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INFAUSTA COINCIDENZA

E pensare che un anno prima, nello stesso giorno, Maria Bergamas era stata chiamata a scegliere tra undici bare quella del Milite Ignoto. Una scelta, passata alla storia come “Rito di Aquileia”, che dette inizio al viaggio verso Roma – cinque giorni e 800 chilometri in treno percorsi in più tappe – per la sua traslazione al Vittoriano, dove venerdì 4 novembre 1921 fu solennemente tumulata nell’Altare della Patria.
L’anonimato di quella salma riuscì a trasformare la disperazione del singolo in lutto collettivo e da subito il Milite Ignoto assurse a simbolo dell’identità nazionale, a luogo della Memoria di un popolo, fatto di gente comune, unito nel desiderio di dimenticare la Grande Guerra e le sue tra-gedie.
Una memoria tuttavia assai labile, che vide la sospirata identità nazionale ispiratrice di un nuovo “viaggio”. Quella Marcia su Roma cui dette un fondamentale contributo lo squadrismo toscano. Una regione, la nostra, ormai “fascistissima” dove in men che non si dica, superato il “Biennio rosso”, quel “colore più cupo” era “virato al nero”. I fascisti toscani mobilitatisi per Roma furono circa 14.000, equivalenti a oltre l’85% del totale (16.500 unità): 2.200 proveniva-no dalla provincia di Firenze, 1.100 da Arezzo, 1.500 dalla Lucchesia, 1.600 dal Grossetano, 3.000 dalla sola città di Livorno, 2.450 dal Pisano, 1.500 dal Senese e 700 dall’attuale territorio di Massa-Carrara. (da Andrea GIACONI, La fascistissima. Il fascismo in Toscana dalla Marcia su Roma alla notte di San Bartolomeo, Foligno, Il Formichiere, 2019)
Anche la Val di Cecina, dove l’influente Piero Ginori Conti, a tutela dei suoi interessi, fin dall’ottobre 1920 aveva costituito il “Fascio X” (poi Fascio di Larderello), avvalendosi delle “prestazioni” di squadristi fiorentini capeggiati da Giuseppe Fanciulli, uomo di fiducia di Dino Perrone Compagni, plenipotenziario del fascio toscano, non mancò di offrire il proprio contributo.
Montecatini, paese dalle tradizioni rosse ma ormai fascistizzato grazie anche alle scorribande squadristiche, nonostante fosse retto ancora da una Amministrazione socialcomunista, sembra-va intuire l’avvicinarsi dell’ora della “rivoluzione” e si preparava così.

FESTA FASCISTA, 17 ottobre (ritardata)
Domenica (15 ottobre) furono inaugurati il Gagliardetto di questa Sezione Fascista e la Fiamma della squadra «Guido Mori». Il paese era tutto imbandierato di tricolore e adorno di festoni (con) scritte patriottiche ed inneg-gianti al fascismo.
Alle ore 9 incominciarono a giungere i primi camion di camicie nere e azzurre dai paesi vicini, ricevute dalla locale squadra fascista e dal Corpo musicale paesano.
Alle ore 10,30 agli squilli di tromba tutte le squadre, musiche ed associazioni si raccolsero in Piazza Vittorio Emanuele per avviarsi in corteo al luogo dell’inaugurazione,
Il Segretario Politico del Fascio locale sig. Mazzolli-Manzi David presentò l’oratore Tenente De Franceschini il quale pronunciò un vibrante discorso ripetutamente applaudito; lo seguì la madrina del Gagliardetto, la leggiadra signorina Mori Lorenza, che tra vivi applausi fece la consegna all’alfiere Martini Ernesto il bellissimo e ricco ga-gliardetto.
Indi parlò la signorina Borghi Fernanda madrina della Fiamma di squadra, «La Guido Mori», la quale ha pronun-ciato il suo discorso con disinvoltura, anche essa applauditissima; appena ebbe consegnata all’alfiere Ivo Lenci la «Fiamma» prende la parola il capitano Bruno Santini della Federazione Fascista provinciale e il poderoso avvin-cente discorso (fu) interrotto spesso da approvazioni e da nutriti applausi.
Terminata la cerimonia, il lunghissimo corteo fece il giro di tutto il paese al canto di «Giovinezza».
Abbiamo notato nel corteo il Fascio locale, Avanguardia e Fascio di Volterra, Fascio Femminile di Volterra e Avanguardia, Fascio e Musica di Laiatico, Nazionalisti di Saline, Fascio e Musica di Orciatico, Fascio di Saline, Fa-scio di Villamagna, Nazionalisti di Sassa, Sezione Combattenti, Società Filarmonica e Corpo Musicale locali, So-cietà Artigiana e Sindacato politico locali.
Alle ore 12 ebbe luogo un banchetto a tutte le rappresentane convenute.
Nessun incidente, il più schietto entusiasmo (da “IL CORAZZIERE”, a. XLI, n. 44, 29 ottobre 1922).

Inquadrati nella III Legione Maremmana, I Coorte, I Centuri, I Manipolo, III e IV Squadra comandate da Gherardo Maffei e Guido Dell’Aiuto, i marciatori volterrani furono 70. Nel II Manipolo, I Squadra comandata da Sisto Giannelli, erano iscritti 19 marciatori di Villamagna; nella II Squadra comandata da Cesare Becorpi, 29 salinesi, e nella III Squadra comandata da Rodolfo Bianchi, 20 montecatinesi.
– La squadra dei “marciatori” montecatinesi, appartenenti alla III Squadra del II Manipolo (de-curione, Baroncini Livio) della I Centuria (centurione, Ambrosino Magdalo) della I Coorte (se-niore, Paolo Pedani) della III Legione Maremmana (console, Piero Pelamatti), era composta da Bianchi Rodolfo, Bartolini Rodolfo, Bartolini Verdi, Berti Giuseppe, Cavicchioli Francesco, Ceppatelli Giuseppe Pietro, Colò Mario, Demi Alfredo, Francalacci Guido, Giaganini Raffaello, Giuntini Primo, Lenci Francesco, Lenci Ivo, Magozzi Secondo, Marsili Furio, Martini Ernesto, Mori Francesco, Rossi Narciso, Sarperi Ferdinando, Staccioli Tranquillo.
– Sempre nel II Manipolo, la I Squadra comprendeva 19 uomini di Villamagna: Giannelli Sisto, Baldini Igino, Bernardeschi Dario, Busdraghi Alberto, Busdraghi Paolino, Gori Ugo, Gronchi Dante, Gronchi Nello, Mannucci Gualtiero, Mazzei Maurizio, Pasquinucci Giuseppino, Pedani Giuseppe, Pedani Mario, Pitti Guglielmo, Simoncini Ernesto, Simoncini Italo, Simoncini Pietro.
– La II Squadra, vedeva arruolati 29 salinesi: Becorpi Cesare, Bardi Dante, Barlettani Ezio, Bar-lettani Raffaello, Bartolini Guido, Bigazzi Angiolino, Boni Carlo, Cappellini Leo, Cardellini Re-nato, De Vespri Arturo, Donati Pilade, Gazzarri Garibaldi, Gazzarri Valfrido, Gori Vittorio, Gotti Carlo, Guerrieri Gino, Manzi Gino, Manzi Giovanni, Meucci Pietro, Morelli Mario, Pa-squaletti Alvaro, Pasqualetti Wladimiro, Pratelli Bruno, Ricca Francesco, Simi Liberato, Tani Giulio, Trovato Orazio, Vannini Natale, Volterrani Guido.
– I volterrani facevano parte invece della III e IV Squadra del I Manipolo (decurione, Cini Gio-vanni). Erano 70: Maffei Gherardo, Dell’Aiuto Guido, Alboni Bruno, Baccerini Libero, Benas-sai Pilade, Berti Argante, Bessi Donatello, Bimbi Bruno, Brogi Esamillo, Cancelli Mario, Canti-ni Guido, Caporioni Dino, Cheli Luigi, Conte Leo, Corrieri Ubaldo, Del Rosso Giuseppe, Del Secco Egidio, Del Testa Secondo, Dello Sbarba Emilio, Duccini Faustino, Fiumi Pietro, Galga-ni Settimo, Gazzanelli Dino, Ghilli Olinto, Ghilli Silla, Ghionzoli Valente, Grossi Dino, Grossi Claudio, Guelfi Guelfo, Guerrieri Gino, Guerrieri Guido, Guidi Guido, Guidi Marcovaldo, Im-morali Giuseppe, Incontri Mario, Inghirami Ennio, Inglesi Umberto, Isolani Emilio, Landucci Lando, Leduc Alberto, Lupetti Antonio, Lupetti Giulio, Lupetti Roberto, Maffei Ascanio, Maf-fei Mario, Maffei Niccolò, Maffei Salinuccio, Maggiorelli Umberto, Mancini Doddo, Mannucci Manfredo, Mannucci Umberto, Mariani Mario, Mechini Federigo, Nerei Guido, Ormanni Or-manno, Pagnini Gino, Pagnini Iacopo, Paolini Renato, Papalini Pietro, Parenti Mentore, Pesa-galli Tersilio, Pini Giuseppe, Piras Giovanni, Raffaelli Guido, Santi Libero, Taddeini Carlo, Tamburini Primo, Tommasini Giulio, Trafeli Giulio.
A questi dobbiamo aggiungere i 20 marciatori di Lustignano (capo squadra, Musi Vincenzo) e 7 di Larderello (capo squadra, Gallori Aldo), appartenenti alla I e II Squadra del III Manipolo (decurione, Bulichelli Enrico).
– Il Fascio di Lustignano era composto da Musi Vincenzo, Baldassarri Fabrizio, Bianchi Ermin-do, Bianchi Ghino, Bianchi Severino, Bocci Boccino, Bulichelli Pietro, Gherardi Dionisio, Ghe-rardi Gherardo, Musi Guglielmo, Musi Licurgo, Musi Spinello, Nasti Gennaro, Nati Raffaello, Pineschi Ugo, Rossi Iroldo, Socci Dante, Spinetti Augusto, Spinetti Guido, Tassi Emilio.
– Mentre il Fascio di Larderello annoverava Gallori Aldo, Alocci Ettore, Chiti Amerigo, Gui-ducci Ugo, Maccanti Pietro, Matteucci Ugo, Rosselli Rodolfo.
Infine la I, II, e III Squadra del IV Manipolo (decurione, De Franceschi Umberto) comprende-vano 23 volontari di Pomarance (capo squadra, Pollina Bartolomeo), 7 di Castelnuovo V.C. (capo squadra, Antonelli Gino) e 10 di Sasso Pisano (capo squadra, Trenti Edoardo).
– Nel Fascio di Pomarance erano schierati Pollina Bartolomeo, Bacci Angiolo, Baldini Giovan-ni, Cappellini Gino, Cavatorta Pietro, Dal Canto Giuseppe, Falcini Cesare, Fignani Giuseppe, Fontanelli Fontanello, Galgani Albano, Galletti Celso, Gazzarri Cesare, Ghilli Leone, Giudici Giordano, Landi Elio, Nichesola Galesio, Pasquinucci Luigi, Pini Enrico, Ristori Pompilio, Ta-ni Ascanio, Taviani Enrico, Zani Antonio, Zoccolini Giulio.
– Il Fascio di Castelnuovo Val di Cecina poteva contare su Antonelli Gino, Menichelli Alfìero, Nardi Ofaleno, Ovidi Piramo, Pierattini Francesco, Talanti Giuseppe, Togoli Domenico.
– Mentre Trenti Edoardo, Aldrovandi Etimio, Battieri Pietro, Baroncini Giulio, Bertini Mode-sto, Casalini Antonio, Chiti Pietro, Fillini Osvaldo, Fillini Remo, Pineschi Tertulliano, Trenti Iacopo costituivano il Fascio del Sasso Pisano. (Da Renzo CASTELLI, Fascisti a Pisa, Pisa, Edi-zioni Ets, 2006)
Alla III Legione Maremmana, erano affiancate la I Legione Pisana e la II Legione “Zoccoli Ser-lupi”: tutte appartenenti alla Colonna Lamarmora.

E qui una piccola postilla per rilevare che la marcia della Legione Maremmana ebbe anche un risvolto un po’ grottesco.
Bloccati per contrattempi diversi a Civitavecchia prima e poi a Santa Marinella, i nostri, così come avvenne per le altre legioni della Colonna Lamarmora, furono in effetti gli ultimi a giungere a Roma il 31 ottobre, quando Mussolini – ricevuto il giorno prima dal re l’incarico di formare un nuovo governo – si era già insediato al potere e la città era ormai invasa dalle altre squadre fasciste.
Non solo, furono anche tra i primi a ripartire, la notte stessa del loro arrivo nella capitale, su ordine perentorio di smobilitare da parte del Duce stesso.
Fra la delusione e l’irritazione per il mancato protagonismo, la Marcia si ridusse quindi a poco più di una scampagnata, che al ritorno in alcune località – e mi si dice anche a Montecatini – fu oggetto di scherno, prontamente rintuzzato dalla retorica fascista.
Mal di poco, i nostri marciatori di quell’impresa poterono parlare con orgoglio per tutto il Ven-tennio (dopo, un po’ meno). Così come fece la Redazione de “IL CORAZZIERE”, a. XLI, n. 45. Del 5 novembre 1921:

VITTORIA FASCISTA
Il nostro giornale che ha seguito con simpatia, con fiducia, con ammirazione fervida e sincera, il fascismo, fino dal suo sorgere, ne celebra oggi la piena e assoluta vittoria con la più grande letizia e con la ferma sicurezza che esso saprà ottimamente ricostruire come efficacemente ha saputo compiere l’opera di santa demolizione.
Alle Camicie nere, al genio di Benito Mussolini – duce romanamente grande – l’Italia deve la sua salvezza e dovrà la sua rinascita e il definitivo trionfo.
I primi atti del nuovo Governo infondono un ritmo nuovo alla vita nazionale: il ritmo dei forti.
Finalmente – dopo l’avvicendarsi di governi abulici, inerti, tentennanti, deboli – L’Italia – per merito di Vittorio Emanuele III – ha oggi alla sua testa un Uomo dal pugno di ferro e dalla mente superiore, un Uomo che è espres-sione pura e genuina della nostra razza imperiale!
Salutiamo in Benito Mussolini il continuatore dell’Italia di Vittorio Veneto; diamo a Benito Mussolini adesione piena, completa, entusiastica, incondizionata; stringiamoci concordi intorno al Fascismo trionfante: questo è il dovere di quanti hanno amore e rispetto per la Patria, affetto e devozione per il Sovrano: chi non sente questo dovere è un traditore.
Il Corazziere

Della grande festa riservata a Volterra ai reduci della Marcia e degli entusiastici interventi del commissario prefettizio Filippo Cardelli, del segretario del fascio Gherardo Maffei, del commissario di zona Paolo Pedani e di altri “notabili” ne dà ampia cronaca ancora “IL CORAZZIERE” nelle pagine interne dello stesso numero.
Più modestamente Montecatini, nel suo piccolo – allora non proprio piccolo come adesso – non mancò di acclamare i suoi venti eroici marciatori e la vittoria fascista

Da Montecatini, 7 novembre 1922
FESTE PATRIOTTICHE
Questa popolazione dopo avere con entusiasmo patriottico, con esposizione del tricolore a tutte le abitazioni e cortei salutato la vittoria del Duce Mussolini, accolse e portò in trionfo ricoprendoli di fiori la squadra dei baldi fascisti al suo ritorno da Roma.
Il 4 poi ricorrenza della vittoria fu questa solennemente festeggiata […]. [da “IL CORAZZIERE”, a. XLI, n. 47 del 17 novembre 1922)

Il giorno della Marcia su Roma segnava l’avvio del Ventennio.
Sarebbero trascorsi solo pochi giorni prima che anche a Montecatini gli Amministratori socialisti si mettessero da parte.
In effetti, dopo il “Biennio rosso”, che aveva provocato reprimende e manifestazioni anche violente contro lo spettro del bolscevismo, nonché il discredito del sindaco “bolscevico” Luigi Lazzerini (con il Congresso di Livorno del 15-21 gennaio 1921 aveva aderito all’opzione comunista) e le sue conseguenti forzate dimissioni nell’aprile 1921, suggestionata dal perdurare delle accuse di antinazionalismo rivolte ai socialisti da coloro che avevano saputo farsi interpreti del-la memoria dei Caduti e del cordoglio dei familiari, la gente non trovava più punti di riferimento nella Giunta guidata da Giuseppe Rotondo. Sindaco facente funzione, che proprio nel novembre 1922 vide venir meno le condizioni per rimanere alla guida del Comune. A seguito delle dimissioni dell’intero Consiglio socialista, il Comune fu guidato per circa due mesi da Giulio Malmusi, commissario prefettizio, e nelle elezioni del gennaio successivo, a compimento della fascistizzazione del potere locale, la lista fascista e nazionalista avrebbe ottenuto la maggioranza assoluta. In pratica con la Marcia su Roma vide la fine quel dominio socialista che dal 1895 aveva caratterizzato quasi ininterrottamente la guida del Comune.
Infine una curiosità.
Su “IL CORAZZIERE”, sempre nel numero del 17 novembre 1922, nella medesima pagina dell’articolo montecatinese “Feste Patriottiche”, non può non venire all’occhio una “dichiara-zione spontanea” di certo Baroni Bramato.

[…] Trascinato dalla corrente impetuosa, per qualche mese fui semplicemente ascritto nei socialisti unitari; riconosciuto pienamente il mio errore, dichiaro pubblicamente che fin da gennaio 1921 non appartengo più ad alcun partito politico sovversivo, ma che con piacere e volontariamente tengo a far sapere ai lettori del «Corazziere» che mi sento di voler bene alla Patria e pronto a sacrificare me stesso per la salvezza e la gloria d’Italia.

Uno dei tanti ravvedimenti pubblici (ne troveremo altri sia su “Il Corazziere” sia su altri giornali dell’epoca) che caratterizzarono quel non breve periodo di transizione e che avrebbero ripreso campo in occasione del percorso inverso, ossia nel trapasso dalla dittatura fascista alla democrazia, allorché per molti fu ancor più grande la necessità di redimersi.
Ricordar quindi non nuoce. Perché non sempre, anzi raramente, le persone sono come suol dirsi tutte d’un pezzo. Interessi particolari – materiali e talvolta anche affettivi – accentuano la debolezza di noi umani, inducendo spesso all’ambiguità, all’ipocrisia, alla perdita di dignità.

Articolo edito su “La Spalletta”, a. XXXVIII, 20 novembre 2021.




L’AVVIO DEL VENTENNIO A MONTECATINI

Dopo il Biennio rosso che si era caratterizzato per scioperi, occupazioni delle fabbriche ed anche aggressioni, i due anni successivi, 1921-1922, furono contrassegnati dallo spadroneggiare dello squadrismo fascista. Squadre pisane guidate da Bruno Santini e squadre fiorentine chiamate in soccorso del Fascio X di Larderello con a capo Giuseppe Fanciulli, imperversarono nella nostra provincia causando gravi fatti di sangue oltre a devastazioni di circoli politici, camere del lavoro e cooperative sociali. Ciò poté accadere nonostante l’opera del prefetto Alfredo De Martino tesa a fermare quella violenza, anche con l’arresto di alcuni fascisti.
Ormai il fascismo, che poteva godere della connivenza sempre più diffusa nei vari ambiti politici e militari ed in certi presidii dello Stato, aveva pressoché campo libero. Di ciò dà atto anche Renzo CASTELLI nel suo Fascisti a Pisa (Pisa, Edizioni Ets, 2006):

Il 2 giugno 1921 il prefetto ricevette il segretario politico regionale del Fascio, Dino Perrone Compagni, il quale lo minacciò di trasferimento se avesse continuato con la sua azione di contrasto all’azione fascista. Per tutta risposta, De Martino fece trasferire il sottoprefetto di Volterra considerandolo troppo condiscendente nei confronti dei fascisti. Due mesi dopo il prefetto di Pisa veniva però a sua volta trasferito, sostituito con il filofascista Renato Malinverno.

In realtà a sostituire De Martino (prefetto di Pisa dal 16 aprile 1920 al 20 giugno 1921) fu Pietro Frigerio (21 giugno 1921 – 31 agosto 1921) al cui posto fu subito nominato Malinverno (1° settembre 1921-14 aprile 1924). Quel Malinverno che poi, nel novembre 1922, a seguito delle dimissioni dell’intero Consiglio comunale, inviò a Montecatini Giulio Malmusi in qualità di commissario prefettizio.
Uomo salito alle cronache pisane fin dal 1919, accostato e associato alle gesta di ras famosi quali Bruno Santini, Bruno Leoni, Tito Menichetti, Sandro Carosi, Guido Buffarini, Paolo Pedani, Gherardo Maffei, tornerà alla ribalta della cronaca anche nella Rsi. (Si veda Giorgio Alberto CHIURGO, Storia della Rivoluzione fascista, Firenze, Vallecchi, 1929; Mauro CANALI, Dissentismo fascista a Pisa e il caso Santini, Roma, Bonacci, 1983; Andrea ROSSI, Fascisti toscani nella Repubblica di Salò, Pisa, Bfs, 2006; Marco PALLA (a cura di), Storia della Resistenza in Toscana, Roma, Carocci, 2009. Un ritratto di Malmusi lo troviamo in Renzo CASTELLI – Fig. 27 dell’inserto fotografico – insieme a quelli dei capi fascisti pisani più esagitati).

Un paio di settimane dopo la Marcia su Roma, la Giunta social-comunista con l’intero Consiglio, già decimato dagli abbandoni forzati, dette le dimissioni. Eletti il 19 settembre 1920, facevano parte di quell’Assemblea Lazzerini Luigi (Sindaco, dimissionario dalla metà del 1921), Rotondo Giuseppe (Vicesindaco, reggerà il Comune fino al novembre 1922), Bruci Costantino, Bartalucci Biagio, Ricotti Cesare (Assessori), Calvani Cherubino, Guiggi Primo, Cecchi Ugo, Bellucci Faustino, Nannini Lodovico, Co-stagli Artibano, Fornaciari Giulio, Fulceri Quintilio, Tinacci Casimirro, Mannucci Giu-seppe ed i 5 consiglieri delle frazioni, Agostini Ezio, Neri Michele, Nannini Egidio, Regoli Dario, Grassi Valentino.
Fu proprio Malmusi ad accompagnare Montecatini alle elezioni del 7 gennaio 1923.

Da Montecatini. 8 Gennaio
Preparazione elettorale – La preparazione per le elezioni amministrative e provinciali avvenute il 7 corrente in questo Comune e la vittoria ottenutane si deve in tutto alla instancabile operosità di questo Commissario Prefettizio sig. Giulio Malmusi del Fascio di Pisa e dei fascisti locali sig. Ceppatelli Giuseppe Pietro e Mar-tini Ernesto che non badando ai disagi visitarono tutte le località del Comune e le lontanissime frazioni di Castello di Querceto e Sassa portandovi quel seme nuovo di redenzione, di vittoria e di pace.
Furono pubblicati numerosi manifesti (Da “IL CORAZZIERE”, a. XLII, n. 2, 14 gennaio 1923).

Sempre nel solito numero, “IL CORAZZIERE” riporta anche i risultati di quelle elezioni, che sancirono la vittoria dei «candidati nazionali», ed i nomi degli eletti nei Consigli comunale e provinciale.

Esito delle elezioni – La lista portata dalla Sezione Fascista ebbe unanime approvazione conquistando mag-gioranza e minoranza.
Al Capoluogo – inscritti n. 1.021 – votanti n. 679. Contando gli assenti e i morti si può presumere una votazione del 90 per cento.
Gli eletti a consiglieri comunali sono: Mori cav. avv. Torquato, professionista; Tonelli cav. magg. Ansel-mo, industriale; Barzi Dario, possidente; Mori Francesco, possidente; Tassi Emilio, agente agrario; Cep-patelli Giuseppe Pietro, rappresentante; Bartolini Raffaello, boscaiolo; Bartolini Rodolfo, boscaiolo; Or-zalesi Adon Noè, meccanico; Lenci Ivo, operaio; Bigazzi Terzilio, contadino (mutilato); Staccioli Tran-quillo, contadino; Burgassi Duilio, operaio; Sarperi Alberto, impiegato; Orazzini Giusto, contadino.
Alla frazione Sassa – inscritti n. 332 – votanti n. 251. I candidati Fantacci Fantaccio, Grassi Valentino, Nannini Egidio ebbero voti eguali ai votanti.
Alla frazione di Castello di Querceto – inscritti n. 211 – votanti n. 173. Salvini Vezio, fascista, voti 172; Giannelli Angiolo, nazionalista, voti 171.
Nel Capoluogo come nelle frazioni i candidati a consiglieri provinciali Mori cav. avv. Torquato, Pagani-Nefetti cav. avv. Vincenzo, e Bresciani cav. ing. Lorenzo ebbero la unanimità dei voti.
Le presenti elezioni hanno dato una rilevante percentuale di votanti su tutte le precedenti elezioni e si so-no svolte col massimo entusiasmo ed ordine. Nessun incidente.

Come risulta dai documenti d’archivio (Archivio Storico Comune Montecatini V.C., Deliberazioni Consiglio Comunale anno 1923), nell’adunanza del 21 gennaio presieduta dal consigliere anziano Orzalesi Adon Noè, i 15 consiglieri eletti a Montecatini (i 5 di Sassa e Querceto erano assenti) procedettero all’elezione del Sindaco nella persona di Anselmo Tonelli che, su 15 schede, ottenne 12 voti contro i 3 di Alberto Sarperi.
Quindi si passò alla nomina della Giunta (ogni consigliere poteva esprimere 4 preferenze): Bartolini Rodolfo ottenne 14 voti; Sarperi Alberto, 13; Burgassi Duilio, 11; Mori France-sco, 10; Bartolini Raffaello, 3; Barzi Dario, 2; Orzalesi Adon Noè, 2; Staccioli Tranquillo, 2; Mori Torquato, 1; Tassi Emilio, 1; Ceppatelli Giuseppe Pietro, 1. Risultarono eletti come assessori effettivi Rodolfo Bartolini, Alberto Sarperi, Duilio Burgassi, Francesco Mori.
Con votazione separata furono nominati i due assessori supplenti (ogni consigliere 2 pre-ferenze): Mori Torquato ottenne 9 voti; Barzi Dario, 8; Orzalesi Adon Noè, 3; Bartolini Raffaello, 3; Ceppatelli Giuseppe, 2; Lenci Ivo, 2; Tassi Emilio, 1; Bigazzi Terzilio, 1; Staccioli Tranquillo, 1. Quindi, come assessori supplenti risultarono eletti Torquato Mori e Dario Barzi.
Quindici giorni dopo (ASCM, s.D, n. 54, Carteggio anno 1923, fasc. Amministrazione, Estratto dal Verbale di Giunta dell’11 febbraio 1923) furono assegnati gli incarichi. Designati “assessori delegati” Rodolfo Bartolini (di anni 45; 1878-1960), Alberto Sarperi (di anni 43; 1880-1935), Duilio Burgassi (di anni 35; 1888-1951), Francesco Mori (di anni 28; 1895-1965), Dario Barzi (di anni 52; 1871-1947), il sindaco Anselmo Tonelli (di anni 40; 1883-1929) procedette alla distribuzione delle cariche, stabilendo che «Sarperi Alber-to, delegato per gli Atti di Stato Civile e per rappresentare il Sindaco in caso di assenza, è investito della carica per Finanze e Scuole; Bartolini Rodolfo, delegato ai Servizi di Cal-miere, Dazio, Annona, è investito della carica per Stoffe in deposito e Stabili di proprietà comunale; Barzi Dario è delegato per il Comitato delle Miniere; Mori Francesco è investi-to della carica per Farmacia, Nettezza, Nuove costruzioni, Acque pubbliche; Burgassi Duilio è investito della delega per Strade comunali». Torquato Mori (di anni 54; 1869-1936), notaio a Volterra, non fu investito di alcuna delega.
Della Lista fascista – ossia dei 15 eletti nel capoluogo – che includeva 5 reduci dall’avventurosa marcia su Roma (Rodolfo Bartolini, Francesco Mori, Ivo Lenci, Tranquillo Staccioli e Giuseppe Pietro Ceppatelli), facevano parte pure alcuni rappresentanti dell’Ani (Associazione Nazionalista Italiana; 1910-1923).
Si tiene, oggi forse più di allora, ad evidenziare questa distinzione, che tuttavia fu tale solo fino al 26 febbraio 1923, allorché fu deliberato lo scioglimento dell’Ani e l’iscrizione «in blocco d’ufficio» dei suoi associati al Pnf. Unificazione che fu celebrata il 20 aprile, vigilia del Natale di Roma (Erminio FONZO, Storia dell’Associazione Nazionalista Italiana, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2017).

Con le elezioni del 7 gennaio prese quindi avvio il Ventennio montecatinese.
Già nella riunione dell’11 febbraio, l’Amministrazione comunale deliberò di assegnare un sussidio annuo di lire 250 per «far fronte alla pigione del locale ad uso sociale dell’Associazione Nazionale Combattenti e Fascio di Combattimento» (ASCM, 14/B, De-liberazioni Giunta, 1921-1926, Del. n. 9). Nella medesima riunione (Del. n. 18) la Giunta stabilì che in seguito all’adesione alla Federazione dei Comuni fascisti, fosse «Emilio Tassi (di anni 48; 1875-1957) delegato a rappresentare il Comune alla riunione di tutti Comuni Fascisti il 17 p.v. a Pisa».
Furono questi i primi atti che caratterizzarono il 1923 come anno frenetico, intenso di provvedimenti, manifestazioni e riti instaurati per volontà del nuovo regime dei quali tratteremo, semmai, in altra occasione.

Articolo pubblicato su “La Spalletta”, a. XXXVIII, 4 dicembre 2021




Il cardinale Maffi e il fascismo

Quello tra chiesa cattolica e fascismo è un rapporto complesso, che non può essere ridotto a mera strumentalizzazione reciproca, volta al rafforzamento del consenso e alla soluzione della «questione romana». Come ha spiegato Giovanni Miccoli, si trattò di «un’alleanza e un accordo non meramente tattici ma più intimi e sostanziali», basati su «consonanze essenziali» (il culto di valori come ordine, gerarchia, disciplina, autorità, obbedienza) e «nemici comuni» (su tutti, liberalismo e comunismo). Il dato appare con particolare chiarezza nel caso pisano, caratterizzato da una serie di elementi di particolare rilievo: la violenza estrema dello squadrismo, dilaniato da faide intestine e animato da personaggi brutali come Alessandro Carosi; la forza delle sinistre e in particolare del movimento anarchico, che vantava una lunga tradizione di militanza in città; e, non in ultimo, la presenza del cardinale Pietro Maffi, protagonista della vita intra- ed extra-ecclesiale della prima metà del Novecento italiano.

Nato a Corteolona (Pavia) nel 1858, Maffi fu nominato arcivescovo di Pisa nel 1903. Divenuto cardinale nel 1907, promosse lo sviluppo del movimento cattolico e instaurò rapporti cordiali con i Savoia, approfittando della prossimità della residenza reale di San Rossore. Ciò aumentò grandemente il suo prestigio in seno all’episcopato, al punto da sfiorare l’elezione al conclave del 1914. Durante la Prima guerra mondiale Maffi divenne il simbolo dell’unione tra fede e patria nell’Italia grigioverde, esortando i pisani all’obbedienza e contribuendo a contenere il malcontento attraverso iniziative di carattere assistenziale come la ricerca di informazioni sui militari dispersi o prigionieri negli Imperi centrali.

La ripresa della conflittualità politica e sociale dopo la fine del conflitto lo indusse a lanciare un appello alla pacificazione, auspicando un ritorno alla società cristiana; ciò detto, basta sfogliare «Il Messaggero toscano» – il quotidiano da lui fondato nel 1913 – per rendersi conto che, agli occhi del cardinale, il pericolo maggiore era costituito dal socialismo ateo. Non a caso, quando furono i cattolici a subire attacchi e intimidazioni da parte delle camicie nere Maffi tenne un profilo generalmente basso, cercando di calmare gli animi e di trovare un terreno d’intesa con l’aggressore nella celebrazione della memoria “eroica” dei caduti della Prima guerra mondiale: così accadde nel novembre 1921, durante la cerimonia per il Milite ignoto, e nel maggio 1924, con l’inaugurazione del monumento ai caduti nel cortile della Sapienza. I fascisti, però, volevano restare gli unici padroni della scena pubblica e nel gennaio 1925 distrussero la tipografia che stampava i fogli cattolici distribuiti a Pisa, Lucca, Livorno, Pontremoli e La Spezia. Il danno considerevole spinse Maffi a mutare registro, indirizzando prima un telegramma di protesta al ministro dell’Interno («Vescovo ne ho pianto, italiano ne ho arrossito»), poi una lettera pastorale ai pisani. Dedicata al quinto comandamento, essa conteneva frasi durissime contro chi si era macchiato di omicidio nei recenti scontri politici: «Guai alla mano che gronda sangue! Guai ai piedi che urtano in un cadavere! Oh, la dinastia di Caino! Continua puro; ma lo senta che, dove mancano gli uomini, Dio arriva, Dio che ai colpevoli non dà tregua e incessante li persegue e sopra di loro grida e sentenzia: Maledetto, maledetto! Maledetto nel tempo! Maledetto nell’eternità! Maledictus eris!».

Pietro_Maffi_cardinaleDavanti al pericolo di perdere il sostegno di uno dei membri più illustri dell’episcopato, le cose iniziarono a mutare. Complici la fine della faida tra Bruno Santini e Filippo Morghen e l’ascesa di Guido Buffarini Guidi, l’atmosfera andò rasserenandosi e le relazioni tra Chiesa e fascismo entrarono in nuova fase. Nel maggio 1926, lo stesso Mussolini venne in città per assistere all’inaugurazione del restaurato pergamo di Giovanni Pisano nella cattedrale e si lasciò fotografare al fianco del cardinale, quasi a proclamare alla cittadinanza la ritrovata armonia tra le due autorità. L’evento fu un brutto colpo per i fascisti più ostili a Maffi, che dovettero rassegnarsi. Negli anni successivi, nessun incidente turbò i rapporti tra cattolici e camicie nere, che celebrarono insieme la memoria “eroica” del 1915-1918. Ad esempio, nel novembre 1928 il decennale della vittoria fu celebrato in duomo all’insegna della continuità tra guerra mondiale e fascismo: Buffarini lesse il bollettino della vittoria, l’ex cappellano militare Ezio Barbieri celebrò la messa e Maffi benedisse il tumulo imbandierato e circondato da soldati e fascisti; tutti intonarono infine la Marcia reale, l’Inno del Piave e Giovinezza.

Come si vede, alla vigilia della conciliazione il cardinale non esitò a legittimare il regime che si voleva erede di Vittorio Veneto; il culto dei caduti, tuttavia, fu solo l’aspetto più evidente di una convergenza profonda che, come attesta il bollettino diocesano, si manifestò nell’approvazione delle misure varate dal governo per l’incremento della natalità, del numero delle questure sul territorio e, soprattutto, della produzione cerealicola, funzionale al ritorno alla vita “devota” dei campi.

Per quanto importanti, questi elementi impallidiscono di fronte a quello che, a buon diritto, può essere considerato il sogno di una vita: la conciliazione tra Stato e Chiesa del febbraio 1929, che segnò la fine dell’annosa «questione romana» e il culmine della parabola politico-religiosa di Maffi. Pur non avendo avuto parte attiva nei negoziati, egli volle manifestare la propria soddisfazione con tre lettere di ringraziamento dirette al papa Pio XI, al re Vittorio Emanuele III e al dittatore che «con mano sicura e forte» teneva le redini del Paese. Non si trattava di sentimenti affettati: nel comunicare la notizia al clero diocesano, infatti, il presule annunciò con toni trionfali la fine della vecchia Italia dominata da «massoneria, liberalismo, scuole atee e corruzione».

Gli ultimi anni furono ricchi di soddisfazioni per Maffi, chiamato a Roma nel gennaio 1930 per celebrare il matrimonio tra il principe ereditario Umberto e Maria José del Belgio a Roma. Nella circostanza, egli fu insignito del collare dell’Annunziata, che gli dava il titolo di cugino del re.

La morte lo colse nel marzo 1931, mentre la crisi tra regime e Azione cattolica entrava nella fase più acuta. A riprova delle tensioni mai del tutto sopite, il necrologio de «L’Idea fascista» (organo del fascio pisano) precisò che, al di là dei meriti innegabili acquisiti nel corso della sua carriera, lo scomparso non aveva compreso né apprezzato fin da subito l’importanza del fascismo. I detrattori, però, dovettero mordere il freno davanti alla solennità dei funerali che, oltre alla partecipazione di undici vescovi e del maresciallo d’Italia Guglielmo Pecori Giraldi, ebbero l’adesione del re, del segretario di Stato vaticano Eugenio Pacelli e di Mussolini. Quest’ultimo plaudì in un telegramma all’«illustre cardinale Maffi che durante vita operosa seppe armonizzare religione, patria, scienza» e si fece rappresentare al rito dal sottosegretario di Stato al ministero di Giustizia e affari di culto Giuseppe Morelli. La resa dei conti, però, era solo rimandata. Ancora in ottobre, quando la tempesta sembrava ormai alle spalle, «L’Idea fascista» tornò ad accusare lo scomparso di antifascismo.

La presenza di una figura del calibro di Maffi, decisamente inusuale per una diocesi periferica e dalle dimensioni modeste come quella pisana, contribuì a dare agli eventi locali una risonanza notevole non solo nella penisola ma anche all’estero, facendo della Pisa degli anni Venti una sorta di osservatorio da cui scrutare i punti di forza e le criticità della politica ecclesiastica del fascismo. Soprattutto, la vicenda di Maffi evidenzia un dato cruciale. A dispetto di divergenze, tensioni, moniti, incidenti e intimidazioni, i responsabili ecclesiastici non smisero mai di cercare o, dopo il 1929, di difendere la conciliazione. Le leggi razziali causarono certamente un raffreddamento dei rapporti tra le due autorità, anche perché violavano le disposizioni concordatarie in materia di matrimonio; ciò detto, furono soltanto le sconfitte inanellate dall’esercito nel corso della Seconda guerra mondiale a segnare il distacco definitivo della Chiesa da un regime entrato ormai nella sua fase terminale.




Bagni di Casciana 1922: Gino Bonicoli, morte di un mezzadro

Morire a diciott’anni con una pallottola in testa. Per un fiore rosso portato con orgoglio all’occhiello. O per aver fischiettato Bandiera Rossa passeggiando per le strade del paese.

Piccoli gesti – apparentemente innocui – mossi dagli ideali, che si riveleranno fatali per Gino, perché considerati un affronto da coloro che stanno dalla parte opposta della barricata, resa ogni giorno più forte dall’arroganza che sfocia in violenza, dalla prepotenza che spazza via la ragione, lasciando sul campo una scia infinita di sangue. Date lontane un secolo, luoghi così vicini, scene maledettamente simili. Tanti nomi che oggi rischiano di ridursi a semplici elementi della toponomastica, legati a una via o a una piazza. Persone che hanno pagato con la vita il loro desiderio di libertà, per sé e per gli altri, finendo calpestati dallo squadrismo fascista. Quello di Gino Bonicoli, mezzadro ucciso per la sua fede comunista, non fu soltanto il frutto dell’esaltazione di un gruppetto di ragazzi, che se la presero con un coetaneo. Non fu solo la fredda esecuzione di un giovane che si ribellava alle nuove regole che si facevano strada seminando distruzione e violenza, sopraffazione. Esaltazione accompagnata dal tentativo di annientamento degli avversari politici.

Il libro “Gino Bonicoli. Morte di un mezzadro. Bagni di Casciana, 1° giugno 1922” (Tagete Edizioni, 2015), di Francesco Turchi, giornalista del Tirreno e scrittore per passione, ha l’obiettivo di ripercorrere una vicenda che rischiava di essere cancellata nella Memoria della comunità locale e non solo. L’autore ha ricostruito la vicenda attraverso i documenti originali del tempo, raccolti negli archivi anche al di fuori dei confini regionali; verbali di consigli e giunte, informative prefettizie, sentenze. Ma anche articoli di giornale dell’epoca.

Quell’omicidio per essere compreso va inserito nel contesto storico nel quale maturò. Con un’Italia in ginocchio per le conseguenze della prima guerra mondiale.  Ed è qui che si inserisce il lavoro di Francesco Biasci, autore di una introduzione che prende il lettore per mano e lo porta indietro nel tempo, in un quadro ben definito sul piano economico, sociale e politico.

L’Italia del primo dopoguerra è un paese lacerato, fatto di padroni e di servi che rivendicavano condizioni di vita migliori. In questo contesto, i fascisti, in un crescendo di violenza, prendono possesso dei paesi, fino a dominarli, soffocando qualsiasi opposizione. Minacciando, picchiando. Uccidendo. In tutta la provincia di Pisa come nel resto d’Italia. Con una frequenza terribile. Marzo 1921: a Barca di Noce viene ucciso Enrico Ciampi, fondatore della prima sezione comunista del Pisano. Il 13 aprile la stessa sorte tocca al maestro Carlo Cammeo, direttore del giornale socialista “L’Ora Nostra”, freddato nel cortile della scuola dove insegna a Pisa. Il 17 agosto viene ucciso Silvio Rossi, segretario comunale della giunta di sinistra a Palaia; un mese dopo vengono assassinati a Cascina i socialisti pontederesi Paris Profeti e Guido Bellucci. E ancora, nella primavera successiva, Alvaro Fantozzi, segretario della Camera del lavoro di Pontedera, socialista, assessore, viene ammazzato a Casteldelbosco mentre sta andando a Marti a una riunione sindacale. Il fuoco riduce in cenere sedi di partito e sindacati, i manganelli fanno il resto. E quando non bastano, entrano in scena le armi da fuoco.

Succede anche la sera del 1° giugno 1922 a Bagni di Casciana. Cinque mesi prima della marcia su Roma, Gino è vittima di un agguato mentre sta tornando a casa, nella campagna di Fichino. Non gli sono bastati avvertimenti e ultimatum. Continua a portare quel garofano rosso all’occhiello, ignorando le minacce. L’ha fatto anche la mattina stessa e poi la sera, “sorpreso” in un caffè quando invece gli era stato ordinato di starsene a casa. Nello Menicacagli, mugnaio di 21 anni e i due braccianti di poco più giovani, Alfredo Falchetti e Pietro Fabbri lo affrontano con una pistola. Menicagli spara, Gino muore. E morirà una seconda volta, poco tempo dopo, in un’aula di tribunale, quando al termine di un processo-farsa, gli imputati difesi dall’avvocato Guido Buffarini Guidi (sindaco di Pisa e poi podestà tra il 1923 e il 1933, futuro ministro della Repubblica sociale di Mussolini), ottengono l’assoluzione: «Hanno agito per legittima difesa», minacciati da Bonicoli. Che in realtà non ha mai avuto una pistola in vita sua, tanto meno quella sera maledetta. Ucciso due volte, umiliato una terza. Perché i suoi genitori fecero scrivere sulla lapide “vilmente assassinato mentre rincasava“. Nessun riferimento esplicito a mandanti (la cui esistenza non può essere esclusa ma non è mai stata provata) o esecutori. Ma tanto bastò per “invitare” i familiari a rimuoverla. Mamma Anna Maria, non obbedì, ma ordinò al marmista di girare la lapide. Per capovolgerla di nuovo e iniziare a riscrivere la verità, serviranno ventitré anni.

il cippo in memoria di G. BonicoliDopo la Liberazione e la fine dell’occupazione tedesca, i cascianesi rendono omaggio a Gino e poco dopo la Corte di Cassazione cancella il processo del 1922. Dodici mesi più tardi, il 19 giugno 1946 la Corte d’Assise di Pisa ristabilisce la verità su tutta la vicenda, condannando Alfredo Falchetti, l’unico rimasto in vita dei tre che tesero l’agguato a Bonicoli.

Ricordato, in questi giorni, nel centenario della sua morte,  con una serie di iniziative promosse dall’Amministrazione Comunale di Casciana Terme Lari, dalla sezione “Gino Bonicoli” dell’ANPI Valdera Colline, dal Circolo ARCI di Casciana Terme “Il proletario”, con la speranza che la Memoria non cancelli il suo sacrificio per la libertà.

Sono intervenuti alla commemorazione istituzionale di sabato 28 maggio il Sindaco di Casciana Terme Lari Mirko Terreni, il presidente nazionale Anpi Gianfranco Pagliarulo, Ivan Mencacci presidente della sezione Anpi Valdera Colline “Gino Bonicoli”, il responsabile Memoria e Antifascismo Arci Toscana Stefano Carmassi, l’Assessora Regionale alla Cultura della Memoria Alessandra Nardini. Con la partecipazione e i contributi degli alunni della scuola media di Casciana Terme, accompagnati dalla Dirigente Scolastica Maria Rosaria Pizza.

Nel programma altre due  iniziative: il concerto del 1° giugno del Gruppo Musicale “La serpe d’oro”, e il 3 giugno una serata di musica e parole a cura di Guascone Teatro con la regia di Andrea Kaemmerle e la partecipazione del prof. Roberto Bianchi dell’Università di Firenze.




1922-2022. L’affaire Comaschi.

Il 19 marzo 1922 Comasco Comaschi, anarchico cascinese e maestro ebanista, viene fermato sul Fosso Vecchio mentre è in calesse di ritorno insieme a tre compagni da una riunione a Marciana e viene ucciso con armi da fuoco in un agguato fascista.

Comasco Comaschi era nato a Cascina il 27 ottobre 1895 da Ippolito e Virginia Bacciardi. Comasco nella sua formazione politico-sociale è influenzato dal contesto cittadino, dove l’economia si basa sulla presenza di piccoli artigiani del legno e l’associazionismo operaio si è rivelato vivace e attivo sin dall’Unità d’Italia, e dal padre, che milita nel movimento anarchico fin dagli anni ottanta dell’800. Comaschi è dunque tra i promotori della locale sezione della Pubblica Assistenza e stimato insegnante alla Scuola d’arte di Cascina. Sotto la sua guida il gruppo anarchico di Cascina è molto attivo e organizza anche un gruppo di Arditi del popolo.

L’assassinio di Comaschi è l’ultimo di una lunga serie di uccisioni politiche perpetrate dai fascisti locali, come quella del comunista Enrico Ciampi, o del giovane Archimede Bartoli, o ancora dei socialisti Paris Profeti e Corrado Bellucci.

 1922. Il processo fascista

La vicenda giudiziaria si apre all’indomani dell’uccisione di Comasco Comaschi, quando vengono immediatamente fermati i presunti responsabili dell’assassinio, ma si chiuderà definitivamente solo nel 1951.

Il giorno successivo all’uccisione di Comaschi infatti i Carabinieri di Cascina iniziano le indagini e arrestano i presunti responsabili dell’omicidio: Pilade Damiani, Giovanni Barontini, Orfeo Gabriellini, Vasco Paoletti, Gaetano Diodati, Antonio e Italiano Casarosa, Francesco Del Seppia e Arturo Masoni. Tutti negano la propria responsabilità nell’omicidio, provvedendo a fornire prove di alibi. Anche alcuni testimoni non hanno il coraggio di denunciarli, per timori di ritorsioni e rappresaglie, così tra il 20 marzo e l’11 luglio tutti gli accusati vengono scarcerati per ins ufficienza di prove. Responsabile del celere insabbiamento del processo anche il comandante dei Carabinieri di Cascina, Frullini, vicino agli ambienti fascisti.

Successivamente anche il procuratore generale di Lucca, nella sua requisitoria del 23 ottobre 1922, chiede che l’istruttoria sia chiusa per insufficienza di prove. Emblematico che questa prima fase della vicenda giudiziaria sull’omicidio Comaschi si chiuda proprio nei giorni a cavallo della marcia su Roma. Se la requisitoria del procuratore generale è infatti del 23 ottobre, l’8 novembre giunge la sentenza. Il giudice conferma infatti non doversi procedere per insufficienza di prove.

1945. La riapertura delle indagini

L’affaire Comaschi sembra essersi concluso, senza giustizia. Passa il ventennio, giunge la guerra, ma il processo è destinato a riaprirsi il 17 marzo 1945.

Cascina è stata liberata il 4 settembre 1944, ma ancora il suolo italiano è diviso e occupato dagli eserciti stranieri. Il 17 marzo Vasco Comaschi denuncia nuovamente ai Carabinieri di Cascina i responsabili dell’assassinio del fratello, elencando tutte le vicende delittuose che dal 1921 al 1944 li hanno visti protagonisti.

Nella stessa giornata quindi i denunciati vengono reperiti, fermati e portati alle carceri di Pisa, anche per salvaguardare la loro incolumità, dato che il lunedì successivo, ricorrendo l’uccisione del Comaschi Comasco, vi sarebbe stato in Cascina un corteo commemorativo e quindi qualche elemento, definito irresponsabile, avrebbe potuto compiere atti di vendetta.

10 maggio 1945. La resa dei conti

Mentre si riaprono le indagini e si svolgono dunque interrogatori e testimonianze, il 10 maggio 1945 rientra dal Nord, dove si era trasferito in seguito all’istituzione della Repubblica di Salò, facendo parte della GNR di Malorno (Brescia), Orfeo Gabriellini, ritenuto il capo della squadra d’azione che aveva ucciso Comaschi.

Il maresciallo Adolfo Mascolo, segnala di essere intervenuto sul Corso Vittorio Emanuele dopo aver notato in lontananza un individuo che perdeva sangue dalla testa ed accompagnato da molta gente che lo offendeva con parole e pugni, conducendo quindi il Gabriellini in caserma, al cui esterno si era radunata una moltitudine di persone che volevano fare giustizia sommaria. Il Gabriellini, dopo aver confessato la propria responsabilità in merito all’uccisione di Comaschi, veniva tradotto nelle carceri di Pisa.

Negli stessi giorni sempre sul corso Vittorio Emanuele era stata tosata anche la direttrice della scuola elementare da un gruppo di donne e uomini di Cascina.

Si riapre quindi il processo, ma le indagini si concludono nel 1946. Il processo del dopoguerra si apre all’insegna della lentezza, dei cavilli trovati per rinviare il processo, mostrando quindi la debolezza della macchina giudiziaria. Nel 1946 infatti siamo oltre la fase dell’epurazione e dei conti col fascismo dell’immediato dopoguerra. C’è già stata la famosa amnistia Togliatti (decreto presidenziale n. 4 del 22 giugno 1946), con la quale il guardasigilli ricorda che c’è ormai una volontà e una necessità di pacificare il paese e di tornare ad una normalizzazione, di lasciarsi indietro i rancori e le divisioni prodotte da vent’anni di fascismo e dalla guerra.

 1946-1947. l’istruttoria e il processo a Pisa

Dopo aver raccolto nuove indagini, il 17 febbraio avrebbe dovuto svolgersi il dibattimento presso la Corte di Pisa.

Gli avvocati difensori, tra cui Mario Gattai, presentano però alcune presunte lettere anonime di minaccia, sostengono che lo svolgimento del processo a Pisa avrebbe potuto provocare gravi disordini, visto che a Pisa, dove il fascismo aveva lasciato impronte indelebili di violenze e delitti, la popolazione è talmente sovraeccitata che basterebbe un nonnulla per far nascere i più impensati e gravi incidenti, specialmente quando vi si celebrasse il processo per l’uccisione di Comasco Comaschi, che fece allora grande scalpore nella zona della piana di Pisa.

Nonostante l’esito delle indagini circa la lettera anonima da parte del brigadiere Luigi Girasoli dei Carabinieri di Cascina del 10/2/1947, ritenga che la minaccia diretta all’avvocato Gattai possa essere un’astuzia adoperata dagli anonimi allo scopo di trasferire il processo dalla parte politica opposta, il processo viene comunque trasferito a Firenze per legittima suspicione dalla Corte suprema di Cassazione con ordinanza del 13 febbraio 1947.

1946-1948. Il processo di Firenze

Dopo una prima udienza del 16 maggio 1947, in cui la Corte di Firenze ritieen la improcedibilità nei rapporti del Gabriellini del Damiani Pilade e del Casarosa, la sentenza presso la Corte di Firenze venne pronunciata il 7 luglio 1948, quando Gabriellini, Damiani e Bertelli vengono ritenuti colpevoli. Gabriellini, che nel mentre si era reso latitante, è condannato a 21 anni, Bertelli a 6 anni e 3 mesi e Damiani a 12 anni e 6 mesi. I condannati beneficiano di larghi sconti di pena grazie all’amnistia Togliati e all’indulto del 1948, e vengono quindi condonati 14 anni al Gabriellini e l’intera pena del Bertelli.

Vengono invece assolti Casarosa Antonio, per non aver commesso il fatto, e Damiani Oreste per insufficienza di prove.

 1949-1950. Rinvio alla corte di Perugia

Dopo un altro ricorso in Cassazione da parte dei condannati, l’8 febbraio del 1949 il processo viene rinviato dalla Cassazione al giudizio della Corte di assise di Perugia.

Il 21 dicembre del 1949 intanto Orfeo Gabriellini veniva reperito e arrestato a Fiesole, presso il convento di San Francesco dove era stato assunto come personale di fatica.

Quindi la Corte di Perugia sostanzialmente conferma le pene comminate precedentemente, quindi a 14 anni di reclusione Gabriellini, 4 anni e 2 mesi di reclusione per il Bertelli, 8 anni e 4 mesi per il Damiani. Anche in questo caso gli imputati beneficiano di ulteriori sconti di pena e il 16 maggio 1950 Damiani e Gabriellini, gli unici ancora in carcere per l’uccisione di Comasco Comaschi vengono scarcerati.

 La memoria di Comasco Comaschi

 Si conclude così dopo 30 anni l’affaire Comaschi, ma la memoria di Comasco invece resta viva nella comunità cascinese.

Già a partire dal giorno del funerale c’erano stati momenti di grande partecipazione pubblica in ricordo di Comaschi,.

Umanità nuova il 26/3/1922, descrive sulle sue pagine la manifestazione di cordoglio a Cascina, quando la cittadina era tutta parata in rosso e nero, il corteo funebre aveva attraversato le vie seguita da enorme folla, commossa e piangente, che gettava fiori sul carro funebre, coperto da oltre 60 corone. Tutti i lavoratori, i contadini, senza nessun ordine, spontaneamente avevano abbandonato il lavoro, tutti i negozi, perfino le farmacie, erano rimasti chiusi.

Il 9 novembre 1945 la giunta deliberò di nominare la circonvallazione del paese all’anarchico cascinese. Molte iniziative di commemorazione si tennero per gli anniversari dell’uccisione tra il 1945 e il 1950.

Il momento culminante della memoria pubblica fu la giornata di scopertura del busto in bronzo realizzata dallo scultore Francesco Morelli domenica 19 marzo 1961, nella piazza della Mostra artigiana, alla presenza di una grande folla. Presero la parola il sindaco, Alfonso Failla e Remo Scappini. Il primo rievocò le gesta criminali degli squadristi; Scappini ricordò anche la lotta dei partigiani per abbattere la dittatura. Entrambi gli oratori esortarono ad agire compatti, per evitare il risorgere del fascismo. Per espresso desiderio di Gusmano Mariani, che insieme a Pilade Caiani levò a Cascina la protesta anarchica l’indomani dell’assassinio di Comaschi, Aristide Galli depose un memore fiore rosso alla base del busto.

Infine alcune iniziative più recenti hanno coinvolto i più giovani e le scuole, come per esempio gli spettacoli teatrali a cura dell’istituto Pesenti e il gruppo TeatroInBiliko, del 2003 e del 2012, La notte di Comasco e Comasco.

Nel 2014 in occasione del 70° anniversario della Liberazione della Toscana e di Cascina, il Comune di Cascina, l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Lucca (ISREC) e l’Istituto di Istruzione Superiore “Antonio Pesenti” di Cascina hanno promosso I Sentieri della Libertà e delle Resistenze, che si snodano attraverso i luoghi in cui vennero uccisi gli antifascisti cascinesi, come Comasco Comaschi, e proseguono attraverso quei siti che testimoniano il passaggio della guerra e la presenza degli eserciti stranieri: quelli in cui i soldati nazisti perpetrarono stragi civili, oppure i luoghi simbolo delle distruzioni provocate dai bombardamenti Alleati e tedeschi.

Ancora oggi a cento anni dalla sua morte dunque la memoria di Comaschi è ancora viva, come ha dimostrato la gremita sala della gipsoteca comunale, che ha testimoniato come il miglior testamento che possiamo raccogliere dall’anarchico cascinese è quello di portare avanti i valori dell’umanità, la solidarietà, la fratellanza tra i popoli, opponendoli alla violenza, alla sopraffazione, alla guerra e diffonderli anche e soprattutto nelle nuove generazioni.




Franco Serantini cinquant’anni di memoria contro l’ingiustizia

Sono passati cinquanta anni da quel maggio del 1972 in cui Franco Serantini perse la vita. Morì due mesi prima dal compimento dei 21 anni. Viveva da semi-recluso nel Collegio Thouar di Piazza San Silvestro a Pisa, orfano ospite di una struttura semi-carceraria: una volta raggiunta la maggiore età avrebbe potuto finalmente lasciare il riformatorio per andare a vivere da solo (poco più tardi, nel 1975, il Parlamento avrebbe abbassato ai 18 la soglia per diventare maggiorenni). Oggi Franco di anni ne avrebbe avuti poco più di 70 e probabilmente si starebbe godendo la pensione, dopo una vita di lavoro. Impiegato per la IBM, questa era la sua idea: aveva imparato a preparare le schede perforate, in un’epoca in cui i personal computer non esistevano e l’automazione informatica si faceva strada attraverso dei biglietti di carta pieni di buchi.
Purtroppo il suo progetto non si realizzò mai, il percorso immaginato verso la libertà e l’autonomia si chiuse per sempre il 5 maggio di cinquanta anni fa. Quel pomeriggio, dopo essere stato alla sede della IBM dove faceva l’apprendistato, Serantini andò in strada per partecipare a una manifestazione, una delle tante di quegli anni finite con scontri, arresti e cariche della polizia. Come migliaia e migliaia di ragazzi e ragazze di quegli anni, sentiva che senza una dimensione collettiva, senza una ricaduta politica, non aveva senso la riuscita individuale. Le ingiustizie che aveva subito fino ad allora non erano state poche: Corrado Stajano avrebbe scritto che la sua era una storia ottocentesca, «ai limiti dell’invenzione settaria, priva di ogni luce, colma soltanto di miseria, di violenza, d’ingiustizia». Sardo “figlio di N.N.”, adottato da una coppia di siciliani, divenne anche orfano dopo la morte della madre adottiva. Riconsegnato alle strutture dello Stato, venne mandato a Pisa, dove maturò una forte sensibilità politica e dove in un’altra struttura dello Stato in cui non era mai stato prima trovò la morte.
Serantini tessera_ridottaIl tardo pomeriggio del 5 maggio 1972 fu picchiato con i manganelli, i calci di fucile, gli scarponi dei poliziotti della celere di Roma, mandati a Pisa per garantire che i comizi della campagna elettorale si svolgessero senza interruzioni. In una carica sul Lungarno Gambacorti, nella sponda meridionale del fiume, a pochi metri da quella che oggi è l’entrata di Palazzo Blu, luogo di esposizioni, Franco Serantini fu massacrato, poi caricato su una camionetta e portato in caserma, quindi al carcere Don Bosco. Qui fu interrogato da un giudice e passò la visita dal medico penitenziario, ma non ricevette le cure che il suo stato di salute avrebbe preteso. La vicenda di queste ultime drammatiche ore si può sovrapporre a quella vissuta decine di anni più tardi da Stefano Cucchi, ragioniere romano ucciso mentre era in stato di fermo di polizia nell’ottobre 2009. Le violenze esercitate dalle forze dell’ordine sui corpi di Franco Serantini e Stefano Cucchi sono diventate invisibili agli occhi dei funzionari statali che erano incaricati della loro custodia: medici e giudici si sono fatti ciechi di fronte agli ematomi e alle disfunzioni fisiologiche. Ma purtroppo le ferite non si riassorbirono da sole e i corpi delle vittime dei pestaggi cessarono di funzionare. Serantini morì all’alba del 7 maggio 1972, dopo un giorno e mezzo di agonia.

Cinquanta anni più tardi la vicenda processuale di Stefano Cucchi è arrivata alla giustizia: due carabinieri sono stati riconosciuti colpevoli in via definitiva lo scorso 4 aprile. Lo Stato è riuscito a processare se stesso in nome della trasparenza e della rettitudine. Per Serantini invece la vicenda si concluse con un nulla di fatto. Una battaglia civile determinata e intelligente riuscì a riconoscere le cause della morte, la realtà del linciaggio venne acclarata dai 55 rilievi eseguiti sul cadavere, ma non venne istituito nessun processo. Le indagini si chiusero con un non luogo a procedere per impossibilità di individuare i colpevoli, protetti dall’omertà dei corpi di polizia.

La memoria invece, al contrario delle indagini, non si è mai smarrita né fermata. Le modalità con cui le strutture carcerarie avevano tentato di occultare le ragioni del decesso avevano portato la città farsi carico della tutela post mortem di Serantini. Un funzionario del Comune di Pisa impedì il tentativo di seppellire il corpo senza un’autopsia. Esponenti antifascisti locali riuscirono a costituirsi parte civile per scoprire la verità. Il funerale di Serantini vide una intera città abbracciare quell’orfano che aveva perso la vita prima di trovarla pienamente. La memoria di quella morte aveva quindi da subito superato l’ambito personale di chi aveva conosciuto direttamente Serantini, e quello politico di chi militava nelle formazioni politiche a cui Serantini aveva aderito, in primo luogo il movimento anarchico, ma anche la formazione extraparlamentare di Lotta Continua a cui in precedenza aveva militato.
La memoria civile superò i confini locali e divenne un patrimonio diffuso nel paese grazie a un libro. Fu proprio lo sdegno suscitato dall’esito della vicenda giudiziaria nel 1975, a spingere Corrado Stajano – allora giornalista 45enne con alle spalle un libro e alcuni documentari con Ermanno Olmi – a dedicare un’inchiesta sulla figura di Franco Serantini. Il libro che ne risultò, Il sovversivo. Vita e morte dell’anarchico Serantini edito da Einaudi, divenne un best seller, arrivando a vendere diverse decine di migliaia di copie. A Torino una scuola media venne intitolata a suo nome, a Pisa una biblioteca, oggi diventata istituto per la storia della resistenza all’interno della Rete Parri, e una casa editrice.
Queste memorie continuano a essere attive oggi, a cinquanta anni dai fatti. Ma ancora vivono le memorie di chi per ultimo incontrò Serantini in salute, dei celerini suoi coetanei che in quel maggio 1972 «gli cercarono l’anima a forza di botte», come recitava una canzone di Fabrizio De André uscita pochi mesi prima, alla fine del 1971. Memorie mute, che non hanno mai parlato né rivelato ciò che successe sul Lungarno Gambacorti, protette dall’omertà dei corpi dello Stato.
Negli scorsi giorni, intanto, è stata resa pubblica una lettera aperta con la richiesta di una parziale giustizia, di dare il nome di Serantini alla piazza dove aveva trascorso gli ultimi anni di vita. In Piazza San Silvestro gli amici e i compagni di Franco, insieme a gran parte della città, lo avevano voluto ricordare con una targa sull’edificio dell’ex collegio Pietro Thouar posta nel 1972 e con un monumento di marmo inaugurato nel 1982. Da allora per la città di Pisa, quella è Piazza Serantini. La lettera è firmata da personalità autorevoli come Gian Mario Cazzaniga, Maria Valeria Della Mea, Ezio Menzione, Ilaria Pavan, Adriano Prosperi e Corrado Stajano, e chiede che anche le istituzioni riconoscano alla piazza il nome di Serantini. Intanto la città ricorderà la sua storia la prima settimana di maggio, grazie a tre iniziative organizzate dalla Biblioteca Franco Serantini. Il 3 maggio verrà proiettato il documentario di Giacomo Verde S’era tutti sovversivi; il 5 maggio sarà presentato il libro Cinquant’anni di memoria contro l’ingiustizia, il 7 maggio si terrà un presidio mobile da Piazza Venti Settembre per celebrare in strada la memoria di Serantini. Nella convinzione che la sua storia meriti di rimanere evidente nel corpo della città, attraverso un atto di giustizia simbolica, in mancanza di quella giudiziaria.




2 aprile 1922. L’assassinio di Alvaro Fantozzi, segretario della camera del lavoro di Pontedera

L’omicidio di Alvaro Fantozzi è uno degli episodi chiave della violenza fascista nella provincia pisana, sia per la modalità dell’esecuzione, sia per il ruolo pubblico ricoperto dalla vittima.

Fantozzi dal 1° gennaio 1920 è segretario della Camera del Lavoro di Pontedera ed è un attivo e riconosciuto leader locale del Partito socialista italiano.

L’eliminazione fisica del nemico è la via principale di affermazione del fascismo, lo aveva ben capito «L’Ora nostra», il periodico della federazione socialista pisana, quando appena un anno prima, a seguito dell’omicidio del suo segretario, Carlo Cammeo, aveva scritto: «Mai in tanti anni, dal nostro risorgimento alle lotte operaie odierne, si è ucciso così impunemente»1.

Poco più di un mese prima dell’omicidio di Carlo Cammeo, il 4 marzo del 1921, i fascisti avevano ucciso nel cascinese Enrico Ciampi il segretario della prima sezione comunista della provincia di Pisa, quella di Barca di Noce; pochi giorni prima dell’omicidio di Fantozzi, il 19 marzo 1922, l’anarchico cascinese Comasco Comaschi, maestro ebanista e leader degli Arditi del popolo della zona, mentre è di ritorno insieme a tre compagni da una riunione a Marciana, viene ucciso in un agguato fascista.

Questi episodi, senza dimenticare le altre violente aggressioni in tutta la provincia di cui saranno protagonisti gli squadristi capitanati da Bruno Santini, ci aiutano a comprendere come il fascismo in questi territori si caratterizza appieno come reazione di classe. Tutti gli obiettivi colpiti con una logica tipicamente militare rappresentano le forze politiche che sono state protagoniste, nel bene e nel male, delle lotte sociali e sindacali che hanno attraversato la provincia di Pisa durante il Biennio rosso: Ciampi è il segretario della prima sezione comunista; Cammeo è il segretario provinciale del PSI e direttore de «L’Ora nostra», il giornale che ha smascherato le bugie fasciste sulla morte dello squadrista Tito Menichetti; Comaschi è il leader di un attivo circolo anarchico a cui fanno capo i libertari del piano pisano, ardito del popolo e fondatore della Pubblica assistenza; Fantozzi è un sindacalista, conosciuto e stimato, che organizza in Valdera le lotte operaie e bracciantili.

La Valdera nel biennio rosso è attraversata da aspre lotte di rivendicazioni salariali e contrattuali2, sia operaie che contadine3, «L’Ora nostra», grazie ai propri corrispondenti locali, ne riporta notizie settimanali nella rubrica «Cronaca rossa della Provincia». A Pontedera e in Valdera, tra la classe lavoratrice, si respira una forte influenza socialista, l’attività è quotidiana, il movimento operaio è in fermento e guarda al proprio futuro tanto che, nel gennaio del 1920, si propone la costruzione della Casa del Popolo4.

La Valdera è anche la zona che vede i maggiori progressi delle leghe «bianche» che hanno i loro punti di forza tra i piccoli proprietari e i mezzadri. Un rafforzamento, quello delle leghe cattoliche, che coincide con l’avanzata del Partito popolare e con la costituzione della Confederazione Italiana del Lavoro (CIL) che proprio a Pisa, nel marzo del 1920, tiene il primo congresso nazionale5. L’assise si chiude con una relazione finale tenuta da Giulio Alvi, segretario generale dell’Unione del lavoro di Pisa e del pontederese Giovanni Gronchi all’epoca deputato, attivo organizzatore del Partito popolare a Pontedera e in Valdera che, nell’occasione, diventa il segretario generale nazionale della CIL.

In questo clima, tra le fila del Partito socialista e della direzione della Camera del lavoro confederale, emerge la figura di Alvaro Fantozzi.

Alvaro nasce a Pontedera il 16 novembre 1893, da Filippo e Isola Orsini, di professione pastaio.

I «sovversivi», nelle carte di polizia, come è noto, sono descritti come persone di basso profilo morale. I cenni biografici dedicano particolare attenzione alla descrizione della moralità dell’individuo e spesso si spingono ad esprimere giudizi definitivi e inappellabili. Anche Alvaro Fantozzi non sfugge a questa regola: «uomo esile, trasandato nell’abbigliamento, di colorito pallido e con una folta capigliatura» così viene descritto in un documento della Prefettura di Pisa del 12 gennaio 1922 nel quale si sottolinea che «gode nell’opinione pubblica di mediocre fama che non ha voglia di lavorare e si ingegna a fare il segretario della Camera del lavoro […] da vigilarsi insistentemente perché si approfitta ove vede debolezza da parte dell’Autorità e potrebbe divenire un sovversivo pericolosissimo».

A FIl 1920 è l’anno della sua consacrazione nel panorama politico e sindacale della Valdera, il 1° gennaio diventa segretario della Camera del lavoro di Pontedera e il 17 ottobre viene eletto consigliere comunale nelle file del PSI, contribuendo attivamente alla vittoria grazie anche ai suoi comizi tenuti in città e nelle borgate. La tornata elettorale è segnata da un altissimo tasso di astensione6 e vede una vittoria schiacciante dei socialisti che, ne riporta notizia con tono mesto «Il Ponte di Pisa», «hanno occupato tutti i seggi provinciali del mandamento; ed hanno vinto nel Comune capo-luogo e negli altri»7.

La festa per la conquista del Comune Pontedera è saluta da una folla di diecimila persone e nell’occasione viene issata su Palazzo Stefanelli, sede del Municipio, la bandiera rossa8.

Il ventisettenne Alvaro Fantozzi, nella prima seduta del Consiglio Comunale, che si tiene il 30 ottobre, viene nominato assessore con delega alla cultura e all’assistenza sociale; prima che si sciolga l’adunanza chiede la parola, come riportato nel verbale della stessa seduta, per «rivolgere il pensiero alla Russia dei Soviet dalla quale viene ora la luce». Nello stesso intervento il neo assessore affronta temi di carattere politico e sindacale e «fa rilevare l’impossibilità di prescindere dalla lotta di classe per giungere al crollo della società borghese ed al trionfo della società del popolo»9.

La sua formazione politica è di stampo massimalista, vicina alle posizioni maggioritarie della federazione pisana del PSI, in linea con quella degli altri dirigenti della Camera del lavoro confederale come Amulio Stizzi, Giulio Guelfi, Giuseppe Mingrino, Paris Panicucci, Carlo Cammeo, Paride Pagliai e Giuseppe Ciucci. È infatti questo il blocco di dirigenti che, presente su tutte le vertenze operaie, bracciantili e contadine della provincia pisana nel biennio rosso, orienta la linea politica e l’indirizzo sindacale della Camera del lavoro. Una Camera del lavoro importante, quella della provincia pisana, che al congresso del luglio 1920, registra oltre 33.000 iscritti10.

Fantozzi svolge quotidianamente il proprio impegno di militante socialista, di assessore comunale e di dirigente sindacale ed in questo ruolo, dotato di particolari capacità relazionali e organizzative, riesce a istituire 33 nuove leghe con una straordinaria adesione di iscritti11. La vita politica di Fantozzi, per quanto ricostruibile sulla base della documentazione reperibile, è principalmente dedicata all’organizzazione delle lotte sindacali, ma non manca la sua attenzione alla puntuale denuncia delle violenze fasciste.

Il 13 dicembre 1920 interviene durante una manifestazione di lavoratori, che si raduna in un cinema di Pontedera, per protestare contro il progetto del governo di aumento del costo del pane e contro le provocazioni fasciste che in quei giorni, a Pisa, impediscono l’insediamento del Consiglio provinciale. Durante l’iniziativa l’assemblea approva un ordine del giorno che viene inviato al gruppo parlamentare socialista nel quale si dichiara che, se il governo non ritira il provvedimento sull’aumento del costo pane, «il proletariato è pronto a qualsiasi azione»12.

Un mese prima lo stesso tema e la denuncia contro la violenza fascista sono oggetto di un suo intervento nella seduta del consiglio comunale del 14 novembre13. Denuncia che ripete nella successiva riunione consiliare del 27 gennaio 1921 quando afferma che «non saranno certamente gli incendi, le devastazioni […] che ci faranno astenere dalla lotta contro la classe borghese»14.

Per Fantozzi la resistenza al fascismo passa dalla lotta di classe. L’8 gennaio durante l’assise dell’Consiglio generale delle leghe della succursale pontederese della Camera del lavoro confederale, relaziona sulle agitazioni dei lavoranti del legno, degli operai dei surrogati del caffè, dei barrocciai, degli spazzini e dei pastai di Pontedera e Lari e riporta la notizia della risoluzione positiva dello sciopero dei tessili che ha visto l’adesione di 1800 operai15. Nella stessa occasione interviene sulle vertenze dei coloni, dei fiammiferai e dei cordai, che sta seguendo in quelle stesse giornate, e sullo sciopero dei metallurgici e dei braccianti di Montefoscoli e di Peccioli. Questa relazione, oltre a offrire un’idea del clima e del fermento del movimento operaio locale, ci aiuta a inquadrare anche il ruolo del dirigente sindacale e la sua indiscutibile capacità politica ed organizzativa. Fantozzi è un uomo del popolo e un uomo di azione, non scrive su «L’Ora nostra» e non sembra intervenire nel dibattito in corso tra riformisti, massimalisti e comunisti che proprio in quelle settimane si confrontano a Livorno al 17° congresso nazionale. Probabilmente quello che infastidisce i fascisti e i loro finanziatori è la sua capacità di organizzare i lavoratori e fare di loro un argine popolare all’avanzata fascista.

Così, in una sede di un locale Fascio di combattimento o nel salotto di una bella villa sulle colline della Valdera, si giunge alla decisione fatale: l’eliminazione fisica del segretario della Camera del lavoro sembra la strada più breve per gli squadristi per la capitolazione del movimento operaio della Valdera.

Il 2 aprile 1922 Alvaro Fantozzi è atteso a Marti per la riunione della Lega operaia, il suo intervento è stato annunciato dal numero de «L’Ora nostra» del 31 marzo. La mattina parte da Pontedera su un calesse condotto dal vetturino Francesco Mazzei e, come relaziona il Prefetto al Ministro dell’Interno in una nota del 15 aprile, «ai fascisti locali […] e ancor più che ad essi ai proprietari del luogo […] non poteva essere gradito sapere che il Fantozzi cercava di riorganizzare la lega operaia, tenendo all’uopo una conferenza privata socialista»16. Tre uomini lo attendono sulla strada di Marti, precisamente a Castedelbosco, e lo uccidono con vari colpi di pistola. Il Prefetto Malinvero informa immediatamente il Ministro dell’Interno e nel testo del telegramma la vittima, diversamente da come era stata precedentemente descritta nelle carte di polizia, diventa «persona mite e ben voluta»17.

Secondo il Prefetto i tre aggressori sono gli esecutori materiali di «un atto criminoso precedentemente organizzato e voluto da […] agrari e fascisti che in quella regione sono collegati»; vengono immediatamente arrestati tutti i membri del «direttorio locale fascista» e la marchesa Baldovinetti che lo stesso Prefetto definisce «nota incoraggiatrice e sovvenzionatrice dei fascisti locali»18. Per «Il Ponte di Pisa» invece, che dedica al fatto un anonimo trafiletto nella rubrica «Su e giù per la provincia», «non si conoscono neppure le ragioni del delitto»19.

Il 4 aprile si tengono a Pontedera i solenni funerali di Alvaro Fantozzi e, nonostante l’evidente tensione, il Prefetto Malinverno autorizza un concentramento fascista per la stessa giornata20 premurandosi, dopo poche ore, di chiedere al Ministro che siano inviate 50 guardie a rafforzare l’ordine pubblico. Per manifestare il cordoglio per la morte di Fantozzi l’«Alleanza del lavoro» di Pisa pubblica un manifesto a firma della Camera del lavoro confederale, della Camera sindacale e del Sindacato dei ferrovieri nel quale si denuncia la scientifica programmazione delle violenze contro «i nostri migliori uomini»21.

Il trasporto funebre è guardato a vista dalle squadre fasciste che avevano chiesto al Prefetto che dietro il feretro sfilassero solo i parenti della salma22. Al funerale, che parte dalla sede della Camera del lavoro, sono però presenti oltre seimila persone, con una larga rappresentanza delle associazioni e dei partiti di sinistra e più di cinquanta corone che accompagnano la «salma al cimitero dove non fu pronunciato nessun discorso e il corteo si sciolse silenziosamente»23.

Nei giorni successivi il deputato socialista Giuseppe Mingrino, già segretario della Camera del lavoro confederale di Pisa, presenta un’interrogazione parlamentare e il Pretore di Pontedera riceve una lettera anonima che indica come assassini tre fascisti di Santa Croce sull’Arno: Quirino Vanni, Gaetano Duranti e Dino Berti. I tre, oltre ad essere noti per la loro violenza, sono sospettati di aver preso parte, pochi mesi prima, all’omicidio di Mario Susini e Artibano Gronchi, uccisi mentre partecipano, a Capanne di Montopoli, a una riunione della Lega dei fornaciai. Una lettera simile viene recapitata anche al Sindaco di Pontedera Narsete Citi nella quale si descrivono più precisamente i fatti: i tre sospettati «partirono la sera di sabato verso le nove, aspettarono la vettura al ponte di S/Croce, andarono fino a S/Romano e si incamminarono a piedi fino a Castel del Bosco dove andarono a dormire in casa di Fogli Italo residente in S/Croce e la mattina si alzarono e lasciarono i pastrani nella detta casa e s’incamminarono per la via di MARTI aspettando la preda». La lettera, il cui testo oggi è consultabile in una versione trascritta a macchina, termina con questa raccomandazione: «al momento che avete letto […] prego di stracciare questa lettera perché se venisse scoperta noi sarebbemo altre vittime come il povero FANTOZZI».

Le indagini per timore e per probabili intimidazioni nei confronti dei testimoni non portano a condanne.

La violenza fascista spazzerà via ogni forma di resistenza in Valdera. La città di Pontedera, gli ultimi giorni di luglio del 1922, verrà occupata dalle squadre d’azione di Buffarini Guidi e di Scorza, circa duemila fascisti provenienti da varie parti della Toscana bastonano centinaia di operai, devastano le sedi della Camera del lavoro, del PSI, del PCdI e costringono alle dimissioni la Giunta Citi da Palazzo Stefanelli24. La violenza è ampiamente prevedibile tanto che il Presidente del Consiglio dei Ministri, l’on. Luigi Facta, pochissimi giorni prima della caduta del suo primo dicastero, in un telegramma del 27 luglio mette in allarme il Ministro della Guerra, Pietro Lanza di Scalea, sui possibili incidenti di Pontedera, e denuncia l’atteggiamento del Comandante della divisione di Livorno che ha rifiutato, l’invio a Pontedera di cento militari: «Prego E.V. provvedere subito perché comandante predetto invii immediatamente truppa richiesta. Faccio osservare che rifiuto opposto fa ricadere sull’Autorità militare completa responsabilità eventuali dolosi fatti»25.

Dopo la Liberazione il ricordo del sacrificio di Alvaro Fantozzi è stato scolpito nel marmo, su una lapide apposta all’ingresso di Palazzo Stefanelli. Il Comune di Pontedera ha dedicato al suo ricordo una strada. A Casteldelbosco, sul luogo dove venne ucciso, un cippo ricorda il fatto e a lui è stata dedicata la piazza centrale del piccolo borgo di Marti. Nel solco della sua opera una Casa del popolo di Pontedera e la sezione ANPI della Camera del lavoro di Pisa portano oggi il suo nome.

1Non ammazzare, «L’Ora nostra», 15 aprile 1921.
2Per un inquadramento complessivo si v. F. Bertolucci, Alle radici della guerra civile a Pisa e nella provincia, https://www.toscananovecento.it/custom_type/alle-radici-della-guerra-civile-a-pisa-e-nella-provincia.
3Sulle agitazioni delle campagne si v. L’Uomo e la Terra. Lotte contadine nelle campagne pisane, Montepulciano, Editori del Grifo, 1992.
4La sezione socialista pontederese con la Camera del lavoro confederale nominano una commissione per iniziare le procedure e seguire i primi lavori, il presidente è Narsete Citi (futuro sindaco di Pontedera), Leopoldo Belli il segretario e Adolfo Massei il cassiere, mentre i membri della commissione sono Guido Malloggi, Fernando Caciagli, Romolo Silvi e Italo Fiorentini. Cronaca rossa della Provincia. Pontedera. Casa del popolo, «L’Ora nostra», 1° gennaio 1920.
5Cfr. «L’Eco del popolo», settimanale del PPI, 21 marzo 1920.
6Il PSI raggiunge 1.436 voti e l’affluenza dell’intero corpo elettorale è inferiore al 50%. Cfr. R. Cerri, Pontedera tra cronaca e storia. 1859-1922, Bandecchi e Vivaldi, Pontedera, 1982 p. 256.
7Elezioni amministrative in Provincia, «Il Ponte di Pisa», 23-24 ottobre 1920.
8Pontedera. Cronaca rossa della Provincia, «L’Ora nostra», 23 ottobre 1920
9La delibera è pubblicata, per volontà e su iniziativa del «Comitato per le manifestazioni di commemorazione di Alvaro Fantozzi», nel volume Alvaro Fantozzi, Pontedera, Bandecchi e Vivaldi, 1996.
10Il Congresso provinciale della Camera del lavoro confederale, «L’Ora nostra», 31 luglio 1920.
11Intestatari di strade comunali. Biografie, a cura del Comune di Pontedera, Bandecchi e Vivaldi, Pontedera, 2001, p. 40-41.
12Cronaca rossa della provincia. Pontedera. «L’Ora nostra», 24 dicembre 1920.
13Il verbale della seduta in Alvaro Fantozzi, cit.
14Il verbale della seduta in Alvaro Fantozzi, cit.
15Cronaca rossa della provincia. Pontedera. «L’Ora nostra», 14 gennaio 1921.
16Archivio Centrale dello Stato, Affari riservati generali e riservati, Cat. G1, b. 148, fasc. 348.
17Ib.
18Ib.
19Su e giù per la provincia. Da Pontedera, «Il Ponte di Pisa», 9 aprile 1922.
20Alla stazione ferroviaria di Pisa vengono arrestati diversi squadristi livornesi che, con rivoltella in tasca, si stanno dirigendo a Pontedera.
21Il testo del manifesto è riportato nell’articolo Martirologio proletario. Ancora una vittima: Alvaro Fantozzi, «L’Ora nostra», 7 aprile 1922
22M. Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano 1919-1920, Roma, Bonacci, 1980, pp. 221-223.
23Martirologio proletario. Ancora una vittima: Alvaro Fantozzi, «L’Ora nostra», cit.
24L’occupazione fascista di Pontedera, «L’Ora nostra», 8 agosto 1922. V., inoltre, Pontedera, industriosa e civile, in un soffio di ribellione, di fede, di amore, ha cancellato per sempre l’onta del bruto dominio bolscevico. 5000 camicie nere spezzano la tirannia bolscevica, «L’Idea Fascista», 6 agosto 1922.
25Archivio Centrale dello Stato, Affari riservati generali e riservati, Cat. G1, b. 148, fasc. 348.




Le origini del Partito Comunista d’Italia nella provincia pisana.

Domenica 27 febbraio 1921, a Pisa, in una sala della Camera del lavoro confederale, in via Vittorio Emanuele oggi Corso Italia, si tiene il primo congresso della Federazione provinciale pisana del Pcd’I, ne dà annuncio «l’Ordine Nuovo» del 20 febbraio premurandosi di chiarire che le adesioni dei gruppi e delle sezioni in formazione, debbono essere trasmesse al compagno Malvezzi Ruffo, che nella stessa seduta verrà eletto primo segretario provinciale del Partito comunista. L’uomo intorno al quale nasce il Pcd’I nella provincia pisana è però il sindaco di Cecina, Ersilio Ambrogi[1], che è stato uno dei più attivi organizzatori della frazione comunista, tanto che il «Comitato Centrale Provvisorio» lo incarica di costituire la federazione pisana[2], di censire i comunisti di ogni sezione e di raccogliere tutte le deleghe per il congresso[3].

Il Congresso di fondazione del Partito comunista d’Italia si è svolto a Livorno da appena un mese, sono pochi i chilometri che dividono le due città e l’eco di quelle giornate, dell’evento straordinario che si è consumato, è stato vissuto con intensità e passione sotto la città della Torre pendente. Il dibattito ha animato la vita politica delle formazioni di sinistra della città e dell’intera provincia che, ricordiamo, è profondamente diversa da quella che oggi conosciamo[4]. C’è anche una compartecipazione pisana al Congresso di Livorno poco conosciuta, durante quelle giornate, chiuse le sessioni congressuali, arrivano a Pisa i treni speciali carichi dei delegati che, non avendo trovato camere libere a Livorno, rientrano la sera per alloggiare negli alberghi e nelle locande della città; si stima si tratti di una buona metà degli stessi[5].

Il clima di queste giornate, in tutta la provincia, è particolarmente teso. Per ben due volte i fascisti, avvalendosi dell’aiuto di squadre provenienti da tutta la regione, avevano impedito il 4 e 14 dicembre 1920 l’insediamento del nuovo consiglio provinciale eletto alle ultime elezioni amministrative di novembre: l’obiettivo è Ersilio Ambrogi, eletto consigliere provinciale per il mandamento di Cecina e destinato alla carica di presidente della Giunta provinciale a maggioranza socialista[6].

Nella stessa giornata della fondazione della federazione comunista pisana, a Firenze i fascisti uccidono il sindacalista comunista Spartaco Lavagnini, un episodio che scatena la reazione delle forze di sinistra con la proclamazione dello sciopero generale. Nei giorni successivi all’episodio si registrano gravi scontri armati tra fascisti, forze dell’ordine e antifascisti[7].

Nel contempo la vita in città scorre apparentemente tranquilla, la stampa borghese pisana è infatti concentrata su altre notizie: ai Bagni di San Giuliano Terme apre la nuova filiale del Banco d’Italia; a Pisa c’è chi si allieta con i concerti musicali del Circolo degli ufficiali dove si balla fino alle 4 del mattino e dove tutto il mondo elegante […] si distrae e si diverte[8] e c’è anche chi trova il tempo di ammirare la nuova preziosa cristalleria appena aperta in via Vittorio Emanuele.

Tutto ciò mentre le tensioni sociali toccano le punte più alte con lo sciopero degli spazzini, un fatto che infastidisce la buona borghesia pisana, profondamente irritata nel vedere la propria città abbandonata nel sudiciume[9]. C’è però un altro fatto che irrompe sulla scena politica locale: la comparsa del fascismo nella provincia pisana è fulminea e violenta. Dal marzo del 1920 al febbraio del 1921 i locali fasci di combattimento si costituiscono pian piano in tutta provincia: prima a Pisa poi San Miniato e a Ponte a Egola[10], nel gennaio del 1921 a Volterra[11] e di seguito in ogni comune e in ogni borgata. Nei primi mesi del 1921 le squadre fasciste organizzate danno inizio ad una sistematica azione di devastazione con aggressioni nei confronti di militanti della sinistra, incendio di sezioni di partiti, di associazioni e camere del lavoro.

La fondazione del Partito comunista si inserisce in questo duro contesto aggravato dagli effetti della crisi economica e sociale succedutasi alla fine della guerra: l’aumento della disoccupazione e della povertà affliggono le classi subalterne, inoltre migliaia di militari traumatizzati fisicamente e psicologicamente dalla guerra chiedono con insistenza il rispetto delle promesse ricevute quando, carne da macello sui vari fronti, cadevano martiri sul «campo d’onore». Tra il 1919 e il 1920 la provincia pisana è attraversata da lotte rivendicative che raggiungono il culmine sia nell’estate del 1919 durante i moti del caro-vivere che nei mesi seguenti nelle agitazioni dei mezzadri. Feroce è la  repressione[12] che ha effetti deleteri sullo schieramento a sinistra con un Partito socialista immerso in un contesto di contraddizioni e divisioni tra l’ala massimalista e quella riformista.

Le elezioni politiche del 16 novembre 1919 sono un fatto nuovo: nel collegio elettorale di Pisa-Livorno, dei sette deputati eletti con sistema proporzionale, tre sono socialisti e uno repubblicano[13]. Contemporaneamente il movimento operaio vede crescere le proprie organizzazioni e «L’Ora nostra», l’organo ufficiale della federazione socialista pisana, ne riporta una minuziosa e attenta cronaca. Per dare un quadro complessivo sugli eventi che accompagnano la nascita del Partito comunista, è opportuno soffermarsi anche sulle elezioni amministrative del 1920 che confermano che Pisa è una provincia rossa: i socialisti conquistano ben 26 comuni su 42, a Pontedera ottengono il 78% dei voti[14] e in Consiglio provinciale eleggono 23 consiglieri su 40.

Le nuove amministrazioni socialiste aprono una fase nuova in termini di costume e di politiche sociali ed economiche. Nei giorni del Congresso di Livorno, all’interno dei locali del Comune di Cascina vengono rimosse tutte le immagini del re[15] e sulla torre civica viene issato un bandierone rosso[16]. A Buti, i socialisti sconfitti alle elezioni comunali chiedono l’annullamento delle elezioni per gravi irregolarità, abbandonano il Consiglio comunale e manifestano al grido di W la Russia! W Lenin! W il Socialismo![17]  Nelle strade, nelle fabbriche, nei consigli comunali si inneggia da tempo alla Rivoluzione e alla Russia.

Il 2 marzo del 1921 Guido Buffarini Guidi, l’enfant prodige del fascismo pisano, viene aggredito in Piazza dei Miracoli a colpi di rivoltella da alcuni sovversivi, trova riparo in una clinica dell’ospedale Santa Chiara e se la caverà con alcune ferite. A luglio si costituiscono gli Arditi del popolo: sono ben trecento le adesioni a Pisa città e oltre 1.400 nella provincia, numeri che fanno della provincia pisana dell’epoca una delle più organizzate con ben sei sezioni. Il fermento pervade ogni borgata, a Pomarance il 15 maggio del 1921 durante uno scontro a fuoco tra fascisti e sovversivi muore lo squadrista Primo Salvini[18] e il giorno successivo a Riglione, alle porte di Pisa, una rivolta di popolo assalta la caserma dei Carabinieri.

Roberto Ugo Barsotti, Segretario della sez. pisana del PCd'I al confino di polizia, Lipari, 6 aprile 1927. Per gentile concessione della famiglia Barsotti e, per volere della famiglia, l'immagine deve essere utilizzata esclusivamente per questo articolo.

Roberto Ugo Barsotti, Segretario della sez. pisana del PCd’I al confino di polizia, Lipari, 6 aprile 1927. Per gentile concessione della famiglia Barsotti e, per volere della famiglia, l’immagine deve essere utilizzata esclusivamente per questo articolo.

È in questo clima che si fonda il Pcd’I.

Nel dicembre del 1920, il Comitato federale della federazione pisana del PSI è composto dal segretario Carlo Cammeo e da Ambrogi, Frattini, Cappagli, Rossi, Galgani, Passeti e Pampana. Il Comitato viene integrato poi da Dino Cassoni in qualità di direttore del «L’Ora nostra» e da Paride Pagliai, consigliere nazionale per la provincia di Pisa.[19] La federazione giovanile socialista è invece condivisa tra le provincie di Pisa e Livorno e a dirigerla è Ruggero Rebecchi attivo militante e operaio a Piombino, che sarà presente in qualità di delegato al Congresso nazionale di Livorno.

I congressi delle sezioni della provincia pisana, preparatori dell’assise livornese, ci raccontano di una positiva affermazione della frazione comunista che raggiunge complessivamente 1.342 voti, contro i 2.482 dei massimalisti e i 7 dei riformisti. La frazione comunista è presente in 28 sulle 67 sezioni socialiste della provincia[20]. La sezione cittadina di Pisa consegna ai comunisti 96 voti, dei complessivi 209 iscritti. I comunisti prevalgono invece a Calcinaia[21], a Fornacette, a Cevoli, a Perignano, a Volterra, a Santa Luce[22], ai Bagni di Casciana[23], a Montefoscoli[24], ad Asciano[25], a Ponsacco[26]. Nelle altre sezioni della provincia pisana si affermano invece, anche con numeri schiaccianti, i massimalisti. C’è un evidente motivo dietro la vittoria massimalista: serratiani sono i dirigenti della federazione come Carlo Cammeo, Amulio Stizzi, Giulio Guelfi, Paris Panicucci, Paride Pagliai. Sono questi gli stessi organizzatori che controllano le leghe sindacali e che hanno condotto le lotte di rivendicazione di operai e contadini in questi ultimi anni, che hanno battuto la provincia passo dopo passo, hanno incontrato lavoratori organizzati e singoli, hanno tenuto comizi, si sono messi a capo di cortei. Ed è in queste figure che si riconosce il proletariato socialista, nei loro confronti c’è rispetto, riconoscimento e in loro i militanti di base ripongono fiducia e speranza, certi che le condizioni favorevoli per un prossima rivoluzione siano vicine, basta attendere senza dovere, oggi, forzare l’azione. Sono queste le motivazioni che animano i massimalisti, lo scrive su «L’Ora nostra», con autorevolezza, Dino Cassoni, il teorico dei serratiani pisani e, se non basta, la dirigenza chiama ad esprimersi sulle colonne del periodico pisano anche dirigenti locali che espongono gli stessi concetti con parole più semplici e immediate[27]. D’altra parte il socialismo pisano, nato all’ombra delle tesi dei professori dell’Università di Pisa, con i primi anni del ventesimo secolo è ritornato alla sua primordiale origine guidato da proletari formatisi in un ambiente popolare e sovversivo tipico della costa toscana, area permeata da una forte influenza libertaria.

I massimi dirigenti della federazione socialista pisana e della Camera del lavoro confederale non aderiscono al Pcd’I. I comunisti pisani, eccetto l’avvocato Ambrogi, non sono dirigenti e uomini di spicco del partito, sono lavoratori, proletari, figli del popolo e soprattutto giovani: Ruffo Malvezzi è un commesso, Carlo Cimini un barbiere, Roberto Ugo Barsotti un ferroviere, Guglielmo Taddei un meccanico, Zoraldo Frattini uno scultore, un uomo di azione, pronto a porsi a capo di movimenti di protesta ma non particolarmente abituato a scrivere. I comunisti trovano così appiglio negli aderenti delle nuove sezioni del PSI in quella parte di proletariato che, al di fuori di ogni dibattito e teoria, intende «fare come in Russia» e che trova natura e forza in quel citato ribellismo libertario tipico di queste terre.

Terminato il congresso in provincia di Pisa si costituiscono 35 sezioni, due urbane e 33 rurali con 846 iscritti, con una fortissima presenza di gruppi giovanili[28]. La presenza di una maggioranza di sezioni rurali indica con chiarezza la maggior diffusione dell’organizzazione comunista nei piccoli centri, questa caratteristica è comune a molte altre province dell’Italia centrale. A Pisa la sezione si costruisce intorno alla figura di Roberto Ugo Barsotti, mentre a Pontedera la prima sezione viene fondata il 28 febbraio alla presenza di una cinquantina di militanti, tra questi Bracaloni, Carli, Romboli e l’assessore Bertelli[29], un gruppo che in questi primi mesi vede una consistente adesione dei suoi iscritti agli Arditi del popolo in controtendenza alla direzione nazionale del partito che suggeriva di costituire proprie organizzazioni armate[30].

Le elezioni politiche del maggio 1921 segnano un buon risultato per il Pcd’I che raccoglie oltre ventimila voti nel collegio di Pisa, Livorno, Lucca, Massa e Carrara ed elegge deputato Ersilio Ambrogi. Il partito raccoglie un positivo esito anche nel pisano, con oltre tremila voti e punte di eccellenze in zone come Pontedera dove raggiunge il 17% dei suffragi.

Nonostante il successo elettorale del Partito comunista, i socialisti – come si può immaginare visto il posizionamento del sindacato pisano – si mantengono egemoni nel movimento operaio, riportando una significativa vittoria nel congresso della Camera del lavoro confederale di Pisa, del marzo 1922, che li vede raccogliere ben 5.475 contro i 1.169 dei comunisti[31].

Retro della fotografia: "A perenne ricordo del domicilio coatto, alla mia cara Elena ed ai miei cari figli, con amore e affetto. Ugo". Per gentile concessione della famiglia Barsotti e, per volere della famiglia, l'immagine deve essere utilizzata esclusivamente per questo articolo.

Retro della fotografia: “A perenne ricordo del domicilio coatto, alla mia cara Elena ed ai miei cari figli, con amore e affetto. Ugo”.
Per gentile concessione della famiglia Barsotti e, per volere della famiglia, l’immagine deve essere utilizzata esclusivamente per questo articolo.

Nelle zone del pisano si muovono piccoli gruppi comunisti, la situazione è invece più organizzata e radicata nella zona di Santa Croce sull’Arno e nel Volterrano. Nel settembre del 1922 gli iscritti alla federazione pisana sono circa 250 e il segretario della Federazione è il giovanissimo Carlo Cimini coadiuvato dal più esperto Guglielmo Taddei. Nonostante i numeri delle adesioni, la federazione di Pisa ha evidenti difficoltà organizzative, lo stesso «Ordine nuovo» segnala che è totalmente «sprovvista di ogni elementare organizzazione e di stampa» per questo il partito ritiene più opportuno costituire una federazione interprovinciale tra Pisa e Livorno sotto la guida del segretario  Ilio Barontini, che presto diventerà uno dei più autorevoli dirigenti comunisti del paese.

Questi brevi lineamenti sulle origini del Pcd’I nella provincia pisana già ci indicano alcuni elementi per comprendere meglio il successivo radicamento del partito in quella che nel secondo dopoguerra sarà considerata, insieme all’Emilia Romagna, una delle regioni più rosse d’Italia e di cui la provincia pisana sarà una parte importante. Ernesto Ragionieri aveva già a suo tempo sottolineato come questo processo costitutivo si era realizzato riallacciandosi «a tendenze e tradizioni di più lunga portata del movimento operaio e popolare italiano», attingendo «alla sorgente plebea e libertaria del movimento operaio italiano, il che volle dire l’artigiano accanto all’operaio di fabbrica, il contadino emancipato e ribelle a fianco dell’ex ferroviere cacciato dal proprio luogo di lavoro. Perseguitato e pressoché immobilizzato nelle grandi città industriali, si arroccò con rinnovata tenacia, in alcuni piccoli centri dell’Emilia e della Toscana dove la tendenza moderna del socialismo si era innestata su ribellioni antiche»[32]. Queste considerazioni trovano conferma nella storia del partito nella provincia di Pisa che ha potuto anche qui beneficiare non solo della classica tradizione socialista di sinistra e della cultura sovversiva in genere ma anche e soprattutto di quella libertaria, una presenza capillare che risaliva al tempi della Prima Internazionale.

Alcune domande inevitabilmente sorgono a chi si approccia a questa storia: come, seppur per un breve periodo di attività alla luce del sole prima delle leggi eccezionali, il partito sia riuscito nonostante mille difficoltà e come minoranza a radicarsi tra le classe subalterne locali e come si sia formata quella leva di militanti che poi sarà protagonista della stagione resistenziale e della formazione del nuovo partito comunista dopo la svolta di Salerno del 1944? Indagare come i dispersi militanti del Pcd’I, senza una direzione e una presenza costante sul piano organizzativo, siano riusciti negli anni del regime a sopravvivere è un interrogativo a cui una ricerca, avviata in occasione del centenario della fondazione del partito, sta cercando di dare risposte partendo dalla costruzione di un dizionario biografico con oltre 250 profili di militanti comunisti della prima ora[33].

NOTE
[1]Sulla figura di Ersilio Ambrogi si v. le voci biografiche in Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico 1853-1943, t. 1, Roma, Editori riuniti, 1975, pp. 58.60 e Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani, t. 1, Pisa, BFS, 2003, pp. 32-33 (v. curata da F. Bertolucci). Inoltre, F. Creatini, Ersilio Ambrogi: antifascista o informatore dell’OVRA? in  https://www.toscananovecento.it/custom_type/ersilio-ambrogi-antifascista-o-informatore-dellovra.

Sulle origini del Pcd’I nella provincia di Pisa si v. Documenti e testimonianze sulla fondazione del Pcd’I in provincia di Pisa, a cura di A. Marianelli, Pisa, a cura della Federazione pisana del PCI, 1981 ora in A. Marianelli, Eppur si muove! Movimento operaio a Pisa e provincia dall’Unità d’Italia alla dittatura, Pisa, BFS, 2016, pp. 171-229; P. Consolani, La scissione del 1921 nelle province di Pisa e Livorno, in La formazione del partito comunista in Toscana 1919-1923. Elementi di una ricerca, Firenze, Istituto Gramsci/Sez. Toscana, 1981, pp. 83-109.
[2]Cronaca rossa della provincia. Frazione comunista, «L’Ora nostra», 3 dicembre 1920.
[3]Cronaca rossa della provincia. Frazione comunista del PSI, «L’Ora nostra», 31 dicembre 1920.
[4]Con Regio Decreto Legge n. 2011 del 15 novembre 1925 i comuni di Collesalvetti, Rosignano Marittimo, Cecina, Bibbona, Castagneto Carducci, Sassetta, Campiglia Marittima, Suvereto e Piombino vengono staccati dalla provincia di Pisa e aggregati alla provincia di Livorno. I comuni di San Miniato, Montopoli in Val d’Arno, Santa Maria a Monte, Castelfranco di Sotto e Santa Croce sull’Arno passano invece dalla provincia di Firenze a quella di Pisa.
[5]Vigilia di Congresso, «L’Ordine Nuovo», 14 gennaio 1921.
[6]Sulla vicenda si v. A. Polsi, Il profilo istituzionale (1865-1944) in La provincia di Pisa (1865-1990), a cura di E. Fasano Guarini, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 141-149.
[7]I primi di marzo a Pontedera, proprio a seguito dello sciopero generale e delle proteste e per l’uccisione di Spartaco Lavagnini, le forze dell’ordine fanno in irruzione nella sede del Partito Comunista e arrestano venti persone, cfr. Cronaca rossa della provincia. Pontedera. «L’Ora nostra», 4 marzo 1921.
[8]Teste e Tasti, «Il Ponte di Pisa», 26 febbraio 1921.
[9]Spaziamo… il malumore, «Il Ponte di Pisa», 12 febbraio 1921.
[10]Cfr. S. Ficini, Il comprensorio del cuoio nella bufera: dalla rivoluzione al regime (1918-1922), Pontedera, Bandecchi e Vivaldi, 1998 p. 189.
[11]Su e giù per la Provincia. Volterra, «Il Ponte di Pisa», 29 gennaio 1921.
[12]Tra le varie pubblicazioni in materia, per le vicende toscane, si confronti la recente pubblicazione Il biennio rosso in Toscana 1919-1920 Atti del convegno di studi Sala del Gonfalone, Palazzo del Pegaso 5-6 dicembre 2019, a cura di S.Rogari, Firenze, 2021.
[13]I tre socialisti sono Giuseppe Emanuele Modigliani, Giuliano Corsi, Russardo Capocchi; il  repubblicano è Ettore Sighieri.
[14]I socialisti ottengono oltre 1.400 voti, ma è altissima l’astensione: l’affluenza è infatti inferiore al 50% dell’intero corpo elettorale. R. Cerri, Pontedera tra cronaca e storia. 1859-1922, Pontedera, Bandecchi e Vivaldi, 1982 p. 256.
[15]Su e giù per la provincia, «Il Ponte di Pisa», 22-23 gennaio 1921.
[16]Cfr. M. Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano 1919-1920, Roma, Bonacci, 1980, p. 163.
[17]Cronaca rossa della provincia. Buti. «L’Ora nostra», 3 dicembre 1920.
[18]Cfr. J. Spinelli, La Liberazione a Pomarance. Memorie e documenti. Pomarance, Associazione turistica “Pro Pomarance”, 1995. p. 18-19.
[19]Atti del partito, «L’Ora nostra», 10 dicembre 1920.
[20]Cfr. R. Martinelli, Il Partito comunista d’Italia 1921-1926, Roma, Editori riuniti, 1977, pp. 135.
[21]Sul congresso della sezione di Calcinaia cfr. G. Bozzoli, Ricordi del secolo prima, Fornacette, Graphic Art, 2003, pp. 145-154.
[22]Cronaca rossa della provincia. Santa Luce, «L’Ora nostra», 14 gennaio 1921.
[23]Cronaca rossa della provincia. Bagni di Casciana, «L’Ora nostra», 14 gennaio 1921.
[24]Cronaca rossa della provincia, Montefoscoli, «L’Ora nostra», 14 gennaio 1921.
[25]Cronaca rossa della provincia. Asciano, «L’Ora nostra», 24 dicembre 1920.
[26]In Toscana, «L’Avanti!», 8 gennaio 1921.
[27]G. Bani, Preparando il congresso di Firenze, «L’Ora nostra», 10 dicembre 1920.
[28]Cfr. R. Martinelli, Il Partito comunista d’Italia 1921-1926, cit., pp. 161.
[29]Cfr. A. Vivaldi, Pontedera dal 1919 al 1926 nei ricordi, Pontedera, Bandecchi e Vivaldi, p. 26.
[30]Cfr. R. Cerri, Pontedera tra cronaca e storia. 1859-1922, cit. p. 267.
[31]Cfr. A. Marianelli, Eppur si muove…, cit., p. 174.
[32]Cfr. P. Consolani, E. Dozza, R. Gilardenghi, G. Gozzini, La formazione del Partito comunista in Toscana (1919-1923). Elementi di una ricerca, cit., p. XV dell’introduzione di T. Detti.
[33]La ricerca è stata avviata nel più ampio progetto di recupero e sistemazione dell’archivio storico del PCI che la Biblioteca Franco Serantini Istituto di storia sociale, della Resistenza e dell’età contemporanea in collaborazione con il Comitato promotore (composto da ex militanti e dirigenti della federazione pisana del Pci) ha avviato nel gennaio di quest’anno.