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Una commedia di Giocondo Papi

Giocondo Papi – sindaco socialista di Prato dal 1920 al 1922, quando l’amministrazione liberamente eletta venne defenestrata dai fascisti – si dilettava a scrivere poesie. Nel 1930, per i tipi delle Arti grafiche Nutini, diede alle stampe una commedia in tre atti intitolata Mia moglie…non è mia moglie?

La commedia, imperniata sulla straordinaria somiglianza fra le due protagoniste, narra una storia di infedeltà coniugale e, tenuto conto dell’epoca in cui è stata scritta, non è priva di una certa audacia. È stato osservato che la trama presenta evidenti punti di contatto con Come tu mi vuoi di Luigi Pirandello, rappresentata per la prima volta a Milano proprio nel 1930. L’ambientazione ed alcune situazioni da vaudeville rendono il tono del lavoro di Papi leggero e frivolo: la sua atmosfera è dunque ben diversa da quella della commedia pirandelliana, anche se l’opera è attraversata da una vaga inquietudine, causata dalla consapevolezza dell’impossibilità di conoscere realmente perfino i propri familiari.

La commedia non ha particolari pregi artistici, ma merita di essere ricordata come una testimonianza degli interessi che Papi coltivava, da autodidatta, in campo letterario: la famiglia degli scrittori pratesi si allarga così per far posto ad un nuovo, inaspettato, componente.

Ecco un breve riassunto dell’opera.

Tina, moglie di Mario Bruni, attende con ansia l’amante Giulio Biondi. Costui entra in scena cantando una canzone, musicata dal maestro Giovanni Castagnoli, che è stata definita dal maestro Roberto Becheri, docente di composizione al Conservatorio di Ferrara, “una serenata che scorre leggera su una fresca melodia da café-chantant”. La moglie di Giulio, Nella, è fuggita tempo addietro, colta da improvvisa pazzia, senza più dare notizie di sé.  Mentre i due amanti stanno parlando rientra in casa il marito di Tina, e Giulio è costretto a nascondersi in cucina, naturalmente dentro un armadio. Sorpresa ed irritata a causa dell’improvviso arrivo del marito, Tina si difende attaccando e sostiene che Mario la tradisce. Al culmine della finta scenata di gelosia è però colta da malore. Mario chiede allora aiuto ai vicini. Un’ inquilina gli suggerisce di andare in cucina a prendere un po’ di aceto per spruzzarlo sul viso di Tina e, nonostante la moglie cerchi di trattenerlo, Mario va in cucina, causando la fuga di Giulio che riesce ad infilare la porta di uscita. Compresa facilmente la situazione, Mario accusa Tina di avere un amante. La moglie reagisce scappando ed i vicini la prendono per pazza. Dopo aver trascorso un anno di degenza in una clinica per malattie mentali, Tina viene ricondotta a casa per un confronto col marito. Giulio, però, giocando sulla straordinaria somiglianza fra le due donne, sostiene che Tina è sua moglie Nella. Tina arriva, accompagnata da due medici, e finge di non riconoscere né la casa né lo sposo. In esecuzione di un  piano preordinato, si presenta anche Giulio, che Tina si precipita ad abbracciare come se fosse suo marito. I medici decidono allora che, per giudicare con coscienza, sono necessarie delle prove inconfutabili, e chiedono a Mario di indicare qualche segno particolare visto nell’intimità sul corpo della moglie. Mario non riesce però a ricordare nulla, mentre Giulio indica ben tre nei: uno sotto la nuca, uno sotto l’ombelico ed un altro più sotto ancora: Tina si spoglia, mostra i nei ai medici e se ne va con Giulio che sembra così aver avuto partita vinta. Subito dopo, però, entrano due vicine con un giornale contenente la notizia che una ricca signora ha lasciato il suo patrimonio ad una bella smemorata sconosciuta, ricoverata in una casa di salute a Bologna. La donna della foto che accompagna l’articolo somiglia in modo impressionante alla moglie di Mario che, insieme con i medici e con le due vicine, si reca dunque a Bologna per un nuovo confronto. La donna che Mario vede a Bologna è in realtà la moglie di Giulio, Nella, ma egli crede sinceramente di riconoscere in lei Tina e la porta a casa con sé. Si presenta però Giulio che rivela la verità a Mario, facendolo esclamare: “Perdio!…Come?…Mia moglie non è mia moglie?” Giulio insiste. Il campanello suona ed entra anche Tina che implora Mario di perdonarla. Mario però, a questo punto, non vuol saperne più nulla di lei, la respinge e va a vivere felice con Nella.

La parte di Tina e quella di Nella dovevano essere sostenute dalla stessa attrice. Una curiosità: in calce al testo della commedia figura un’errata corrige, dove fra l’altro si specifica che alla quarta riga di pagina 36, dove si dice, “sua moglie”, si deve leggere invece “vostra moglie”. L’errata corrige è del 1930. Otto anni dopo, con un foglio di disposizioni del segretario del PNF Achille Starace  il regime avrebbe imposto la sostituzione del “lei” con il “voi”. Preveggenza?




Il movimento anarchico pratese nel secondo dopoguerra

Nel secondo dopoguerra la massiccia adesione degli operai pratesi al Partito comunista ridusse praticamente a zero lo spazio politico occupato dagli anarchici. Morto nel 1957 Anchise Ciulli – una delle figure “storiche” del movimento libertario locale, che non aveva mai cessato del tutto l’attività politica e sindacale – l’anarchismo  attraversò in città un periodo di crisi, per rianimarsi sull’onda del Sessantotto e conoscere poi una nuova fase di riflusso insieme con tutti i gruppi della sinistra rivoluzionaria. Su questi temi abbiamo realizzato un’intervista con Federico Sarti, attivo nel movimento anarchico pratese negli anni Settanta. Ne proponiamo il testo ai lettori di ToscanaNovecento.

  

Nel secondo dopoguerra il movimento anarchico attraversò in Italia una fase di crisi che durò almeno fino al Sessantotto. Ciò vale anche per Prato?

Sì, sicuramente. Senza il Sessantotto con tutti i suoi fermenti, con la sua carica contestataria e, in fondo, libertaria, non ci sarebbe stata, neanche qui, una ripresa del movimento.

Che cosa puoi dirci a proposito di tale ripresa?

So che verso la fine degli anni Sessanta si costituì in città un gruppo anarchico che portava il nome di Gaetano Bresci. Io non ne ho fatto parte e non posso dire nulla di preciso sulla sua attività, ma il gruppo è esistito con certezza, tanto è vero che ne conoscevo all’epoca tre componenti.

E poi? In città si formarono altri gruppi?

Sì. Successivamente, nell’inverno del 1975, dall’incontro di alcune persone che si dichiaravano anarchiche, nacque un secondo gruppo a cui sono appartenuto anch’io (detto per inciso, io mi sono avvicinato all’anarchismo partendo da posizioni marxiste-leniniste). Questo gruppo, che non ebbe mai un nome, arrivò a contare una dozzina di membri, studenti ed operai, tutti intorno ai vent’anni (e anche meno). Molto rilevante era la presenza femminile: tra i componenti del gruppo figuravano infatti ben sei compagne. Il nucleo – che era vicino alle posizioni della Federazione comunista anarchica (FCA) ed esplicava la sua attività solo sul piano teorico – ebbe contatti con i compagni di Firenze (Crescita politica), Pistoia, Arezzo ed altre città toscane e decise di sciogliersi in seguito ad una consultazione interna perché la maggioranza (solo io votai contro lo scioglimento) riteneva che non ci fosse la possibilità di un inserimento proficuo nel tessuto sociale cittadino. Questo accadde nella prima metà del 1977, ma poco dopo in città si formò un terzo gruppo.

scansione0004Ce ne vuoi parlare?

La riunione costitutiva di questo nuovo gruppo, che assunse il nome di Coordinamento lavoratori comunisti anarchici, si svolse il 23 giugno 1977. Gli aderenti erano in tutto una dozzina, fra cui due donne. Nel corso della riunione costitutiva fu deciso di articolare l’organizzazione in tre gruppi di studio: uno sul decentramento produttivo (formato da tre persone), uno su ambiente e lavoro ( quattro persone) ed uno che si occupava di equo canone (quattro persone). Nell’occasione fu deciso di tenere un’assemblea di gruppo nei giorni di lunedì, mercoledì e venerdì e un’assemblea generale il martedì. I membri dovevano versare una quota mensile di cinquemila lire. Il gruppo disponeva anche di un cassiere per redigere i bilanci trimestrali.

Il Coordinamento fu particolarmente attivo sul fronte della lotta contro il nucleare ed ebbe quindi il merito di sollevare in ambito cittadino dei problemi che solo in seguito sarebbero stati ripresi da altre organizzazioni. Nel dicembre del 1977, nei locali del circolo culturale Il Ponte (che si trovava al di là del Ponte Mercatale, in via Matteotti 7) si tenne un convegno antinucleare regionale. Nel corso del convegno si costituì un comitato antinucleare locale ed in città venne diffuso un volantino che metteva in guardia contro i rischi legati alla costruzione delle centrali atomiche.

Il gruppo produsse anche un bollettino ciclostilato (che non sono purtroppo riuscito a rintracciare). Il bollettino venne distribuito in occasione del 1° maggio 1978: le copie erano in vendita ad offerta libera e rammento che vennero vendute tutte per un ricavato complessivo di ventiduemila lire.

Va poi detto che il Coordinamento stilò un volantino, molto critico nei confronti dei partiti della sinistra tradizionale: noi eravamo infatti convinti che, tramite la propaganda (dibattiti, filmati, mostre e così via), esistesse la possibilità di spostare su posizioni radicali i lavoratori che seguivano tali partiti, facendo maturare in loro una coscienza rivoluzionaria e rendendoli capaci di gestire da soli le loro lotte.

Il gruppo cessò l’attività verso la fine del 1978, ma continuò la campagna antinucleare per tutto l’anno successivo.

In quegli anni vi furono due appuntamenti elettorali molto importanti: le elezioni regionali del 15 giugno 1975 e quelle nazionali del 20 giugno 1976. Come vi comportaste in quelle occasioni?

La maggioranza di noi, coerentemente con i principi anarchici, era astensionista e quindi non si recò alle urne.

In voi c’era coscienza dell’esistenza di una tradizione anarchica a Prato oppure l’unico nome noto era quello di Gaetano Bresci?

No, almeno io non sapevo nulla dell’esistenza di una tradizione anarchica in città. L’unico nome conosciuto era quello di Bresci.

Quali furono le cause del riflusso successivo?

Furono le stesse che portarono prima alla crisi e poi all’esaurirsi dell’esperienza della sinistra rivoluzionaria.

 

Sai niente a proposito dell’approdo politico dei militanti anarchici di allora?

No, non lo so perché non ho mantenuto rapporti con la maggior parte di loro, e dei pochissimi che ancora vedo non conosco l’attuale tendenza politica.

 

Qual è oggi la situazione a Prato? Non vi è più nemmeno una parvenza di organizzazione? Vi sono solo degli elementi isolati e l’anarchismo è ridotto a pura testimonianza?

Sì, a Prato l’anarchismo è ridotto a pura testimonianza. Gruppi organizzati, che io sappia, non ce ne sono. Gli abbonati a Umanità nova  sono tre in tutto, me compreso (lo so perché il giornale pubblica l’elenco degli abbonati). Ad una manifestazione ho visto un compagno con una bandiera anarchica, ma non l’ho avvicinato e non so neppure chi sia…

 

Intervista a cura di Alessandro Affortunati.




Una Toscana fascistissima?

L’11 novembre 2019, presso l’Archivio di Stato di Prato, Alessandro Bicci e Marco Palla hanno presentato il volume di Andrea Giaconi intitolato La fascistissima. Il fascismo in Toscana dalla marcia alla notte di San Bartolomeo. In quell’occasione abbiamo rivolto alcune domande all’autore: proponiamo il testo dell’intervista ai lettori di ToscanaNovecento.

 

Ha senso parlare di un “fascismo toscano”? Il fascismo ebbe cioè nella regione dei tratti distintivi, in parte diversi da quelli che il movimento presentava a livello nazionale?

Parlare di “fascismo toscano” ha senso nella misura in cui si voglia da una parte sottolineare il ruolo primario svolto dalla Toscana nella conquista e nel mantenimento del potere da parte del fascismo; dall’altra esaltare alcuni tratti che indubbiamente furono comuni all’intera regione. La realtà fascista toscana si distinse sia per una nascita tarda del movimento ma anche per una sua tanto rapida quanto violenta ascesa che nel giro di pochi mesi (tra il dicembre 1920 e il marzo 1921) portò a raddoppiare i fasci e quintuplicare gli iscritti. Fu quello toscano un fascismo “insonne”, combattente, che si segnalò soprattutto come componente essenziale nella scalata al potere del biennio 1921-1922, carico di tutti i miti e i riti squadristi volti a fomentare la violenza contro le opposizioni e a rinsaldare la retorica poi divenuta componente essenziale nel consolidamento del regime. In tal contesto, la regione si allontana soprattutto da realtà (soprattutto nell’Italia meridionale) in cui il fascismo quale fenomeno di massa è un elemento successivo alla marcia dell’ottobre 1922. Eppure, a ben vedere, piuttosto che di “fascismo toscano” è forse più esatto parlare di “fascismo in Toscana”. Toscana che fu, infatti, contenitore di manifestazioni del fascismo tra loro tanto vicine quanto distinte. La non uniformità corografica, economica e sociale della regione si riflesse in una difformità politica che dette vita ad esperienze tra loro assai diverse. Così come la grande mezzadria conviveva con la piccola proprietà e le significative realtà industriali, egualmente la supremazia di ras come Renato Ricci (Carrara) e Carlo Scorza (Lucca) si affiancava ad aree in cui il PNF fu attraversato da vibranti lotte per la conquista della leadership locale (che molto spesso ponevano di fronte opposte visioni del movimento) dalle quali seppero avvantaggiarsi protagonisti (Ciano a Livorno, Sarrocchi a Siena) non immediatamente assimilabili al movimento della prima ora. Infine vi furono pure zone (Prato, Grosseto) in cui larga parte del fascismo fu riassorbita nell’orbita del servilismo agli agrari e all’imprenditoria industriale.

 

Gli industriali e gli agrari toscani appoggiarono senza riserve il movimento fascista durante il cosiddetto “biennio nero” (1921-22) o è necessario articolare meglio il discorso?

Sicuramente la quasi totalità di industriali e agrari appoggiò il movimento negli anni precedenti alla conquista del potere vedendolo come necessario strumento di repressione contro le richieste provenienti dalle organizzazioni operaie e mezzadrili e dalle organizzazioni tanto socialiste (e poi anche comuniste) quanto cattoliche. Tuttavia, la stessa retorica “rivoluzionaria” della “prima ora” mal si conciliava con le intenzioni di restaurazione dell’ordine (sociale prima ancora che politico) del notabilato e della grande imprenditoria. Ne conseguì un progressivo avvicinamento alle gerarchie di partito e l’istituzione di un sistema clientelare volto ad emarginare l’elemento più sincero del movimento fascista delle origini e delle forze che ne avevano appoggiato la carica radicale attraverso un connubio tra antiche classi dirigenti, le frange più corruttibili del partito e comunque caratterizzate da una pronunciata vena d’arrivismo e una cospicua componente criminale.

 

Quali furono i rapporti fra la massoneria toscana ed il fascismo locale, prima e dopo la marcia su Roma?

Pur distinguendo tra le due principali obbedienze, la massoneria tout court fu uno dei principali punti d’appoggio del fascismo antemarcia. Si può anzi sicuramente affermare che tanto Palazzo Giustiniani (salvo tanto isolate quanto eclatanti eccezioni, come il pratese Giuseppe Meoni, Gran Maestro Aggiunto) quanto Piazza del Gesù fiancheggiarono e finanziarono il fascismo nello stesso evento della Marcia. Di fatto, la visione delle massonerie fu offuscata dalle dinamiche successive al dopoguerra, quando dinanzi alle rivolte del “biennio rosso”, esse intravidero nel fascismo una forza radicale capace di riportare un ordine democratico comunque lontano dalle precedenti consorterie. Fu un tragico equivoco di cui si ravvidero solo dopo l’ottobre 1922 e ancor di più, dopo il febbraio 1923, con la dichiarazione d’incompatibilità tra fascismo e massoneria. Da allora le strade si divisero. Il fascismo tese ad emarginare e ad epurare le proprie componenti massoniche o le obbligò a ripudiare l’istituzione. Dinnanzi a ciò il Grande Oriente si pose progressivamente in opposizione al Partito fascista. La Gran Loggia, almeno nei suoi vertici, si attestò (pur non mancando isolati casi di resistenza) in un piatto ossequio al regime. Ma egualmente non si può ridurre il rapporto tra massoneria e fascismo ad uno scontro tra partito e istituzione. Di fatto, il vincolo massonico (almeno per il fascismo toscano) fu una delle corde sulle quali vibrarono più fortemente le tensioni interne al partito, per l’imposizione di una propria visione politica o anche per la più gretta conquista del potere. Sotto questa prospettiva potevano essere letti gli scontri tra Enrico Spinelli e Dino Philipson (Pistoia), tra Tullio Tamburini e Dino Perrone Compagni (Firenze), tra Bruno Santini e Filippo Morghen (Pisa), tra Dario Lupi e Alfredo Frilli (Arezzo). Le lotte tra obbedienze, la carica antimassonica del partito e la coerenza liberomuratoria, con i dettati della “prima ora”, furono forse i principali motori delle lotte intestine al PNF. Non a caso, la piena normalizzazione e acquiescenza alle direttive del partito si realizza con atti di violenza contro la massoneria, quali le spedizioni squadriste della “notte di San Bartolomeo” (ottobre 1925).

 

E quale fu l’atteggiamento della chiesa?

È ormai noto da tempo come il fascismo adoperasse una distinzione tra struttura ecclesiastica e movimento cattolico. Laddove l’associazionismo bianco era forte e ben radicato (Lucchesia, in alcune zone del Pistoiese e dell’Aretino…), il fascismo non esitò ad utilizzare qualsiasi mezzo per disarticolarne la struttura. Ben diverso era l’atteggiamento verso la gerarchia ecclesiastica, intesa come possibile punto d’appoggio e fattore di legittimazione del regime anche a livello locale. Eppure, non mancarono casi di vescovi toscani come il pistoiese Gabriele Vettori che denunciò le violenze squadriste. Non fu un fatto limitato alla gerarchia: molti parroci si schierarono contro le azioni squadriste e, per questo, ne furono bersagli. Basti pensare che, nei tre mesi precedenti alle elezioni politiche del 1924 quasi quaranta furono i parroci aggrediti tra la Lucchesia e il Pistoiese.

 

Antonio Gramsci ha individuato nella mobilitazione violenta della piccola borghesia contro il proletariato l’elemento caratterizzante del fascismo. Questa analisi è valida anche per la Toscana?

Questo può essere valido solo in parte. Basti pensare che quasi il 40% degli iscritti ai fasci di combattimento era costituito da lavoratori della terra e dell’industria e che un campione di marciatori toscani su Roma ricavato da pubblicazioni coeve abbassa tale percentuale non di molto. Vero è che le cifre si modificarono abbastanza rapidamente quando, una volta al potere, il fascismo si trovò a gestire la redistribuzione dei poteri anche a livello locale. Significativa è infatti la composizione dei primi sindaci fascisti, laddove circa la metà degli eletti (49%) era formata da possidenti e nobili. Si andava così assistendo quasi a un ritorno dei potentati terrieri in un negoziato tra antiche gerarchie e nuovi regimi. Ne riuscivano bilanciamenti dai quali vennero progressivamente escluse le forze riformiste e radicali che pure erano entrate nel “calderone” del primo fascismo (ed ovviamente le organizzazioni “rosse” e “bianche” che al fascismo si erano opposte). Emersero invece il grande interesse, l’opportunismo e, in parte, l’elemento criminogeno e criminale (quest’ultimo poi parzialmente estromesso a seguito della linea epurativa guidata da Augusto Turati successivamente alla “notte di San Bartolomeo”, dell’ottobre 1925).

 

Nella primavera del 1921 un foglio comunista fiorentino ravvisò nei fascisti del Carmignanese “tutta la delinquenza del vasto comune di campagna, assoldata dalla borghesia terriera locale” (L’azione comunista, 21 maggio 1921). Puoi dirci qualcosa a proposito del ruolo dell’elemento criminale all’interno del movimento fascista nella regione?

L’elemento criminale fu una componente che sempre caratterizzò lo squadrismo fascista, prima convivendo con gruppi formatisi in opposizione alle rivolte del cosiddetto “biennio rosso”, ma con sinceri intendimenti radicali e di ritorno all’ordine (ne fu un esempio l’ex-combattente Bruno Santini a Pisa), poi assumendo una rilevanza che fu alla base dei potentati dei ras, delle lotte interne al PNF per la conquista del potere locale, della seconda violenta ondata squadrista. Per comprenderne la consistenza che aveva assunto in alcune zone, basti citare un dato relativo all’adunata squadrista svoltasi nella violenza a Firenze nel dicembre 1924. Su 3.000 fascisti provenienti da Lucca, l’allora prefetto locale Enrico Cavalieri segnalava il coinvolgimento «in atti criminali anche comuni» per «almeno la buona metà» di essi.

 

Il fascismo fiorentino era diviso in due filoni, spesso in contrasto fra loro. Uno faceva capo a Dino Perrone Compagni, l’altro a Tullio Tamburini. Quali erano le principali differenze fra queste due correnti?

La divisione tra Perrone Compagni e Tamburini può essere in larga parte circoscritta a una lotta per la conquista del potere locale. Fascinazioni per le quali le rispettive iscrizioni alle obbedienze massoniche potevano dar adito a uno scontro tra ordini libero-muratori deve necessariamente rimanere sullo sfondo (tant’è che lo stesso Tamburini sarebbe divenuto tristemente famoso per le violenze utilizzate sui suoi stessi “fratelli”). Di fatto, i due schieramenti potevano essere assimilati alle “bande criminali” in lotta per il controllo di un territorio. Il fascismo fiorentino poteva segnalarsi per la propria inquietudine, per gli scontri e per le divisioni interne alle proprie file già nel biennio 1921-1922. Era questo un periodo che vide anche la compresenza di tre fasci fiorentini di cui uno ufficiale e due autonomi. Di questi ultimi due, uno poteva addirittura contare più iscritti del fascio ufficiale. Il prosieguo di tali divisioni doveva molto alla mancata rassegnazione alla sconfitta dei leaders fascisti perdenti. Sicuramente ciò vale per Perrone Compagni, il cui avvicinamento a gruppi dissidenti come la nota “Banda dello sgombero” o all’esperienza dei Fasci nazionali, deve necessariamente essere letta quale sostegno all’azione antitamburiniana in prospettiva di un ritorno al potere.

 

Tullio Tamburini era un pratese. Cominciò la sua carriera come squadrista e la concluse come capo della polizia della Repubblica di Salò. Vuoi parlarci brevemente di lui?

Di Tamburini, nato a Vaiano, allora frazione del comune di Prato, hanno scritto diffusamente molti storici del fascismo, eppure ancora oggi manca una biografia che ne inquadri il percorso. Già membro attivo dell’interventismo pratese al tempo della guerra di Libia, ex impiegato alla Forti, grande industria tessile della Valle del Bisenzio, si era ridotto a vivere d’espedienti. Nota è la sua attività di calligrafo, creando biglietti da visita o per eventi quali nozze e battesimi. Combattente decorato durante il primo conflitto mondiale, fu segnalato per furto e appropriazione indebita. Si evince sin da ora come Tamburini fosse un personaggio per lo meno contiguo all’elemento criminale dal quale il fascismo attinse una parte non trascurabile dei propri appartenenti. Iscrittosi al fascio di combattimento fiorentino già nel 1919, egli fu protagonista della scissione tra i due fasci fiorentini, divenendo uno dei più diretti responsabili delle violenze che imperversarono tra il 1921-1922. Espulso per indisciplina nel marzo 1922 dal PNF, non tardò a rientrarvi, guidando la piazza di Firenze nei giorni della Marcia e dirigendosi egli stesso a Roma a capo della prima legione fiorentina. Negli anni seguenti Tamburini fu, nonostante le frizioni con Perrone Compagni, a capo del fascismo fiorentino, gestendo le reti delle bische clandestine e di altre attività criminose nel capoluogo toscano. Lo fece attraverso la violenza e legami clientelari che gli permisero di uscire indenne dagli scontri interni al fascismo fino almeno al 1925. Di questi anni sono per lo meno da ricordare le violente spedizioni del dicembre 1924 e dell’ottobre 1925. Quest’ultima, di carattere ferocemente antimassonico, fu identificata come la “notte di San Bartolomeo” e chiuse di fatto il cerchio sugellando la formazione del regime. Fu proprio però per tali recrudescenze e per il ripetuto ricorso all’illegalità che Tamburini fu allontanato dalla Toscana e inviato in Libia. Da qui egli tornò prima come ufficiale della Milizia forestale di Trento e poi come prefetto del regno nelle sedi di Ancona, Avellino e Trieste. Aderì alla RSI, di cui fu capo della polizia. Coinvolto in un losco  giro di appropriazioni indebite anche a danno di altri gerarchi, fu arrestato e inviato nel campo di concentramento di Dachau nel reparto riservato ai criminali comuni. Liberato dalle truppe alleate, fu processato e condannato a sei anni di carcere ma, in seguito, amnistiato. Espatriato in Argentina, dal paese sudamericano inviò finanziamenti al Movimento sociale italiano. Tornato in Italia nella seconda metà degli anni Cinquanta, Tamburini morì a Roma nel 1957. Di fatto può essere identificato come il volto del più brutale squadrismo e allo stesso tempo uno dei protagonisti non troppo secondari del consolidamento del regime.

 

Renzo De Felice distingue un “fascismo movimento”, che avrebbe avuto in sé una carica in qualche modo innovativa, da un “fascismo regime”, risultato di una serie di compromessi con i centri di potere tradizionali. Questa distinzione è valida anche per la Toscana?

La distinzione tra “fascismo movimento” e “fascismo regime” ha alcune sue basi anche in Toscana, a patto di non considerare una divisione netta tra le due parti. In realtà gli anni del “movimento” furono segnati da pesanti infiltrazioni ed importanti interessi da parte dei centri tradizionali del potere e, anche alla luce di tali vincoli tra fascismo e potentati locali, si può ben dire che la compresenza delle due componenti fosse all’origine delle lotte interne per il controllo del territorio e del partito. Lotte che, di fatto, si intensificarono in momenti apicali di scontro ma, paradossalmente, anche di coalizione tra le componenti del PNF, quali le fasi di campagna elettorale. A ben vedere, le svolte elettorali se da un lato amplificarono e inacerbirono gli scontri interni, dall’altro furono capaci di riassorbire i malumori e di catalizzarli verso gli avversari politici. In sintesi, in Toscana questi due tipi di fascismo coesistettero con svariate sfumature in base alla zona considerata e, proprio tale compresenza fu alla base delle lotte che caratterizzarono gli anni compresi tra il 1922 e il 1925.

 

Nel tuo lavoro si parla anche della tristemente nota “notte di San Bartolomeo” fiorentina. Siamo nell’ottobre del 1925. Che bilancio si può fare dei primi tre anni di dominazione fascista in Toscana?

La “notte di San Bartolomeo” (il 3 ottobre 1925) fu un punto di svolta dopo il quale non fu più possibile un’opposizione al fascismo da parte dei suoi avversari. Né tantomeno fu più possibile un dissenso interno al PNF. È da tale svolta violenta che, di fatto, giunge a maturazione il regime in Toscana. Prima di tale evento non è giusto parlare di “dominazione” quanto piuttosto, parafrasando l’ormai classico studio di Lyttelton, di conquista e di consolidamento del potere. Conquista che avvenne non solo con la violenza delle spedizioni squadriste ma con un ripetuto esercizio retorico ed evocativo di miti e ritualità volti da un lato a cementare le file interne del partito e dall’altro ad emarginare gli avversari esterni. Per cui, il computo finale di quei tre anni trascorsi tra la Marcia e la nascita del regime non può esimersi da notare che in Toscana si manifestarono per intero ed assai pronunciate le tensioni interne al PNF post-marcia. Esse non permisero di definire il fascismo come un dato definitivo quanto piuttosto come un oggetto politico in divenire, alla ricerca di una sua compiutezza, acquisita solo attraverso la totale eliminazione delle voci discordi. E questo lo si ebbe solo col 1925. Era in definitiva la nomalizzazione.

Intervista a cura di Alessandro Affortunati.




Carmignano nel secondo dopoguerra.

Per la realizzazione di una ricerca sul Carmignanese alla quale stiamo attendendo, abbiamo avuto di recente un interessante colloquio con Riccardo Cammelli, autore de Il Poggio e il Campano (Carmignano, Attucci, 2017), una dettagliata ricostruzione delle vicende che portarono alla nascita del Comune di Poggio a Caiano. Ne proponiano il testo ai lettori di ToscanaNovecento.

 Qual era la situazione a Carmignano dopo la liberazione?

A Carmignano, come nel resto della Toscana, la guerra aveva prodotto danni molto seri. I collegamenti con Firenze, con Prato, con Vinci e con il resto del Montalbano erano problematici a causa delle condizioni delle strade; le case e gli edifici scolastici erano da ricostruire, l’acquedotto non esisteva (i pozzi erano insufficienti e c’era chi pativa la sete). Si tenga presente che a quell’epoca le opere pubbliche – alpari dei piani regolatori – dovevano passare dal vaglio ministeriale, e l’attesa dell’approvazione da Roma rallentava molto la loro realizzazione.

Ed il quadro politico?

Dal punto di vista politico, Carmignano rappresentava (insieme con l’alto Mugello, cioè con i comuni di Firenzuola, Londa, Marradi, San Godenzo e Palazzuolo sul Senio) una delle isole bianche in provincia di Firenze (quello del capoluogo, sotto questo profilo, era un caso più complesso, con caratteristiche sue proprie). Per la DC fiorentina il Carmignanese, come l’alto Mugello, era un’area molto importante: lo era negli anni Cinquanta e Sessanta, quando essa inviò un personaggio di spicco come Ivo Butini a fare l’assessore nel comune mediceo, e lo era successivamente quando a Poggio a Caiano negli anni Settanta fu sindaco Sergio Pezzati. Per tornare alle peculiarità di Carmignano, le frazioni di Poggio a Caiano e Poggetto si distinsero da subito con il risultato del referendum monarchia-repubblica del 1946, votando in maggioranza per la prima, a differenza del resto del territorio. Alle elezioni per la Costituente la DC ebbe il 44,06% dei voti, alle politiche del 1948 raggiunse addirittura il 53,39%. Il partito cattolico governò il paese con giunte monocolori fino al 1960 e circa un terzo dei voti democristiani provenivano dalle frazioni di Poggio a Caiano e di Poggetto, dove viveva un ceto medio fatto in prevalenza di artigiani, commercianti e impiegati pubblici e privati. Il voto cattolico era rilevante anche a Carmignano, dove si registrava una forte presenza di dipendenti comunali, ed in frazioni come Artimino. Le sinistre erano più forti altrove, a Comeana, a Poggio alla Malva ed a Seano. A sinistra votavano parte dei mezzadri, i lavoratori salariati (per esempio gli operai della Nobel) e gli scalpellini di Comeana e di Poggio alla Malva.

Quali furono le principali realizzazioni dell’amministrazione comunale bianca?

Senz’altro il ripristino ed il miglioramento della rete viaria, la costruzione dell’edificio della scuola media a Poggio a Caiano e, nel 1959, l’inaugurazione dell’acquedotto, che venne poi completato negli anni successivi. Per quanto riguarda la realizzazione di quest’ultima opera, fu molto importante l’interessamento del senatore democristiano pratese Guido Bisori, all’epoca sottosegretario agli interni.

 Che giudizio ti senti di dare sugli anni in cui la DC ebbe il controllo del Comune attraverso giunte monocolori (1946-1960)?

Tenendo conto delle risorse limitate del comune – la storia è la medesima per tutti i comuni delle dimensioni di Carmignano – si può parlare di un bilancio complessivamente positivo: Giacomo Caiani e Leonardo Civinini sono stati i sindaci della ricostruzione e, da questo punto di vista, essi hanno certamente raggiunto l’obiettivo minimo: strade asfaltate, scuole di vario ordine e grado, e come già ricordato l’obiettivo fondamentale dell’acquedotto.

Nel 1961 si insediò una giunta DC-PSI presieduta dal democristiano Leonardo Civinini. Come maturò questa svolta?

Maturò per gli stessi motivi che portarono il PSI al governo del Paese: il mutato atteggiamento della Chiesa verso la collaborazione fra cattolici e socialisti dopo l’elezione di papa Giovanni XXIII (1958) e l’attenuarsi della guerra fredda. Molto importante e influente, per quanto riguarda Carmignano, fu poi l’esperienza del centro-sinistra nella vicina Firenze, avviata da Giorgio La Pira nel 1961. Il clima culturale e politico fiorentino della seconda metà degli anni Cinquanta era caratterizzato da un  grande fermento ed anticipava già di alcuni anni il portato del Concilio Vaticano secondo. Era la Firenze di Giorgio La Pira, della giovane segreteria DC di Edoardo Speranza, Nicola Pistelli, Ugo Zilletti, e più tardi di Ivo Butini e Cesare Matteini; la Firenze in cui agivano in provincia e in periferia preti “scomodi” come don Milani e qualche anno più tardi don Mazzi all’Isolotto; la Firenze in cui operava un PSI autonomista, fuori dalla linea morandiana, caratterizzando la sua azione con le aperture di Mariotti e Paolicchi. A questo proposito va ricordato l’apporto degli ex azionisti che entrarono nel PSI: Lagorio, Morales, Codignola per citarne alcuni; a questi si aggiungeva l’esperienza de Il Ponte, di Calamandrei ed Enriques Agnoletti; era infine, ma non ultima per importanza, anche la Firenze del PRG di Edoardo Detti. Ho lasciato fuori da questo elenco il PCI, alle prese con il processo di ricambio del gruppo dirigente con l’VIII Congresso. Guido Mazzoni lascia la guida del partito locale in favore degli “innovatori” Fabiani e Galluzzi, avviando così il cammino di allontanamento dal massimalismo, verso la formazione di una cultura di governo locale che già teneva conto dei “ceti medi”. Tutto sommato il panorama politico offriva qualcosa di straordinario a livello, direi, italiano: un laboratorio politico e culturale  che avrebbe finito per influire in qualche modo sulle dinamiche nazionali, certamente sul resto della provincia e quindi anche su Carmignano.

Due anni dopo fu varata la prima giunta di sinistra PCI-PSI, guidata dal socialista Guido Lenzi. Il centro-sinistra ebbe dunque a Carmignano vita assai breve. Perché?

Dopo le elezioni amministrative del 1960 ci vollero alcuni mesi di trattative per preparare la svolta di centro-sinistra e si arrivò così all’estate del 1961. Un anno dopo, nel luglio del 1962, Poggio a Caiano diventò un comune autonomo e questo segnò di fatto la fine del centro-sinistra a Carmignano. Anche durante il percorso che portò all’autonomia di Poggio, la DC pensava di mantenere comunque il governo dei due futuri comuni. Alla base di tutto ci fu un errore di calcolo da parte dei democristiani, che speravano di governare il nuovo comune, dove erano molto forti, e di tenere comunque Carmignano. L’erroneità del calcolo, che aveva forse più le sembianze di una speranza, fu appurata da Bisori: gli giungevano notizie e impressioni che volle controllare. Chiese allora al personale del ministero di effettuare delle proiezioni elettorali, che dettero questi risultati: Poggio a Caiano sarebbe stata a guida DC, mentre Carmignano sarebbe stata appannaggio dei socialcomunisti. Le speranze ed i calcoli sbagliati venivano smentiti dalla matematica. L’elemento probabilmente ignorato da chi nutriva aspettative ottimistiche derivava dalle conseguenze del distacco di Poggio, che fece scendere i due comuni sotto i diecimila abitanti. Nei comuni con meno di diecimila abitanti si votava col maggioritario e, siccome a livello regionale esisteva un accordo fra socialisti e comunisti per le alleanze nel governo locale, ciò rese impossibile la prosecuzione dell’alleanza DC-PSI.

 Puoi riassumere brevemente le ragioni su cui poggiava la richiesta di autonomia di Poggio a Caiano?

La richiesta di autonomia avanzata nel 1957 aveva due precedenti: altre due richieste – formulate rispettivamente prima della grande guerra e durante il fascismo – erano state infatti respinte. La richiesta del 1957, sostenuta da una raccolta di firme, andò invece in porto entro cinque anni. I fattori della spinta all’autonomia erano di tipo economico, politico ed identitario. Le frazioni di Poggio a Caiano e Poggetto erano in buona parte composte, come già ricordato, da imprenditori, artigiani, commercianti e impiegati. Un ceto medio cosciente del fatto che il comune di Carmignano stesse viaggiando a due velocità: di fronte al boom economico appena iniziato, la parte agricola e collinare stava decadendo, mentre le zone urbanizzate della piana erano partecipi dello sviluppo. L’elemento economico si fondeva con quello politico: la richiesta di autonomia fu facilitata dal fatto che il colore politico dei richiedenti era lo stesso del governo centrale. La DC di Poggio a Caiano riuscì ad interessare e coinvolgere nel percorso il segretario provinciale del partito, Cesare Matteini; il senatore eletto nel collegio cioè Bisori; il parlamentare Giuseppe Vedovato; in vario modo le diocesi di Pistoia e di Prato, e don Milton Nesi, responsabile dei Comitati civici pratesi. Un peso notevole ebbe infine l’elemento identitario. Poggio a Caiano, infatti, aveva sempre avuto una sua peculiarità rispetto al resto del comune: la Villa medicea (poi reale) era il centro culturale, sociale ed economico attorno al quale la frazione si era sviluppata, un “indotto” dalle molteplici valenze, a cui si aggiungeva l’Istituto delle minime suore del Sacro Cuore, altro centro “gravitazionale” religioso, culturale e sociale. Anche la geografia contribuiva a diversificare Poggio dal resto del comune: Poggio, infatti – collocata in pianura, ben collegata con la strada statale a Firenze ed a Pistoia – era sempre stata un crocevia di scambi e non per nulla aveva avuto, nei primi decenni del Novecento, il tram e il telefono, simboli di progresso e di distinzione rispetto ai centri vicini.

Quali sono stati, a tuo parere, gli eventi più importanti nella storia di Carmignano nel secondo dopoguerra?

Sul piano politico va ricordato che Carmignano fu a guida DC fino al 1963, ma certamente merita attenzione la breve e dimenticata parentesi del centro-sinistra ed il distacco di Poggio a Caiano, che portò le sinistre alla guida del Comune. Su quello economico la crisi della mezzadria, maturata negli anni Cinquanta-Sessanta, con le sue enormi conseguenze a livello sociale.

 È corretto affermare che, dopo la fine dell’istituto mezzadrile, Carmignano si è riassestata sul piano economico, trovando un equilibrio che si basa, da un lato, su un’agricoltura che fornisce prodotti di nicchia (vino ed olio, in primo luogo) e, dall’altro, su un temperato sviluppo industriale?

Sì, l’affermazione è corretta. Nel 1961, come ricordò il sindaco Leonardo Civinini in consiglio comunale, c’erano già 2.500 pendolari (su poco più di 4.600 attivi) che andavano verso la piana pratese e fiorentina a lavorare nel settore secondario, nell’industria e nell’artigianato. Negli anni successivi quel numero crebbe, e si ebbero due risposte all’industrializzazione: da un lato la nascita dei laboratori e degli “stanzoncini” tessili presso la casa di abitazione; dall’altro la prosecuzione del pendolarismo verso le zone produttive. Quanto all’agricoltura, sebbene vi fosse qualche fenomeno di sostituzione della manodopera con altra venuta dal sud della Toscana o dell’Italia, il numero degli addetti al settore primario scese senza sosta. Ma, in Toscana come altrove, si riuscì a convertire un dramma economico ed occupazionale in un’opportunità di sviluppo. Da un lato i due “Piano Verde” del 1961 e del 1966, e dall’altro la nascita delle regioni con le deleghe annesse, determinarono una diversa attenzione verso il settore dell’agricoltura. Le colture promiscue, miste, caratteristiche dell’era mezzadrile, lasciarono il posto alle monocolture ad alta specializzazione della vite e dell’olivo. Un graduale ma preciso orientamento guidato dalle aziende agricole locali che hanno consentito di offrire quelle eccellenze del territorio che sono oggi il vanto dell’area carmignanese e poggese. Relativamente agli anni più recenti, va tenuto presente anche lo sviluppo dell’agriturismo, dovuto ad una sensibilità, maturata nella seconda metà degli anni Ottanta, tenendo conto delle esigenze di un turismo che muta abitudini e modalità di permanenza sul territorio, e che allarga i suoi orizzonti al di fuori delle città d’arte toscane.

L’industria è concentrata soprattutto a Seano ed a Comeana (lungo la via Lombarda, l’arteria che collega Comeana stessa a Poggio a Caiano). Quali sono i rami di attività più importanti?

Lo sviluppo della parte pianeggiante del territorio carmignanese ha a che fare con lo sviluppo demografico ed economico connesso al distretto pratese, ed è legato, nei decenni più recenti, a spostamenti di persone da Firenze e Pistoia verso Carmignano e Poggio a Caiano: dalla fine degli anni Sessanta agli anni Ottanta Seano e Comeana crescono: lo sviluppo demografico si accompagna a quello urbanistico, edilizio ed economico. La pianificazione urbanistica di quei periodi, fino agli anni Novanta, prevede aree destinate alla produzione artigianale ed industriale nella zona compresa fra Prato sud, Seano e la periferia nord di Poggio a Caiano, oltre alla zona sviluppatasi successivamente lungo la via Lombarda. Il settore più importante è quello del tessile-abbigliamento, che si pone come indotto di Prato, ma ci sono anche diverse piccole aziende meccaniche.




Spiegare il porrajmos a scuola.

Personalmente, ho iniziato ad occuparmi della questione del popolo romanì sei anni fa, dopo aver ascoltato una lezione alla Summer School della Regione Toscana propedeutica all’edizione del 2013 del Treno della Memoria.

La lezione era tenuta dal giovane ricercatore Luca Bravi, che ha trattato del porrajmos.

Da allora, questo sterminio dimenticato o taciuto è diventato oggetto di grande interesse per me e, attraverso la storia della liquidazione la notte fra l’1 e il 2 agosto dello Zigeunerlager di Auschwitz-Birkenau, mi sono appassionata alla storia di sinti, rom, camminanti, non solo leggendo saggi e  articoli su di loro, ma avvicinandomi (indimenticabile l’esperienza delle lezioni sull’integrazione dei rom fatte a Secondigliano, Scampia, Portici) e facendo amicizia con loro, soprattutto con Ernesto Grandini.

Come docente, ho iniziato a spiegare il porrajmos a scuola, soprattutto in occasione del giorno della Memoria o come preparazione per gli alunni che avrei portato al Treno della Memoria (a cui sto partecipando per la terza volta) e ho invitato anche Luca a tenere conferenze ai ragazzi di quarta e quinta, sia sul porrajmos sia sul più cocente e attuale problema dell’integrazione e della discriminazione. A tale proposito ho aderito (e poi ne sono diventata formatrice) al progetto europeo SPRYNG, Spreading Young Non-discrimination Generation in collaborazione con Poiein.lab, il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Muenster, in Germania e con quello corrispettivo di Firenze.

Questo anno, con i miei studenti di quinta Liceo Linguistico (che lo scorso anno avevano partecipato al meeting transnazionale SPRYNG) abbiamo deciso di aderire alla XIX edizione del concorso “i giovani ricordano la Shoah”, indetto dal MIUR. Con i miei allievi abbiamo ideato e montato un filmato attinente alla frase della Senatrice a vita Liliana Segre, oggetto del concorso e, tra l’altro, il nostro elaborato contiene 6 video in cui ogni ragazzo, partendo da storie anche poco note, di chi non è tornato dai campi, racconta la sua vicenda, dando così voce a quella polvere muta; ognuno incarna una categoria: l’ebreo, la lesbica, l’oppositrice politica, la disabile, la zingara. Abbiamo deciso di girare i video in luoghi significativi, ad esempio a Palazzo della Signoria, all’associazione CREA per disabili e… in un campo rom.

Così, grazie alla mia amicizia con Ernesto Grandini, siamo andati a Prato, muniti di videocamera e macchine fotografiche. Il campo si trova ai margini della città, lungo uno stradone, viale Manzoni, dove le macchine corrono e si tuffano poco dopo nel nodo di viadotti che allaccia la zona di capannoni industriali all’autostrada Firenze-Mare. È uno dei quattro campi rom di Prato ed esiste da trent’anni. A Prato, infatti, vivono in totale 108 romanì: ci sono due campi di sinti residenti costituiti rispettivamente da 68 e 34 abitazioni in legno, container, roulotte, camper, e un campo dove vivono 6 bosniaci rom residenti. Ci accoglie l’infaticabile, solare, affabulatore Ernesto, che ci fa entrare in piccola unità abitativa adibita a cucina e salotto. Ernesto è anche Presidente dell’associazione Sinti Italiani di Prato e  membro dell’ U.N.A.R. (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), l’ufficio deputato dallo Stato italiano a garantire il diritto alla parità di trattamento di tutte le persone, indipendentemente dalla origine etnica o razziale, dalla loro età, dal loro credo religioso, dal loro orientamento sessuale, dalla loro identità di genere o dal fatto di essere persone con disabilità.

Ernesto è un pozzo di conoscenza e una specie di divulgatore automatico di cultura sinta. Parla in continuazione come se fossimo a lezione, pone domande di cultura rom a cui i miei alunni non sanno come rispondere un po’ per ignoranza un po’ per imbarazzo.  Allora ci racconta cosa è stato nascere in Italia nel 1955, da padre italiano, eroe partigiano, e mamma sinta, conosciutisi alle giostre di Lucca, ed essere messo nelle scuole speciali, quelle dedicate ai bambini rom, che aprivano negli scantinati quando non era orario di lezione per gli alunni “ordinari”. Come è stato essere guardato sempre con sospetto e paura oppure sentir parlare della sua gente solo come spauracchio nelle campagne elettorali. Lui non ha problemi a dichiarare di essere un italiano di minoranza culturale sinta, perché è uno scafato e un chiacchierone, ma riconosce che per un sinto dire chi sei richiede coraggio, perché può voler significare perdere un lavoro. I miei alunni pendono dalle sue labbra. Poi mostra loro tutte le foto del suo cellulare: foto d’epoca di famiglie sinte, personaggi famosi sinti, incontri sulla storia dei sinti.

Mentre beviamo acqua e mangiamo i cioccolatini che abbiamo portato come dono ospitale, Ernesto (a malincuore, si vede) lascia la parola alle due sue nipoti (che saliranno con lui e con noi sul Treno della Memoria), Nancy, studentessa di 17 anni e Margherita, operaia di 24, affinché i miei alunni pongano loro domande, in una conversazione fra pari. A dire la verità, le mie studentesse son subito colpite dall’abbigliamento del tutto alla moda delle due ragazze, dal loro I-phone, dal loro parlare la lingua in maniera correttissima, insomma, dal fatto che non le distingueresti mai da un “gagé”, termine con il quale i rom definiscono “gli altri”, i “non rom”.

E così iniziano le domande:

CHI SONO l SINTI?

Margherita: Non siete abituati a chiamarci sinti, perché in Italia si usa la parola “zingari”, ma noi non la useremmo mai, perché significa nomade, ladro, asociale; in Italia ci sono soprattutto due gruppi: i rom ed i sinti; i rom con antica provenienza dalle terre dell’est (Nord dell’India e Pakistan) ed i sinti con antica provenienza dalle terre del Nord Europa come la Germania, l’Austria, la Svizzera, ma anche la Francia, il Belgio.

Nancy: infatti i sinti hanno gli stessi caratteri somatici degli europei e sono di pelle chiara, i rom hanno tratti più medio-orientali, ad esempio la carnagione olivastra o i capelli scuri. Io sono una “meticcia”, perché i miei genitori sono uno sinto e una rom, per cui spesso mi scambiano per sud americana o del vicino oriente (e ci mostra i suoi capelli ricci e scuri, che a noi sembrano bellissimi!).

Margherita: le nostre sono origini antiche, perché in Italia ci siamo almeno dal 1400. Qui in Italia siamo circa 170mila rom e sinti, più della metà sono di cittadinanza italiana. Le traiettorie partono intorno all’anno Mille dall’attuale Pakistan e poi si diramano e confondono, dando origine a vari gruppi (rom, sinti, manouches, kale, romanichals) con le loro specificità, ma che si riconoscono in uno stesso popolo, il popolo romaní. Il nomadismo è stato quasi sempre una risposta al fatto di essere perseguitati, scacciati o stigmatizzati.  Altri sono arrivati dopo la guerra, dall’Europa dell’Est. Ci sono due ondate più recenti, che corrispondono grossomodo alla guerra nella Ex-Jugoslavia, con rom di origine balcanica, e all’allargamento dell’Unione Europea, con rom di provenienza soprattutto rumena.

SIETE NOMADI?

Non siamo nomadi, ci siamo sempre dedicati tradizionalmente a lavori ambulanti. Alcuni di noi fanno ancora i giostrai, per esempio questo è stato il lavoro di Ernesto, ma non significa che non abbiamo radici in un luogo o in una nazione o che non vogliamo fermarci in un posto. In Italia i miei antenati sono stati pure partigiani (il padre di Ernesto è medaglia d’oro della Resistenza ed è inumato nel cimitero dei partigiani a Bologna), figuratevi se non ci sentiamo italiani. Il fatto che facessimo lavori ambulanti ci ha fatto guardare con sospetto e quando ci fermavamo o tornavamo nella nostra città natale, la gente si impauriva e ci cacciava. Siamo immaginati da tutti nomadi, ma non lo siamo. Oggi qualcuno fa ancora lavori ambulanti, i ragazzi, invece, seguono le scuole come tutti; io ho frequentato la scuola superiore qui. A Prato ci siamo dagli anni Cinquanta.

Nancy: anche io studio qui, frequento il quarto anno dell’istituto turistico.

COME VI TROVATE / SIETE TROVATE A SCUOLA?

Margherita: Io in seconda superiore ho commesso l’errore di dire che sono sinta. Da allora la mia vita scolastica è cambiata: sono diventata trasparente, mi hanno ghettizzata, in alcuni casi sono stata anche vittima di bullismo. Gli insegnati (beh, alcuni di loro, perché altri si sono rivelati razzisti come i miei compagni e hanno iniziato a guardarmi con occhi strani, alcuni con pietà, altri con disgusto) sono intervenuti. Anche il preside lo ha fatto, sospendendo uno studente. Ma la situazione non è migliorata.

Nancy: io, invece, memore della vicenda di Margherita, non ho detto niente a nessuno. Solo un mio compagno, amico fin dall’infanzia, sa che sono sinta. Però è triste non poter mai invitare gli amici a casa per una festa o semplicemente per fare i compiti insieme.

ALLORA, SE NON SIETE NOMADI, PERCHE‘ VIVETE IN UN CAMPO?

Margherita: Perché anche lo stato italiano ci ha considerati nomadi e tra gli anni Settanta e gli anni Novanta ha pensato che i campi nomadi potessero essere il posto dove farci abitare. Li hanno costruiti e ci hanno detto che dovevamo vivere lì dentro. Erano luoghi di emarginazione già allora e sono peggiorati ancora. Non siamo noi a volerci vivere e sappiamo che viverci significa far crescere il razzismo verso di noi. Alcuni dei sinti vogliono vivere in casa, altri ci vivono già. l rom dell’est, invece, hanno sempre vissuto in casa. Immaginate quando, profughi di guerra, sono arrivati qui e, venendo immaginati nomadi, sono messi nei campi. Alcuni di loro hanno pensato che fossero soluzioni transitorie, ma purtroppo non era così. Noi sinti, invece, facevamo lavori ambulanti ed abbiamo sempre vissuto in famiglia allargata in case mobili o in roulottes. E’ il nostro modo di vivere tradizionale, ma non vuol dire che siamo pericolosi per questo né che non vogliamo lavarci, vestirci bene, andare a scuola, vivere con gli altri. E‘ solo un modo diverso di vivere: non vogliamo vivere in un campo nomadi senza fogne, senza acqua calda, fuori dalle città. Chiediamo di poter acquistare dei campi privati, creare la nostra micro area, poterci allacciare alle fogne, avere dei bagni in muratura. Tutto questo costa meno di quanto si spende per i campi nomadi e noi vogliamo partecipare alla costruzione; non vivere in una casa non significa essere pericolosi.

Ernesto: proprio qui, dall’altro lato della strada, c’è un cascinale abbandonato, che sta diventando un rudere. Abbiamo chiesto un micro credito al comune di Prato per poterlo acquistare. Lo avremmo ristrutturato noi, con le nostre mani, a nostre spese…ma ce lo hanno negato.

SIETE LADRI?

Nancy: Il furto non è una caratteristica né dei rom né dei sinti, come l’essere mafiosi non è caratteristica degli italiani; le statistiche di delinquenza tra rom e sinti sono le stesse del resto della popolazione italiana. Certamente però i campi nomadi sono dei ghetti, ci sono povertà e miseria soprattutto in quei giganteschi campi delle grandi città ed allora in qualsiasi ghetto e più facile che attecchisca la delinquenza e che la criminalità organizzata si infiltri più facilmente. Ci sono rom e sinti che vengono arrestati per furto, ma questo non autorizza nessuno a dire che l’intero gruppo dei rom e dei sinti è fatto di ladri, come se fosse una caratteristica genetica. Una cosa simile l’hanno detta i nazisti quando hanno mandato i miei parenti nei campi di sterminio; spero siano concetti ormai superati.

E IL LAVORO?

Margherita: Io l’ho sempre cercato, come tanti altri ragazzi e ragazze e mi sono adattata a ciò che ho trovato. Ma quando devo andare a firmare il contratto e, dalla carta di identità, vedono dove vivo o trovano una scusa per non assumermi più o, alla scadenza del contratto, non me lo rinnovano. Adesso mi sono adattata a lavorare in una fabbrica. Lì mi hanno assunta perché sono tutti lavoratori stranieri ed io, pur essendo italianissima, sono percepita come una straniera.

Anche chi è nato in Italia e qui è vissuto, continua a convivere in questa forte contrapposizione tra sinto/rom e gagé, poiché, il paese natale (l’Italia) non ci riconosce come propria parte ma  ci identifica come qualche cosa di estraneo, da emarginare e allontanare; ecco allora il gruppo familiare, la comunità locale zingara che diventa la propria patria, il proprio stato. Si nasce in Italia ma si è zingari, si è stranieri.

MA E’ VERO CHE VI SPOSATE E FATE FIGLI MOLTO PRESTO?

Margherita: In passato era così, ma adesso no. Io, ad esempio, ho 24 anni e non ho neppure un fidanzato, quindi non penso assolutamente né a sposarmi né tanto meno ad avere figli! Ma penso che la stessa cosa fosse per voi “gagé”: anche la generazione dei vostri nonni, che non studiava, metteva su famiglia molto presto.

Ernesto: Io sono un’eccezione, perché sono diventato padre a 16 anni. Non perché lo volessi, ma perché ho messo incinta la mia ragazza di allora (sono divorziato) ed ho voluto assumermi le mie responsabilità. Fortunatamente vivevo in una famiglia con molte donne, mamma e tre sorelle, quindi mi hanno aiutato moltissimo a crescere mio figlio.

E COME FUNZIONA DA VOI IL MATRIMONIO?

Ernesto: (sorridendo) dice “siamo noi che abbiamo inventato le coppie di fatto!”.

Nancy: Non esiste una cerimonia ufficiale, in cui è necessario andare in comune e mettere una firma (certo, chi vuole, può farlo) ma il nostro matrimonio consiste essenzialmente in una “fuitina” (e ride), come credo che avvenisse in passato nel sud Italia se eri rimasta incinta e dovevi far accettare al paese il matrimonio.  I due innamorati fuggono e poi ritornano insieme, ottenendo il perdono delle famiglie. È quindi ormai generalizzato il cerimoniale, per così dire più economico, della fuga nuziale, che continua ad essere rispettato anche dai più giovani e nei casi di matrimoni tra appartenenti a famiglie residenti in campi diversi. Negli ultimi anni si sono registrati anche matrimoni tra appartenenti al popolo rom e gagé.

Il matrimonio celebrato con rito rom, non è riconosciuto dallo stato italiano, ma è l’unico che conta per la comunità, infatti, è da questo momento che ha inizio la vita matrimoniale.

Per noi è previsto anche il divorzio. Nel caso di divorzio alla presenza di figli, l’antica regola è che i figli maschi restino con la famiglia del marito. Per le figlie femmine, pur vigendo la stessa regola, ci sono margini di contrattazione.

VOI VIVETE IN FAMIGLIE ALLARGATE?

Ernesto: per noi la famiglia è molto importante. Ma non solo il nucleo familiare ristretto, ma tutta la comunità. Ad esempio ci aiutiamo molto fra di noi. Poco tempo fa un membro della nostra comunità si trovava in difficoltà economiche a causa di un figlio malato e tutti noi abbiamo fato una colletta e gli abbiamo dato i soldi affinché il bambino fosse operato e curato nei migliori centri specialistici. Le nostre comunità sono caratterizzate da una forte solidarietà tra i diversi nuclei familiari, che si manifesta concretamente con la condivisione, in caso di necessità, di guadagni ed eventuali perdite o danni.

Margherita: La tradizione prevede che con il matrimonio la donna transiti nella famiglia del marito.

Ernesto: (intervenendo) nel caso della mia famiglia è stato tutto il contrario. E’ stato, infatti, mio padre, che era una “gagé” a lasciare la sua vita sedentaria e scegliere di vivere nel campo rom di mia madre, a Lucca.

Margherita: Sempre secondo l’antica tradizione, i genitori vivono e sono accuditi dal figlio più piccolo e da sua moglie; questi devono prendersi cura di loro fino alla morte. Nella nostra società c’è un forte rispetto verso le persone più attempate. È l’anziano che con la sua saggezza indica ai figli la ‘strada giusta’. Il rispetto per gli anziani è un valore molto diffuso anche tra i giovani. Un aspetto della vostra cultura che a noi pare non accettabile è l’abbandono degli anziani, ad esempio in una casa di cura, dove sono lasciati a loro stessi.

E RIGUARDO ALLA DONNA? C’E’ SOTTOMISSIONE?

Ernesto: (che come sempre vuol parlare per primo): no, no, c’è un rapporto del tutto paritetico. Io però non cucino!

Notiamo però che è lui a chiedere alle nipoti di offrirci l’acqua e versarla. Lui non si alza a farlo.

Margherita: anche la donna ha una certa rilevanza e valore, soprattutto una volta divenuta anziana. Comunque a me nessuno ha mai detto chi devo frequentare o ha controllato la mia vita privata.

CHE NE PENSI DELLE ZINGARE, CHE VEDI IN GIRO CON LA GONNA LUNGA, A CHIEDERE L’ELEMOSINA?

Nancy: Si tratta non di sinti, ma di rom di recente immigrazione, che sono molto attaccati ancora alle loro tradizioni. Essi vengono, a differenza di noi sinti, dai Balcani. Sotto l’impero Ottomano del XIII-XIV secolo, i Rom furono sfruttati attraverso una gravosa tassazione. Svolgevano attività prevalentemente artigianali, erano sarti, orefici macellai, ma eseguivano anche attività immonde, come quelle di boia. In Valacchia e Moldavia, i Rom furono oggetto di schiavitù e impiegati nei lavori più svariati, dalla coltivazione della terra alla protezione dei padroni. In questo modello il Rom può mantenere la propria cultura poiché è questa diversità culturale che giustifica il suo inserimento in attività degradanti e immonde.

Coloro che noi vediamo a chiedere l’elemosina o a lavare i vetri sono quelli arrivati nel periodo fra le guerre balcaniche e l’ingresso della Romania nella UE. Arrivano e vengono messi in campi sporchi, privi di ogni decenza igienico sanitaria, vengono marginalizzati. Nessuno offre loro un lavoro, a meno che non lo faccia la criminalità organizzata che spesso si serve di queste persone.  Quindi è normale che, se vengono trattati come bestie, finiscano quasi per divenirlo.

Dopo un paio di ore (fosse stato per noi e per loro saremmo rimasti ben di più) salutiamo la popolosa famiglia di Ernesto; infatti alla spicciolata tutti i figli e nipoti passano dal nonno: c’è il figlio che ha avuto un incidente e ne porta ancora le tracce, c’è la figlia di 44 anni che è di ritorno con i suoi due bambini dal campetto di calcio dove avevano un torneo, c’è la sorellina di Nancy di tre anni.

Ci salutiamo invitandoli a venire a scuola, a raccontare anche agli altri alunni qualcosa sulla loro cultura, al fine di decostruire un pregiudizio fin troppo radicato. E verranno di sicuro! E poi ci rivedremo sul Treno della Memoria.




Antiche villeggiature, la grande scoperta della Val di Bisenzio

Le Antiche villeggiature, un articolato progetto regionale di ricerca e memoria partecipata, condotto dalla Fondazione CDSE (Centro di documentazione storico etnografica) in Val di Bisenzio, ha portato alla luce un suggestivo racconto collettivo che ha come sfondo gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi del Novecento e vede protagonisti, tra gli alti, Amelia e Joe Rosselli con i loro figli, Aldo, Carlo e Nello. La pubblicazione Antiche Villeggiature: Val di Bisenzio e Montepiano tra Ottocento e Novecento è curata da Annalisa Marchi, Alessia Cecconi, Luisa Ciardi e Cinzia Bartolozzi che hanno condotto una ricerca accurata e minuziosa.

Vacanze e vacanzieri della fine dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento vengono raccontati per la prima volta in una pubblicazione, stracolma di curiosità, luoghi, personaggi e fascinose foto d’antan (sono addirittura 254). Con dovizia di particolari vengono alla luce gli aspetti della svolta turistica che vede protagonisti gli Appennini, da Prato fino a Bologna.

La solida e curiosa borghesia della Belle Epoque – fiorentina ma non solo – elegge Montepiano a buen retiro estivo mentre la sezione del Club Alpino italiano contribuisce a promuovere la Vallata con iniziative, escursioni e pubblicazioni.

Incontriamo Amelia e Joe Rosselli, scrittori come Renato Fucini e poi musicisti, professionisti e industriali. Dall’Inghilterra, dalla Germania e dagli Stati Uniti, alla ricerca di esperienze originali, arrivano turisti dai gusti raffinati. Tutto verrà raccontato tra luglio e agosto attraverso un ricco calendario di iniziative pubbliche, presentazioni e spettacoli teatrali nei Comuni di Vernio, Cantagallo e Vaiano. Due le mostre documentarie e fotografiche in programma (a Migliana e all’Archivio di Stato di Prato).

Sorprendenti i legami tra l’ebraica e cosmopolita famiglia Rosselli (trasferitasi a Livorno da Roma nel Settecento) e Montepiano. Amelia Pincherle (è la zia di Alberto Moravia) e il marito Joe Rosselli scoprono Montepiano nel luglio 1896: Aldo, il loro primo figlio, ha soltanto un anno. Negli anni a venire trascorreranno qui molti periodi di vacanza e montepianine saranno le balie di Carlo e Nello Rosselli: Maria Morganti e Virginia Mazzetti. “Sai che qui in paese tutti si ricordano di voi quando eravate a Montepiano? C’è il padrone della mia pensione che si rammenta con molto affetto di voi, i Nathan…”, scrive da Montepiano Nello Rosselli alla madre Amelia nel 1919.

L’aria buona e la tranquillità che poteva offrire la villeggiatura a Montepiano era stata scelta proprio pensando al piccolo Aldo, nato nel luglio 1895 a Vienna, dove Amelia e Joe si stabilirono appena sposati. A Montepiano trascorreranno le loro vacanze per diversi anni sia i Rosselli che i Nathan. La madre di Joe, Henrietta Nathan era inglese e sorella di quell’Ernesto Nathan famoso per essere stato, prima l’erede testamentario di Mazzini, e poi per essere eletto, a inizio Novecento, sindaco di Roma con il blocco popolare. A Londra, dove Mazzini sopravvisse grazie agli aiuti delle famiglie Nathan-Rosselli, il padre di Joe, Sabatino Rosselli, aveva aperto un ufficio di cambio nella City. “Stando al corpus delle numerose lettere rinvenute presso il Fondo Rosselli (conservato all’Archivio di Stato di Firenze) Amelia inizia a frequentare Montepiano qualche anno prima di trasferirsi a Firenze.- si legge nel volume –  Le trame di intimità e le note di costume che affiorano nelle lettere aprono finestre luminose e contribuiscono a ricostruire un pezzo della storia della villeggiatura a Montepiano, nonché frammenti privati dell’epopea della famiglia Rosselli”.

La svolta turistica della Vallata e di Montepiano, quest’ultima già famosa a Firenze per il suo straordinario burro, è legata all’affermazione della nuova cultura della villeggiatura di fine Ottocento. Decisivo è il completamento, tra il 1885 e il 1892, della Strada Maestra che finalmente collega San Quirico a Montepiano. Non è davvero un caso che proprio nel 1892, a Montepiano, si registri un boom di 500 turisti.

Sono tre giovani della sezione fiorentina del Club Alpino italiano: Michele Gemmi, Giuseppe Ricci e Luigi Alessandri i promotori della stagione d’oro dell’Alta Valle. A far da pioniere alla svolta turistica è però Emilio Bertini che con la sua instancabile attività fa conoscere e amare la Val di Bisenzio di cui pubblica una guida che resta una pietra miliare del genere. Le iniziative di moltiplicano: nel 1879 la sezione del Cai di Firenze, insieme a quella di Bologna, organizza una doppia traversata Bologna – Prato. “Con l’arrivo dei villeggianti comparvero locande, trattorie e i primi affittacamere e furono pubblicate guide con itinerari e indicazioni – raccontano le autrici – Per i decenni a venire la Val di Bisenzio avrebbe richiamato italiani e stranieri, letterati ed artisti, industriali e scienziati, personaggi che spesso lasciarono nei loro scritti pubblici e privati ricordi e tracce affascinanti della loro villeggiatura. Montepiano, che si arricchì di ville e villini e ospitò anche numerose colonie terapeutiche”.




Riflessioni sulla crisi della mezzadria nel Carmignanese

Un paio di anni fa, lavorando ad una ricerca sul tramonto della mezzadria nella zona di Prato con particolare riguardo alla situazione della Val di Bisenzio, ebbi modo di constatare che ben poco era stato scritto sull’argomento per quanto concerneva il Carmignanese, un territorio dove l’agricoltura ha sempre rivestito (e tuttora riveste) un’importanza rilevante e dove esistevano alcune grandi fattorie, prima fra tutte quella di Capezzana, che contava circa 120 poderi (per farsi un’idea delle sue dimensioni, davvero eccezionali, basti pensare che la Fattoria del Mulinaccio, la più grande della Vallata, che si estendeva su di un’area equivalente all’incirca alla metà del territorio dell’attuale Comune di Vaiano, comprendeva in tutto 36 poderi).

Alcune notizie sull’agricoltura a Carmignano si trovavano in opere che, per quanto interessanti e di gradevole lettura (pensiamo ai volumi di Giuseppe Mauro Bindi e di Arrigo Cecchi), rivestivano più il carattere della memorialistica che quello della ricerca storica.

Altri lavori (per esempio Carmignano. Quotidinanità e istituzioni tra Ottocento e Novecento, di Fabio Panerai) avevano un taglio sociologico, oppure fornivano solo degli spunti – sia pure stimolanti ­– sull’argomento in questione (ci riferiamo al libro di Nadia Barducci e di Paolo Gennai sulla Resistenza nel Carmignanese).

L’unica ricerca specificamente dedicata all’agricoltura nella zona (quella di Silvia Palumbo, intitolata Un’indagine sull’agricoltura nel comune di Carmignano) risaliva al 1988 ed abbracciava un periodo successivo a quello di cui ci occupiamo.

Ciò che mancava era una ricostruzione d’insieme, centrata sui fattori che determinarono la fine della mezzadria, l’abbandono delle campagne e le successive trasformazioni economiche e sociali: nacque così l’idea – subito accolta, con squisita sensibilità culturale, dal Comune di Carmignano – di lavorare ad una pubblicazione su questi temi. Il libro, arricchito da un saggio introduttivo di Fabio Bertini ed intitolato “Levassi di cappello e venir via”. Agricoltura e crisi della mezzadria nel Carmignanese, è uscito nell’aprile di quest’anno per i tipi della casa editrice Polistampa di Firenze.

Le fonti su cui lavorare erano, per fortuna, numerose: fonti archivistiche, fonti a stampa, fonti orali e risorse in Rete.

I principali documenti su cui si basa il saggio sono stati reperiti presso l’Archivio del Comune di Carmignano, presso quello della Camera del lavoro di Prato e fra le carte prodotte dalla Confederterra toscana, custodite a Firenze nella sede della CGIL regionale.

Di centrale importanza sono state le fonti a stampa, in primo luogo il periodico Toscana nuova, che pubblicava di frequente delle corrispondenze da Carmignano a firma di Gennaro Meli, scomparso di recente, segretario della Lega coloni e mezzadri e consigliere comunale del PCI nei primi anni Cinquanta.

Come spesso accade in questo genere di lavori, le fonti orali hanno avuto un ruolo di primo piano: con gratitudine voglio quindi ricordare tutte le persone che, in tempi diversi, hanno saputo fornirmi delle informazioni di grande interesse.

Utili sono state infine le risorse in Rete: pensiamo soprattutto all’Archivio della cultura contadina, consultabile online dal sito del Comune, che raccoglie una serie di interviste condotte da Giovanni Contini Bonacossi negli anni Novanta.

Il titolo del volume (“Levassi di cappello e venir via”), tratto da un componimento poetico in ottava rima del contadino carmignanese Luigi Socci, ci pare che riassuma con grande efficacia la natura del rapporto che intercorreva fra padroni e mezzadri, costretti ad obbedire senza possibilità di replica: come spesso accade il poeta popolare riesce a cogliere con precisione il fulcro dell’argomento di cui si occupa, il nocciolo della questione, ed a renderlo con quell’immediatezza che non a tutti è dato di possedere.

“Levassi di cappello e venir via”, dunque. Cerchiamo allora di ricostruire, in estrema sintesi, le condizioni dei contadini carmignanesi negli anni Cinquanta-Sessanta, gli anni che videro la fine del sistema mezzadrile.

Senza alcun dubbio la loro vita era una vita molto difficile: i mezzadri vivevano in case fatiscenti, senza servizi e – spesso – senza acqua corrente (anche qui c’era chi era costretto a percorrere 1-2 chilometri a piedi per approvvigionarsi di acqua alla sorgente più vicina); dovevano fare con le loro braccia il lavoro che avrebbero dovuto fare le macchine; le opere di miglioramento fondiario non venivano realizzate dai proprietari; il ritardo nella chiusura dei saldi era quasi la regola ed altrettanto poteva dirsi della pratica degli addebiti illegali.

Il dato che, tuttavia, balza agli occhi con maggior evidenza è quello della tenuità del reddito mezzadrile: basti pensare che, come è stato rilevato in precedenti studi, un operaio guadagnava in media all’incirca il triplo di un contadino e che nel Pratese il reddito medio mensile di un mezzadro era superiore solo a quello di un ragazzo addetto all’avvolgitrice di filati, “a far cannelli”, come si dice.

Nessuna meraviglia, dunque, che i contadini volessero abbandonare le campagne. Il discorso valeva soprattutto per i giovani, che fuggivano dai poderi rifiutando una vita senza prospettive, identica a quella dei genitori, per cercare in città un lavoro meno massacrante e più redditizio, maggiori possibilità di socializzazione e di divertimento.

La mezzadria era insomma condannata: ma i padroni volevano davvero salvarla?

In realtà, si può sostenere che essi – assumendo un atteggiamento di rigida chiusura nei confronti delle richieste avanzate dal movimento contadino – contribuissero scientemente all’affossamento dell’istituto mezzadrile, dato che il loro vero obiettivo non era la sua difesa, ma piuttosto la trasformazione in senso capitalistico delle aziende agricole, il passaggio alla conduzione a salariati.

E questo fu proprio ciò che accadde anche a Carmignano: non per nulla in un suo libro di memorie l’agrario Ugo Contini Bonacossi, proprietario della Fattoria di Capezzana, ha scritto che la fine della mezzadria consentì ai proprietari una gestione delle aziende più agile e, con l’abbandono delle colture promiscue, necessarie al sostentamento della famiglia colonica, rese possibile un’utilizzazione più razionale del suolo.

Questa fu la linea che finì col prevalere, anche se c’era la possibilità di politiche alternative – imperniate su una riforma agraria strutturale, che desse ai contadini la terra ed i mezzi per lavorarla – la cui realizzazione fu resa impossibile dalle resistenze degli agrari e delle forze politiche di maggioranza, che costituivano il loro referente al governo ed in Parlamento.




L’ALTRA ALLUVIONE

«Ognuno ricorderà come nei giorni dell’alluvione si facessero le cose che erano necessarie con l’unico criterio del fare subito, del fare presto, dell’intervenire immediatamente».

Dopo la devastazione che ha colpito il centro di Firenze fin dalle primissime ore del mattino, alle 5.00 a Lastra a Signa, i torrenti Rimaggio, Guardiana e Vingone, affluenti in riva sinistra dell’Arno, rompono gli argini e inondano Ponte a Signa, lungo via di Sotto, le zone di Stagno e Tripetetolo, oltre al centro storico, dove si registrano picchi di inondazione di cinque metri. Quasi contemporaneamente il Bisenzio rompe a San Piero a Ponti, per un tratto di circa ottanta metri, riversando le proprie acque su San Mauro a Signa e Campi Bisenzio. Poco dopo, alle prime luci dell’alba, sotto una pioggia ancora incessante, l’Ombrone Pistoiese rompe l’argine sinistro prima a Ponte a Tigliano, per un tratto di quasi cento metri, inondando la campagna meridionale di Prato (Tavola, Cascine Medicee di Tavola, Castelnuovo, San Giorgio a Colonica, Le Fontanelle) poi a Castelletti, nel comune di Signa. Unendosi a quelle del Bisenzio, le acque dell’Ombrone sommergono Lecore, Sant’Angelo (dove si registrerà una delle situazioni più difficili da gestire per il totale isolamento in cui la frazione si verrà a trovare) e Le Miccine. Più a ovest i torrenti Stella e Quadrelli sommergono Caserana e l’area della Querciola, nel comune di Quarrata, oltre a Valenzatico e Olmi. Il Fosso di Iolo e il Torrente Calice peggiorano la situazione pratese. Infine, l’Arno, rompe a San Donnino. Il reticolo è completamente collassato: l’Arno, è al massimo della sua portata, e i suoi due affluenti principali nella zona, Bisenzio e Ombrone, sono costretti a “tornare indietro” perché il fiume non riceve e così fanno gli affluenti minori e tutto il reticolo di canali e gore, causando rotte e tracimazioni. La tempesta perfetta.

s-mauro

San Mauro

A metà mattina il cielo si rischiara, tutto intorno un’unica, luccicante distesa d’acqua, a perdita d’occhio. Ma non si tratta di un “mare della tranquillità” bensì di un’inondazione senza precedenti, improvvisa e furibonda, che in alcuni punti ha raggiunto oltre cinque metri e spazzato via tutto ciò che ha trovato sul suo cammino: case, negozi, fondi artigianali, automobili, mezzi da lavoro, fattorie, animali. Chi abita in quelle zone è abituato alle piccole inondazioni, venti, trenta centimetri, ma nessuno si aspetta niente del genere e le precauzioni, quindi si sono limitate a paratoie alle porte e qualche suppellettile riparata sopra un tavolo o su un mobile. Tutto inutile.

La macchina dei soccorsi si organizza, spontanea, in ogni frazione colpita, e le testimonianze qui si assomigliano un po’ tutte: grande spirito di solidarietà, coraggio, intraprendenza: zattere di fortuna costruite con assi e bidoni, i cosiddetti “brusini”, per portare in salvo parenti, amici, vicini o far arrivare loro da mangiare. Beni di prima necessità, come acqua, pane e latte, per chi ha ancora la fortuna di averli, passati di casa in casa sui fili dei panni o con canne di bambù; mezzi privati a disposizione dei comuni, che in brevissimo tempo si organizzano in centri operativi (piccole unità di protezione civile ante litteram) di raccolta e smistamento di aiuti e interventi. Un’unica grande comunità riunita, oltre ogni distinzione culturale, sociale e politica, in un’unità d’intenti che non si vedeva, forse, dal secondo Dopoguerra. Gli aiuti organizzati arriveranno pochi giorni dopo e, fra i contadini che non erano mai stati al mare, in molti ricordano i patini di Viareggio, che vedevano per la prima volta.

In tutto questo va ricordata la straordinaria opera del Comune di Prato, “un’isola in un mare di disperazione”, come fu definita più volte nelle cronache di quei giorni, il cui centro rimase all’asciutto, sommersa la sua parte meridionale, prestata con grandissima generosità sul suo fronte cittadino e su tutti quelli circostanti, fino a Fiesole, Empoli, Castelfiorentino. Come scrisse il sindaco di Firenze Piero Bargellini in un telegramma al sindaco di Prato Giorgio Vestri del 21 novembre: “Firenze ancora col fango alla gola rivolge a lei e alla sua generosa città un primo fervido ringraziamento per l’opera di soccorso”.
Con il deflusso delle acque arrivò il grande problema della ripulitura dalla nafta e dal fango e l’amara constatazione che molto era irrimediabilmente perduto, soprattutto nelle zone agricole, che saranno in gran parte abbandonate a favore di piccola imprenditoria tessile e artigiana. Ma erano gli anni Sessanta e a Natale di quell’anno il peggio sembrava davvero già superato.

*estratto dal libro di Aurora Castellani “L’altra alluvione – Il 4 novembre 1966 a Prato, Campi Bisenzio, Signa, Lastra a Signa e Quarrata” – Edizioni Medicea Firenze – www.edizionimediceafirenze.it

“L’altra alluvione” racconta, con materiale fotografico e documenti inediti, il 4 novembre 1966 fuori Firenze: Prato, Campi Bisenzio, Signa, Lastra a Signa e Quarrata. Una calamità quasi sconosciuta ma non meno dolorosa per chi subì la furia improvvisa di Arno, Bisenzio, Ombrone pistoiese e di molti torrenti, in molti casi perdendo tutto; di certo non lo spirito, il coraggio e la generosità. Si reagisce e ci si rimboccano subito le maniche per ripartire e aiutare parenti e amici, offrendo quel che si ha per distribuirlo ai meno fortunati. E i comuni, Prato in testa, si fanno trovare pronti ad accogliere questo grande slancio, la mobilitazione spontanea di una comunità intera che si riunisce per portare aiuto ovunque ci sia bisogno.

Aurora Castellani (Prato, 1980), editor e traduttrice, lavora nel mondo dell’editoria dal 2007, curando pubblicazioni di vario genere. È stata assessore alla Cultura e Pubblica Istruzione del Comune di Vaiano dal 2009 al 2014 e attualmente è Presidente del Museo della Deportazione e Resistenza di Prato. Dal 2015 è direttore editoriale di Edizioni Medicea Firenze. Questo è il primo lavoro a sua firma, frutto di una lunga ricerca d’archivio e interviste inedite.