali e che, come si è tentato di fare nel volume Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma, recentemente pubblicato per la collana Quaderni ISGREC/Effigi, risultano imprescindibili per ricostruire l’impatto della guerra totale e la fenomenologia della Resistenza nel conteso della provincia di Grosseto.

Note:

(1) Fortunato Depero, I dopolavori aziendali in Italia, De Agostini, Novara 1938.

(2) Cfr. Benito Mussolini, Al popolo di Grosseto, in Edoardo e Duilio Sumel (a cura di), Opera Omnia di Benito Mussolini, Vol. XXIV, Dagli accordi del Laterano al dodicesimo anniversario della fondazione dei fasci (12 febbraio 1929 – 23 marzo 1931), La fenice, Firenze 1958, pp. 224-225.

(3) La nostra fede ha avuto il premio più ambito: il sorriso del duce, «La Maremma», 5 marzo 1939.

(4) Raccolta di lezioni teorico-pratiche da svolgere alle Massaie Rurali, a cura del PNF federazione dei fasci femminili di Grosseto, sezione massaie rurali, Tipografia “La Maremma”, Grosseto 1937, p. 5.

(5) Enrico Trotta, Conquiste e realizzazioni dell’anno XVI in Maremma, Tipografia “La Maremma”, Grosseto 1939, p. 26.

(6) Rossano Pazzagli, Agricoltura e fine della mezzadria: tracce per leggere lo sviluppo locale, in Simone Neri Serneri, Luciana Rocchi (a cura di), Società locale e sviluppo locale. Grosseto e il suo territorio, Carocci, Roma 2003, p. 87.

(7) Cfr. L’economia agraria della Toscana, a cura dell’Osservatorio di economia agraria della Toscana, Tipografia operaia romana, Roma 1939.

(8) Benito Mussolini, Al popolo di Grosseto, cit., p. 225.

(9) Istituto centrale di statistica del Regno d’Italia, VIII censimento generale della popolazione, 21 aprile 1936-XIV, Vol. II – Province, fascicolo 46 – Provincia di Grosseto, Faili, Roma 1937, p. VII.

(10) Cfr. Luciana Rocchi, Mutamenti e persistenze nel Novecento grossetano, in Valeria Galimi (a cura di), Il fascismo a Grosseto. Figure e articolazioni del potere in provincia (1922-1938), ISGREC/Effigi, Arcidosso 2018, pp. 11-38.

(11) Consorzio Bonifica Grossetana 1928-VII 1938-XVII, Tipografia “La Maremma”, Grosseto 1938, p. 3.

(12) Enrico Trotta, Grosseto fascista nel suo nuovo volto, Tipografia “La Maremma”, Grosseto 1938, pp. 8-9.

(13) Archivio di Stato di Grosseto (ASG), R. Prefettura, b. 730, f. Schedario dei podestà della provincia, Profilo demografico della Provincia di Grosseto al dicembre 1940, s.d [1940]. Secondo al censimento del 1936, densità demografica dell’intera provincia restava tra le più basse d’Italia con 39,4 abitanti per kmq., contro una media nazionale di 193,6. Cfr. Istituto centrale di statistica del Regno d’Italia, VIII censimento generale della popolazione, 21 aprile 1936-XIV, cit.

(14) Cfr. Enrico Trotta, Maremma agricola e industriale nel piano autarchico, Tipografia “La Maremma”, Grosseto 1938, pp. 1-2.

(15) ASGR, R. Prefettura, b. 732, f. Situazione politico-economica della provincia 1941, Relazione mensile del gruppo di Grosseto dei CC.RR. sulla situazione politico-economica, 22 febbraio 1941.

(16) Cfr. L’ammasso granario in Provincia di Grosseto. Regolarità dei servizi e superamento delle difficoltà per la tutela della produzione, “La Maremma”, 8 dicembre 1940.

(17) Relazione riservata del segretario federale di Grosseto Emilio Biaggini al duce, primavera 1942, in Giordano B. Guerri, Rapporto al duce. L’agonia di una nazione nei colloqui tra Mussolini e i federali nel 1942, Mondadori, Milano 2002, p. 256.

(18) ASGR, R. Prefettura, b. 716, Lettera del fiduciario del gruppo rionale “Rino Daus” Bartolini al segretario federale Craighero, 25 settembre 1940.

(19) Cenni in Enrico Trotta, Conquiste e realizzazioni dell’anno XVI in Maremma, cit., p. 9.

(20) ASGR, R. Prefettura, b. 743, f. Situazione politico-economica della provincia 1942, Relazione mensile del prefetto Palmardita sulla situazione politico-economica, 27 giugno 1942

(21) Geno Pampaloni, Fedele alle amicizie. Il ritratto morale e sentimentale della generazione passata attraverso il fascismo, Garazanti, Milano 1992, p. 15.

 

 

Bibliografia

Consorzio Bonifica Grossetana 1928-VII 1938-XVII, Tipografia “La Maremma”, Grosseto 1938

Edoardo e Duilio Sumel (a cura di), Opera Omnia di Benito Mussolini, Vol. XXIV, Dagli accordi del Laterano al dodicesimo anniversario della fondazione dei fasci (12 febbraio 1929 – 23 marzo 1931), La fenice, Firenze 1958

Enrico Crispolti, Anna Mazzanti, Luca Quattrocchi, Arte in Maremma nella prima metà del Novecento, Silvana, Cinisello Balsamo 2005

Enrico Trotta, Conquiste e realizzazioni dell’anno XVI in Maremma, Tipografia “La Maremma”, Grosseto 1939

Enrico Trotta, Grosseto fascista nel suo nuovo volto, Tipografia “La Maremma”, Grosseto 1938

Enrico Trotta, Maremma agricola e industriale nel piano autarchico, Tipografia “La Maremma”, Grosseto 1938

Fortunato Depero, I dopolavori aziendali in Italia, De Agostini, Novara 1938

Geno Pampaloni, Fedele alle amicizie. Il ritratto morale e sentimentale della generazione passata attraverso il fascismo, Garzanti, Milano 1992

Giordano B. Guerri, Rapporto al duce. L’agonia di una nazione nei colloqui tra Mussolini e i federali nel 1942, Mondadori, Milano 2002

Istituto centrale di statistica del Regno d’Italia, VIII censimento generale della popolazione, 21 aprile 1936-XIV, Faili, Roma 1937

L’economia agraria della Toscana, a cura dell’Osservatorio di economia agraria della Toscana, Tipografia operaia romana, Roma 1939

Raccolta di lezioni teorico-pratiche da svolgere alle Massaie Rurali, a cura del PNF federazione dei fasci femminili di Grosseto, sezione massaie rurali, Tipografia “La Maremma”, Grosseto 1937

Simone Neri Serneri, Luciana Rocchi (a cura di), Società locale e sviluppo locale. Grosseto e il suo territorio, Carocci, Roma 2003

Stefano Campagna, Adolfo Turbanti (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma, ISGREC/Effigi, Arcidosso 2021

Tra fascismo e dopoguerra. Estratti dalle tesi di laurea di Giovanna Salvadori, Andrea Marroni, Riccardo Lucetti, Biblioteca Chelliana/ISGREC, Grosseto 2000

Valeria Galimi (a cura di), Il fascismo a Grosseto. Figure e articolazioni del potere in provincia (1922-1938), ISGREC/Effigi, Arcidosso 2018

La Maremma. Foglio d’ordine della federazione dei fasci di combattimento di Grosseto




Guerra ai renitenti: le fucilazioni del marzo ’44

Leandro Corona, Ottorino Quiti, Antonio Raddi, Adriano Santoni, Guido Targetti: erano questi i nomi dei 5 giovani – di età compresa fra i 21 e i 23 anni – fucilati il 22 marzo del 1944 a Firenze allo stadio di Campo di Marte a seguito di una condanna a morte per renitenza alla leva, emanata dal Tribunale militare speciale. All’esecuzione sono fatti assistere tutti i militari del presidio militare di Firenze, come monito. I drammatici momenti di quell’eccidio ci sono restituiti dalla relazione redatta da don Angelo Becherle, il cappellano chiamato a impartire l’estrema unzione ai cinque ragazzi. Nel racconto del sacerdote – subito trasmesso al cardinale di Firenze Elia Dalla Costa – emerge tutta la tragedia delle giovani vite di fronte alla morte: “Quiti cominciò a tremare, voleva alzarsi e scappare: anche il Raddi e il Corona ebbero un momento di terribile esasperazione: riuscii a quietarli  […] avvenne la scarica del plotone. Il Targetti, il Raddi ed il Santoni morirono subito. Non così il Quiti, che ancora vivo, legato alla sedia si dimenava e gridava « Mamma, mamma!». […] Fu il maggiore Carità, il famigerato comandante delle SS, che dopo alcuni istanti intervenne e diede il colpo di grazia”. La gravità del fatto è tale che sconvolge i testimoni e resta ben vivo nella memoria della città che ha poi onorato la memoria dei martiri con il monumento che ancora oggi li ricorda sotto la “Curva Ferrovia” dello stadio di calcio.

Peraltro non si tratta di episodio isolato. In quello stesso mese di marzo fatti simili si erano verificati in tutta la Toscana. Ad esempio il 13 a Siena dove 4 giovani renitenti erano stati condannati dal tribunale militare speciale e fucilati nella caserma “La Marmora”; sono 11 quelli fucilati in quello stesso 22 marzo a Maiano Lavacchio nel grossetano, insieme ad un militare tedesco che aveva disertato;  il 24 tocca a due giovani viareggini presso il cimitero della città e il giorno seguente altri due a Lucca; il 27 marzo due a Pisa e il 31 quattro renitenti sono fucilati a Pistoia sotto le mura della Fortezza di Santa Barbara.

Una vera e propria guerra alla renitenza,  nella quale i giovani che non si presentano alla leva sono di fatto equiparati a nemici, e come tali trattati. Per capire la radicalità e capillarità di questa strategia, frutto non tanto delle scelte dei singoli Tribunali locali, quanto di una compiuta strategia della Repubblica sociale italiana, è necessario considerare l’importanza attribuita dal governo di Salò alla leva militare.

Per il governo collaborazionista fascista la formazione di un esercito nazionale, secondo l’impostazione del generale Graziani, Ministro della Difesa nazionale, è infatti obiettivo prioritario per dimostrare la propria esistenza come Stato agli italiani, ma anche ai potenti quanto ingombranti alleati nazisti. Per questo, oltre al tentativo di “recuperare” i soldati arresisi dopo l’armistizio e condotti nei lager del Reich come internati militari, è fondamentale soprattutto il coinvolgimento dei giovani attraverso l’emanazione dei bandi di leva. Per questo fin dal 16 ottobre del ’43 Graziani preannuncia la chiamata alle armi dei nati nel ’24 e nel ’25, riattivati gli uffici di leva, nella seconda metà di novembre. L’operazione è vista con diffidenza dai nazisti che puntano piuttosto ad usare gli italiani come lavoratori a proprio servizio. Ma soprattutto si scontra con la diffusa stanchezza e la crescente ostilità per il conflitto fra gli italiani. Atteggiamenti certo accentuati dall’odiosa disposizione del generale Gambarra dello Stato maggiore dell’Esercito che intima l’arresto dei padri in caso di mancata presentazione dei figli alla leva. Nonostante un crescente clima di minacce la maggioranza dei ragazzi non si presenta.

Il decreto legislativo del 18 febbraio 1944 che stabilisce la pena di morte per renitenti e disertori è la più efficace dimostrazione del fallimento del bando di novembre. Il ricorso alla pena estrema svela l’inefficacia di ogni altro mezzo, a partire dalla propaganda, e la crescente delusione negli ambienti fascisti. Una consapevolezza rafforzata dalla lettura della stampa fascista che indica sempre più in renitenti e disertori nemici da abbattere più che ragazzi da convincere. Esemplare è quanto si legge sulle testate delle federazioni toscane, come quella lucchese: “la diserzione, quindi, e il macchiai olismo di tanti, di troppi giovani nostri, per non servire la mamma Italia e in un’ora delle più tragiche per Essa, sono spregevoli al massimo grado” (“L’Artiglio”, 21 aprile 1944). Sulla stessa linea il periodico pistoiese “Il Ferruccio” che definisce i renitenti “sabotatori”, mentre quello fiorentino “Repubblica”, già dal dicembre del ’43 aveva esteso la denuncia ai familiari: “vili sono tutti coloro che proibiscono e non incitano i figli perché accorrano a cacciare il nemico” (“Repubblica”, 11 dicembre 1943).

La successiva tattica del “bastone e della carota” – con il decreto 336 che esenta dalla pena coloro che si presentino entro il 9 marzo 1944 – non muta la sostanza dei fatti. Né ottenere risultati significativi. Tanto che il successivo decreto del 24 marzo stabilisce sanzioni economiche per i renitenti e i disertori come la confisca dei beni, propri e familiari, oltre alla cancellazione delle tessere annonarie, così da piegare i giovani, con il ricatto che grava sui parenti. In questo contesto vanno quindi collocati gli episodi che insanguinano anche la Toscana nel marzo del ’44 con le varie fucilazioni di renitenti. Esse non sono solo azioni di repressione, ma tremendi atti dimostrativi tesi a terrorizzare gli altri ragazzi e tutta la popolazione per cercare di piegare con la paura chi non si era riuscito a convincere con ragionamenti ed emozioni retoriche ormai vanificate dal conflitto e dai suoi tremendi effetti. Violenze gravi che, quasi per contrappasso, ottengono l’effetto di favorire un rafforzamento del movimento partigiano, con la fuga alla “macchia” di tanti giovani, e più in generale di favorire un sentimento di ostilità della popolazione contro la Repubblica sociale, contribuendo così a quella crescita della Resistenza, in ogni sua forma, che si dispiegherà nei mesi successivi contribuendo alla liberazione di gran parte del territorio della Toscana.




“L’energicissima lezione” del 1937: la ripresa dello squadrismo contro gli antifascisti grossetani

Incitata o tenuta a bada a seconda delle convenienze, la violenza è sempre stata un fondamento dell’ideologia fascista. Già all’epoca dello squadrismo e prima della presa del potere, i fascisti propagandarono la propria fede con la pratica della violenza «mitizzata e sublimizzata come manifestazione di virilità e di coraggio, strumento necessario per liberare la nazione dai suoi dissacratori. L’offensiva armata dello squadrismo contro il proletariato, per i fascisti, era una santa crociata dei veri credenti per annientare i profanatori della patria, redimere il proletariato dalla idolatria dei falsi dèi dell’internazionalismo, riconsacrare i simboli e i luoghi santi della nazione, riportando la patria sugli altari della devozione civile[1]». Il tutto si tradusse in minacce, intimidazioni, saccheggi, devastazioni, incendi e uccisioni di avversari politici, negli anni più bui dello squadrismo. Neppure la presa del potere da parte del fascismo valse a porre fine alla violenza. Una lettura più recente di questo fenomeno ha sottolineato come anche negli anni centrali della dittatura mussoliniana squadrismo e violenza non vennero mai meno, tanto che il primo non può esser considerato un residuo anacronistico o un effetto collaterale del percorso ventennale del regime, quanto un elemento imprescindibile nella definizione del fascismo. Stando a questa interessante interpretazione, nonostante la necessità di normalizzazione il regime non rinunciò mai alla violenza, poiché normalizzazione governativa e illegalismo squadrista erano due piani di un’unica strategia politica che perseguiva lo stesso obiettivo di conquista integrale della società e di creazione di una nuova Italia e di un nuovo italiano da conseguire innanzitutto attraverso l’eliminazione di ogni forma di opposizione[2].

L’analisi dei contesti locali durante il Ventennio conferma il perdurare di una situazione di tensioni e violenze, che riguardarono perfino il campo fascista dove si combattevano le lotte di fazione per la conquista del potere locale. D’altronde, sin dalle origini e al di là delle differenti realtà politiche ed economiche, il fascismo fu una precaria alleanza tra interesse e ideologia, tanto che «agli occhi di molti fascisti il movimento era stato uno strumento di avanzamento sociale ed economico[3]».  Dallo studio della documentazione delle Federazioni provinciali del Pnf è emerso come, nel corso degli anni, la componente dell’interesse prese il sopravvento su quella dell’ideologia. La priorità data dai gerarchi di provincia al perseguimento dei propri interessi privati e materiali sconfinò in frequenti casi di affarismo, corruzione e malcostume che ebbero conseguenze sull’opinione popolare, provocando atteggiamenti di distacco, apatia, disaffezione nei confronti del partito e del regime. Fu soprattutto nella seconda metà degli anni Trenta che si moltiplicarono i rapporti dalle province volti a illustrare tale situazione: nel grossetano, oggetto di questa indagine, vi furono riscontri non solo nel capoluogo di provincia ma anche in altri paesi quali Massa Marittima, Civitella e Pitigliano[4]. Soffermandoci proprio sul contesto maremmano nella seconda metà degli anni Trenta, parallelamente al malcontento verso i gerarchi notiamo una netta ripresa degli atti di intimidazione e violenza verso gli antifascisti, in particolar modo nel 1937, in concomitanza ad eventi internazionali di notevole importanza in quegli anni (la guerra civile spagnola e la nascita dell’Impero nell’Africa orientale italiana) e al massimo sforzo profuso dal regime nel tentativo di fascistizzare la società e ampliare il consenso, grazie anche al ruolo svolto dal Partito nazionale fascista, il custode della fede e “grande pedagogo”. Il protagonista assoluto di questa nuova ondata di squadrismo fu proprio il segretario federale del Pnf, Angelo Maestrini, un geometra nato a Gavorrano nel 1902, squadrista e iscritto antemarcia, già consigliere comunale e poi podestà e segretario del fascio dello stesso Comune fino alla sua nomina alla guida del partito in provincia, che tenne dal maggio 1934 al febbraio 1938. Perfetto esempio dell’incrocio già descritto di “fede e fortune” e di quei ceti medi delle professioni in ascesa, formatisi nelle file del partito e destinati a rappresentare la nuova classe dirigente del fascismo, Maestrini ebbe un ruolo di primo piano durante il Ventennio in Maremma e si contraddistinse per il fenomeno del cumulo di cariche, i casi di affarismo e il facile interscambio tra gli incarichi politici e quelli statali, poiché dopo l’esperienza di federale fu nominato podestà di Grosseto.

Antifascisti grossetani nel 1928. Da sx in piedi: Attilio Vitali, Gino Franchi, Paolino Ancarani, Luigi Franchi, [...], Artino Meconcelli, Ferdinando Nardini, Adamo Tonini, Augusto Boschi,. Da sx seduti: Dino Berti, Pietro Ginanneschi (pHOTO CREDITS: a.- bANCHI, sI VA PEL MONDO)

Antifascisti grossetani nel 1928. Da sx in piedi: Attilio Vitali, Gino Franchi, Paolino Ancarani, Luigi Franchi, […], Artino Meconcelli, Ferdinando Nardini, Adamo Tonini, Augusto Boschi,. Da sx seduti: Dino Berti, Pietro Ginanneschi (photo credits. A. Banchi, Si va pel mondo)

Nella seconda metà degli anni Trenta la federazione provinciale fascista dispose un aumento delle attività di vigilanza sugli antifascisti e incitò alle spedizioni punitive nei confronti degli elementi sospetti. Le bastonature riguardarono il capoluogo maremmano (dove si contarono circa 20 azioni violente) ed anche altri centri della Provincia, quali Orbetello, Follonica, Scarlino e Porto Santo Stefano. Il 5 aprile 1937 il federale Maestrini aveva comunicato al segretario nazionale del Pnf Starace di aver notato già da tempo una certa riorganizzazione da parte degli antifascisti locali[5]. Dal servizio di vigilanza da lui disposto era emerso che individui ritenuti sovversivi tendevano a ritrovarsi in gruppo per le vie cittadine, commentando la situazione grossetana e i fatti politici in generale. La ripresa delle azioni punitive su invito dello stesso federale aveva però trovato una netta contrarietà da parte della Prefettura, della Questura e dei carabinieri, che invitarono ripetutamente Maestrini a sospenderle, non risultando loro alcun indizio di attività sovversiva. «Da tali esortazioni non sono estranee preoccupazioni per la propria personale responsabilità», aggiunse polemicamente il federale. Nonostante tali inviti, la federazione provinciale fascista proseguì le attività di vigilanza e continuò ad incitare le azioni violente. Questa nuova ondata squadrista, promossa dal partito locale ma osteggiata dalle autorità statali in provincia, mal si conciliava però con quei compiti di “mediazione” a tutti i livelli a cui ormai il Pnf doveva adempiere. Significativo il fatto che lo stesso Starace girò la lettera di Maestrini al sottosegretario agli Interni Buffarini Guidi per gli avvertimenti del caso. Il radicalismo del federale che minava la stabilità in provincia non poteva più esser tollerato e fu, come vedremo, uno dei motivi principali dell’allontanamento di Maestrini dalla guida del partito e del suo insediamento alla guida comunale. Qui fu chiamato a sostituire il podestà Ezio Saletti, fratello del “martire” fascista Ivo, caduto nel corso della spedizione punitiva su Roccastrada del 24 luglio 1921, che pur essendo stato chiamato a svecchiare e spersonalizzare la carica podestarile dopo la lunga gestione Scaramucci, aveva deluso tutte le aspettative, mancando in quegli attributi giudicati fondamentali dal regime per la figura del podestà, quali la “fattiva operosità”, l’efficienza, la moralità e la capacità di accattivarsi la stima della popolazione[6]. Ennesima dimostrazione delle difficoltà del regime di garantire stabilità in provincia e di promuovere una nuova classe dirigente giovane, dichiaratamente fascista ed espressione dei ceti medi, che fosse preparata ed efficiente, nonché del malaffare dei gerarchi, che comprometteva il consenso della popolazione al regime.

Tornando al tema dell’ordine pubblico e delle violenze sui presunti sovversivi nel 1937, le forze dell’ordine grossetane nel corso dell’anno non avevano rilevato attività ostili al regime, in relazione anche agli avvenimenti spagnoli, tali da giustificare le spedizioni punitive promosse dal partito. Ne è un esempio questa relazione stilata dai carabinieri di Grosseto il 13 aprile 1937, avente ad oggetto la repressione della propaganda sovversiva.  « […] Si comunica che, l’11 detto, alcuni fascisti in Roselle, frazione di Grosseto,  percossero senza conseguenze tali Sandri Ippolito, Tenti Giuseppe, Capitoni Angelo, Doveri Cesiro, Scheggi Priamo, i quali pur non avendo militato nei partiti sovversivi, ad eccezione dello Scheggi di idee comuniste, mantengono un contegno non favorevole al Regime. Ieri, 12 corrente, verso le ore 19,30, altri fascisti percossero in Grosseto tali Bellucci Albo e Fanteria Giuseppe perché nutrono idee contrarie al fascismo. Solo il Bellucci riportò contusioni guaribili in giorni sei. Pur trattandosi di elementi infidi in linea politica, sui quali gli organi di polizia esercitano il dovuto controllo, il ripetersi di azioni punitive da parte dei fascisti, sta dando luogo a commenti poco favorevoli, specie perché in questa provincia non si sono verificati fatti tali da giustificare reazioni fasciste[7]». Già nel 1936 era stata segnalata una ripresa dell’attività sovversiva fra gli operai disoccupati, che aveva portato però semplicemente a un aumento delle attività di vigilanza senza particolari rilievi di sorta[8]. L’anno successivo vi furono varie segnalazioni di scritte sovversive sui muri (ad esempio “Abbasso Franco = Abbasso il fascismo = Impero di fame” con la sigla della falce e del martello nei bagni comunali di Roccastrada, “Abbasso il Duce, Viva il pane” sul muro esterno del palazzo del sindacato dei lavoratori dell’industria a Grosseto, “Viva la Russia, abbasso l’Italia” sul lavatoio pubblico di Orbetello ecc.), oltre che di invio di stampa sovversiva (il negoziante Giuseppe Barni di Roccastrada, caposquadra della milizia ed ex vice-segretario politico del fascio di Roccastrada, si vide recapitare da Pas de Calais due manifestini contenenti frasi contro l’intervento fascista in Spagna, mentre a Sassofortino giunsero cartoline del soccorso rosso per i bambini spagnoli firmate con la falce e il martello). I carabinieri di Grosseto segnalarono che in vari esercizi pubblici di Orbetello, nei quali erano installati apparecchi radio, venivano captate le comunicazioni della stazione comunista di Barcellona, oggetto di ascolto da parte degli operai dei vari stabilimenti industriali locali[9]. Nel complesso si trattava di una situazione con qualche tensione nelle aree minerarie o a vocazione più industriale, che poteva però esser tenuta sotto controllo con azioni di vigilanza.

L’allarme principale della federazione provinciale fascista era legato principalmente proprio ai fatti della guerra civile spagnola, che avevano riacceso le speranze degli antifascisti locali. Furono ben 25 i volontari della provincia, su un totale di 395 dell’intera regione Toscana, che si trasferirono nel paese iberico per difendere la Repubblica e combattere Franco[10]. Prevalentemente comunisti e appartenenti alle classi popolari, in gran parte erano già espatriati all’estero quali esuli politici, mentre cinque di loro (Vittorio Alunno, Angelo Rossi detto Trueba, Luigi Amadei, Pietro Aureli e Italo Giagnoni) riuscirono a raggiungere la Spagna dalla Maremma con un’impresa temeraria che rappresentò un vero e proprio smacco per le autorità fasciste. Acquistata una piccola imbarcazione a remi grazie alle sottoscrizioni degli antifascisti maremmani, il 21 agosto 1937 elusero i controlli e dalla spiaggia delle Marze, nei pressi di Castiglione della Pescaia, approdarono in Corsica, prima tappa della loro travagliata e avventurosa esperienza in Spagna. Questi episodi e la propaganda sovversiva interna accentuarono il radicalismo all’interno della federazione provinciale fascista, insofferente a qualsiasi forma di dissidenza nel periodo di ricerca massima del consenso e dell’inquadramento totalitario dei giovani. A tal fine il 29 ottobre 1937 nacque la Gioventù italiana del littorio, sorta dalla fusione dell’Opera nazionale balilla e dei fasci giovanili di combattimento e posta alle dirette dipendenze del segretario del Pnf, per la formazione politica e alla preparazione sportiva e militare dei giovani d’ambo i sessi dai 6 ai 21 anni. Di fronte a tali sfide, il partito grossetano non esitò a giocare la carta della violenza per reprimere qualsiasi opposizione. Dopo la fuga dei cinque in Spagna, il comunista e poi partigiano Aristeo Banchi (Ganna) scrisse nelle sue memorie che «le camicie nere grossetane  (Ragno, Catone e tanti altri delinquenti), infuriate per lo smacco subito, erano da evitare come la peste, ogni pretesto era buono per pestaggi malvagi e per “lezioni” che potevano costare la salute a chi le subiva, le provocazioni erano all’ordine del giorno, l’aria per noi oppositori era gravida di minacce[11]».  Lo stesso Banchi ricorda nel 1937 tafferugli e aggressioni a carico di antifascisti (tra di loro Aladino Fumi), che solevano andare in giro per la città ostentando provocatoriamente le cravatte rosse che acquistavano dai cinesi venditori per strada di oggetti e merci varie.

Elvino Boschi

Elvino Boschi

Il caso più eclatante della ripresa della violenza contro gli antifascisti nel 1937 riguardò l’aggressione compiuta nella notte tra il 31 ottobre e il primo novembre dallo stesso federale Maestrini ai danni di Elvino Boschi (classe 1906), un impiegato socialista all’epoca dei fatti disoccupato, noto alle forze dell’ordine e già sottoposto a periodi di vigilanza per la sua attività di ascoltatore delle radiodiffusioni comuniste sulla guerra civile spagnola. Originario di Livorno ma residente da tempo a Grosseto, nel suo fascicolo personale nel Casellario politico centrale era descritto come individuo irascibile e prepotente ma di discreta intelligenza e cultura, assiduo lavoratore di fede socialista, che frequentava elementi sospetti in linea politica, figlio di un impiegato ferroviere collocato in pensione nel 1931, già attivo propagandista delle idee socialiste prima dell’avvento del fascismo. Padre di due figli e coniugato con Licena Rosi, Boschi era il cognato di un altro volontario grossetano nella guerra civile spagnola, Siro Rosi, un militare di leva che nel 1937 si arruolò con i fascisti destinazione Cadice, con l’obiettivo di passare nelle file repubblicane, cosa che fece il 18 aprile 1937, quando passò le linee per dirigersi a Campillo[12]. Poco dopo la diserzione di Rosi, Boschi fu oggetto di prima una violenta aggressione. Come si evince dalla testimonianza della moglie Licena, il 22 maggio 1937 Elvino si trovava a passeggio per le Mura medicee quando, all’altezza del Parco della Rimembranza, l’archivista della federazione fascista Ferruccio Malandrini e altri tre fascisti (Giuseppe Tamburini, Carlo Faenzi e Mario Caciai) lo picchiarono selvaggiamente, provocandogli un’escoriazione all’occhio e una menomazione permanente alla gamba sinistra, che lo costrinse a un periodo di degenza a letto di due mesi e mezzo[13]. Questo triste episodio, che gli valse una diffida da parte della Questura, fu solo il prologo di quello che sarebbe successo pochi mesi più tardi. La notte del 31 ottobre 1937, Boschi stava girando per le vie del centro in compagnia di Guglielmo Marconi, un manovale schedato come anarchico. Dopo essersi ritrovati con alcuni amici (Bruno Bruni, Celso Checcacci, Adamo Innocenti, Gaspare Minucci Aristide Burroni), all’altezza di via Corsica il primo fu riconosciuto e chiamato dal segretario federale Maestrini, insospettito dal girovagare notturno di questo presunto gruppo di sovversivi. Il capo del partito grossetano passò immediatamente alle vie di fatto: Boschi fu preso per i capelli e schiaffeggiato e, dopo aver reagito, pesantemente bastonato e colpito a calci anche dagli altri gerarchi lì presenti[14]. Nella violenta lotta corpo a corpo, così come fu descritta dai carabinieri, Boschi fu spalleggiato da Marconi e Checcacci e alla fine perse i sensi e riportò lesioni alla testa guaribili in quattro giorni. Dopo questo incidente le autorità fasciste locali procedettero a una lunga serie di arresti e perquisizioni. Non mancarono altri atti di violenza da parte dei fascisti decisi alla resa dei conti coi sovversivi: solo per citarne uno, il 2 novembre fu violentemente percosso anche il calzolaio socialista Aldo Ginanneschi. Intanto, Maestrini trovò modo di rinfocolare la polemica con le forze di pubblica sicurezza, accusandole di eccessiva indulgenza verso gli antifascisti e riportando tutto a Starace:

«[…] Il Boschi era sorvegliato dai fascisti e nel mese di aprile ebbe una severa lezione (S. R.); fu poi arrestato ma quasi subito rilasciato perché secondo la Questura non vi erano colpe sicure da addebitargli. Noi sapevamo invece che poteva essere pericoloso perché avvicinava sempre operai fra i quali, sembra facesse propaganda antifascista. Si rende necessario che almeno questa volta le autorità di P.S. agiscano energicamente e senza pietà e non si trincerino nel dire che noi fascisti esageriamo nel considerare le cose. I fascisti fanno sempre il loro dovere e come l’animo squadrista ha loro insegnato».

Nella seconda lettera inviata a Starace in giornata (1° novembre 1937), Maestrini faceva presente che l’identificazione, il fermo e la relativa energicissima lezione degli individui che avevano ammesso di aver partecipato al fatto (tutti consegnati alla Questura e associati alle locali carceri giudiziarie)[15], era stato possibile per il solo intervento della milizia e dei fascisti. «Credo opportuno far presente all’E. V. che S. E. il Prefetto si è limitato a dichiararmi il suo dispiacimento per l’incidente accadutomi, invitandomi alla calma per il timore di altre complicazioni. Ho avuto poi la netta impressione che la Questura voglia considerare la cosa come un fatto di ordinaria amministrazione, felice che i colpevoli siano tutti assicurati alla giustizia e di aver potuto ringraziare chi ad essa si è sostituito con intuito e con prontezza fascista a rintracciare questi delinquenti. Non si sono fatte le indagini, almeno per ora, che la gravità del fatto richiedeva, tanto che fino alle ore 19 non era stato neppure ordinata la perquisizione domiciliare degli arrestati né si era allargato il campo delle indagini verso individui sospetti di sovversivismo, limitandosi, se mai, ad intralciare l’opera di giusto risentimento che i Fascisti della Città stanno esplicando», le sue polemiche parole[16]. Le violenze seguenti al fatto sono ancora ben descritte da Banchi:

«La mattina dopo i “neri” organizzarono, in grande stile, una battuta di caccia al “sovversivo”, durante la quale molti oppositori vennero bastonati per strada e persino nelle loro case, alla presenza dei familiari. Con delle tavolette chiodate fu percosso a sangue il compagno Memmo [Guglielmo, ndr.] Marconi […]. Negli stessi giorni i “salvatori dell’Italia” aggredirono Ettore Tognetti, soprannominato il Bèco, mentre stava giocando in un caffè. Tognetti, che aveva rinunciato a partire per la Corsica con Alunno perché la barca non dava, a suo giudizio, nessun affidamento, fu trascinato fuori dal locale e percosso con spranghe di ferro, finché non perse i sensi. […] Da quella bastonatura – la più grave fra le molte da lui subite – Tognetti non si riprese più: dopo esser passato da un sanatorio all’altro, morì qualche anno dopo per le conseguenze di quella terribile giornata. Le aggressioni dei fascisti proseguirono anche nei giorni seguenti: al bar della Posta, nel corso, Albo Bellucci venne ridotto a uno straccio a furia di manganellate, e in via Amiata lo stesso trattamento fu riservato a Lio Lenzi, un corniciaio comunista, venuto da Livorno, che i “neri” detestavano perché nel suo laboratorio si incontravano gli antifascisti grossetani. Anche a Lenzi, che sarebbe divenuto dopo la Liberazione il primo sindaco della nostra città, i medici negarono qualsiasi certificato sugli effetti dell’aggressione[17]».

Livornese classe 1898, Lenzi era stato uno dei fondatori del Pci e aveva militato negli Arditi del Popolo. Perseguitato dai fascisti e schedato, fu costretto a lasciare il suo lavoro per divenire agente di commercio e nel 1929 si trasferì a Grosseto. Nel capoluogo maremmano stabilì subito dei contatti proprio con Elvino Boschi – originario livornese come lui nonché cugino del noto comunista labronico Ilio Barontini, volontario in Spagna e poi partigiano in Etiopia, Francia e Italia – che lo introdusse nell’ambiente antifascista locale[18].

Il 19 novembre 1937, la commissione provinciale per i provvedimenti di polizia assegnò Boschi e Marconi al confino, rispettivamente per la durata di quattro e tre anni, mentre gli altri furono ammoniti. Tutto ciò nonostante lo stesso Boschi fosse considerato incapace di tenere conferenze, dirigere riunioni e svolgere lavori organizzativi e non avesse mai collaborato a giornali o riviste sovversive. Il 16 dicembre 1938 il segretario federale Elia Giorgetti espresse parere sfavorevole ad un atto di clemenza nei suoi confronti «in considerazione della responsabilità diretta da lui avuta nell’episodio e dei precedenti di irriducibile antifascista». Boschi scontò la pena ad Acerenza, Locri e Pisticci e fu prosciolto dai vincoli del confino per fine periodo il 19 agosto 1941. Successivamente fu trattenuto in arresto per altri tre mesi per contravvenzione agli obblighi del confino. Una volta liberato fu assunto dalla Società Anonima “Il Lavoro”, che aveva in appalto il servizio di facchinaggio nella stazione di Grosseto. Marconi scontò la pena alle Tremiti e a Toro e rimpatriò a Grosseto il 25 dicembre 1938, in seguito al proscioglimento condizionale disposto dal duce. [19] Per uno strano e beffardo destino, i due amici che avevano condiviso la fede antifascista e subito violenze e anni di confino, rimasero uccisi per “fuoco amico” nel corso del primo bombardamento alleato su Grosseto del 26 aprile 1943. Era il giorno di Pasquetta, quando 48 fortezze volanti americane scaricarono quasi 400 bombe da 300 libbre e circa 2000 bombe a frammentazione sulla città. L’obiettivo era la messa fuori uso dell’aeroporto militare e la distruzione della scuola di addestramento per piloti di velivoli aerosiluranti, ma la pioggia di fuoco colpì in particolar modo la zona fuori Porta Vecchia nel centro cittadino, dove erano state allestite le giostre per il giorno di festa[20]. 134 furono le vittime, tra cui molti bambini e i due sovversivi, che magari stavano trascorrendo insieme la giornata discutendo sulla crisi di quel regime da loro così odiato e che sarebbe caduto esattamente tre mesi dopo.

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Angelo Maestrini, federale del PNF grossetano, poi podestà di Grosseto (photo credits: V. Guidoni, Cronache grossetane)

Il caso Boschi e le violenze sugli antifascisti furono uno dei motivi che portarono poi all’allontanamento di Maestrini dalla guida del partito e al suo insediamento come podestà (21 marzo 1938), in un ruolo statale comunque prestigioso ma più defilato politicamente, dove si pensava avrebbe potuto metter da parte il suo radicalismo. Come si ricava da un promemoria e da altra documentazione, la sostituzione dal comando della federazione provinciale del partito fu dovuta anche alla sua forte rivalità con il primo vero capo del fascismo maremmano, Ferdinando Pierazzi, ed al fatto che non lo si riteneva adatto a tal compito, ora che il partito doveva provvedere all’inquadramento totalitario dei giovani con la nascita della Gil [21]. Pensiamo inoltre che a suo carico continuasse a pesasse la grave crisi del partito verificatasi alla fine del 1935, quando varie ispezioni e la stessa corrispondenza del segretario amministrativo del Pnf dell’epoca, Giovanni Marinelli, avevano rivelato il suo malfunzionamento, l’impreparazione del personale addetto, gravi irregolarità amministrative e spese non giustificate, come ad esempio quelle relative all’utilizzo dell’auto del federale[22]. Anche nel ruolo di podestà, Maestrini continuò a distinguersi per i conflitti d’interessi, il cumulo delle cariche (fu nominato presidente e direttore tecnico del Consorzio maremmano delle cooperative di produzione e  lavoro e successivamente segretario provinciale dell’Ente nazionale fascista della cooperazione), nonché per l’affarismo, essendo tra l’altro uno dei perni locali di quel sistema di potere vischioso e votato all’illegalità retto esternamente da Biagio Vecchioni, ex federale di Grosseto divenuto poi deputato e infine presidente dell’Istituto nazionale fascista per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (Infail)[23]. Protagonista anche al tempo della Repubblica sociale italiana, Maestrini fu tenente colonnello della 98ª Legione Guardia nazionale repubblicana (Gnr) di Grosseto, partecipò a diversi rastrellamenti e dopo la Liberazione del capoluogo maremmano fuggì al nord, dove trovò la morte per mano partigiana nei pressi di Recoaro Terme (Vi)[24]. Boschi e Marconi, vittime della sua violenza, erano già morti. Non fecero in tempo a vedere l’occupazione tedesca e il ritorno del fascismo nella veste della Repubblica sociale italiana, né a prender parte alla guerra di Liberazione nelle file della Resistenza. Ma il coraggio di chi osò disobbedire al regime negli anni del consolidamento della dittatura merita di esser ricordato come un atto di Resistenza.

NOTE:
[1] E. Gentile, Il culto del littorio, Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 47-48
[2] M. Millan, Squadrismo e squadristi nella dittatura fascista, Viella, Roma, 2014
[3] P. Corner, L’opinione popolare e il fascismo negli ultimi anni trenta, “Storia e problemi contemporanei”, n. 46, 2007, p. 17.
[4] M. Grilli, Il governo della città e della provincia in V. Galimi (a cura di), Il fascismo a Grosseto. Figure e articolazioni del potere in provincia (1922-1938), Isgrec-Effigi, Arcidosso, 2018.
[5] ACS, fondo Pnf, situazione politica ed economica delle province, b. 2, f. Grosseto. Lettera del federale Maestrini al segretario nazionale del Pnf Starace. Oggetto: situazione politica, 5 aprile 1937.
[6] Sulla sostituzione di Saletti vedi: ASGR, fondo R. Prefettura, bb. 692, 861; ACS , fondo Pnf, situazione politica ed economica delle province, b. 2, f. Grosseto
[7] ASGR, fondo R. Prefettura, b. 677.
[8] ASGR, fondo R. Prefettura, b. 664. Circolare del prefetto Palici di Suni al questore e al Comando dei CC.RR. di Grosseto. Oggetto: risveglio di attività sovversiva, 9 marzo1936.
[9] Tutte queste segnalazioni sono riportate in ASGR, fondo R. Prefettura, b. 677.
[10] Sui volontari toscani nella guerra civile spagnola vedi: I. Cansella, F. Cecchetti (a cura di), Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola, Isgrec-Effigi, Arcidosso, 2012, E. Acciai, I. Cansella, Storie di indesiderabili e di confini. I reduci antifascisti di Spagna nei campi francesi (1939-1941), Isgrec-Effigi, Arcidosso, 2017.
[11] A. Banchi, Si va pel mondo: il partito comunista a Grosseto dalle origini al 1944, a cura d F. Bucci e R. Bugiani, ARCI, Grosseto, 1993, p. 75.
[12] Condannato a morte in contumacia, una volta terminata l’istruzione militare Rosi si arruolò nella Brigata Garibaldi e fu ferito in combattimento. Internato in Francia dopo il ritiro dal fronte delle Brigate internazionali, fu partigiano nel paese transalpino e poi in Italia settentrionale dall’inizio del 1944. Un suo profilo è nel portale Isgrec: Volontari antifascisti toscani tra guerra di Spagna, Francia dei campi, Resistenze, all’indirizzo http://gestionale.isgrec.it/sito_spagna/ita/grossetani/rosi_ita.htm.
[13] ASGR, fondo Questura, b. 429, f. Malandrini Ferruccio. La denunzia a danno dei quattro fu prodotta da Licena Rosi ved. Boschi nell’agosto 1945. Mario Caciai e Carlo Faenzi erano deceduti in Albania in seguito a ferite di guerra, Ferruccio Malandrini fu amnistiato con sentenza del pretore di Grosseto del 25 luglio 1946. Quale iscritto al Partito fascista repubblicano (Pfr) aveva preso parte anche a diversi rastrellamenti antipartigiani. Nel dopoguerra risultava titolare dell’ufficio viaggi e turismo “Avet” e del locale ufficio affissioni, nonché fiduciario del CONI per la riscossione delle giocate effettuate in provincia per il totocalcio. Fu radiato dal Casellario politico centrale il 28 marzo 1955.
[14] Gli altri gerarchi erano il vice-segretario federale Emilio Bertocci, il segretario amministrativo della federazione Guido Chelli, il centurione della milizia Eraldo Ugo Lazzeretti e il segretario del fascio di Arcidosso Carlo Beoni. Nell’interrogatorio in carcere dell’8 novembre 1937 Boschi ricordò così l’accaduto: «La sera del 31 ottobre scorso, in compagnia di Marconi Guglielmo mi diressi alla palestra dell’Onb per assistere alla riunione pugilistica. Poiché il denaro che possedevo non era sufficiente per l’acquisto del biglietto d’ingresso, col Marconi mi misi a passeggiare per la città. In Via Bertani, nell’uscire dal Bar Dopolavoro Maremma, il Marconi si fermò a chiacchierare con un gruppo di conoscenti suoi […] in tutto eravamo sei o sette. Solo conosco il Checcacci, mentre gli altri erano da me conosciuti di vista. Non ricordo chi del gruppo propose di consumare un pollo al Giappone. Siccome detto ristorante ne era sprovvisto, dato anche l’ora tarda, circa le 24, si pensò di recarsi al moderno in Via Corsica. Nel transitare detta Via fu da noi notato il Federale con altri suoi amici, in tutto 4 o 5. Avendo trovato il Moderno chiuso, ritornammo verso la città. Giunti presso il gruppo predetto, fui chiamato dal Federale, al quale io mi avvicinai con ogni riguardo. Il Federale, prendendomi per i capelli, essendo io senza cappello, mi disse: “Che fai a quest’ora in giro” ed io gli risposi “non ho fatto nulla di male, e quindi ho diritto di girare”. Al che fui colpito al viso dal Federale con uno schiaffo. Io reagii. Fu allora che le persone che si accompagnavano al Federale intervennero. Ai colpi di bastone alla testa e di pedate, caddi privo di sensi a terra. Successivamente fui accompagnato, appena rimesso in qualche modo, nella Caserma dei CC. RR. Il Maresciallo Comandante la Stazione, visto il mio stato, mi condusse all’ospedale. Appena si verificò l’incidente vidi i compagni del mio gruppo darsi alla fuga. Non ho mai fatto politica ed ignoravo che qualcuno del mio gruppo fosse sovversivo». ASGR, fondo R. Prefettura, b. 659, f. Boschi Elvino, perseguitato politico.
[15] Oltre a Boschi e Marconi (classe 1905) vi erano i maglianesi Bruno Bruni (classe 1905) e Celso Cecchacci, terrazziere nato nel 1910, i grossetani Adamo Innocenti (classe 1909) e Gaspare Minucci (classe 1908), entrambi facchini, e Aristide Burroni, nato a Montemerano nel 1896, anche lui facchino.
[16] La corrispondenza tra Maestrini e Starace è in ACS, fondo Pnf, situazione politica ed economica delle province, b. 2, f. Grosseto.
[17] A. Banchi, Si va pel mondo, cit. pp. 75-76.
[18] L. Rocchi, La Liberazione di Grosseto. Storia di una Resistenza breve e di un lungo antifascismo nel primo capoluogo toscano liberato, www.toscananovecento.it.
[19] Per i procedimenti giudiziari a carico di Boschi e Marconi vedi: ASGR, fondo R. Prefettura, b. 659, f. Boschi Elvino, perseguitato politico; Ibidem, fondo Questura, Cpc, b. 461, f. Marconi Guglielmo.
[20] Sul bombardamento del 26 aprile 1943 vedi: Silvio Ghiara, Guido Scarlini, Grosseto 26 aprile 1943. Operazione “Uovo di Pasqua”, Innocenti Editore, Grosseto 2003, La ricerca di Giacomo Pacini sul bombardamento del Lunedì di Pasqua del 1943, www.grossetocontemporanea.it. I documenti su questo episodio provenienti da fondi archivistici esteri son conservati presso l’archivio dell’Istituto grossetano della Resistenza e dell’Età contemporanea (Isgrec).
[21] ACS, fondo Pnf, situazione politica ed economica delle province, b. 2, f. Grosseto
[22] ACS, fondo Pnf, servizi vari e carteggi con le federazioni, b. 731.
[23] M. Grilli, Affarismo, corruzione e lotte di fazione: le difficoltà della riforma podestarile in Maremma (1926-1940) in M. Celuzza, E. Vellati (a cura di), La grande trasformazione. Maremma tra epoca lorenese e tempo presente, Isgrec-Effigi, Arcidosso – Gr, 2019, pp. 186-190, 198-202.
[24] ASGR, fondo Questura, b. 429 Cpc, f. Maestrini Angelo.



Le miniere della Maremma all’alba del Patto di Londra

Dopo la dichiarazione di neutralità nell’agosto del 1914 rispetto alla guerra da poco scoppiata che vedeva coinvolti gli alleati della Triplice Alleanza, per l’Italia i mesi seguenti furono preludio dell’imminenza di nuovi scenari: mantenersi neutrale davanti all’acuirsi di un conflitto che si svolgeva alle sue porte o schierarsi con uno dei due fronti? Se da una parte una tale dichiarazione aveva permesso all’Italia di attendere e osservare, dall’altra preconizzava il rischio di vedere declassato il rango di potenza per un Paese che fino ad allora era stato riconosciuto al pari di Regno Unito, Francia e Germania. Da un punto di vista economico, infatti, l’Italia poteva definirsi dalla ‘dipendenza multipla’[1]: il settore agricolo aveva delle sue specializzazioni, ma non garantiva l’autosufficienza alimentare rimanendo, pertanto, legato alle importazioni dalla Russia e dalla Romania, soprattutto di grano e altri cereali, la Germania era il principale partner economico per i manufatti industriali mentre il fabbisogno energetico era garantito dalla Gran Bretagna, in primis per il carbone. In tali condizioni, la neutralità dell’Italia non avrebbe potuto durare troppo: il ferreo controllo inglese sul commercio internazionale condannava le economie dei Paesi neutrali, soprattutto di quelle dipendenti dalle esportazioni. La direzione che l’Italia avrebbe dovuto prendere per evitare la stagnazione era chiara[2]. Ed è su questo aspetto che puntò la destra sonniniana-salandriana, con il supporto della monarchia, per entrare in guerra[3].

I mesi che precedettero la stipula segreta del Patto di Londra furono caratterizzati da provvedimenti di difesa e di interlocuzioni diplomatiche che sembravano palesare la direzione che il Governo italiano avrebbe poi preso. Del resto, non sembrava essere il Parlamento «il luogo vero e proprio del processo decisionale, di formazione della scelta di entrare in guerra»[4]: la vera trattativa che portò l’Italia in guerra al fianco della Triplice Intesa si svolse alla corte reale, per mano del Governo, soprattutto la Presidenza del Consiglio e il Ministero degli Esteri, e alle Ambasciate.

Giovanni_Merloni (credits: Archivio Storico Camera dei Deputati)

Giovanni_Merloni (credits: Archivio Storico Camera dei Deputati)

In questo contesto si inserì l’attività politica di Giovanni Merloni finalizzata alla difesa delle miniere della Maremma.

Tra i primi sostenitori del nascente Partito Socialista Italiano nel 1892, Merloni fu fervente esponente dell’ala riformista del partito fondato da Turati. Dopo un’attiva militanza nella sua Cesena, dove era nato nel 1873, alternata all’attività di pubblicista per «Critica Sociale» e «Avanti!», negli anni della polarizzazione tra repubblicani e socialisti, Merloni riuscì ad arrivare a Montecitorio con le elezioni del 1913 candidandosi nel Collegio di Grosseto (dove si era presentato già nel 1909 e dove si trasferì negli anni della Prima guerra mondiale) avendo la meglio contro il repubblicano Pio Viazzi e l’avvocato costituzionale Arturo Pallini. Quelle del 1913 furono le prime elezioni a suffragio universale maschile e le prime in cui il collegio fu strappato ai repubblicani. Merloni trionferà ancora nella Circoscrizione Siena-Arezzo-Grosseto con le elezioni generali del 1919 ottenendo circa 16 mila voti di preferenza, capolista nella graduatoria dei cinque socialisti eletti[5]. Una elezione a grandi voti, che sembrerebbe premiare il suo impegno e attivismo per la Maremma, comprese le sue miniere per le quali si era battuto all’alba dell’entrata in guerra dell’Italia.

L’attenzione di Merloni a difesa delle miniere maremmane viene menzionata ne I minatori della Maremma[6], il libro-inchiesta di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola, in riferimento alla decisione del Governo Salandra di vietare l’esportazione delle piriti di ferro, adottata con decreto del 5 gennaio 1915, una decisione che sembrava rispondere più a pressioni inglesi che a reali esigenze economiche. L’atto era il Regio Decreto 27 dicembre 1914, n. 1415, pubblicato il 4 gennaio del 1915, col quale veniva esteso a piriti, ematite ed altri minerali di ferro, ghisa anche in getti il divieto di esportazione già introdotto con i Regi Decreti 1° agosto 1914 n. 758, 6 agosto 1914 n. 790, 28 ottobre  1914 n. 1186 e 22 novembre 1914 n. 1278; all’art. 2 si precisava che il decreto avrebbe avuto effetto dal giorno successivo a quello della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e sarebbe stato presentato al Parlamento per la sua conversione in legge[7].

La stampa locale – soprattutto di matrice socialista – riportò pedissequamente questo attivismo che si inseriva all’interno del dibattito sul futuro dell’Italia rispetto alla guerra in corso: la prima pagina del settimanale socialista «Il Risveglio»[8] del 7 febbraio 1915 anticipava che il rappresentante locale alla Camera, da circa un mese, stesse lavorando alacremente presso le autorità competenti per impedire il divieto delle esportazioni di piriti, alla luce dei danni che un provvedimento di tale natura avrebbe arrecato per l’industria mineraria e per le condizioni lavorative di migliaia di lavoratori del sottosuolo. La trattazione dettagliata fu riportata a partire dal numero successivo[9], precisando che più di un mese prima (appunto, il 5 gennaio) il Governo, senza anticipazioni né discussioni di alcuna sorta, aveva emanato un decreto col quale vietava in modo assoluto l’esportazione di piriti di ferro. Il provvedimento si presentava come una profonda minaccia rispetto alla produzione mineraria della Maremma visto che la produzione normale delle piriti era «superiore notevolmente al fabbisogno nazionale, e trova(va) uno sfogo importante precisamente nell’esportazione.»[10]

Il territorio delle Colline Metallifere rappresentava, infatti, un importantissimo bacino minerario già dai primi decenni del ‘900 come dimostra anche il fatto che a Massa Marittima venne costituita, il 27 aprile 1902, la Federazione nazionale dei minatori, definitivamente strutturatasi poi nell’agosto del 1903. Le miniere già dagli ultimi decenni del XIX secolo erano state oggetto di interesse di finanzieri e uomini d’affari europei mentre lo Stato unitario aveva manifestato difficoltà nell’allestire una propria industria pesante: la conseguenza fu inizialmente lo scarso piazzamento del minerale maremmano nel mercato interno, trovando invece più fiorenti lidi nei mercati inglesi, francesi e anche tedeschi, almeno fino agli anni ’90. Il prodotto maremmano non ricopriva un ruolo privilegiato, ma fungeva solo da “tappabuche” quando non erano sufficienti gli approvvigionamenti nazionali[11]. Erano poche le miniere che potevano vantare una continuità produttiva, le uniche erano le miniere cuprifere di Fenice Capanne Massetana e di Capanne Vecchie e la miniera di lignite di Montemassi-Casteani, conosciuta come la miniera di Ribolla. Il grande salto per l’industria chimica fu compiuto con la scoperta della possibilità di produzione dell’acido solforico dalla pirite[12] di cui il sottosuolo maremmano era particolarmente ricco: alla vigilia dell’entrata in guerra, quando mesi di conflitto europeo avevano portato alle stelle il prezzo dei minerali, erano attive 6 miniere piritifere (tra cui Boccheggiano, Gavorrano e Ravi, nella duplice gestione della Montecatini e della Marchi) con una produzione complessiva annua di circa 270.000 tonnellate[13]. La battaglia politica di Merloni si inserì in questo quadro animato dallo sviluppo della produzione mineraria e dalla nascita del proletariato minerario che iniziava a presentarsi come classe operaia nuova.

Il Risveglio, 14 febbraio 1915

Il Risveglio, 14 febbraio 1915

Nello stesso articolo sopra citato de «Il Risveglio» del 14 febbraio 1915, si precisava che Merloni, venuto a sapere dei gravi danni che un tale decreto avrebbe cagionato alle miniere della Maremma, si era recato al Ministero delle Finanze e al Ministero degli Esteri, accompagnando l’Ing. Donegani, consigliere delegato della società Montecatini, per portare sul tavolo i dati della produzione, a dimostrazione della infondatezza della misura adottata: lo stesso Governo di fronte a tale testimonianza dovette rivedere la sua decisione, ammettendo che «la ragione del divieto era sostanzialmente di carattere internazionale.»[14]

Merloni – continuava l’articolo – si era prodigato quindi presso il Ministero degli Esteri affinché si risolvessero i problemi internazionali e alla fine ebbe successo, ottenendo la revoca del decreto: le piriti non erano esportate in alcun paese belligerante per scopi militari, bensì per attività industriali (Germania e Austria – così si legge – avrebbero potuto andare avanti con la propria produzione anche se la guerra fosse durata venti anni), e pertanto fu garantito alle piriti lo stesso trattamento riconosciuto allo zolfo e altre materie industriali. Merloni tenne le trattative con il Ministro delle Finanze Daneo, con il sottosegretario Baslini, presidente della Commissione per le esportazioni, con Luciolli, direttore generale delle Dogane, e col Conte Manzoni, rappresentante del Ministero degli Esteri: la richiesta fu quella di avviare un confronto con i Governi esteri accordando l’esportazione di circa 100.000 tonnellate nel corso del 1915. La stessa negoziazione delle piriti di ferro interessava, peraltro, anche lo scambio di prodotti e materie necessarie ad alcune industrie italiane.

«Il Risveglio» colse l’occasione per evidenziare come l’opera di Merloni fosse stata, altresì, in grado di evitare sommovimenti da parte del proletariato maremmano che avrebbe potuto far sentire la propria voce alla pari di quanto avevano fatto i siciliani per lo zolfo: lo stesso Merloni, pur disponibile a promuovere un’agitazione da parte dell’intera deputazione toscana, non aveva inizialmente coinvolto gli operai, convinto dell’esito positivo della sua azione politica, limitandosi, in occasione di una visita in Maremma ai primi di gennaio, ad avvertire il prefetto di Grosseto affinché si prodigasse anche lui stesso con il Governo per ottenere la revoca.

L’operato di Merloni a favore dei minatori della Maremma venne riportato anche da un articolo su «Etruria Nuova»[15], conferendovi però una lettura politica di matrice repubblicana, tesa a minimizzare il suo operato. Lo scontro politico prendeva la forma del botta e risposta nella stampa locale.

La rimostranza de «Il Risveglio» non tardò a farsi sentire, attribuendo alla stampa repubblicana una lettura frettolosa e foriera di errori[16]. Si riportava letteralmente: «Essa dice: l’on. Merloni interessandosi e riuscendo ad ottenere il nulla osta per l’esportazione delle piriti all’estero prolunga – nientemeno! – il macello della guerra, vien meno ai neutralissimi ordini del P.S.I. e favorisce il lupo famelico Guglielmone, il solo soddisfatto dell’opera di Merloni». Il giornale socialista puntualizzava che la pirite non veniva impiegata per usi militari, così chiosando: «Tenuto poi conto che la pirite verrebbe poi data in cambio di taluni prodotti e materie necessari all’industria italiana, il tutto si riduce ad una utilità per noi e per gli altri, senza pregiudizio dei risultati della guerra. Utilità soprattutto per i poveri minatori della nostra provincia, i quali si sarebbero trovati sul lastrico senza pane se invece dell’on. Merloni, un deputato repubblicano avesse sostenuto le intervenzionistiche idee dell’Etruria. Ma per fortuna ci pensarono a tempo opportuno!»

CREDITS: https://www.museidimaremma.it/

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Iniziava così una serie di provocazioni tra le due riviste: la settimana successiva[17] «Il Risveglio» attaccò la voce di un minatore uscito su «Etruria Nuova» il quale aveva negato che l’operato di Merloni avesse sortito effetti positivi per le miniere maremmane, sostenendo che non fossero mai state fatte esportazioni verso l’estero. La rivista socialista della provincia di Grosseto lo tacciò di interventismo a favore della Triplice Intesa, in linea con l’orientamento repubblicano-irredentista. A rispondere punto per punto all’intervento del minatore sul giornale repubblicano fu “E. Z.” – firma che farebbe pensare a Egisto o Emilio Zannerini, entrambi socialisti – citando i “vapori col ventre ricolmo dei nostri prodotti minerari” che partivano da Follonica per poter smaltire la sovrapproduzione nazionale. Si respingeva ancora una volta l’accusa che la pirite fosse utilizzata dalla Germania per scopi bellici sostenendo che l’utilizzo che ne veniva fatto era per la produzione di concimi chimici utili per la fertilizzazione dei terreni, aggiungendo che sarebbe stato paradossale che una potenza militare come la Germania attendesse di fatto la pirite italiana per produrre esplosivi. La posizione dell’autore era chiara: l’opera di Merloni era stata mossa dalla volontà di tutelare gli operai delle miniere grossetane, i quali avrebbero risentito delle conseguenze del decreto in termini occupazionali e quindi sociali, ma, allo stesso tempo, si riconosceva che di tale azione ne beneficiarono anche i capitalisti che potevano andare avanti con il loro profitto, ricavato dalla produzione.

La battaglia condotta da Merloni per le miniere maremmane dalla stampa locale passò poi all’Aula parlamentare, in occasione della discussione sulla proposta di legge avanzata dal Presidente Salandra “Provvedimenti per la difesa economica e militare dello Stato” (poi legge n. 273, del 21 marzo 1915).

La seduta era quella del 14 marzo 1915[18] e il disegno di legge – come già anticipato – risultava preceduto da una serie di decreti emanati in merito a divieti di esportazione, al commercio di transito e relative norme. L’intervento di Merloni prese le mosse da quello precedentemente proferito dal collega deputato Eugenio Chiesa, repubblicano eletto nella circoscrizione di Massa e Carrara, che nell’accusare il Governo di aver favorito, con i provvedimenti di difesa economica adottati negli ultimi mesi, il traffico dei permessi di esportazione – definito “esportazione dolosa” dal disegno di legge in esame e da Chiesa “grande contrabbando” –, da una parte paventava rischi per l’approvvigionamento del Paese e dall’altra un rialzo generale dei prezzi di consumo e un esodo ingente di tali merci verso l’estero[19]. Dopo le critiche rivolte al Governo, Chiesa procedette con il riferirsi ad un caso specifico che annoverava tra gli episodi deprecabili in cui – si legge nel resoconto – «un deputato può operare più a servizio di un industriale che a tutela del proprio popolo». Chiesa non citò esplicitamente il nome del deputato ma precisò che egli si era prodigato per impedire il divieto di esportazione delle piriti di ferro. Così viene riportato nel resoconto stenografico della seduta:

 «Ora le piriti di ferro hanno un solo concessionario tedesco, per acquirente, un tale Lippmann Bloch di Breslavia; e sono destinate alle diverse fabbriche di prodotti chimici. È una innocente dizione che nasconde le fabbriche d’esplosivi. Ma guardate: queste piriti si pagano 60 centesimi per unità di zolfo e cioè circa 30 lire per tonnellata; 25 lire ci vogliono per farle arrivare al confine; altrettanto dal confine alle fabbriche, e troverete che queste piriti verranno a costare in fabbrica circa 85 lire a tonnellata. Un prezzo enorme, e da ciò si deduce che l’uso di dette piriti in Germania deve essere di primissima necessità per il momento attuale. E 70 mila tonnellate di piriti sono partite negli ultimi mesi. Ora, e questo sia detto per il Governo, soltanto il 5 gennaio fu emanato il divieto di esportazione e sta bene. Ma, onorevole Baslini, perché dopo l’avete tolto?»

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Chiesa accusava il Governo di aver tolto tale divieto il 13 febbraio: la ragione addotta dal Governo era la remunerazione derivante dall’esportazione a favore delle industrie nazionali, mentre il deputato repubblicano sosteneva che il consumo interno avrebbe potuto essere tale da coprire facilmente la produzione; nel sostenere ciò, Chiesa faceva cadere il sospetto anche su uno scambio di carbone e piombo tra Italia e Germania, sottolineando che il carbone tedesco non avrebbe potuto competere con quello inglese, dichiarazione che manifestava una palese attenzione rivolta all’Inghilterra anche sotto l’aspetto economico.

Rispetto alla caustica citazione chiese di intervenire proprio Merloni, che sull’argomento non era mai uscito pubblicamente, dichiarando subito di aver agito nell’interesse di migliaia di operai della Maremma. Così si legge nel resoconto della seduta:

«La Germania è poi produttrice di pirite di ferro in misura tale, dato che queste piriti di ferro, con l’estrazione dello zolfo e la produzione dell’acido solforico, potessero servire anche per usi militari, da essere largamente provveduta a tale scopo, niente meno che per moltissimi anni. Ed è quindi provato che tanto lo zolfo (ed io assumo volentieri anche la difesa della libera esportazione dello zolfo, per i colleghi siciliani e per i minatori della Sicilia) quanto l’esportazione delle piriti di ferro, non servono ora ad altro che ad uso industriale. Se si volesse chiudere la porta di uscita alle merci che servono alla Germania per uso industriale, non ci si dovrebbe limitare arbitrariamente a questo o a quel prodotto, ma occorrerebbe logicamente ed equitativamente estendere il divieto a tutti quanti gli altri prodotti che servono all’industria tedesca come alle industrie di altri Paesi. (…) Se dunque, come vi dicevo, la Germania è provveduta per i suoi usi militari per molti anni, data la sua cospicua produzione di piriti di ferro, data la libera esportazione dello zolfo dall’Italia, con quale fondamento si dovrebbe ritenere che l’esportazione di una certa quantità di piriti di ferro, necessaria per mantenere nel suo equilibrio attuale una importante industria italiana, la più importante industria della Maremma, che dà lavoro ad alcune migliaia di operai, sia proprio quella che giova agli usi militari della Germania, già esaurientemente assicurati?»

 Le cifre della produzione mineraria della Maremma sembrerebbero dare ragione alla battaglia di Merloni: la produzione di piriti di ferro ammontava a 245.200 tonnellate nel 1914 aumentate a 270.845 nel 1915; gli operai impiegati nelle miniere erano 1.485 nel 1914 e 1.418 nel 1915[20]. Se andiamo a confrontare i dati della produzione a livello nazionale – rispettivamente 335.531 e 327.707 tonnellate – si comprende come le miniere di pirite di ferro della Maremma fossero fondamentali per l’economia del Paese.

Il deputato socialista passò poi ad una sorta di excursus rispetto alla misura che il Governo aveva adottato, sollecitando quest’ultimo anche a concludere le trattative commerciali:

 «C’è stato un tempo (ed è questa, onorevole Chiesa, l’origine prima del divieto della esportazione delle piriti), nel quale uno Stato – non occorre scendere a particolari – aveva creduto che questa esportazione potesse realmente servire a un paese belligerante per usi militari, e se n’era allarmato. Orbene, onorevole Chiesa, quello stesso Governo estero, dopo venti giorni, si ricredette e lasciò chiaramente intendere che non 100 mila, ma 200 mila tonnellate di piriti di ferro avrebbe lasciato che si fossero esportate liberamente in Germania od in qualunque altro paese. E se il nostro Governo credette ciò non di meno, dopo avere tolto il divieto, di mantenerlo ancora temporaneamente, si fu soltanto per fare delle piriti di ferro un oggetto di contrattazione di scambi con altri Stati, così come per altre numerose merci. E così è dimostrato anche che è inesatto parlare di divieto dell’esportazione delle piriti di ferro, perché il Comitato delle esportazioni deliberò alla unanimità di ammettere le piriti di ferro all’esportazione, condizionatamente a detti cambi. Ora, pertanto i lavoratori di Maremma attendono fiduciosi che si giunga presto ad una soluzione favorevole di codeste negoziazioni, per evitare ad essi un sacrificio grave, che non gioverebbe ad alcuno, che non sarebbe in nessuna guisa giustificato, come non sarebbe giustificato un provvedimento somigliante, supponiamo, contro l’industria zolfifera siciliana. Ma la prova irrefutabile decisiva è quella data da quel Governo estero, che ora ho ricordato. Ora è strano che l’onorevole Chiesa, ardente repubblicano, sia ancora più realista del re, intendo dire del Re … d’Inghilterra».

Prima pagina del resoconto parlamentare

Prima pagina del resoconto parlamentare

La discussione svoltasi in Aula diventò oggetto di resoconto sulla stampa socialista: si veda, ad esempio, «Avanti!» che nelle Note alla seduta[21], dopo aver sottolineato l’approvazione ottenuta dal deputato grossetano da parte dei colleghi in Aula, ipotizzava che Chiesa avesse trasposto alla Camera una polemica elettorale dei repubblicani in Maremma, «i quali pure di combattere l’opera dell’onorevole Merloni che si svolge sempre più importante ed efficace a vantaggio del proletariato maremmano e dell’intero partito non si sono avveduti che ferivano – sconsigliatamente sprovvisti di ogni ragione che ha dimostrato luminosamente oggi alla Camera il valoroso deputato di Grosseto – tanto l’interesse della Maremma quanto quelli dei minatori»[22].

Tale clima emergeva in modo ancora più evidente nelle pagine de «Il Risveglio» e «Etruria Nuova».

Così il settimanale locale socialista il 21 marzo[23], inserendo in prima pagina un articolo sull’intervento dell’on. Chiesa, scriveva:

«Nessun altro, all’infuori dell’on. Eugenio Chiesa, poteva aderire all’invito dei repubblicani maremmani, di portare cioè alla Camera – sotto lo specioso pretesto del contrabbando – la revoca al divieto delle piriti ottenuta con tanto successo dall’on. Merloni. Solo questo burattinaio della sconquassata repubblica italiana, questo novello Pirocorvo della Camera (…); questo istrione soltanto, diciamo, poteva prestarsi al giuoco dei suoi degni amici maremmani, per tentare con un mezzo vile un intento più vile ancora». E ancora: «Ma il generale applauso con cui fu salutata l’energica e fiera riposta dell’onorevole Merloni, deve avere annichilito l’onorevole Chiesa, il quale, sotto le invettive di tutti i deputati socialisti non trovò più la forza di replicare una parola. Dal resoconto stesso della Tribuna, giornale non sospetto, si può rilevare con quanta competenza l’on. Chiesa trattasse la questione delle piriti, che egli ignorava perfino a quale uso servissero!»[24]

In un articolo successivo della stessa edizione[25] si riprendeva la discussione portandola sul piano dello scontro politico, puntando a sottolineare come le forze repubblicane si stessero affievolendo in provincia, finendo così col cercare ogni espediente per attaccare l’avversario. «Etruria Nuova» aveva risposto prima con la lettera del minatore, poi con quella dello spettatore e con una nota della redazione, in cui si definiva Merloni “l’on. procaccione”. Nel rispondere alla nota redazionale repubblicana, la rivista socialista precisava che era vero che le miniere di Ravi, Boccheggiano, Gavorrano e Montieri non potevano produrre più di 20.000 tonnellate al mese, ma ribadiva anche che il fabbisogno nazionale ammontava a solo 10.000 tonnellate; inoltre, la Germania richiedeva una certa qualità della pirite proprio per destinarla ai concimi, come più volte evidenziato.

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La settimana successiva «Il Risveglio», dopo aver riportato il resoconto stenografico dell’intervento di Merloni[26], inserì come chiosa[27] la riposta che Merloni aveva inviato al «Popolo d’Italia» in data 25 marzo 1915 rispetto a una lettera firmata “Un Ingegnere di turno”. Gli argomenti riportati erano precisazioni rispetto all’intervento fatto in Aula, in risposta alle supposizioni poste dall’anonimo: Merloni ribadiva che il principale uso che veniva fatto dell’acido solforico era per scopi industriali e che la produzione delle piriti di ferro in Germania, che nel 1912 fu di 262.000 tonnellate, avrebbe potuto bastare per anni a coprire il fabbisogno tedesco per usi militari. Anche nella lettera Merloni ripercorse la storia dei provvedimenti e delle loro ragioni, di natura internazionale:

 «Se un divieto ci fu, questo avvenne, come feci intendere alla Camera, in seguito…all’opinione manifestata da una potenza belligerante che l’esportazione delle piriti e dello zolfo in Germania potesse abbisognare colà per usi militari; ma ciò fu contraddetto coi dati alla mano dal nostro Governo, il quale tuttavia se lasciò in pace lo zolfo trattenne le piriti; (…) Quella potenza si persuase però sollecitamente del suo errore; e allora il Comitato delle Esportazioni presso il Ministero delle Finanze, che io, edotto dei dati e delle ragioni dell’Amministrazione dello Stato, avevo più volte premurato a che fosse evitata la disoccupazione delle miniere della Maremma, diede unanime approvazione alla esportazione delle piriti secondo i quantitativi richiesti»

 Nello stesso numero[28] si riportò altresì una critica verso le esternazioni che i repubblicani avevano fatto nelle pagine di «Etruria Nuova», tanto da arrivare a sostenere che il divieto di esportazione non vi fosse mai stato e che quello di Merloni fosse un vero e proprio bluff. Il tono de «Il Risveglio» fu granitico e sagace, criticando proprio il metodo e la strategia utilizzati dai repubblicani che prima avevano accusato a lungo Merloni di aver fatto revocare il decreto per poi appellarsi alla inesistenza stessa del provvedimento.

La produzione mineraria, in ogni modo, era salva. Dopo circa un mese l’Italia avrebbe firmato il Patto di Londra, dichiarando di fatto guerra all’Austria e dopo un anno anche alla Germania.

NOTE

[1] Cfr. Labanca, N. (sotto la direzione di), Dizionario storico della Prima guerra mondiale, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2014, p. 54.

[2] Si veda anche Bruccoleri G., Il commercio dell’Italia coll’estero nel periodo della sua neutralità, «Giornale degli Economisti e Rivista di Statistica», Serie terza, vol. 51 (Anno 26), n. 6 (dicembre 1915), pp. 443-462.

[3] Cfr. Labanca, p. XIV.

[4] Isnenghi, M., Rochat, G., La grande guerra. 1914-1918, Il Mulino, Bologna, 2014, p. 100.

[5] Cfr.  Quaglino A.A., Chi sono i deputati socialisti della XXV legislatura (156 biografie), Torino 1919, ad nomen, p. 82.

[6] Bianciardi L., Cassola C., I minatori della Maremma, Minimum fax, Roma, 2019, p. 106.

[7] Cfr. Gazzetta Ufficiale, n. 2 del 4 gennaio 1915.

[8] L’interessamento dell’on. Merloni per i minatori, «Il Risveglio», n. 6, 7 febbraio 1915.

[9] L’on. Merloni per i minatori della Maremma. L’opera efficace del nostro deputato contro il divieto della esportazione delle piriti, «Il Risveglio», n. 7, 14 febbraio 1915. Nello stesso numero si riportava un breve editoriale firmato da Merloni con il quale si evidenziavano i problemi derivati dalle esportazioni e dal rialzo dei prezzi dei beni alimentari, in primis grano e altri alimenti. Si precisava, tuttavia, che l’editoriale era stato scritto molto tempo prima che il Governo decretasse il divieto assoluto dell’esportazione dei generi di consumo di prima necessità.

[10] Ibidem.

[11] Cfr. Tognarini, I. (a cura di), Siderurgia e miniere in Maremma tra ‘500 e ‘900. Archeologia industriale e storia del movimento operaio, All’insegna del Giglio, Firenze, 1984, p. 166. Si veda anche Le nostre orme. Per una storia del lavoro e delle organizzazioni operaie contadine nel Grossetano, Ediesse, Roma, 1988.

[12] Cfr. Rapporti annuali sulle lavorazioni minerarie di Gavorrano e zone limitrofe tratti dalle relazioni sul servizio minerario, Corpo delle miniere, Distretto di Grosseto, anno 1903.

[13] Cfr. Tognarini I., p. 168. Nella relazione del servizio minerario del 1914 si indicano 5 miniere produttive e 1 miniera non produttiva, cfr. Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Ispettorato delle miniere, Rivista del servizio minerario nel 1914, Istituto Italiano d’arti grafiche, Bergamo, 1915, pp. XXX-XXXI.

[14] Cfr. L’on. Merloni per i minatori della Maremma

[15] Non è stato possibile consultare i numeri del 1915 a causa di indisponibilità tecnica.

[16] Già: per la storia!, «Il Risveglio», n. 8, 21 febbraio 1915.

[17] A quel tal «minatore…», «Il Risveglio», n. 9, 28 febbraio 1915.

[18] Resoconto stenografico seduta del 14 marzo 1915 della Camera dei deputati.

[19] Dall’intervento dell’on. Chiesa riportato nel resoconto stenografico della seduta: «Nei corridoi si era diffusa per gli ingenui la leggenda che ora si sarebbe discusso e votato questo progetto per ‘la difesa dello Stato, e che poi il Governo avrebbe annunziato le supreme decisioni sulla politica internazionale’ del nostro paese, e, chiusa la Camera, si sarebbe avuta la mobilitazione e la guerra. Ma forse il momento non è ancora venuto per questo».

[20] Cfr. Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Ispettorato delle miniere, Rivista del servizio minerario nel 1914, Istituto Italiano d’arti grafiche, Bergamo, 1915, pp. XXX-XXXI e Ministero dell’Agricoltura, Rivista del servizio minerario nel 1915, Tipografia Nazionale Bertero, Roma 1917, pp. XXVI-XXVII.

[21] Note alla seduta, «Avanti!», n. 74 del 15 marzo 1915.

[22] Ibidem.

[23] Il burattinaio, «Il Risveglio», n. 12, 21 marzo 1915.

[24] Ibidem.

[25] La pirite, i repubblicani e il resto, «Il Risveglio», n. 12, 21 marzo 1915.

[26] L’on. Merloni per i minatori e gli interessi della Maremma. La risposta del nostro Deputato all’on. Chiesa, «Il Risveglio», n. 13, 28 marzo 1915.

[27] Una lettera dell’on. Merloni al «Popolo d’Italia», «Il Risveglio», n. 13, 28 marzo 1915.

[28] A proposito della pirite, dei repubblicani, dell’on. Chiesa ed il resto, «Il Risveglio», n. 13, 28 marzo 1915.




Roccastrada 1921. Un paese a ferro e fuoco

* Il 1921: lo squadrismo alla conquista della Maremma

La Toscana è annoverata tra le regioni chiave per comprendere la nascita del fascismo, che com’è noto prese forma nei tre anni che precedettero la marcia su Roma del 1922. Il 1921, in particolare, rappresentò per la Maremma come per le altre zone della regione, il momento culminante del fenomeno squadrista, che del fascismo movimento politico fu il braccio armato: a partire dall’assassinio a febbraio del 1921 del sindacalista comunista Spartaco Lavagnini, le violenze degli squadristi, irradiandosi da Firenze, si susseguirono feroci in tutta la Toscana; vi si distinsero molti “avventurieri” fiorentini, fondatori dei primi fasci nelle province di Arezzo, Siena, Livorno e Grosseto (primo in provincia di Grosseto fu presumibilmente quello di Ravi nel novembre 1920). 

etruriaI fascisti “forestieri” circolavano in regione per dare coraggio agli elementi locali, ma soprattutto per suscitare disordini che potessero costituire quella “provocazione” necessaria come pretesto per una sistematica campagna di occupazione del territorio (che via via veniva indicato come da “purificare”, “spurgare”, “bonificare”). La modalità di azione degli squadristi era quella delle cosiddette “spedizioni punitive”, che miravano alla devastazione delle sedi e dei luoghi di aggregazione dei partiti (principalmente il Partito socialista) e alla intimidazione degli avversari politici. Una modalità che descrive perfettamente la violenza fascista che si scatenò sulla città di Grosseto fra il 27 e il 30 giugno 1921, su Orbetello il 10 luglio e su Roccastrada il 24.

Dino Perrone Compagni

«A Civitavecchia tuona il cannone. L’Umbria è in fiamme. In tanti altri paesi divampa la guerra civile. Dopo la disfatta elettorale il fascismo grida: “Ora viene il bello!”» si legge su “Il Risveglio”, settimanale socialista maremmano, nel maggio del 19211. Anche in Maremma, nella primavera del 1921, le “gite di propaganda” si susseguirono ai margini della provincia (una prima di fascisti senesi colpì Monterotondo, Montieri, Gerfalco e Travale, mentre una spedizione guidata dall’empolese Romboli fu organizzata a Santa Fiora e Bagnore). Il capoluogo veniva progressivamente accerchiato, prossimo obiettivo predestinato: fu nella seconda metà di giugno che il marchese Dino Perrone Compagni, segretario politico del fascio di Firenze, preparò la “conquista” di Grosseto con l’invio di “13 pellacce” (fra cui il famigerato squadrista Dino Castellani), a cui si unirono immediatamente altri fascisti fiorentini, provenienti da Foiano della Chiana e già alloggiati in città presso l’Hotel Bastiani.

Dal diario di uno squadrista toscano, Mario Piazzesi, che partecipò a quella prima incursione si legge

si sarebbe andati nella città tabù, che se da Carrara a Perugia, da Spezia alla Romagna Toscana, le piane e i monti erano stati arati in lungo e in largo dalle nostre scorribande, Grosseto piantata lì in mezzo alle paludi, in quella Maremma che sembrava rimasta ai tempi di Gasparone, era o almeno appariva intangibile. E tutti rossi nella piana malarica: rosso il comune, rossa la provincia, rossi i combattenti, i repubblicani più spinti degli stessi comunisti”2.

Squadristi grossetani (fonte: La Maremma, numero sul ventennale della fondazione dei fasci di combattimento)

3. Furono presi di mira i “rossi” più noti, dispensate per strada bastonature e olio di ricino. Seguì una surreale scena: in una città ormai terrorizzata, Dino Castellani costrinse all’esposizione del tricolore dalle finestre e, “in espiazione dei misfatti rossi”, fece inginocchiare le camicie nere e la popolazione cittadina in Piazza del Duomo in un’imponente manifestazione in onore di Rino Daus4. Vi furono vittime e numerosi feriti, prima che i fascisti ripartissero, non mancando di provocare incidenti sulla via del ritorno a Roccastrada, Montorsaio, Sasso d’Ombrone e Scansano. A quei fatti seguì qualche giorno dopo l’analoga “conquista” di Orbetello.

** La strage di Roccastrada del 24 luglio 1921

Archivio Niosi, Panorama di Roccastrada

Archivio Niosi, Panorama di Roccastrada

e fasi iniziali della presa di potere da parte del fascismo: incursione in camion di gruppi di squadristi, provenienti anche da località distanti, che si concentrano nei diversi paesi per devastarne i luoghi simbolo e colpire le case dei “bolscevichi”, tentando la conquista delle amministrazioni “rosse”. Una spedizione punitiva contro obiettivi precisi, in questo caso contro la Roccastrada “roccaforte rossa”, e in primis contro il suo sindaco socialista Natale Bastiani.

5.

Dante Nativi

Dante Nativi

6.

Archivio Niosi, Via Nazionale con il Palazzo del Comune, Roccastrada

Archivio Niosi, Via Nazionale con il Palazzo del Comune, Roccastrada

8. Un piccolo precedente che aveva esacerbato il rancore dei fascisti verso il paese, a cui 9, sia da parte dello stesso prefetto di Grosseto che in un telegramma al ministro dell’Interno del 15 luglio esplicitava le proprie preoccupazioni al riguardo, “tralasciando però di prendere, secondo quelli che erano i suoi poteri, la benché minima misura precauzionale”10.

11.

ivo saletti

Ivo Saletti

12, avviando anche per lo squadrista grossetano quel processo di “beatificazione” che già era in corso per il senese Rino Daus.

*** Una vicenda dimenticata?

13. La dinamica dei fatti raccontata dalle pagine de “L’Ordine nuovo” o de “L’Avanti!”, con quell’infierire degli squadristi ubriachi su cittadini inermi (non “sovversivi” come inizialmente era stato detto), la resero via via fatto poco edificante per lo stesso fascismo: nonostante alcuni giornali tentassero di inserire la narrazione dei fatti di Roccastrada fra quelli che avevano portato alla gloriosa “rigenerazione della Maremma” ad opera del fascismo, quindi, la strage di Roccastrada venne sempre più raramente rammentata e fu progressivamente rimossa anche dalla memoria fascista della “conquista” del territorio maremmano, eccezion fatta per la figura del “martire” Ivo Saletti.

14. Chiurco, nella sua “Storia della rivoluzione fascista”, tenterà ancora successivamente di presentarla come una reazione alle violenze “rosse”, scrivendo quasi a giustificazione che si trattò di “inesorabili” rappresaglie, scaturite da una vera e propria battaglia che si era diffusa per tutte le vie del paese, e precisando che “gli squadristi erano già esasperati per gli inenarrabili strazi subiti dai fascisti a Sarzana“. 

Archivio Niosi, Fascisti del fascio di combattimento di Roccastrada, anni Venti/Trenta

Archivio Niosi, Fascisti del fascio di combattimento di Roccastrada, anni Venti/Trenta

15. Roccastrada era entrata negli anni più bui della sua storia.


NOTE:
1 “Il Risveglio”, 22 maggio 1921.
2 Mario Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano: 1919-1922, Società Editrice Barbarossa, Milano 2010.
3 Aristeo Banchi (Ganna), Si va pel mondo. Il partito comunista a Grosseto dalle origini al 1944, a cura di Fausto Bucci e Rodolfo Bugiani, Arci, Grosseto 1993.
4 Giorgio Alberto Chiurco, Storia della rivoluzione squadrista, Vol. I – La preparazione, Le Edizioni del Borghese, Milano 1972.
5 Molto noto per la diffusione che ne diede Gaetano Salvemini nelle sue “Lezioni di Harward”, il testo del telegramma è riportato in Angelo Tasca, Nascita e avvento del fascismo (Bari 1965) e recentemente anche nel volume di Mimmo Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista 1919-1922, Mondadori, Milano 2003.
6 Hubert Corsi, Le origini del fascismo nel grossetano (1919-1922), Edizioni Cinque Lune, Roma 1973.
7 Per una cronologia delle lotte operaie e contadine in Maremma dal maggio 1919 al maggio 1921, cfr. Ilario Rosati, Roccastrada-Roccatederighi nella storia d’Italia 1898-1915-1921, Pagnini e Martinelli editore, Firenze 2000, pp. 270-273.
8 Franco Dominici, Roccastrada 24 luglio 1921: cronaca di una strage, in Franco Dominici, Giulietto Betti, Fascismo, Resistenza e altre storie in Maremma, Effigi, Arcidosso 2020.
9 Fascismo: inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia, Edizioni “Avanti”, Roma 1963.
10 Maria Clotilde Angelini, I fatti di Roccastrada, in Nicla Capitini Maccabruni (a cura di), La Maremma contro il nazi-fascismo, La Commerciale, Grosseto 1985.
11 “Conflitti a Grosseto e provincia”, Rapporto dell’Ispettore di P.S. Alfredo Paolella al Ministro dell’Interno, 4 agosto 1921, in ACS, MI, DGPS 1921, b. 98.
12 Telegramma del Prefetto Rocco alla Direzione generale di PS, 26 luglio 1921, in ACS, MI, DGPS 1921, b. 98.
13 Rassegna stampa esaustiva è presente in Ilario Rosati, Roccastrada-Roccatederighi nella storia d’Italia 1898-1915-1921, cit.
14 “Il Resto del Carlino”, 3 agosto 1921.
15 Le onoranze in Provincia al Milite Ignoto, in “L’Ombrone”, 13 novembre 1921, n. 35.



Il grossetano Marino Magnani: dalla militanza socialista all’ingresso nel Pcd’I

1 Sebbene la sua scheda personale del Casellario politico dichiarasse che «in pubblico frequenta poca la compagnia dei suoi correligionari», il comunista grossetano Aristeo Banchi lo ricorda presente all’inaugurazione del monumento a Francisco Ferrer di Roccatederighi, nel settembre 1914, realizzata grazie a una sottoscrizione popolare. In seguito, Magnani si allontanò dai sindacalisti per rientrare nel PSI, dove diede impulso alla diffusione dei circoli giovanili legati al partito.2

Nel 1915 risultava già schedato nel Casellario politico, sebbene non avesse ancora ricoperto cariche pubbliche, per la sua militanza socialista e come «fervente propagandista» contro la guerra. Forte infatti il suo impegno antinterventista, legato alla mobilitazione crescente in Maremma: «durante i primi mesi del 1914 si organizzò infatti una vasta campagna fatta di scritti su “Il Risveglio” e di manifestazioni a favore del soldato Massetti (feritore del proprio colonnello per protesta contro la guerra di Libia), richiuso in manicomio militare», nella quale si distinse il giovanissimo Magnani, insieme a Emilio Zannerini. Ricordano infatti Carlo Cassola e Luciano Bianciardi che in Maremma, «nel complesso del partito prevalse una forte coscienza antimilitarista che aveva nei giovani la propria punta di diamante. Questi convocarono un proprio congresso provinciale il 6 ottobre, ove il rifiuto della guerra continuò a essere al centro del dibattito».3

4

5Cattura

6 Del 1917, quindi, è il trasferimento di Magnani a Milano, poi a Brescia dove, debitamente sorvegliato dalla polizia, iniziò a lavorare come segretario alle dipendenze della Lega metallurgica.

9 classe 1858, descritto nel suo fascicolo del CPC come «uno dei più ferventi e accaniti comunisti residenti in questo luogo e mai ha tralasciato di fare propaganda sovversiva, sia pure spicciola, specialmente fra i contadini che egli ha facile occasione di avvicinare per la sua professione di causidico». Nel 1922 anch’egli, avvocato dei poveri, fu aggredito dai fascisti grossetani, che lo caricarono, seppur settantenne, di pugni e bastonate, ferendolo a un occhio; e ciò nonostante, nel suo fascicolo personale, veniva ammonito nel 1926 «per l’azione deleteria che ha compiuto e continua a compiere con pertinace ostinatezza in odio all’azione dei poteri dello Stato» e nel 1935 per le autorità era da considerarsi «ancora di idee sovversive».

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12 La direzione della Federazione fu assunta da Pietro Ravagli, un vecchio socialista di Roccatederighi, e dallo stesso Magnani. Quando l’agitazione in Maremma aumentò a causa dell’irrigidimento delle posizioni della Società Montecatini, che aveva il controllo di quasi tutti gli impianti maremmani, fu proprio Magnani, quindi, che un nuovo Convegno dei minatori inviò a Roma per tentare un accordo con i rappresentanti delle società minerarie. Al fallimento di quel tentativo in extremis seguirono tre mesi di mobilitazione e di scioperi, dai quali il movimento uscì, se non completamente vittorioso, in ogni caso estremamente rafforzato.

13 Fra le organizzazioni sindacali più importanti, si dichiararono comunisti Primo Lessi, segretario della Camera del lavoro di Grosseto, e Marino Magnani, per la FIAM. Magnani divenne fin da subito segretario della Sezione di Grosseto e collaborò quindi all’organizzazione del I Congresso provinciale comunista di Grosseto.

14 Magnani, che da poco è diventato direttore del nuovo giornale “L’Idea comunista”, organo del neo-nato partito grossetano, si occupa poi della questione della stampa, richiamando i compagni al dovere di garantire anche nella provincia la vita di un foglio «di propaganda e di battaglia per sostenere e diffondere le nostre idealità».

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18 Fu anche consigliere comunale e assessore dal 1946 al 1950. Candidato nelle liste del Partito comunista nel collegio XVII ( Siena-Arezzo-Grosseto), fu eletto all’Assemblea costituente con 6.796 voti e proclamato il 7 giugno 1946.

l'unità 08.06.1946

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20 Conclusasi nel gennaio 1948 l’esperienza parlamentare, Magnani si ritirò dall’attività politica di primo piano. Diresse il movimento cooperativo nella provincia di Grosseto e fu Segretario provinciale dell’Associazione nazionale perseguitati politici antifascisti. Morì il 23 settembre 1964.


BIBLIOGRAFIA:

Hubert Corsi, La lotta politica in Maremma, 1900-1925, Cinque lune, Roma 1987.

Aristeo Banchi (Ganna), Si va pel mondo. Il partito comunista a Grosseeto dalle origini al 1944, a cura di Fausto Bucci e Rodolfo Bugiani, Arci, Grosseto 1993.

Carlo Cassola, Luciano Bianciardi, I minatori della Maremma, Laterza, Bari 1956.

AA.VV., Le nostre orme. Per una storia del lavoro e delle organizzazioni operaie e contadine nel grossetano. Contributi di storia sociale, Ediesse, Roma 1988

Il Risveglio

ACS CPC b. 2927 f. 14718 Marino Magnani

ACS CPC b. 2927 f. 45147 Magnani Manfredo

ACS CPC b. 2927 f. 1511 Magnani Mantilio

ACS CPC b. 2927 f. 87525 Magnani Michele


NOTE:

1 Sulla complessa questione locale del rapporto fra PSI e sindacalismo rivoluzionario, cfr. Fabrizio Boldrini, Minatori di Maremma. Vita operaia, lotte sindacali e battaglie politiche a Ribolla e nelle Colline metallifere (1860-1915), Effigi, Roccastrada 2006.

2 Aristeo Banchi (Ganna), Si va pel mondo. Il partito comunista a Grosseeto dalle origini al 1944, a cura di Fausto Bucci e Rodolfo Bugiani, Arci, Grosseto 1993.
3 Carlo Cassola, Luciano Bianciardi, I minatori della Maremma, Laterza, Bari 1956.
4 ACS CPC b. 2927 f. 14718 Marino Magnani.
5 Adriano Arzilli, La provincia di Grosseto prima dell’avvento del fascismo: situazione socio-economica, mezzadri, braccianti, minatori, sindacati, partiti, Editrice Il mio amico, Roccastrada 1998, p. 190.
6 Manfredo Magnani, Nel movimeno giovanile socialista. SERRIAMO LE FILE, in “Il Risveglio” del 21 luglio 1918.
7 ACS CPC b. 2927 f. 45147 Magnani Manfredo.
8 ACS CPC b. 2927 f. 1511 Magnani Mantilio.
9 ACS CPC b. 2927 f. 87525 Magnani Michele.
10 Marino Magnani, Massimo e Minimo, in “Il Risveglio” del 2 marzo 1919.
11 Ivano Tognarini, “Marino Magnani”, in I deputati toscani all’assemblea costituente. Profili biografici, a cura di Pier Luigi Ballini, Consiglio regionale della Toscana, 2018, p. 393.
12 AA.VV., Le nostre orme. Per una storia del lavoro e delle organizzazioni operaie e contadine nel grossetano. Contributi di storia sociale, Ediesse, Roma 1988, p. 118.
13 Carlo Cassola, Luciano Bianciardi, I minatori della Maremma, cit.
14 Congresso provinciale comunista di Grosseto, in “L’Idea comunista” (anno 1 n. 2) del 27 marzo 1921.
15 Movimento sindacale, Camera confederale del Lavoro di Grosseto e provincia: Alle leghe! Ai sindacati! Alle cooperative!, in “Il Risveglio” del 6 febbraio 1921.
16 Hubert Corsi, La lotta politica in Maremma, 1900-1925, Cinque lune, Roma 1987.
17 Adriano Dal Pont, Simonetta Carolini, L’Italia al confino: le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle Commissioni provinciali dal novembre 1926 al luglio 1943, La Pietra, Milano 1983.
18 Mauro Tognoni, Commemorazione dell’ex deputato Marino Magnani, in Camera dei deputati, IV legislatura, Discussioni, Seduta del 29 settembre 1964, p. 10056.
19 Il 26 aprile 1943, lunedì di Pasqua, Grosseto subì il suo primo bombardamento aereo durante la seconda guerra mondiale. Ne avrebbe subiti altri 18, ma questo sarà sempre ricordato per il tragico prezzo di vite civili che costò. Morirono infatti 134 grossetani, tra cui decine di bambini uccisi mentre stavano giocando sulle giostre di un Luna Park situato appena fuori Porta Vecchia (cfr. La ricerca di Giacomo Pacini sul bombardamento del lunedì di Pasqua del 1943, in www.grossetocontemporanea.it/la-ricerca-storica-sul-bombardamento-del-lunedi-di-pasqua/).
20 Mauro Tognoni, Commemorazione dell’ex deputato Marino Magnani, cit., p. 10057.

 




Piccole filosofie portatili. Filosofia con i bambini come educazione alla cittadinanza

Sei anni sono un tempo abbastanza lungo per un bilancio dell’esperienza grossetana di filosofia con i bambini, non con gli strumenti dell’analisi statistica, ma con il racconto di tante piccole storie. Sembrò scelta temeraria, una sfida per un istituto che coltiva prioritariamente interessi disciplinari – storia, soprattutto contemporanea – e trae dalla ricerca e dal patrimonio archivistico e bibliotecario materiale per l’impegno nella didattica. Nel tempo, il duplice programma di formazione e sperimentazione è stato accolto da un numero crescente di insegnanti (e dirigenti scolastici), nello spazio dell’educazione alla cittadinanza, da quest’anno per legge nuova materia1. Questo è un campo che abbiamo sempre coltivato attraverso la storia, cui riconosciamo un ruolo pedagogico «non solo nel campo dei saperi, ma in quello della vita civile e sociale [nella ricerca di] “un pur difficile equilibrio tra correttezza scientifica e costruzione di un ethos per il paese”»2. Non lo abbandoniamo, perché portiamo in classe una filosofia che non è ricostruzione storica del pensiero o ingresso in temi disciplinari specifici, ma una strada in più per sollecitare un uso precoce del pensiero critico.

Luca Mori (foto di L. Zannetti)

Luca Mori (foto di L. Zannetti)

È una storia iniziata a Grosseto nel 2015, con un corso di formazione per insegnanti di primaria e secondaria di primo grado, seguito da un percorso di sperimentazione in due istituti comprensivi, prima a Grosseto, poi a Monte Argentario. I primi esperimenti in classe sono stati con un filosofo di scuola pisana, ormai voce autorevole, grazie all’esperienza di centinaia di incontri con insegnanti e di dialoghi con bambini, in scuole di tutt’Italia. Luca Mori, autore di libri con una circolazione non solo nazionale, fino alla pubblicazione in Corea dei suoi “Giochi filosofici”3 – è stato la guida esperta per un numero crescente di insegnanti, a poco a poco divenuti capaci di dare forma a un lavoro che utilizza gli esperimenti mentali e gli enigmi della filosofia per migliorare l’apprendimento e le relazioni.

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Alfonso Maurizio Iacono e Luciana Rocchi, incontro con gli insegnanti e la cittadinanza nella sala consiliare del Comune di Grosseto, 28.10.2019

C’è però una preistoria più lontana, nelle idee nate nel Dipartimento di filosofia dell’Università di Pisa e nella pratica di un maestro. Si sono incontrati – Alfonso Maurizio Iacono il filosofo e Sergio Viti il maestro – e ne è scaturito un corto circuito dagli effetti di lungo periodo. Non è il primo né l’unico modello di filosofia per i più piccoli, dalla materna fino alla secondaria di primo grado. Si cominciò a parlarne negli Stati Uniti, negli anni Settanta, in un contesto pedagogico di matrice deweyana. La Philosophy for children si è diffusa prima nel mondo anglosassone, suscitando poi grande interesse altrove, anche in Italia, dove nel 1991 è stato fondato il CRIF (Centro di ricerca per l’indagine filosofica)4.

Accanto ad elementi comuni, il modello cui s’è ispirata la nostra esperienza ha già in una differenziazione linguistica – filosofia con i bambini – un segno di distinzione e forse una prima ragione di curiosità, per il fatto di offrire la suggestione di un protagonismo dei bambini nella ricerca. Suggestione che ricevette immediato conforto da una lettura: la cronaca dell’ingresso del filosofo nella quinta elementare di Sergio Viti, in un libro dallo strano titolo: Le domande sono ciliege. Vi è spiegato «il complesso gioco di autonomia e dipendenza grazie a cui gli alunni imparano (o dovrebbero imparare) a uscire di minorità»5. È esplicito il richiamo al lungo lavoro, che aveva condotto con i suoi studenti Iacono, docente di storia della filosofia politica nell’ateneo pisano; minorità è la parola-chiave di quella fase della sua ricerca. Ne dà testimonianza un volume scritto vent’anni fa, che sembra anticipare fenomeni attuali, ma di attuale ha soprattutto un invito a «uscire collettivamente dallo stato di minorità» e non rassegnarci «a restare prigionieri dentro la nostra stessa, protettiva tana»6.

È una lettura che aiuta a guardare con altri occhi idee di grande potenza pedagogica, utili a dare concretezza a un progetto ambizioso, com’è quello di stare dentro conversazioni filosofiche insieme ai bambini.

20_origÈ accaduto, quando, seguendo le tracce dell’interpretazione di Iacono, abbiamo proposto a una classe il racconto del mito della caverna di Platone. Il fuoco della discussione è stato la contrapposizione fra la faticosa liberazione dall’oscurità della caverna di uno degli schiavi e la resistenza dei prigionieri incatenati a seguirlo. Alla domanda sul se e il come lo schiavo liberato potrebbe convincere gli altri a seguirlo, hanno risposto che dovrebbero essere loro stessi a sentire le catene e decidere di volersene liberare. Alla caverna si era arrivati partendo dall’esperienza comune a loro e a noi, ma per loro più forte, del mondo virtuale. Nella descrizione di Marco Laurito, l’insegnante coinvolto nella conversazione:

Schermo, visione, rappresentazione dell’immagine, ombre sulla parete, false credenze (anche storiche), verità sono state affrontate attraverso una discussione dove i ragazzi inizialmente sono stati i veri esperti della materia, spiegandoci il mondo dei social media e dei videogame. Poi, c’è stato il racconto del mito della caverna e i ragazzi, inizialmente perplessi, sono stati condotti a colmare quell’ambiguità (quella di cui si nutre la filosofia, come più volte ha ribadito il professor Mori nel corso di formazione) tra la “caverna digitale” e la caverna platonica […]. Passaggio fondamentale della discussione è stata naturalmente l’uscita dello schiavo, con la scoperta della verità e la difficoltà a farsi credere dagli altri. Le risposte dei ragazzi: siamo noi chiusi in casa a giocare e uno di noi esce e vede che il mondo è diverso da come sono i videogame7.

Si è trattato di un esperimento mentale che li riguardava, in cui hanno esercitato il dubbio e si sono avventurati in una relazione fra il noto e l’ignoto, che, sostengono gli insegnanti, lascia tracce nella formazione del pensiero critico incide sull’apprendimento disciplinare.

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Altre esperienze sono partite da letture non filosofiche. Da miti dell’Iliade o dell’Odissea hanno tratto, oltre a rappresentazioni immaginifiche, la spinta a interpretare i significati di storie non solo fantastiche. Si sono immaginati nei panni di Ulisse, volontariamente legati per ascoltare il canto delle sirene, o in quelli dei compagni trasformati in porci da Circe. Da lì la discussione è andata oltre; ciascuno si è inventato una metamorfosi per assumere un’identità diversa dalla propria. Quasi tutti hanno scelto uccelli e pesci: “per esplorare”, “per infilarsi dappertutto”, per “essere libera” sintetizza una bambina, per poi cimentarsi in una definizione di libertà. Per Gioele sentirsi libero è come “correre in un campo immenso a braccia aperte, all’alba” e “godere della salute”.

È stato il giorno conclusivo del lavoro con una quinta primaria. Nel bilancio delle due insegnanti di classe, c’è un giudizio su «riflessione e dialogo come strumenti utili per la costruzione di un pensiero critico, per la consapevolezza che possono esistere “mondi paralleli” e che è possibile rompere gli schemi convenzionali per trovare nuove risposte»8. Quello esplorato è stato il territorio della «riflessione metacognitiva», che ha fatto scoprire un’altra Odissea.

Il riferimento ai “mondi paralleli” è l’eco di alcuni concetti-chiave con cui insegnanti e filosofi hanno preparato insieme la sperimentazione. Parole come “meraviglia”, “mondi intermedi”, “creazione-imitazione” sono state elaborate nei percorsi di formazione che hanno preceduto il lavoro in classe. Così non è stato stupefacente vedere che il dialogo riusciva ad estrarre dai bambini molto di più che fantasticherie: come nella descrizione aristotelica delle origini della filosofia, si comincia a “filosofare a causa della meraviglia”. Meraviglia e logica sono strumenti che i bambini hanno saputo utilizzare spontaneamente per elaborare le esperienze.

Nelle classi in cui ha potuto lavorare con continuità Luca Mori, il cuore delle conversazioni filosofiche è stata l’idea di utopia. L’utopia era il tema su cui erano già stati coinvolti da lui più di cinquecento di bambini, nel corso di dieci anni di viaggi in scuole italiane e dialoghi, raccontati con grande rigore, avendo cura “della fedeltà alle parole e alle costruzioni delle frasi”9. Un gran numero di scuole vi era stato coinvolto – 10.000 chilometri solo nel 2016 in diverse regioni d’Italia – prima dell’approdo dell’isola di utopia in un istituto comprensivo grossetano. Centinaia di disegni documentano domande e risposte, un dialogo ricchissimo cui nessun bambino, nemmeno il più timido, si è sottratto al confronto con il filosofo e i compagni: le domande sono percepite come il cammino della ricerca, le risposte tutte degne di essere discusse, non esistono censura o soluzione precostituita agli enigmi morali. Così è accaduto anche da noi. Negli anni successivi le domande sull’utopia si sono spostate sulla città: a Porto Santo Stefano è nata Happytown, presentata in una mostra a Grosseto nel 2018.happy-town-9_orig

Una terza primaria grossetana ha concluso l’anno delle conversazioni su: la città che vorrei esplorandola con un architetto, dopo aver teorizzato che dovesse essere accogliente e “non respingere nessuno”. Una bambina ha scelto un albergo come luogo di utopia: non per turisti o viaggiatori comuni, ma per rendere felice chi arriva e non ha casa. Lavagne piene delle loro proposte documentano la spontaneità di scambi di “pensieri in libertà”. Dopo un percorso di due anni di lavoro, una delle insegnanti di questa terza ha valutato un mutamento negli stili di apprendimento.

Il cammino che si ha alle spalle ha permesso di sommare una nuova rete di relazioni a quelle tradizionali di un istituto storico. Ci siamo cimentati con la frequentazione di testi di filosofia e pedagogia; abbiamo archiviato materiali didattici creati da scuole che hanno esperienze analoghe; abbiamo scoperto che a Modena, sede di un Festival della filosofia di grande rilievo culturale, la Fondazione Collegio San Carlo da anni accoglie o addirittura sollecita progetti di sperimentazione, puntando in particolare sulla scuola dell’infanzia; si sono comparate esperienze, anche attraverso documentazioni sempre più facili da rintracciare, in librerie e biblioteche o in rete.

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Nell’archivio ISGREC è conservato tutto il materiale dei corsi di formazione, con un caso interessante: il prodotto di tre anni di formazione e sperimentazione consegnatoci dagli insegnanti di Monte Argentario. Si può pensarli ormai come formatori, se vorranno spendere le loro competenze, considerando la passione con cui hanno seguito le lezioni, aggiornato conoscenze pedagogico-filosofiche con nuove letture, elaborato e attuato percorsi didattici sperimentali.

Il lavoro con i bambini in classe, sempre registrato, rende trasmissibile l’insieme delle esperienze.

La domanda più significativa, per ora priva di una risposta attendibile, è se quello sperimentato è un modello di educazione alla cittadinanza efficace oggi. Il tema non è l’emergenza che rende l’avvio dell’anno scolastico carico di inquietudini, ma la necessità di misurare l’apprendimento e le relazioni sociali nel contesto scolastico con una crisi più ampia, dai contorni indefinibili e dalle prospettive ancora del tutto incerte.

Sono poche le certezze. Una è la consapevolezza della straordinaria urgenza di fornire alle nuove generazioni l’attrezzatura mentale e l’educazione alla socialità adeguate. La pratica del dialogo potrebbe essere capace – è auspicabile almeno che lo diventi – di far apprezzare la relazione con l’altro, nella forma della cooperazione piuttosto che della competizione. Vecchi e nuovi fenomeni rendono indispensabile la formazione molto precoce del pensiero critico come strumento per decifrare messaggi ambigui e false notizie, sempre più difficili da identificare.

Fin quando la conoscenza del passato sarà giudicata indispensabile per affrontare il presente e la storia rimarrà, come si è dichiarato in premessa, un veicolo per costruire (o ricostruire) un ethos per il paese, l’allenamento alla critica continuerà a essere il primo fra gli attrezzi in dotazione per lo storico (e lo studente di storia). Se l’immagine di una carica di energia positiva che i bambini ci hanno trasmesso reggerà alla distanza non è dato sapere. È una sfida che vale la pena tentare.

*** NOTE ***

1 Il Ministero dell’Istruzione ha inviato alle scuole le linee guida per la formazione di cittadini responsabili: “Studio della Costituzione, sviluppo sostenibile, cittadinanza digitale”,(https://www.miur.gov.it/web/guest/-/), per attuare la legge 20 agosto 2019 n. 92 “Introduzione dell’insegnamento scolastico dell’educazione civica” (https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2019/08/21/19G00105/sg.).
3 L. Mori, Giochi filosofici. Sfida all’ultimo pensiero, Erickson, Trento 2018.
4 La Philosophy for Children (P4C), secondo il modello di Matthew Lipman e Ann M. Sharp e altri, è un curricolo per educare al pensiero, fondato sul presupposto che si possa imparare a pensare. Con precisi protocolli si può sviluppare un processo di ricerca utile a conquistare abilità e competenze cognitive e relazionali. Dopo aver raccontato in un libro la storia di un bambino che scopre a scuola le regole del pensiero, in realtà i principi della logica aristotelica, (Harry Stottlemeier’s Discovery, IAPC, New York, 1974; trad. it. di C.Iannuzzi, Il prisma dei perchè, Liguori Editore, Napoli, 2004), M. Lipman osò iniziare un percorso in varie scuole, incoraggiato dal suo fondamentale ispiratore, John Dewey.
5 A. M. Iacono, S. Viti, Le domande sono ciliege. Filosofia alle elementari, Manifestolibri, Roma 2000, p. 9.
6 A. M. Iacono, Autonomia, potere, minorità. Del sospetto, della paura, della meraviglia, del guardare con altri occhi, Feltrinelli, Milano 2000, p. 8.
7 M. Laurito, Dal mito della caverna al cellulare, in L. Rocchi (a cura di), Piccole filosofie portatili. L’esperienza di filosofia con i bambini, Tipografia Stylographic, Grosseto 2020.
8 S. Mataloni, S. Parri, Benevenuti a Happytown; Se io fossi Ulisse…, ivi.
9 L. Mori, Utopie di bambini. Il mondo rifatto dall’infanzia, Edizioni ETS, Pisa 2017, p. 13.