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Hill 366: una storia da raccontare

Il 7 ottobre 2017, il Comune di Carrara e la Pro Loco di Fontia hanno promosso un’iniziativa per onorare la memoria di due uomini: Don Dario Fazzi e il Lieutenant-Colonel John James Phelan. L’evento, celebrato in occasione del 73° Anniversario dell’incendio di Fontia, rientra nel programma di iniziative inserite nel progetto “In cammino verso la Costituzione (1948-2018)” a cura del Gruppo di lavoro del Comune di Carrara per le celebrazioni e la promozione della memoria della Resistenza e dei principi della Costituzione.

La commemorazione a cui ha aderito Angel Matos, Direttore del Florence American Cemetery (American Battle Monuments Commission), ha visto la partecipazione del partigiano carrarese Giorgio Mori e ha avuto il riconoscimento del veterano di guerra britannico Harry Shindler (96 anni, militare sulla Linea Gotica), che ha scritto un discorso di cui è stata data lettura durante la manifestazione.

Durante la Seconda guerra mondiale, Fontia rappresentava un centro strategicamente importante per la Wehrmacht. Su ordine del Feldmaresciallo Albert Kesselring la zona rientrava nella Linea Gotica, il sistema difensivo realizzato dai tedeschi per fronteggiare l’avanzata degli Alleati. L’Organizzazione TODT costruì diverse postazioni tobruk, bunker e trincee, tuttora visibili.

03A Santa Lucia si trovava l’osservatorio tedesco da cui venivano diramati ordini per i cannoni a lunga gittata presenti sul promontorio di Punta Bianca. Proprio per questo Fontia e Santa Lucia furono teatro di aspre battaglie durante l’avanzata della Quinta Armata USA che battezzò quel luogo “Hill 366”. Tra i militari caduti per la liberazione dell’Italia nel territorio carrarese c’è stato il Lieutenant-Colonel John James Phelan, decorato della Silver Star, caduto nei combattimenti svoltisi per la conquista dell’osservatorio tedesco di Santa Lucia.

L’iniziativa ha avuto inizio con gli onori al cippo che ricorda l’incendio del paese e ha visto la partecipazione degli studenti delle scuole del territorio (Scuola Media “A. Dazzi” e ITC “D. Zaccagna”). La giornata del 7 ottobre è stata l’occasione per ricordare non solo l’incendio del borgo, ma per raccontare, attraverso una mostra, allestita nei locali della Pubblica Assistenza di Fontia, gli importanti avvenimenti e combattimenti svoltisi per la liberazione del paese durante la Seconda guerra mondiale.

E’ stata riaperta al pubblico la Cappella di Don Dario Fazzi, il coraggioso parroco di Fontia che difese la popolazione del paese durante i 20 terribili mesi dell’occupazione nazi-fascista, sulla cui lapide il Sindaco di Carrara Francesco De Pasquale ha deposto una corona.

Dopo la Messa in suffragio delle vittime della guerra, celebrata nel vicino Santuario di Santa Lucia, si sono svolti gli interventi delle autorità . Dopo il saluto del Sindaco, sono intervenuti: la senatrice Laura Bottici, il consigliere regionale Giacomo Bugliani e il segretario ANPI della sezione di Carrara Ferdinando Sanguinetti. Toccante la testimonianza della sig.ra Eda Corsini, che nel 1944 era una bambina, ha ricordato Don Dario Fazzi, che rischiò la vita pur di salvare i suoi paesani. Il Presidente della Pro Loco di Fontia Cristiano Corsini ha letto una lettera che Don Fazzi scrisse nel 1970 a Dusseldorf in occasione dell’incontro dei reduci della 148ª Divisione di fanteria tedesca. Don Fazzi dopo la guerra si impegnò² nella ricostruzione della Chiesa di Santa Lucia, distrutta dai bombardamenti, con il progetto di fare di quel colle dove si erano scontrati uomini di diverse nazionalità, un luogo dedicato alla pace. L’orazione ufficiale è stata affidata al Dott. Pierpaolo Ianni che ha ricordato l’importanza della Resistenza e ha tratteggiato il profilo di Don Fazzi e del Lieutenant-Colonel Phelan. Nel suo intervento ha inoltre descritto quanto emerge dal diario della 473rd United States Infantry, che costituisce una fonte essenziale per ricostruire quanto avvenne in quei drammatici giorni del 1945 tra Fontia e Santa Lucia. La giornata si è conclusa con il discorso di Angel Matos, Direttore del Florence American Cemetery, e lo scoprimento di una targa in marmo in memoria del Lieutenant-Colonel John James Phelan (1914-1945).




Il sindacato apuo-versiliese tra riformismo e azione diretta (1900 – 1915)

Il movimento operaio italiano, finita l’illusione di una impossibile alleanza tra capitale e lavoro a cui Giuseppe Mazzini ed i suoi adepti si erano dedicati con cura, lasciatosi alle spalle definitivamente il periodo insurrezionalista della cosiddetta “propaganda attraverso i fatti”, dopo vari travagli interni, polemiche, scissioni, unità più fittizie che reali, riesce ad intravvedere nell’organizzazione politica lo strumento di lotta più efficace per il raggiungimento dei propri obiettivi. Nel 1891 a Capolago, una cittadina del Canton Ticino,  gli anarchici danno vita alla Federazione Italiana del Partito Socialista Anarchico Rivoluzionario, con lo scopo specifico di poter meglio inserirsi fra i lavoratori e diffondervi la propaganda rivoluzionaria. Un anno dopo, a Genova, viene costituito il Partito dei Lavoratori Italiani (nel 1895 trasformerà la sua denominazione in Partito Socialista Italiano), avvenimento, quest’ultimo, che segue in campo politico la definitiva separazione tra le due anime che avevano travagliato, per lungo tempo, il movimento operaio: la riformista e la rivoluzionaria. Al tentativo di alcuni delegati al suddetto congresso di Genova di giungere ad un a riappacificazione, Camillo Prampolini fa efficacemente osservare, rivolto agli anarchici,  che “noi siamo essenzialmente due partiti diversi, percorriamo due vie assolutamente opposte, fra noi non ci può essere comunanza”.

Anche in campo sindacale le due tendenza mostrano la impossibilità di una qualsiasi coesistenza all’interno di uno stesso organismo. Nel 1906 sorge la Confederazione Generale del Lavoro (CGL) e al suo interno appaiono immediatamente due componenti: la maggioritaria, che accetta i principi del gradualismo e si spartisce i ruoli col Partito Socialista (la lotta politica spetta a quest’ultimo e le rivendicazioni economiche al sindacato) e la minoritaria che insiste invece sull’efficacia dell’azione diretta antistatale e antilegalitaria di un sindacato che deve bastare a se stesso, non avendo bisogno di appoggiarsi ad alcun partito per attuare il suo progetto di trasformazione radicale della società.

 L’inconciliabilità delle due posizioni è così evidente che la fittizia unità non può durare a lungo. Infatti, dopo un breve periodo, caratterizzato da aspri confronti, convegni contrapposti, tentativi unitari e inevitabili successive scissioni, l’anno 1912, con la nascita dell’Unione Sindacale Italiana (USI), contraddistinta dai principi del sindacalismo rivoluzionario e dell’anarco-sindacalismo, occasionalmente uniti per contrapporsi al riformismo della CGL, l’anno 1912, dicevo,  segna l’inevitabile chiarimento tra le due correnti.

Il movimento operaio di Carrara e della Versilia è ben inserito all’interno di questo clima e partecipa attivamente sia alle lotte che alle polemiche, fornendo un suo contributo significativo ed una testimonianza che è utile ricordare anche alla luce di avvenimenti che hanno caratterizzato la vita sindacale di questo ultimo periodo e che dimostrano come l’azione diretta nelle lotte sociali  sia comunque apportatrice di migliori risultati, se non immediati, almeno in prospettiva, rispetto alla via burocratica e compromissoria.

meschi Nel 1901 sorge a Carrara la Camera del Lavoro il cui statuto riproduce i principi riformistici usciti dal primo congresso delle Camere del Lavoro, tenutosi a Parma nel 1893. Per i riformisti, compito fondamentale del sindacato è quello del miglioramento delle condizioni economiche e sociali degli operai, con particolare attenzione ai giovani ed alle donne, attraverso la stipulazione dei contratti di lavoro. Viene sancita inoltre l’estraneità delle associazioni operaie da ogni questione politica. In particolare, per i sindacalisti socialisti di Carrara, la Federazione di mestiere, aderente alla Federazione Nazionale Edile, è l’organismo più avanzato e maggiormente capace di attuare il programma sindacale, rispeto alla Camera del Lavoro, alla quale viene attribuito un ruolo subalterno. Per repubblicani e anarchici, anch’essi aderenti al nuovo organismo, la Camera del Lavoro è vista, non tanto come organizzazione economica di classe, quanto come strumento di lotta politica. E’ inevitabile,  pertanto,  di fronte a due posizioni così distanti tra loro,  che, prima o poi,  si giunga ad uno scontro. L’occasione viene offerta dalle elezioni per il rinnovo delle cariche all’interno della Camera del Lavoro nel gennaio 1902. Il responso vede vincitrice la corrente anarco-repubblicana che ne assume così il controllo.

La vicenda di Carrara non lascia immune la vicina Versilia, ove lo scontro si presenta di lì a poco. Infatti il 19 gennaio 1902, organizzato dalla Lega Marmisti di Pietrasanta, si tiene il primo congresso delle leghe operaie della Versilia e Lunigiana, allo scopo di costituire una federazione regionale tra le leghe marmisti, comunque aderenti alla federazione nazionale. Al convegno partecipano in forze gli anarchici di Carrara cercando di costituire una Federazione Regionale autonoma autonoma dalla riformista “Edilizia”. Durante il tumultuoso dibattito, il segretario dell’Edilizia, Quaglino,  esce dalla sala del congresso, seguito dai rappresentanti di molte Leghe ci Carrara e della Versilia, annullando perciò l’intento degli anarchici che in questo primo scontro coi socialisti devono rinunciare ai loro intenti. Ma questo è solo il primo tentativo di “irruzione” in Versilia da parte della Camera del Lavoro di Carrara; altri due ne seguiranno con alterne sorti nel 1908 e nel 1912.

 Nel 1908 la simpatia che la Camera del Lavoro di Carrara riscuote fra i cavatori dell’alta Versilia è determinato dall’atteggiamento assunto dal Comitato Provinciale Edile (CPE), nuova denominazione assunta dal sindacato controllato dai socialisti, sulla vertenza per il rinnovo del contratto di lavoro dei cavatori. Alla richiesta dei lavoratori di aumenti salariali e riduzione di orario di lavoro, la controparte padronale oppone un rifiuto, giustificato, secondo lei, dalla crisi del commercio del marmo. Il CPE di Seravezza, che evidentemente ritiene valide le obiezioni degli industriali,  in riunioni in cui è presente anche la Camera del Lavoro di Carrara, tenta di convincere le leghe a recedere dalle loro richieste. Gli industriali, forti della posizione conciliante del CPE, sono intransigenti nel ribadire le loro posizioni cosicché i lavoratori sono costretti a dichiarare lo sciopero. Il sindacato riformista giudica l’agitazione un movimento inconsulto e rifiuta ogni solidarietà ai cavatori che praticamente sono costretti a subire le controproposte padronali. Il CPE giustifica il suo atteggiamento con obiezioni formalistiche, rifacendosi ai deliberati del congresso operaio della Versilia e Lunigiana del 21 gennaio 1908, ove, fra l’altro, veniva deciso di far obbligo ad ogni sezione di sottoporre ogni questione agli organi dirigenti del sindacato prima di iniziare ogni agitazione e proclamare ogni sciopero. Nella stessa assemblea veniva inoltre stabilito che nel  caso in cui una sezione mancasse a questo dovere, sarebbe stato possibile negare a questa la solidarietà e l’aiuto dell’organizzazione dirigente, quando le agitazioni non fossero ritenute giustificate. L’episodio lascia qualche traccia all’interno delle leghe versiliesi ed anche preoccupazione nel CPE. I lavoratori più ricettivi alla propaganda anarco-sindacalista cominciano a nutrire seri dubbi sull’efficacia del comportamento del sindacato riformista ed alcune leghe danno la loro adesione alla Camera del Lavoro di Carrara. Il fatto è significativo perché mostra quali atteggiamenti possano derivare da una concezione burocratica della gestione sindacale, che non è disponibile ad avallare richieste, seppur giuste in linea di principio, che non partano però dall’interno e con l’avallo dell’organizzazione centrale: una concezione cioè di un sindacalismo, seppur teoricamente democratico, pericolosamente inquinato però di formalismo. E’ comprensibile pertanto la disaffezione ed  il conseguente abbandono del CPE da parte di molti lavoratori versiliesi. Con la sola eccezione dell’agitazione dei cavatori dell’alta Versilia nell’estate 1910, che, con l’appoggio del CPE, ottengono miglioramenti salariali e riduzioni d’orario, la Federazione Edilizia sembra perdere quella dinamicità che aveva posseduto in passato. I lavoratori si rivolgono altrove per trovare l’appoggio, l’incoraggiamento ed il sostegno, anche materiale,  alle loro rivendicazioni. Mi riferisco al Sindacato dell’Azione Diretta ed alla sua emanazione  territoriale, la CdL di Carrara, che è guidata dal 1911 da Alberto Meschi e che riuscirà ad espandere la sua influenza oltre che sulla Garfagnana e Viareggio, anche sulla Versilia “storica”. Il motivo di tutto ciò può essere in parte spiegato dalla concezione settoriale che privilegiava i sindacati di mestiere a scapito dell’attività di una Camera del Lavoro che volevano limitata territorialmente mentre  molti lavoratori vedevano con  simpatia la scelta del  sindacato libertario di favorire la costituzione di una unica Camera del Lavoro estesa su tutta la regione del marmo. Un altro possibile motivo della crisi del sindacato riformista può essere attribuito alla  sua diffidenza ed alla successiva dissociazione da quelle azioni di lotta che nascevano spontaneamente dagli operai suscitando negli stessi la convinzione di essere lasciati soli nella lotta contro il padronato.

 L’episodio che determina il progressivo allontanamento delle leghe dall’influenza del CPE e l’adesione al sindacato dell’azione diretta è la totale mancanza di appoggio e di solidarietà alle richieste dei cavatori del Monte Altissimo nel 1912. L’obiettivo reale dei lavoratori in questa vertenza è la riunificazione delle paghe e della normativa di tutti i cavatori della regione del marmo e lo sciopero v iene proclamato nella primavera del 1912. La solidarietà della CdL di Carrara non si fa attendere, anche perché le richieste dei lavoratori dell’Altissimo sono in linea con la sua battaglia qualificante: eliminazione delle disparità di trattamento fra i lavoratori. I motivi del mancato appoggio del Sindacato Provinciale Edile (SPE) possono così venir riassunti: un accordo della controparte non può essere disdetto prima della scadenza (ma i lavoratori fanno osservare che la controparte aveva promesso lo stesso trattamento dei lavoratori di Carrara e con quella lotta volevano appunto la equiparazione delle paghe); questa agitazione era vista come azione di disturbo di altri obiettivi cari al sindacato riformista: la costituzione di una Cassa di Mutuo Soccorso per i malati e quella per le famiglie delle vittime delle cave.

 Lo sciopero viene autonomamente proclamato il 4 maggio e dura compatto sei mesi, favorito anche dalla solidarietà della CdL di Carrara che agli scioperanti ha trovato lavoro altrove. La vertenza viene definitivamente sistemata con un accordo  favorevole agli operai l’8 novembre. Nello stesso periodo il panorama sindacale è arricchito da due altre importanti iniziative: la battaglia per le pensioni operaie e quella per le otto ore. Sul primo argomento Alberto Meschi interviene con un articolo pubblicato dal periodico di Carrara “La Battaglia” e lo incanala in un preciso ambito sindacale considerandolo una conquista operaia, fiducioso dell’appoggio  della classe operaia unita. Gli operai di Carrara ottengono questo diritto dopo oltre dieci giorni di sciopero. Pure la vertenza per la conquista generalizzata delle otto ore di lavoro tiene impegnati gli operai dell’intera regione del marmo in una serrata lotta nei primi mesi del 1913. Fino ad allora i marmisti di Carrara, non addetti alle cave, erano impegnati in media otto ore e trentasette minuti, mentre i segatori lavoravano dodici ore consecutive, in Versilia,  invece, con una paga inferiore, gli operai avevano un orario di lavoro ancora più lungo. Quindi la lotta per una riduzione d’orario è sentita dai lavoratori  versiliesi che rispondono senza esitazione agli appelli ed alle sollecitazioni che vengono dalla CdL di Carrara, assente anche in questo caso il SPE di Seravezza. Dopo un mese di inutili riunione con la controparte padronale il 15 marzo 1913 viene proclamato lo sciopero accompagnato da agitazioni e comizi. La vertenza si conclude con la vittoria dei lavoratori che ottengono l’applicazione del nuovo orario di otto ore con l’intervallo di un’ora.

Questa è l’ultima importante vertenza prima della Grande Guerra che porta di conseguenza il ristagno del commercio del marmo. I primi a pagarne le conseguenze sono i lavoratori che si vedono inesorabilmente negare quel lavoro così necessario per il loro sostentamento, mentre i generi di prima necessità subiscono un sensibile aumento di prezzo. Così un intenso periodo di lotte e di conquiste sindacali termina con l’avvio di tanti giovani lavoratori a difendere i confini di una patria che, a fronte di grandi sacrifici richiesti, ha sempre concesso poco a coloro che hanno avuto la sventura di appartenere alle classi subalterne.




7 luglio 1944: le donne salvano Carrara

Il 7 luglio del 1944, nelle strade di Carrara, compare un bando di sfollamento: il comando tedesco ordina che di lì a due giorni venga evacuata la città, a esclusione delle famiglie degli operai impiegati nell’Organizzazione Todt che stanno fortificando le difese della futura Linea Gotica occidentale. Le forze di occupazione vogliono una città deserta, che non dia problemi amministrativi né di ordine. Soprattutto, vogliono fare il deserto attorno alle prime forme nascenti del movimento partigiano. Le cose, però, non andranno secondo i piani delle autorità nazifasciste: a fermarle saranno le donne di Carrara.

La città apuana, in quel momento, ospita migliaia di sfollati provenienti dai territori limitrofi: la zona costiera tra La Spezia e Marina di Massa, infatti, deve restare sotto il controllo tedesco per respingere eventuali sbarchi delle forze alleate. Alle spalle di Carrara, inoltre, il naturale catenaccio delle Alpi Apuane viene individuato come elemento strategico: una difesa naturale per stabilire l’ultimo baluardo contro l’avanzata dell’esercito di liberazione. Così, da settembre del ‘44 ad aprile del ‘45, il fronte si stabilirà lungo la Linea Gotica.

Nei mesi precedenti i comandi nazisti ordinano di «pulire» il territorio dalla presenza di civili, per trasformarlo in una gigantesca no man’s land che consenta alle loro truppe di muoversi liberamente, ricevere rifornimenti e approntare le difese. E’ la strategia della «terra bruciata», che oltre alle stragi porta anche una lunga serie di ordini di evacuazione: per la Provincia di Apuania si tratta di prelevare e trasferire oltre duecentomila persone verso la bassa padana; per la popolazione significa lasciare tutto ciò che non si riesce a racchiudere in un’unica valigia.

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Francesca Rola con i partigiani della “Ulivi”

La Resistenza apuana, in quel momento, è ancora in stato embrionale: il movimento partigiano ha messo radici dapprima nelle colline dell’alta Lunigiana, ideale rifugio per le tattiche della guerriglia; sui monti di marmo, invece, si vanno formando i primi gruppi ancora disorganizzati ma che, già il 14 luglio, riusciranno ad assaltare con successo la caserma di polizia del «Colombarotto», nel pieno centro di Carrara. Non hanno ancora, però, la forza di scendere in città, assumerne il controllo e costringere il nemico a scendere a patti, cosa che avverrà qualche mese dopo, l’11 novembre del 1944. In altri termini, in quel momento non possono essere i partigiani della formazione garibaldina «G. Ulivi» a salvare Carrara fermando il piano di evacuazione.

L’occasione, però, può essere propizia per due motivi: saggiare la forza e la capacità organizzativa del nemico, per vedere se è davvero in grado di deportare decine di migliaia di persone in un solo giorno; verificare la presa popolare del movimento resistenziale sui cittadini carraresi. Il Cln e i Gruppi di difesa della donna (Gdd) cominciano a mobilitarsi: appaiono per le strade di Carrara dei volantini che invitano gli apuani alla disobbedienza. Si attiva anche un passaparola che sfugge alle maglie della polizia fascista: «non abbandonare la città» è la parola d’ordine che corre di casa in casa. Il giorno previsto per lo sfollamento, il 9 luglio, passa senza che accada nulla e il movimento prende corpo e coraggio: all’avanguardia c’è un ristretto nucleo composto da militanti come Ilva Babboni, Francesca Rola, Sandra Gatti, Nella Bedini, Renata Bacciola, Lina Boldi, Lina Del Papa, Dorina Mazzanti, Mercede Menconi, Odilia Brucellaria, Renata Brizzi. Preparano cartelli con scritte «Noi non vogliamo sfollare» o «Non ci muoviamo dalla città»: l’obiettivo è una grande dimostrazione davanti al comando tedesco.

La mattina dell’11 luglio, un martedì, qualcosa si muove. Le militanti vanno per le vie e le case a chiamare a raccolta le donne di Carrara. Attorno alle 9.30 si ritrovano nella Piazza delle Erbe dove si tiene il mercato ortofrutticolo. Serve un gesto, qualcosa che coinvolga le altre donne che tengono le ceste del mercato, provenienti perlopiù da Massa e Montignoso, e che trasformi un piano ristretto in una manifestazione di popolo: rovesciano le ceste. Un atto spregiudicato e, al contempo, simbolico: la donna che rovescia e rovina del cibo è un attacco diretto al suo ruolo nella società di quegli anni, e il tutto avviene non nell’intimità del nucleo familiare, né tra un ristretto nucleo di avanguardiste. Il rovesciamento, non solo delle ceste ma del ruolo della donna, avviene alla luce del sole, ben visibile a tutti e ottiene lo scopo prefissato. Il corteo, ora composto da centinaia di donne e ragazzi, compie un altro passaggio cruciale: lascia lo spazio pubblico femminile per definizione, il mercato, e si dirige verso la via Garibaldi (odierna via 7 luglio) per invadere un luogo pubblico-militare esclusivamente maschile, il comando tedesco. Questo è presidiato da soldati nazisti e militi fascisti repubblicani che, immediatamente, sbarrano i due ingressi alla strada con mezzi pesanti precludendo tutte le vie di fuga. Le manifestanti, cui si mescolano partigiani in borghese con le armi nascoste sotto dei camici lunghi, urlano, cantano, si sdraiano a terra e si scagliano contro i soldati nemici che gli puntano contro le armi – tra cui due mitragliatrici – pronti a far fuoco. Alcune vengono arrestate e tradotte in caserma, ma la loro furia non si ferma e, infine, l’ordine di evacuazione viene sospeso.

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Il murale che Carrara ha dedicato a Francesca Rola

Nei mesi successivi saranno emanati altri bandi di sfollamento in rapida successione, coi Gdd pronti a riprendere la contestazione. In ottobre saranno effettivamente evacuate Massa e Montignoso, con circa ventimila profughi che si riverseranno su Carrara, accolti in ogni spazio che la città può offrire tra cui abitazioni private, magazzini, fondi commerciali, cinema e teatri. La città apuana, però, non verrà più sfollata, consentendo al movimento partigiano di mettere salde radici e trovare sostegno nella popolazione, fino a divenire una delle forme resistenziali meglio organizzate del territorio.

La rivolta di Piazza delle Erbe rimane nella memoria come momento di emancipazione collettiva. Le donne carraresi, da quel momento, si sentono protagoniste dei destini non solo di un nucleo familiare, ma di un intero popolo. Non si tratta di «Resistenza civile» come qualcosa di diverso e complementare a quella partigiana e armata, né di allargare il concetto alla forma plurale delle «Resistenze» per comprenderne la variante di genere; si tratta, invece, dell’atto fondante della Resistenza apuana.




Gli anarchici apuani di fronte alla Grande Guerra

Nelle settimane precedenti allo scoppio del conflitto mondiale i rapporti fra le forze della sinistra avevano assunto nella provincia apuana caratteri di vero e proprio antagonismo. Nel continuo gioco di contrasti e di ricomposizione delle alleanze che attraversava da anni l’organizzazione operaia, il ‘blocco rosso’ aveva infatti conosciuto una spiccata curvatura antisocialista, complici alcuni avvenimenti che avevano finito per alimentare tensioni fra le diverse tendenze fino a ridurne il potenziale sovversivo temuto dalle autorità. I sospetti di un larvato supporto degli anarchici al trionfo repubblicano nel voto comunale di Carrara del luglio 1914 si erano saldati con l’eco di furibonde accuse di parte socialista in occasione dell’elezione a deputato del repubblicano Eugenio Chiesa, impostosi nel novembre del ’13 per poche schede sul leader del PSI massese Francesco Betti. Sommate alla crescente insofferenza verso gli eccessi sindacalisti dell’anarchico Alberto Meschi, che con la Camera del lavoro carrarese era stato fra i protagonisti del congresso fondativo dell’USI del 1912, le polemiche elettorali contribuirono così a determinare nella calda estate del ’14 una dolorosa scissione nel movimento operaio con la creazione a Massa di un nuovo organismo camerale confederale da parte dei socialisti. I contrasti fra gli scissionisti da un lato e gli anarchici e i repubblicani dall’altro, sfociati in diversi casi in scontri anche mortali, non si attenuarono neppure di fronte ai problemi sollevati dall’avvento della guerra, con la prosecuzione fino al termine dell’anno di feroci dispute. Una scia di risentimenti che si saldava con la pesantissima crisi di un settore come quello marmifero che da luglio dovette fare i conti anche con il blocco dei commerci prodotto dal conflitto, capace di mettere in ginocchio l’economia di una realtà dipendente per intero dalle attività estrattive.

Se all’annuncio della dichiarazione di guerra austriaca tali divisioni non impedirono la convocazione a Carrara di un «grande comizio contro la guerra» su basi unitarie in cui il sindaco Eumene Fontana intervenne con il compagno di partito Edgardo Starnuti, il socialista Alberto Malatesta, il sindacalista Tullio Masotti e Meschi, la mobilitazione dei primi giorni costituì comunque un episodio isolato e fino all’anno nuovo seguì  una sostanziale stasi di iniziative pubbliche di segno antinterventista.

Dopo il consolidarsi della dichiarazione governativa di neutralità (3 agosto), la conseguente separazione dal campo dei contrari alla guerra dell’interventismo di sinistra si materializzò localmente nella torsione verso l’intervento dell’intero stato maggiore repubblicano: sulla scia del deputato Chiesa l’amministrazione comunale si associò senza incertezze alla posizione sancita dai vertici del partito. Gli anarchici dal canto loro tardarono a costruire iniziative spiccatamente antinterventiste e apparvero impegnati in maggior misura in azioni contro la gravissima crisi economica o in vertenze aperte dal periodo anteriore al conflitto che impedivano per il momento di far emergere in maniera chiara la tematica antibellica, anche perché ad esse continuavano spesso a partecipare, dietro la comune copertura della CdL carrarese, gli stessi repubblicani. Un’opposizione diretta ispirata ai principi antiautoritari e antimilitarsisti propri della contestazione libertaria alla guerra, pur non del tutto assente, si limitava a qualche sporadica dichiarazione alla stampa militante dei circoli più noti, mancando di momenti di presenza scenica pubblica destinati invece, in una terra proletaria come quella apuana, alla protesta di stampo economico. Anche il foglio della CdL «Il Cavatore», fondato da Meschi nel 1911 come organo camerale, dopo un’editoriale di condanna allo scoppio del conflitto interamente giocato sul filo di un acceso antipatrottismo, tenne verso il tema una linea defilata e quasi disinteressata. Mentre l’impegno di segno neutralista da parte dei socialisti apuani non era venuto mai meno e aveva continuato ad intensificarsi in parallelo con la politica del partito, i ritardi nel processo di affermazione di un’opposizione frontale e propriamente politica al conflitto da parte degli anarchici apuani non hanno risparmiato talora a Meschi sospetti di titubanze e ambiguità, parzialmente accreditati in passato anche dal maggior storico del movimento operaio apuano Lorenzo Gestri; ove si tengano tuttavia in debito conto le posizioni parallelamente assunte a livello nazionale dall’USI e dal suo leader Armando Borghi, il caso di altre realtà camerali sovversive con forti componenti interventiste e le difficoltà del  movimento libertario nei primi drammatici mesi della neutralità italiana, gli atteggiamenti assunti dall’“uomo di pietra” finiscono invero per non essere privi di una loro coerenza, chiaramente riaffermata peraltro anche dall’intensa azione da lui svolta nelle ultime settimane prima dell’ingresso italiano nei combattimenti, in cui spicca fra l’altro un intenso tour accesamente antimilitarista destinato a toccare in aprile molte località della Toscana tirrenica.

Del resto con l’avvio del 1915 lo stesso atteggiamento degli anarchici parve risentire positivamente di quel processo di maggiore definizione della propaganda attiva sul tema del conflitto iniziato in ambito libertario dalla fine dell’anno e culminato nel convegno nazionale pisano contro la guerra del 24 gennaio, che vide una folta partecipazione di gruppi  apuani. In sede di discussione Meschi, illustrata la disperata situazione economica carrarese, si dimostrò fra i più oltranzisti, giungendo a ventilare «la proposta di un moto insurrezionale immediato». A testimoniare il mutato clima, furono avviate manovre preparatorie destinate a sfociare in un’iniziativa della sua CdL che suonerà come un’applicazione decisa degli strumenti d’azione indicati dall’ordine del giorno finale antiguerresco approvato a Pisa in cui si era auspicato fra l’altro l’inizio di agitazioni e movimenti contro gli effetti economici del conflitto quali mezzi utili ad alimentare nel popolo uno spirito rivoluzionario capace di opporsi ai rischi di guerra e di sostenere un eventuale sciopero generale insurrezionale. Dopo che a fine febbraio la CdL approvò un ordine del giorno che, denunciato il peggioramento della crisi, non escludeva gravi agitazioni e per la prima volta, accanto ai soliti attacchi al governo, non risparmiava critiche al comune, il 10 marzo ricorreva allo strumento forte dello sciopero generale, accompagnato da un comizio in piazza Alberica. Anche se la piattaforma prescelta sembrava perpetuare ancora una volta l’ambiguità di precedenti iniziative, enfatizzando più le conseguenze sul tessuto economico locale del conflitto (disoccupazione e caro viveri) che le ragioni di fondo che le producevano e ammettendo ancora una volta la partecipazione del sindaco al pubblico comizio (poi vietato), la giornata si tradusse in una grande protesta antimilitarista di massa; come avrebbe sintetizzato il corrispondente dell’«Avvenire Anarchico» lo sciopero che «doveva essere per la disoccupazione si è cambiato in una imponente manifestazione contro la guerra». Gli slogan della folla, i cartelloni issati e confiscati e i manifesti affissi fin dal mattino non lasciarono dubbi sul significato politico assunto dall’iniziativa, sfociata rapidamente in una clima insurrezionale con urla di «Abbasso la guerra», sassaiole, cariche di soldati a cavallo e comparsa di barricate nelle vie del centro storico; 5 appartenenti alla forza pubblica rimasero feriti causando il conseguente arresto nelle ore successive di alcuni militanti anarchici.

Tale giornata, che finì per divenire il momento di maggiore mobilitazione avvenuto nella provincia apuana nei mesi della neutralità italiana rappresentò uno spartiacque, e con le divisioni lasciate sul campo costituì un momento di chiarificazione politica, con una marcata e non più ricomposta spaccatura, anche da parte anarchica, con i repubblicani. Del resto se l’amministrazione repubblicana si impegnò a condannare con un manifesto il tentativo di assoggettare la protesta ad una discussione «vana e pericolosa», privilegiando un tema che rompeva l’unità e la concordia, con l’intensificarsi, come in gran parte del paese, di una spirale di scontri di piazza sulla questione del conflitto i mutati equilibri divennero ancor più evidenti; così ad esempio militanti libertari parteciparono con i socialisti alla contestazione organizzata contro il parlamentare Chiesa, giunto in città la sera del 17 aprile con l’accusa di essere un «deputato interventista di un Collegio neutralista», e conclusasi a colpi di randello e con una ventina di arresti e diversi feriti. O ancora furono parte attiva nel boicottare il ‘maggio radioso’ degli interventisti carraresi, il cui tentativo di tenere una dimostrazione ufficiale a sostegno dell’ingresso in guerra sotto la statua di Mazzini con l’immancabile caricatura di Giolitti fu impedito e sopraffatta dall’arrivo di circa 450 neutralisti armati di bastone.

E tuttavia la percepibile avversione popolare alla guerra aveva a lungo faticato a trovare un coerente sbocco politico, anche per le divisioni fra libertari e socialisti che, a differenza di altre realtà, resero difficili momenti ufficiali di vera protesta unitaria, per quanto confinati ad un terreno di lotta legalitario quale quello imposto dal PSI e subito dagli anarchici. Pure questo aspetto, oltre alle urgenze quotidiane di una crisi economica gravissima e alla natura essenzialmente sindacale e proletaria del movimento anarchico locale, parve pertanto contribuire ad un neutralismo più sociale che politico, destinato a infondere alla protesta contro la guerra un profilo che finì per intrecciarsi in modi non sempre codificabili con problemi come la disoccupazione ed il carovita.

 

Marco Manfredi ha conseguito nel 2005 il titolo di Dottore di Ricerca presso l’Università di Pisa. Dal 2007 al 2009 è stato borsista postodottorato al Dipartimento di Scienze della Politica dell’Università di Pisa, mentre dall’anno accademico 2009-2010 è stato Professore a contratto di Storia Contemporanea. I suoi interessi di studio riguardano in prevalenza la storia politica e la storia della cultura del primo Ottocento e la storia delle classi subalterne, con particolare attenzione al movimento anarchico. A quest’ultimo riguardo ha vinto nel 2007 la Borsa di ricerca Pier Carlo Masini con il progetto di ricerca Linguaggio, simbologia, rituali. La cultura dei militanti anarchici in età giolittiana, e nel 2006 la Borsa di ricerca Lorenzo Gestri.
Ha scritto il capitolo su Massa Carrara nel volume curato da Cammarosano, Abbasso alla guerra!




Il caso “Facio”, il comandante partigiano ucciso dai suoi compagni

E’ l’alba del 22 luglio 1944: ad Adelano di Zeri una scarica di colpi di fucile rompe il silenzio di queste vallate dell’alta Lunigiana fra Toscana, Liguria ed Emilia. Dante Castellucci, il comandante partigiano «Facio», comunista e garibaldino, è morto: ha solo 24 anni ma è già un eroe della lotta contro tedeschi e fascisti. Eppure a fucilarlo non sono i soldati nemici, ma un gruppetto di partigiani della IV Brigata Garibaldi della Spezia. Il suo accusatore è Antonio Cabrelli «Salvatore», di oltre vent’anni più anziano, che ha imbastito contro «Facio» un processo-farsa dalla condanna già scritta, portandolo davanti a un improvvisato tribunale di guerra per i reati di tradimento e sabotaggio.

Quella di «Facio» è una storia di vita, per quanto breve, capace di attraversare e vivere da protagonista grandi temi ed eventi del Novecento italiano. Calabrese, nato nel 1920 a Sant’Agata di Esaro, con la famiglia emigra ancora bambino nel Nord-Pas de Calais, nella stessa città in cui vivono grandi antifascisti italiani come Ermindo Andreoli e i fratelli Gino ed Eusebio Ferrari. I Castellucci rientrano in patria all’alba della Seconda Guerra mondiale e Dante viene chiamato alle armi nell’esercito italiano: spedito sul fronte prima in Francia e poi in Unione Sovietica, il 25 luglio del 1943 si trovava in permesso per convalescenza. Da intellettuale autodidatta scrive, dipinge, suona il violino. Entra in contatto con le famiglie antifasciste emiliane dei Sarzi e dei Cervi, organizzando con esse le prime forme di Resistenza. Divenuto il braccio destro di Aldo Cervi, nel dicembre del 1943 viene arrestato assieme ai sette fratelli ma, fingendosi un soldato straniero, viene rinchiuso nel carcere parmense della Cittadella dal quale riesce ad evadere pochi giorni prima della fucilazione dei compagni a Reggio Emilia. I sospetti del Pci reggiano, che emette una circolare di arresto nei confronti di Castellucci, lo spingono a entrare in contatto col Cln di Parma, dove il dirigente comunista Luigi Porcari lo manda alle dipendenze del Battaglione garibaldino «Picelli» comandato da Fermo Ognibene «Alberto». In Lunigiana, «Facio» si rende protagonista di ripetuti attacchi alle postazioni nemiche, guadagnandosi in breve tempo la fiducia dei compagni e la stima delle popolazioni civili ancora oggi riscontrabile presso i testimoni dell’epoca, fino a divenire Comandante del battaglione dopo la morte di Ognibene. Il 17 marzo 1944 «Facio» fa il suo ingresso nel mito resistenziale con la battaglia del Lago Santo: chiuso in un rifugio con otto uomini male armati, resiste oltre ventiquattr’ore, senza perdite, all’accerchiamento di oltre cento soldati nazifascisti; alla fine i nemici contano decine di morti e feriti e sono costretti alla ritirata ordinata. La battaglia di Lago Santo ricopre il «Picelli» di un alone di leggenda e «Facio», con Fermo Ognibene caduto in battaglia due giorni prima, ne diventa il comandante.

Dante Castellucci Facio in un'immagine di scena nel periodo in cui recita col teatro dei Sarzi

Dante Castellucci in un’immagine di scena nel periodo in cui recita col teatro dei Sarzi

Il battaglione interpreta benissimo le tattiche della guerriglia, compiendo attacchi fulminei e spostando continuamente la propria posizione. Disorienta i comandi nazifascisti, convinti di trovarsi di fronte a una formazione composta da centinaia di uomini. Tutela l’incolumità della popolazione civile, perché senza fornire un punto di riferimento territoriale, non concede la possibilità della rappresaglia nazista. Il «Picelli» è anche un esperimento politico e sociale, come nei dettami della lotta partigiana che ha il fine di rovesciare ruoli e costumi della società fascista. Il comandante vive e agisce alla pari dei suoi uomini, li guida in azione, siede a mensa con loro e si serve sempre per ultimo, rinunciando spesso alla propria razione, ed è l’ultimo a usufruire del vestiario ricevuto da un lancio o sottratto al nemico. Quando Laura Seghettini, pontremolese appena uscita dal carcere fascista, entra a far parte del battaglione, non viene destinata al ruolo di staffetta o di aiutante, ma diventa partigiana combattente fino ad assumere il ruolo di vice-comandante. Per poche settimane, Laura sarà anche la compagna di «Facio»: i due già progettano una sorta di «matrimonio in brigata», ma la vita in quei mesi corre troppo veloce.

foto segnaletica di antonio cabrelli_da Archivio centrle dello Stato_Casellario politico centraleAntonio Cabrelli «Salvatore», nominato da «Facio» commissario politico di un distaccamento del «Picelli», intende proseguire la sua scalata ai vertici del movimento partigiano spezzino: ha progettato la costituzione di una brigata garibaldina che faccia capo alla federazione comunista della Spezia e ai comandi liguri, ma il «Picelli» dipende ancora da Parma, cui «Facio» deve tutto. «Salvatore», così, sottrae il distaccamento «Gramsci» dalle dipendenze del «Picelli», lo trasforma in brigata e se ne autoproclama commissario politico. Per portare a termine il suo piano, deve sbarazzarsi dell’ostacolo più grande, rappresentato dal «brigante calabrese», come lo chiama lui: tra i due corrono lettere infuocate con accuse e minacce reciproche; Dante Castellucci sfugge a un agguato tesogli a tradimento; «Salvatore», allora, agisce con l’inganno.

La mattina del 21 luglio 1944 «Facio» viene chiamato al comando della brigata appena fondata da «Salvatore», con la scusa di chiarire la questione di alcuni materiali sottratti a un aviolancio. Convinto di dover affrontare solo un’accesa discussione, si fa accompagnare da due uomini fidati. Appena giunto nella sede del comando, il comandante del «Picelli» viene disarmato, aggradito e picchiato da Cabrelli, che ha imbastito un tribunale di guerra nel quale è, al contempo, accusatore e giudice. Poche ore dopo «Facio» viene condannato a morte per i reati di furto, sabotaggio e tradimento.

L’ultima notte la passa con «Laura», che nel frattempo lo ha raggiunto, sorvegliato da uomini della IV Brigata che a un certo momento gli offrono la via di fuga: «non sono scappato dai fascisti, non scapperò dai compagni» sono le parole di Dante Castellucci. Verga alcune lettere alla famiglia e agli amici emiliani. Scherza, com’è nel suo carattere, racconta qualche barzelletta e riesce pure a dormire un poco, come racconta «Laura».

Alle prime luci del 22 luglio viene prelevato e portato davanti al plotone d’esecuzione: è lui stesso a esortare i partigiani che non trovano il coraggio di sparargli addosso. Con «Facio» muore una delle più interessanti ed efficienti espressioni che il movimento partigiano aveva espresso fino ad allora.

Luca Madirgnani (Carrara, 1977), dottore di ricerca presso l’Università di Siena, assegnista presso l’Insmli, collabora con l’Istituto Storico per la Resistenza e l’Età Contemporanea Apuana; si occupa di Didattica della Storia nella scuola. Ha pubblicato saggi e articoli sul primo dopoguerra italiano e le origini del fascismo; l’ordine pubblico e la violenza politica; la Storia della Resistenza e il movimento partigiano. E’ in corso di stampa per Il Mulino il volume Il Caso-Facio. Eroi e traditori della Resistenza.