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La Resistenza continua…

Angiolo Gracci nacque a Livorno il primo agosto 1920, da una famiglia con radici contadine. Fu condotto presto dalla Toscana alla Sicilia a causa del mestiere del padre, ferroviere che diresse in successione le stazioni di Sciara Aliminusa e Castellammare del Golfo tra il 1926 e il 1929.

La permanenza nei centri palermitani, dove il piccolo venne inquadrato nelle strutture educative fasciste, lo colpì profondamente e lo rese poi sensibile alla questione del divario socioeconomico Nord-Sud e al disagio materiale di larga parte della popolazione meridionale. Nei suoi racconti agli studenti, durante gli ultimi decenni di vita, affiorava spesso il ricordo di esser stato l’unico ad indossare le scarpe in quella stalla riadattata che era l’aula della scuola elementare frequentata in Sicilia.

 Al termine del  liceo classico Galilei di Pisa, il giovane Gracci si spostò a Roma per frequentare l’Accademia e Scuola di applicazione della Regia Guardia di Finanza e ottenere così l’arruolamento nel Corpo il 23 ottobre 1939. Nominato sottotenente il primo settembre 1941, venne inviato in Albania nel gennaio seguente tra le truppe d’occupazione italiane, con le quali partecipò alle operazioni di guerra.

Rientrato in Italia, il 9 settembre 1943 fu assegnato al Comando della Legione di Firenze della Guardia di Finanza. Assistendo così all’invasione nazista dell’Italia, Angiolo fondò con altri studenti della sinistra del Gruppo Universitario Fascista fiorentino il Movimento giovani italiani repubblicani. Conclusa questa breve esperienza, la maggioranza degli aderenti al gruppo si schierò con la Repubblica Sociale Italiana. Gracci, preso contatto col futuro Commissario Politico della Divisione Arno Danilo Dolfi – del suo stesso quartiere – scelse invece la via della montagna.

Gracci – in alto a destra – con altri partigiani della Brigata Sinigaglia a Monte Scalari, estate 1944

Gracci – in alto a destra – con altri partigiani della Brigata Sinigaglia a Monte Scalari, estate 1944

All’inizio del giugno 1944 Angiolo, che diventava così il partigiano “Gracco”, raggiunse la Brigata Sinigaglia presso Poggio alla Croce, con l’incarico di Capo di Stato maggiore conferitogli dal Corpo volontario della libertà. Un mese più tardi, su designazione del Comando di divisone e dietro conferma dei partigiani, assunse il comando della formazione stessa, riorganizzandola dopo le gravissime perdite subite nella battaglia di Pian d’Albero del 20 giugno 1944.

Compromessa l’importanza strategica di Monte Scalari per i nazifascisti, contribuì a sottrarre all’accerchiamento e alla distruzione la Brigata raggiungendo Poggio Firenze e Fonte Santa. Dopo ulteriori combattimenti, passando alla testa delle avanguardie dell’VIIIª Armata britannica, la Sinigaglia riuscì ad entrare a Firenze il 4 agosto 1944. Soltanto grazie ad una tenace opposizione all’iniziale ordine alleato di disarmare, le formazioni partigiane garibaldine ottennero di partecipare alla liberazione cittadina. “Gracco” condusse allora il rastrellamento dei quartieri di Santo Spirito e San Frediano, che furono liberati dai franchi tiratori nazifascisti. Guidando poi una pattuglia di esplorazione sui piazzali ferroviari di San Iacopino, rimase ferito in combattimento il 13 agosto ma riprese poi il comando della Brigata fino alla smobilitazione.

Nell’aprile 1945 venne pubblicato il suo Brigata Sinigaglia, primo libro edito in Italia sulla Resistenza partigiana, a cura del Ministero dell’Italia occupata. Gracci avrebbe poi ricevuto la medaglia d’argento al valor militare nel 1954.

 Intanto, conclusa l’esperienza partigiana, Angiolo riprese servizio attivo nella Guardia di Finanza il 7 settembre 1944, al Comando della Legione di Firenze. Nell’agosto 1948 gli venne conferito per anzianità il grado di Capitano, ma la sua permanenza in Finanza si fece sempre più travagliata. Non tanto per i gravi e recidivi problemi di salute che determinarono una lunga aspettativa, quanto piuttosto per le difficoltà relazionali all’interno del Corpo.

Gracci infatti, che sin dal 1944 aveva aderito al PCI ed era stato tra i membri costituenti del Comitato provinciale dell’ANPI fiorentino, non aveva mancato di manifestare pubblicamente il suo orientamento in varie circostanze. Si procurò così diverse sanzioni e richiami per inosservanza al «criterio assoluto di apoliticità» richiesto ai membri delle forze dell’Ordine, per «scarso senso di disciplina», «tendenza alla polemica», «particolare animosità», «presunzione». È quanto riferiscono le note caratteristiche sul suo conto compilate annualmente dai superiori, che pure gli riconoscevano notevoli capacità e competenze.

Angiolo, sposatosi nel frattempo con Margherita Aiolli, fu seguito dalla famiglia negli spostamenti che gli vennero pertanto disposti tra il 1950 e il 1956, alla volta di Palermo, Bologna ed Udine. Viste le reiterate destinazioni ad incarichi amministrativi e a seguito di un ulteriore ordine di trasferimento a Bari nel dicembre 1956, Gracci scelse di far domanda di pensionamento e congedarsi dal Corpo. Idea coltivata da oltre un anno, per il sempre più problematico permanere nell’Arma e per l’intuibile preclusione riguardo a possibili avanzamenti di carriera.

Cessato il suo servizio nella Guardia di Finanza alla fine del 1957, l’anno successivo ottenne un impiego a Roma come consulente legale alla Lega nazionale delle cooperative, con i cui responsabili aveva già avviato da tempo i contatti. Poté mettere così a frutto la laurea in giurisprudenza conseguita nel 1949, impiegata poi per riorganizzare il servizio di assistenza legale alla Camera del Lavoro di Firenze e per svolgere un’intensa attività professionale di difesa dei lavoratori e dei militanti della sinistra rivoluzionaria nel corso degli anni Sessanta.

Gracci – sulla destra – accanto a Vincenzo Misefari di Reggio Calabria e Salvatore Puglisi di Spezzano Albanese durante una manifestazione a Livorno in occasione della fondazione del Pcd’I (m-l), 16 ottobre 1966.

Gracci – sulla destra – accanto a Vincenzo Misefari di Reggio Calabria e Salvatore Puglisi di Spezzano Albanese durante una manifestazione a Livorno in occasione della fondazione del Pcd’I (m-l), 16 ottobre 1966.

Si tratta di una fase di svolta nella posizione politica di “Gracco”, come continuò ad esser chiamato per tutta la vita. Nel 1966 si dimise infatti dal PCI e fu tra i fondatori del Partito comunista d’Italia (marxista-leninista), che si poneva quale alternativa al primo, reo insieme al PCUS di aver «tradito» la «vera» politica rivoluzionaria di classe. Quella politica che il nuovo organismo, grazie anche alla dedizione assoluta richiesta agli adepti, si proponeva di perseguire per realizzare la dittatura del proletariato, la sola forma di governo in grado di instaurare il socialismo.

Nell’agosto 1968 seguì l’espulsione di Gracci dall’ANPI, con l’accusa di imporre metodi di lotta e di azione politica antidemocratici e non unitari, esclusivamente in linea con il  proprio partito. Decisione che secondo Angiolo era invece motivata dalla propria battaglia «per lo sviluppo di una lotta di massa per cacciare dal paese le basi e i comandi degli imperialisti Usa».

 Lo stesso antimperialismo si rivelò poi una componente essenziale del movimento antimperialista-antifascista La Resistenza continua (RC), che nacque nel 1974 a Milano come associazione partigiana esterna ed alternativa all’ANPI e lo vide nuovamente tra i promotori, accanto ad altri ex partigiani, giovani studenti ed operai. La responsabilità dell’organizzazione fu affidata al Comitato direttivo della rivista, che “Gracco” guidò fino agli ultimi anni di vita, a riprova del suo intenso e prolungato impegno redazionale per varie testate di area marxista-leninista. Si ritrovò così a ricoprire una posizione di primo piano nel movimento, accanto ai veterani, «compagni» marxisti-leninisti ed amici Guido Campanelli e Alberto Sartori.

Resistenza, antimperialismo e meridionalismo rappresentavano per RC componenti inscindibili di un unico programma, che faceva della prima un simbolo guida. La stessa Resistenza che, animata da un avanzato progetto politico, economico e sociale, era stata «bloccata» e «tradita» dalle forze imperialiste anglo-americane, dal «capitalismo monopolistico italiano», dal Vaticano e dall’«ala revisionista-socialriformista» del movimento operaio. Non si poteva pensare all’antifascismo senza l’antimperialismo, essendo il fascismo subordinato all’imperialismo. Antimperialismo – secondo il manifesto-programma del movimento – significava anche lotta contro la soggezione di tipo coloniale e razzista di cui era vittima il Meridione da oltre un secolo. Una subordinazione aggravata dall’imperialismo statunitense ed europeo, instaurato con l’annientamento del movimento spontaneo di Resistenza del popolo meridionale nell’immediato dopoguerra.

Gracci con l’amico Matteo Visconti, altri militanti marxisti-leninisti e alcuni operai durante l’occupazione della fabbrica Berga Sud di Salerno, luglio 1974.

Gracci con l’amico Matteo Visconti, altri militanti marxisti-leninisti e alcuni operai durante l’occupazione della fabbrica Berga Sud di Salerno, luglio 1974.

In virtù di questa rivoluzione «negata», delle ingiustizie e dell’oppressione subite dalle «masse supersfruttate del Meridione», Gracci svolse un’intensa attività di mobilitazione politica e sociale nel Sud, dove erano presenti diverse cellule del Pcd’I (m-l) Linea rossa, il primo degli innumerevoli gruppi in cui si frantumò il Pcd’I (m-l) dal 1968 in avanti e del quale Angiolo rappresentava uno dei principali esponenti. Come testimoniano le stesse immagini della sezione fotografica del fondo archivistico a lui intitolato – recentemente riordinata ed inventariata dallo scrivente – non c’era praticamente anno in cui Angiolo non si spostasse dalla sua casa fiorentina verso località meridionali, di cui abitualmente ritraeva realtà marginali e disagiate. Non mancavano trasferte in Basilicata, Molise, Sardegna, Puglia e Sicilia, ma centri calabresi e campani figuravano tra le sue principali mete. In questi luoghi Gracci sviluppò non solo legami politici, ma anche rapporti amicali e affettivi che avrebbe mantenuto per tutto il corso della sua vita. Emblematiche le relazioni con i militanti marxisti-leninisti Rosario Migale di Cutro e Matteo Visconti di Salerno.

Gracci con Rosario Migale e altri «compagni» a Roma per il I Congresso nazionale di Democrazia proletaria, aprile 1978

Gracci con Rosario Migale e altri «compagni» a Roma per il I Congresso nazionale di Democrazia proletaria, aprile 1978

Oltre che come attivista di La Resistenza continua, Angiolo continuò il suo impegno meridionalista anche in veste di promotore del Movimento leghe lavoratori italiani e quale membro di Democrazia proletaria, in cui la Linea rossa confluì nel 1978. “Gracco” proseguì poi incessantemente la difesa e l’assistenza legale dei militanti, che culminarono con il maxiprocesso alle BR del 1989. Nel 1991 aderì al nuovo Movimento della Rifondazione comunista, che alla fine dello steso anno si costituì in Partito, accogliendo tra gli altri la maggioranza dei dirigenti di Democrazia proletaria.

In questi anni seguitò costante la sua attività antimperialista. Al diretto coinvolgimento in diverse iniziative e manifestazioni pubbliche contro le basi USA e NATO in Italia – come mostrano le stesse foto del suo archivio – e alla collaborazione con varie associazioni, quali la Lega per il disarmo unilaterale e la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli, si aggiunse il sostegno alla causa di Silvia Baraldini. Nella costituzione del Comitato per il rimpatrio di Silvia Baraldini di Firenze del 1991 e del Coordinamento nazionale dei comitati per il rimpatrio di Silvia Baraldini del 1994 Gracci si rivelò ancora una volta tra i principali animatori.

Gli stessi anni Novanta, nel corso dei quali “Gracco” si prodigò anche per la diffusione dei valori della Resistenza e della Costituzione repubblicana tra i giovani, videro poi il suo ritorno nel Comitato provinciale dell’ANPI fiorentino. Il rapporto restò comunque travagliato: è del 25 giugno 2000 un provvedimento disciplinare a suo carico, adottato dai dirigenti provinciali dell’ANPI per l’intervento contro gli USA e la NATO durante la celebrazione del 56° anniversario della battaglia di Pian d’Albero presso Figline Valdarno. Tuttavia Angiolo proseguì fino alla fine la sua militanza nell’organizzazione, rimanendo sempre coerente con le proprie posizioni. Dopo una grave malattia, è venuto a mancare a Firenze il 9 marzo 2004.




“Qualche grinza dalla pancia si cominciò a levarla!”

All’indomani dell’8 settembre 1943, con l’inizio dell’occupazione tedesca e la nascita della RSI, la popolazione civile versiliese, già stremata da più di tre anni di lutti e sacrifici, comprese che l’unica speranza per una rapida fine del conflitto in corso, oltre all’attività partigiana, era costituita dagli Alleati: in loro si confidava, ascoltando in gran segreto i bollettini di Radio Londra, in attesa di conoscere i progressi più recenti della difficile risalita della penisola.

Durante il rigido inverno fra 1943 e 1944, l’avanzata angloamericana rimase bloccata lungo la Linea Gustav, mentre in Versilia la repressione nazista si faceva sempre più spietata, e la situazione alimentare ogni giorno più difficile: le razioni assicurate dalle tessere annonarie si assottigliavano, mentre dalla dieta scomparivano carne, sale, zucchero, farina di grano e pane bianco. Le autorità fasciste repubblicane si dimostravano incapaci di gestire le necessità quotidiane della popolazione civile, mentre con bandi e minacce provvedevano a sequestrare capi di bestiame e mezzi di trasporto, pretendendo inoltre la consegna di esose derrate per “necessità militari”. Il tracollo completo della situazione si ebbe con le ordinanze di sfollamento dell’estate del ’44, mentre le truppe angloamericane si facevano attendere, impiegando più di un mese per attraversare l’Arno.

Ma che cosa si aspettava dagli Alleati la popolazione versiliese? Come già detto, la preoccupazione fondamentale era quella del cibo: semplicemente, non si aveva di che mangiare, mentre i gruppi di sfollati crescevano, assottigliando sempre più le già scarse risorse delle Apuane. In secondo luogo, si aveva bisogno di medicine: molti, infatti, erano i versiliesi ammalati o indeboliti, sfiancati da anni di angosce e malnutrizione, negli ultimi mesi, per di più, costretti in condizioni di igiene e promiscuità intollerabili. In terzo luogo, tutti si aspettavano il ripristino di condizioni di vita più dignitose: la fine, insomma, del terrore di veder portati via i propri cari, a lavorare sui cantieri della Gotica, deportati in Germania, o, peggio ancora, giustiziati in feroci operazioni di rappresaglia. Si sognava, in altre parole, un ritorno alla normalità. Per farsi un’idea più chiara di quali potessero essere le aspirazioni di un ragazzo versiliese di quel tempo, si legga fra i “Materiali correlati” la vivida testimonianza del fortemarmino Fabio Giannelli, classe 1927.

Seravezza 5 Aprile '45,  mezzi corazati americani sparano ve

Seravezza 5 Aprile ’45, gli alleati preparano l’offensiva finale (fonte F. Bertozzi, cit., p. 192)

Nonostante le preghiere, i versiliesi dovettero attendere a lungo l’arrivo degli Alleati. Accolte con entusiasmo e trepidazione, le prime pattuglie in divisa verde oliva entrarono in Versilia il 19 settembre del 1944, quando i primi soldati americani misero piede a Pietrasanta e Forte dei Marmi: nel corso delle settimane successive, i reparti iniziarono la loro prudente opera di penetrazione dell’entroterra, sotto il tiro costante delle artiglierie tedesche arroccate sulle alture. In effetti, per i nuovi arrivati, prendere il controllo della zona si rivelò più difficile del previsto, e l’avanzata verso nord rimase a lungo impantanata ai piedi delle montagne, bloccata dalle temibili difese naziste.

In fatto di bisogni concreti, tuttavia, le truppe americane seppero pienamente soddisfare le aspettative della gente, che fantasticava da mesi sulla straordinaria abbondanza della macchina bellica statunitense: dove arrivarono, i soldati della “Buffalo” instaurarono fin da subito un legame schietto e cordiale con la popolazione del posto, non lesinando aiuti materiali ed assistenza medica.

Anzitutto, gli Alleati portarono del cibo, molto cibo, solitamente distribuito con generosità presso le cucine dei numerosi accampamenti del territorio: finalmente, dopo mesi di fame e sofferenze, i civili poterono tornare ad assaggiare il sale, lo zucchero, il caffè, il gustoso pane bianco – così diverso dall’insipido “pane nero” dei tedeschi -, e permettersi anche il lusso di assaporare vivande un tempo irraggiungibili, come la cioccolata e le noccioline americane.

Con grande meraviglia, i versiliesi scoprirono lo scatolame, fino ad allora mondo perfettamente sconosciuto: all’interno di lattine multicolori dalle forme più svariate, poterono trovare piselli, fagioli, carne di manzo in gelatina, tonno, sardine, e addirittura prodigiose “zuppe istantanee”. Sensazionale fu poi la rivelazione dei chewing gum e della “Coca-Cola”, novità assolute, che, in pochi mesi di “frequentazione”, seppero inserirsi nelle abitudini alimentari di tutti gli italiani.

Dal canto loro, le truppe alleate manifestarono di gradire vino, cognac e grappe alla frutta fatte in casa: in alcuni casi, li gradirono anche troppo, lasciandosi andare a risse, urlerie, a volte molestie ai danni di qualche ragazza della zona. In cambio di corvée, piccoli servizi di fatica, come il rifornimento di acqua potabile ai comandi o il trasporto di materiali e munizioni, i militari americani dispensavano volentieri birra e sigarette a chi avesse dato loro una mano: fu proprio così che molti versiliesi cominciarono a fumare, giovani compresi. Per i più piccoli, poi, i camion erano sempre ben forniti di biscotti e caramelle. Per approfondire, sono consultabili fra i “Materiali correlati” i ricordi del fortemarmino Mario Pellegrini, che, a quel tempo quindicenne, si ritrovò a trascorrere un lungo periodo a stretto contatto con le truppe afroamericane, vivendo anche momenti di gioia e spensieratezza, ricostruiti con parole semplici ed efficaci.

Enormi progressi si registrarono anche da un punto di vista sanitario: nelle retrovie del fronte, i nuovi arrivati allestirono subito diversi ospedali da campo, dove medici ed infermieri di grande umanità assistettero civili feriti e ragazzi denutriti, distribuendo cure, farmaci e sapone, altrimenti introvabili: merito capitale, gli Alleati portarono la penicillina, miracoloso antibiotico che permise di salvare la vita di moltissimi sfollati versiliesi, debilitati da mesi di pessima igiene e malnutrizione.

Nel successivo inverno di battaglia lungo la Linea Gotica, le truppe angloamericane seppero dunque normalizzare i rapporti interpersonali, restituendo alla gente di Versilia quella rassicurante dimensione di quotidianità, che da troppo tempo aveva perduto: scomparso il timore della violenza arbitraria, recuperata la pienezza e la dignità del corpo, i versiliesi seppero affrontare con rinnovato slancio i residui mesi del conflitto, in attesa di poter far ritorno alle proprie case, e di rimettere assieme i pezzi della propria esistenza.

Federico Bertozzi, laureato in storia contemporanea presso l’Università di Pisa, si occupa di storia della seconda guerra mondiale, con particolare attenzione alle esperienze dei civili in guerra e alla raccolta delle loro memorie. Recentemente ha  pubblicato per Pezzini editore, “Attaccarono i fogli: si doveva sfollà!” – Indagine storico-antropologica sull’esperienza dello sfollamento in Versilia nella Seconda Guerra Mondiale. 




La “città satellite della grande città madre”

Il 6 novembre 1954 la città di Firenze si ingrandiva con la creazione di un nuova zona residenziale situata a sud-ovest del centro storico, lungo il fiume Arno, di fronte al Parco delle Cascine. Quel 6 novembre per inaugurare il villaggio denominato Isolotto fu organizzata una grande cerimonia ufficiale.

A presiederla fu il cattolico Giorgio La Pira: esponente di spicco dell’ala dossettiana della democrazia cristiana, eletto sindaco di Firenze nel 1951. Parteciparono alla cerimonia coloro che si erano impegnati nella progettazione e creazione della nuova area abitativa, i professionisti, architetti e ingegneri,  gli assessori comunali e anche il rettore dell’Università insieme al prefetto. Furono invitati alcuni esponenti politici e ministri in carica come dimostrano le lettere che La Pira rivolse a Fanfani, segretario della democrazia cristiana, a Gronchi, presidente della Camera dei deputati, a Vigorelli, Ministro del Lavoro e della Previdenza sociale, a Medici, Ministro dell’Agricoltura.

Nazione Isolotto 2La cerimonia ebbe luogo nella piazza centrale dell’Isolotto, iniziò alle tre del pomeriggio e proseguì con i discorsi ufficiali tenuti dal cardinale Elia Dalla Costa, dal sindaco e dall’ingegnere Filiberto Guala.

I veri protagonisti di quella cerimonia furono senz’altro i nuovi abitanti del quartiere vestiti con l’abito delle grandi occasioni. Dopo aver ascoltato gli interventi suddetti, accompagnati dalla banda musicale dei vigili urbani, seguirono con trepidazione il responsabile di condominio, ‘colui che aveva in mano il sacchetto pieno di chiavi’. Le cronache locali raccontano che queste persone, prese dall’emozione di ricevere finalmente una nuova casa dove vivere degnamente, aprirono le case “con le mani che tremavano” .

La realizzazione dell’Isolotto, allo stesso modo di altri quartieri residenziali edificati in varie città d’Italia dopo la seconda guerra mondiale, fu possibile grazie alla legge n. 43 approvata il 28 febbraio 1949, il titolo della legge recitava ‘Progetto per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori’. La legge n. 43/49, che creò anche un ente apposito l’Ina-Casa per vigilare sulla costruzione degli appartamenti da destinare in locazione o a riscatto, fu denominata dall’opinione pubblica ‘legge o piano Fanfani’ proprio perché il Ministro del Lavoro, Amintore Fanfani, ne fu uno dei massimi promotori insieme al suo sottosegretario La Pira durante il V governo De Gasperi.

Il Piano-Fanfani fu la principale testimonianza dell’impegno dei politici democristiani verso una ‘modernizzazione’ del Paese “accompagnata da elementi solidaristici volti a mitigare l’impatto disgregante” dell’economia neocapitalista. Secondo La Pira esso “costituiva un esempio del tipo di azione che il partito cattolico era chiamato a svolgere per la costruzione di una società solidale”.

Il Piano dell’Ina-Casa del 1950 per l’Isolotto prevedeva: una superficie di circa 500.000 mq, 9.000 abitanti, edifici dai due ai quattro piani, plurifamiliari o unifamiliari e inoltre “(…) due scuole elementari, due scuole per l’infanzia, una casa torre per uffici e servizi, una chiesa ed opere parrocchiali; un mercato con negozi; un cinema-teatro; edifici culturali e ricreativi; installazioni per sport leggero. Nel 1954 vennero consegnati 774 alloggi, 1005 risultarono pronti nel 1955, il completamento del quartiere si sarebbe avuto solo nel 1963.”

Il 6 novembre 1954 alla cerimonia di inaugurazione dell’Isolotto, il sindaco pronunciò un discorso ispirato al principio cristiano della comunità, inteso come “promozione di un ideale sociale fondato su lavoro, famiglia e proprietà.”. Egli definì il nuovo quartiere come una “organica, armoniosa, vasta, umana, città satellite di Firenze, (…) la prima, si può dire, autentica città satellite della grande città madre”; dotata di misura, volto e bellezza tali da renderla “figlia in tutto proporzionata alla città madre”. In questa nuova città, realizzazione terrena di una ideale città divina, i nuovi abitanti avrebbero sviluppato a pieno le loro vite in un clima di solidarietà, fraternità e amicizia.

L'Unità Isolotto senza servizi  23_1Ma se questi furono gli intenti dei costruttori in realtà il nuovo centro abitativo non si presentava nel 1954 come un luogo accogliente dove poter vivere in armonia e serenamente. Sorse privo di infrastrutture e servizi  necessari: mancavano collegamenti con il centro storico, non era ancora pronta una linea Ataf che collegasse la zona residenziale col centro storico. E l’unico modo per raggiungere il parco delle Cascine era attraversare una passerella in legno a pagamento o farsi traghettare fino all’altra sponda dell’Arno. La passerella sull’Arno in cemento, già prevista nel progetto del 1951, sarà realizzata solo nel 1962. Le strade non erano state pavimentate, mancava l’illuminazione e le due piazze principali erano da completare. Non c’erano negozi, né una scuola per i numerosi bambini che per un primo periodo dovettero accontentarsi di frequentare degli edifici di legno fatiscenti, le cosiddette “baracche verdi” prive di acqua e servizi igienici. Alcuni progetti come quelli per la realizzazione di un cinema-teatro o la costruzione di edifici ricreativi e culturali non saranno mai realizzati.

Isolotto festa alberi 1954_NOVMancava anche il verde tra le nuove case, nonostante l’architetto Tiezzi le avesse progettate prendendo a modello le città giardino inglesi. Fu così che l’amministrazione comunale, su proposta di alcuni cittadini, organizzò il 20 novembre all’Isolotto la festa degli alberi. Alla presenza dall’assessore alla pubblica istruzione e alle belle arti il Professor Bargellini, i bambini del nuovo quartiere vennero chiamati a piantare il loro albero vicino alla porta di casa; alberi di cui sarebbero diventati simbolicamente i custodi.

Chi erano i primi abitanti della nuova città satellite? Da un’indagine condotta dalla ricercatrice Marina Tartara, tra il giugno 1958 e il febbraio dell’anno successivo, apprendiamo che la maggior parte era originaria della Toscana e aveva alle spalle un’esperienza di inurbamento dai centri minori iniziata già negli anni Trenta e proseguita all’indomani del 1945. Il 70% dei capifamiglia proveniva dalla Toscana ma solo il 22% era nato a Firenze, gli altri nei comuni limitrofi alla città come Fiesole, Sesto fiorentino, Scandicci, Bagno a Ripoli e Galluzzo. Oltre l’80% dei capifamiglia toscani viveva a Firenze già prima della seconda guerra mondiale.

Solo un terzo delle famiglie proveniva da altre regioni d’Italia: centro-nord, sud e Isole, in proporzione quasi uguali. Una minoranza veniva dall’estero: 105 famiglie di profughi da quei territori perduti nel corso della seconda guerra mondiale, soprattutto dall’Istria, e rimpatriate dalla Grecia, dall’Albania e dall’Africa orientale.

Firenze nel dopoguerra aveva visto la sua popolazione aumentare sensibilmente e molti di questi futuri abitanti dell’Isolotto, che provenivano dalle vicine campagne o dai quartieri fiorentini di Santa Croce, San Frediano, Santo Spirito, si erano trovati a vivere in una condizione di forte disagio abitativo: o in coabitazione, o sfrattati o sfollati.

Archivio Locchi 1954_2Una popolazione molto giovane, composta per la maggior parte da operai attivi nelle fabbriche della città, Galileo, Pignone, Stice, Manifattura Tabacchi, ma vi era anche un nucleo consistente di dipendenti delle Ferrovie, Vigili del Fuoco, Finanza, Forze Armate e impiegati delle amministrazioni pubbliche. Le donne erano per lo più operaie, in particolare dipendenti della Manifattura Tabacchi, oppure lavoratrici domestiche a domicilio, poche di loro erano impiegate.

La ricercatrice Tartara nella sua analisi si era soffermata a lungo sulle differenze tra coloro che avevano ricevuto la casa a riscatto e coloro che l’avevano avuta in locazione. Alla fine faceva confluire le differenze in un’unica distinzione: “gli assegnatari a riscatto godono di migliori condizioni economiche e sono professionalmente e culturalmente ad un livello più elevato”.

Al di là delle considerazioni della ricercatrice, questa umanità così eterogenea per cultura, stili di vita, appartenenza sociale, lingua, idee politiche, credo religioso, si trovò a vivere insieme nello stesso luogo.

Il Piano Ina-Casa prevedeva oltre alla costruzione di case anche la realizzazione di spazi sociali per favorire la nascita di una comunità. Il Centro sociale dell’Ina-Casa aveva il compito di “guidare dall’alto la costruzione di un’identità comunitaria”, favoriva l’inserimento delle famiglie attraverso l’aiuto di assistenti sociali. Dato che il Piano Ina-casa delegava l’amministrazione degli immobili (spazi abitativi e giardini) direttamente ai condomini, i nuovi abitanti furono chiamati a confrontarsi per arrivare a stabilire delle regole condivise. Negli spazi del Centro sociale dell’Ina-Casa gli assegnatari si riunivano per discutere dei vari problemi del nuovo quartiere e qui organizzarono alcuni servizi quali:  la biblioteca, l’ asilo,  il teatro-palestra.

Nel 1955 per volontà della Chiesa fu aperto un altro centro-sociale, guidato da Enzo Mazzi il parroco del villaggio Isolotto; qui si offriva un’assistenza di tipo morale e  un sostegno concreto fatto di aiuti monetari e materiali come la distribuzione dei pacchi forniti dalla Opera Pontificia di Assistenza. Inoltre fu attivo fin dal 1956, in una rimessa lungo l’Arno, un circolo con una sala adibita alle riunioni della sezione del PCI e uno spazio ricreativo con la televisione e il bar.

I nuovi abitanti, nonostante le diversità, si trovarono ben presto uniti e solidali nelle lotte che sorsero spontanee per rivendicare presso l’amministrazione comunale ciò che mancava nel quartiere. La prime lotte interessarono vari ambiti come la casa e i servizi. La prima battaglia importante fu quella per la scuola nel 1959. La sezione socialista dell’Isolotto, guidata da Silvano Miniati, allora componente della segreteria provinciale della FIOM-CGIL, promosse un’assemblea pubblica che scelse di costituire un comitato di lotta e proclamare una giornata di astensione dalla scuola da parte degli alunni. Tale protesta, che vide anche l’adesione dei cattolici con Enzo Mazzi, fu un successo: nessun bambino si presentò in classe e una delegazione venne ricevuta a Palazzo Vecchio dall’assessore Nicola Pistelli. Poco tempo dopo iniziarono alla Montagnola i lavori di costruzione di un edificio scolastico in muratura che venne ultimato soltanto nel 1963.

Questo solidarietà degli abitanti nel conflitto sociale, superando le contrapposizioni ideologiche tipiche dell’epoca, portò il quartiere ad essere negli anni successivi uno dei centri di dissenso più attivi in Italia: ne sono un esempio sia la mobilitazione di comunisti e cattolici dell’Isolotto in sostegno agli operai delle Officine Galileo minacciati di licenziamento nel 1959, sia la vicenda della comunità cristiana guidata da Enzo Mazzi che si trovò in profondo disaccordo con la chiesa ufficiale nel 1968.




“Mi sa che avevano sensazioni confuse là in basso”

Il 24 ottobre 1943 gli Inglesi bombardarono per la prima volta la città, come nei giorni precedenti avevano colpito Prato, il 2 settembre, e Firenze, il 23. Che per Pistoia si stesse avvicinando lo stesso destino lo si poteva quindi supporre, un opuscolo della protezione antiaerea infatti avvertiva il 18 ottobre: «All’inizio della guerra Pistoia fu classificata di scarsa importanza agli scopi bellici. Oggi però la guerra è entrata in una fase talmente attiva e violenta che anche Pistoia ha assunto importanza ai detti effetti, e occorre mettere in atto quanto è al momento possibile, affinché la popolazione possa affrontare con animo sereno una eventuale offesa aerea».
Quella notte l’allarme durò 2 ore e 40 minuti e uno stormo di aerei Wellington britannici bombardò la città dalle 23.25 alle 24.10. Gli obiettivi sensibili della città erano sia le linee di comunicazione che le postazioni di valore militare: Pistoia infatti rappresentava un importante snodo ferroviario di collegamento tra il sud ed il nord del Paese, dato che si trovava lungo la linea ferroviaria Porrettana che costituiva un collegamento verso nord in alternativa alla linea “direttissima” da Prato. Erano poi presenti in città tre caserme militari ed un’importante industria per la riparazione di velivoli e apparati militari di notevole importanza. Le Officine Meccaniche San Giorgio erano infatti adibite alla riparazione di velivoli della Regia Aeronautica e si ipotizza che nel campo di volo adiacente alla fabbrica, presidiato da circa 300 militari tedeschi, si trovassero alcuni Messerschmitt ME323 Gigant, il più grande modello di aereo costruito durante la Seconda Guerra Mondiale.

16Il vero dramma per Pistoia fu che gli obiettivi si trovavano a ridosso del centro abitato: molte bombe sganciate per colpire i punti prefissati caddero sulle abitazioni civili nella zona a sud della città e, nonostante le precauzioni prese dalle autorità cittadine, i danni furono ingenti. Era l’UNPA (Unione Nazionale Protezione Antiaerea) a gestire i rifugi pubblici pistoiesi (una quarantina) pronti ad ospitare circa 10.000 cittadini anche grazie al fatto che, data la necessità, furono classificati come rifugi tutti gli scantinati agibili dei palazzi della città, benché non garantissero sempre una reale sicurezza. Dalla mappa dei rifugi si può vedere come la popolazione residente nella zona della “Pistoia bene”, dove i palazzi signorili erano dotati di scantinati adattabili, risultasse maggiormente protetta; diversa era invece la situazione dei quartieri popolari dove lo stesso Comitato ammise che era stato impossibile impiantare alcun tipo di rifugio. Nonostante le precauzioni in quella notte i morti furono molti; anche se il numero non è tutt’oggi ufficiale, data la discordanza delle cifre e degli elenchi delle vittime ancora sparsi tra vari archivi, una ricognizione di tutte le liste reperite attesta che le vittime siano state 157.

Perché in quella notte le sensazioni furono confuse? Innanzitutto, come emerge dalle testimonianze, il bombardamento risultò del donnatutto inaspettato e la popolazione si ritrovò disorientata, nonostante i ripetuti avvertimenti delle autorità. Dalle testimonianze emerge poi che in una parte della popolazione erano diffuse ostilità nei confronti del vecchio regime e fiducia negli alleati liberatori, ma la stampa locale, ancora sotto controllo fascista, presentò il bombardamento come un attacco terroristico ed in effetti “i liberatori” in quell’occasione risultarono la causa della distruzione diretta della città: furono loro a portare la guerra nelle case, cosa che fino a quel momento non era mai avvenuta. Quindi le sensazione confuse furono causate proprio dalla difficoltà di concepire i drammi causati dal bombardamento di quella notte come un tassello di una più ampia manovra militare di liberazione della penisola italiana. Si diffusero per questo irragionevoli interpretazioni, come che i piloti fossero ubriachi :«Quella sera si dormiva tutti. Ci svegliò mia madre perché vide i bengala e disse: “Brucia tutto il mondo!” […]ma mi avevano detto che quando si spengevano i bengala finivano di bombardare, invece fu un bombardamento terroristico perché quando finì la luce intensa dei bengala incominciò il bombardamento vero dove morì diversa gente. Poi si venne a sapere che gli aerei e i piloti erano inglesi e per di più ubriachi».

Con difficoltà questa interpretazione ha lasciato il campo a più verosimili spiegazioni di strategia militare: in realtà, ancora oggi, nella rielaborazione della memoria pubblica, la distruzione causata dai bombardamenti alleati si annovera tra quegli episodi difficilmente inseribili sia nella rappresentazione degli eventi condivisa dalla cultura istituzionale antifascista sia in un percorso di attribuzione della totalità delle colpe al nazifascismo; infatti solo negli anni Duemila sono state affisse in città due targhe in ricordo della tragedia, piccole e senza riferimenti storici precisi.

Francesca Perugi è ricercatrice presso l’ISRPt e membro della redazione dei Qauderni di Farestoria. Ha curato la mostra e l’omonimo numero monografico di QF “Cupe vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti”




Firenze in Guerra, 1940-1944

Il 23 ottobre, alle ore 17.00, si aprirà a Palazzo Medici Riccardi la mostra storica Firenze in guerra, 1940-1944; l’evento è promosso dall’Istituto storico della Resistenza in Toscana col sostegno della Regione Toscana, della Provincia e del Comune di Firenze. Documenti, immagini, voci, filmati, nonché fotografie provenienti dall’Archivio Foto Locchi animeranno un ampio percorso espositivo ideato dagli architetti Giacomo Pirazzoli e Francesco Collotti. Intrecciando storie individuali e esperienze collettive, la narrazione attraverserà i primi anni di guerra fino agli ultimi mesi dell’occupazione tedesca, quando la città e la provincia furono violentemente investite dal conflitto.

Uno spazio di condivisione interattiva sarà garantito dal progetto Memory Sharing, che ha l’obiettivo di raccogliere e valorizzare documenti, fotografie, storie di vita relative agli anni del conflitto. Tutti possono contribuire al progetto, rivolgendosi alla postazione allestita all’interno della mostra oppure partecipando online, attraverso il sito www.firenzeinguerra.com (in costruzione).

Al Rondò di Bacco, nel complesso monumentale di Palazzo Pitti, un film sonoro e la serie completa delle fotografie scattate dall’architetto Nello Baroni permetteranno di immergersi nell’esperienza dei “giorni dell’emergenza”, quando migliaia di fiorentini furono costretti a lasciare le case del centro storico per rifugiarsi nelle sale di Palazzo Pitti.

La mostra, curata da Valeria Galimi e Francesca Cavarocchi – con la supervisione scientifica di Enzo Collotti – si snoderà attraverso tre scenari: la città della guerra (1940-1943), la città dell’occupazione (1943-1944) e la città della Liberazione.

Fin dagli anni ’20 il regime assegna al capoluogo toscano un ruolo chiave nel progetto di fascistizzazione della cultura: importante polo accademico e editoriale, Firenze ospita una serie di riviste e istituzioni di rilievo nazionale, dal “Selvaggio” al “Bargello”, fino al Maggio musicale. Nella seconda metà degli anni ’30 la città diviene una delle sedi privilegiate nella produzione e diffusione della pubblicistica antisemita.

I primi tre anni di guerra hanno un impatto crescente sulla vita quotidiana dei fiorentini. Mentre migliaia di cittadini partono per i vari fronti, l’intera popolazione è chiamata a mobilitarsi per sostenere lo sforzo bellico, ad esempio attraverso le periodiche raccolte di ferro, metalli e vettovaglie destinate ai soldati. Il razionamento dei beni alimentari si fa sempre più severo, affiancato dalla rapida crescita del mercato nero. Gli stessi spazi pubblici si trasformano progressivamente, in seguito alle misure di protezione antiaerea sui monumenti o alla creazione degli ‘orti di guerra’ nei giardini e nelle piazze.

La seconda visita di Hitler alla città, il 28 ottobre 1940, si tiene in un’atmosfera cupa e spettrale, molto diversa dai festeggiamenti inscenati nel 1938, quando era stato celebrato il rafforzamento del patto fra i due regimi. Nei primi anni di guerra Firenze diventa una delle ambientazioni privilegiate degli incontri volti a rinsaldare l’alleanza con Berlino e gli altri paesi dell’Asse; frequenti sono gli eventi culturali e le manifestazioni giovanili interalleate, con l’obiettivo di sottolineare il contributo della civiltà italiana al Nuovo ordine europeo perseguito dal Reich tedesco.

Dall’8 settembre 1943 gli occupanti e la Repubblica Sociale Italiana (RSI) tentano di attuare uno stretto controllo del territorio, mentre iniziano i bombardamenti e le condizioni di vita della popolazione si fanno sempre più difficili. L’area metropolitana di Firenze spicca nel quadro regionale sia per la complessità del suo tessuto economico e sociale sia per la concentrazione di strutture tedesche e repubblichine; una circostanza che contribuisce a spiegare l’intensità della persecuzione antiebraica, nonché più in generale l’efficacia degli apparati repressivi (ad esempio in seguito agli scioperi del marzo 1944). In città e nei dintorni si va nel frattempo riorganizzando un esteso tessuto antifascista, che trova la sua specificità nell’ampia articolazione delle posizioni culturali e politiche e nel coinvolgimento di settori sociali differenziati; il capoluogo, sede del Comitato toscano di liberazione nazionale, si distingue per la pluralità e la ricchezza delle reti resistenziali, che affiancano all’iniziativa più propriamente militare (specie nell’arco collinare e appenninico) un ampio spettro di attività, dalla raccolta di informazioni fino al soccorso ad ebrei, renitenti, ex prigionieri alleati.

Gli angloamericani raggiungono la Toscana a metà giugno del 1944, dopo la liberazione di Roma. A partire dalla metà di luglio la provincia di Firenze è teatro di intensi e lunghi combattimenti, prima sulle colline a Sud del capoluogo e poi in città: attuando la chiamata all’insurrezione da parte del CTLN, i partigiani sono protagonisti della battaglia per la liberazione del capoluogo, anticipando di alcune ore l’entrata degli Alleati e sostenendo per circa un mese lo scontro coi tedeschi e i “franchi tiratori”. Fallite definitivamente le trattative per la “città aperta”, il 30 luglio le forze tedesche impongono l’evacuazione del settore circostante i Lungarni, a cui fa seguito fra il 3 e il 4 agosto la distruzione dei ponti e di un’ampia area attorno al Ponte Vecchio. Nel mese di agosto la linea del fronte si assesta per lunghi tratti attorno alla linea dell’Arno, mentre le propaggini settentrionali della provincia saranno liberate solo nella seconda metà di settembre, quando le forze alleate raggiungeranno la linea Gotica. In provincia la ritirata dell’esercito tedesco ha come effetto notevoli distruzioni di fabbricati e vie di comunicazione ed è accompagnata da diffuse violenze e spoliazioni.

Il periodo dell’emergenza e del passaggio del fronte è certo quello che maggiormente si staglia nella memoria dei fiorentini. Per comprendere a pieno l’impatto sulla vita quotidiana delle popolazioni e le trasformazioni sociali e culturali innescate dal conflitto è necessario tuttavia allargare lo sguardo agli anni precedenti, perché è nei primi anni di guerra che si accumulano processi e trasformazioni destinati ad esplodere nell’estate del ’44 e nei mesi successivi alla liberazione, quando si inizierà un lento ma decisivo processo di ricostruzione e democratizzazione della vita pubblica.

Informazioni sulla mostra:

Palazzo Medici-Riccardi 24 ottobre 2014 – 6 gennaio 2015

10:00 – 18:00 (chiuso il mercoledì)

Rondò di Bacco 24 ottobre 2014 – 4 gennaio 2015

 Venerdì 15:00 – 17:30 / sabato e domenica: 11:00 – 17:30

 Ingresso libero

 Per Informazioni, prenotazioni e visite guidate tel. 055.284296 dal lunedì al venerdì 10:00 – 15:00

 




“Donne e Guerra”: un progetto didattico nelle scuole del Valdarno

Negli anni Novanta la scuola italiana aprì la programmazione di Storia al Novecento e, rinnovando l’interesse per le vicende più recenti e l’importanza della ricerca a partire dai testimoni, scelse di farlo partendo dalla storia famigliare, locale per facilitare la comprensione del contesto globale. A questo periodo risale “Donne e guerra”, lavoro di ricerca che nasce da un progetto del Ministero chiamato appunto “Novencento”.

La scuola secondaria di primo grado di Matassino (Figline Valdarno- Firenze) divenne sede di un “Laboratorio storico-ambientale” coordinato da Gabriele Olmi che aveva come scopo la formazione degli insegnanti e l’avvio di progetti, come il nostro “Donne e guerra” degl’anni scolastici 1997/98 e 1998/99 che fu diretto da Carla Mugnai con la collaborazione di Mario Mantovani. Si tratta di una raccolta di testimonianze che gli alunni hanno recuperato dalle proprie nonne con la metodologia dell’intervista.

Le domande rivolte sono state:

  • Cosa ti ricordi della guerra?
  • Ti ricordi di qualche episodio particolare?
  • Come trascorrevi la giornata?
  • Cosa mangiavi e come te lo procuravi?
  • Facevi mai festa? Dove, quando, racconta …
  • Quali erano i luoghi di ritrovo?
  • Dove vi rifugiavate quando c’erano i bombardamenti?
  • Ti ricordi di un episodio del rifugio?
  • Come avevate le notizie e da chi?
  • Cosa ti ricordi dei tedeschi?
  • E degli americani?
  • Hai mai sentito parlare di episodi di maltrattamenti nei confronti delle donne?
  • Conosci episodi nei quali sono state protagoniste le donne?
  • Hai mai aiutato, dato ospitalità a qualcuno in difficoltà?

I risultati del lavoro furono organizzati secondo la provenienza geografica delle testimoni e pubblicate, assieme a delle foto d’epoca sul portale www.valdarnoscuola.net

Gli alunni interessati dal progetto furono:

  • Scuola Media di Incisa Valdarno: Classe 2°A e 3°C
  • Scuola Media di Matassino (Figline Valdarno): Classe 2°H, 2°I, 3°G, 3°H, 3°I
  • Scuola Elementare di Cascia (Reggello): Classe 5° A
  • Scuola Elementare di Vaggio (Reggello): Classe 5° A

Il lavoro fu organizzato e coordinato dagli insegnanti: Sonia Cirri, Gianna Ermini, Cristina Fontanella,  Monica Giuliani, Leontina Mascagni, Sandra Mazzoni,  Anna Mori, Carla Mugnai, Enrica Mugnai e  Ivana Righi.

“Donne e guerra” confluì nel 2009 nel Centro Documentazione Donna di Figline Valdarno grazie all’attenzione della professoressa Mazzoni e rifluisce ora in ToscanaNovecento per tornare alla sua vocazione originaria: rotella del grande ingranaggio della Storia.




La strage della famiglia Einstein

Il 3 agosto 1944 la famiglia di Robert Einstein, cugino del più famoso Albert, fu oggetto di un atroce massacro ad opera di soldati della Wehrmacht presso Villa il Focardo a Rignano Valdarno. Robert e Albert Einstein erano cugini per parte paterna; i due ragazzi avevano trascorso l’infanzia insieme prima in Germania e poi in Italia. Le loro strade si separeranno poi. Albert  diventerà un fisico di fama mondiale, Robert inizierà gli studi di ingegneria.

Robert Einstein aveva sposato Cesarina (Nina) nel  1913. La coppia aveva due figli: Luce nata nel 1917 e Annamaria nel 1927. Dopo una parentesi a Roma la famiglia si era trasferita a Villa il  Focardo fra Rignano e San Donato. La loro è una famiglia relativamente benestante. Possiedono anche un’abitazione in Corso Tintori a Firenze, dove risiedono nel periodo invernale. Annamaria e le cugine frequentano il liceo Michelangiolo, mentre Luce è iscritta alla facoltà di medicina. La villa del Focardo è meta di frequenti visite. Gli Einstein sono molto conosciuti e al Focardo sono spesso ospiti personalità eminenti : il pastore valdese Vinay, e poi pittori, docenti universitari, ma anche personalità legate alla resistenza. 

Strage FocardoEppure questa vita serena e agiata viene ben presto sconvolta dall’8 settembre 1943 e dall’occupazione tedesca. Il piano superiore della villa viene sequestrato per gli ufficiali della Wehrmacht mentre le truppe si sistemano intorno alla fattoria. Ancora nessuno sembra in pericolo, ma il pastore Vinay inizia a preoccuparsi per Robert, di note origini ebree. Robert non solo è ebreo. Ma è anche il cugino di Albert che all’insorgere del nazismo ha lasciato la Germania e che con la sua fama e il suo prestigio mondiale è la smentita più evidente alle teorie razziste di Hitler. Alla fine Robert si convince anch’egli del pericolo e decide di rifugiarsi nei boschi. Riesce così a salvarsi da quel tragico 3 agosto 1944 in cui un comando nazista si reca al Focardo. Sembra chieda di Robert senza trovarlo. Viene inscenato un processo farsa e i in pochi attimi i mitra tedeschi si abbattono sulla moglie e le due figlie. Vengono risparmiate  due gemelle e una terza cugina loro ospiti in quei giorni. A salvarle sono i cognomi diversi: Mazzetti e Bellavite. Come scriverà poi una di queste, Lorenza Mazzetti, nella dedica al suo racconto autobiografico “Il cielo cade”: Questo libro vuole descrivere la gioia e l’allegria che quella famiglia mi ha dato nella mia infanzia, accogliendomi come “uguale”, mentre sono stata “uguale” a loro nella gioia e “diversa” al momento della morte. Nel giardino esterno viene lasciato un biglietto. Recita “Abbiamo giustiziato i componenti della famiglia Einstein, rei di tradimento e giudei”. La villa viene data alle fiamme. Robert dal suo rifugio fra i boschi vede alzarsi una colonna di fumo proveniente dal Focardo. Corre verso il luogo della strage, ma ormai non può fare più niente. 

Nei giorni immediatamente successivi sul luogo del delitto arriva, incaricato delle indagini, il maggiore della V armata statunitense Milton Wexler. È stato un allievo del grande fisico Albert Einstein che è molto preoccupato per la famiglia del cugino. Vorrebbe poterlo rincuorare. A lui invece tocca informare il suo ex professore della tragedia. Dei risultati delle indagini americane si è persa ogni traccia. Così come sono rimasti ignoti gli esecutori del delitto. Solo nei primi anni 2000, dopo le ricerche dello storico Carlo Gentile sulle truppe di stanza nella zona in quei giorni, si è iniziato ad avere un’idea più precisa sui possibili responsabili della strage. Le ultime ricerche di Gentile hanno capovolto quanto si era creduto circa le responsabilità della strage:  ad uccidere non furono reparti delle SS, ma uomini appartenenti al comando di un’unità della Wehrmacht, l’esercito regolare tedesco, verosimilmente la quindicesima divisione del 104° Reggimento di granatieri corazzati.  Al momento non è emersa nessuna prova definitiva per capire se l’omicidio delle tre donne abbia a che vedere con una vendetta personale nei confronti di Albert Einstein o sia stato un delitto a sfondo razzista. Anche il biglietto lasciato sul luogo della tragedia “Abbiamo giustiziato i componenti della famiglia Einstein, rei di tradimento e giudei” lascia aperti più dubbi. È scritto in perfetto italiano. I tedeschi avevano con loro un interprete o qualcuno che conosceva bene l’italiano? Oppure quel biglietto non è stato scritto dai soldati tedeschi?

Tomba EinsteinAltrettanto tragico è purtroppo l’epilogo di Robert Einstein. L’anno successivo,distrutto dal dolore, ritorna sui resti del Focardo e si suicida inghiottendo del veleno. Decide di farlo un giorno particolare: il 13 luglio 1945, la data del suo anniversario di matrimonio. Riposa adesso nel cimitero della Badiuzza di Rignano insieme ai suoi cari. Ai piedi della stele funebre in  tubi  di acciaio disegnata dagli allievi della Scuola d’ Arte di Porta Romana a Firenze che il comune di Rignano ha loro dedicato.




Determinate e coraggiose: le donne versiliesi, vere protagoniste dello sfollamento

Quando le ordinanze di sfollamento colpirono la Versilia, nell’estate del 1944, le condizioni di vita della popolazione civile subirono un brusco peggioramento.

Fin dall’autunno del ’43, le autorità della RSI, desiderose di ricostituire un forte esercito nazionale, avevano avviato coscrizioni sempre più «totalitarie»: questa minaccia, sommata a quella imprevedibile dei rastrellamenti nazisti, consigliava ai maschi in età di leva di rimanere il più possibile nascosti, senza dare nell’occhio. Così, mentre per gli uomini le possibilità di movimento si restringevano ogni giorno di più, le donne, oltre a svolgere gli incarichi loro affidati dalla “tradizione”, dovettero accollarsi tutta una serie di incombenze nuove e gravose, solitamente “di competenza” maschile, come il rapporto con le autorità, il procacciamento del cibo e la difesa della famiglia in situazioni di pericolo.

Nonostante le ordinanze nazifasciste, che prevedevano l’evacuazione delle popolazioni civili verso l’Emilia, i versiliesi erano ben determinati a non abbandonare le proprie terre, per ragioni sia pratiche che affettive: correndo i rischi più gravi, cercarono rifugio nei recessi più remoti delle Apuane, presso amici, parenti, più spesso in alloggi di fortuna.

Nel corso dell’estate del ’44, con l’economia paralizzata e gli esercizi commerciali chiusi, abolite anche le già scarse razioni delle tessere annonarie di Mussolini, il problema alimentare si fece ogni giorno più pressante, fino a trasformarsi nel principale incubo degli sfollati. Ancora una volta, sfidando i gendarmi tedeschi e gli aerei alleati, spesso percorrendo a piedi distanze impensabili – giunsero perfino in Garfagnana e nel Parmense -, furono le donne ad effettuare frequenti ritorni alle proprietà abbandonate, tentando di reperire quel poco di frutta o verdura per i figli e i mariti lasciati in montagna, sempre che la fame dei soldati nazisti, dei partigiani, o, più di frequente, di altri sfollati nelle medesime condizioni, avesse risparmiato qualcosa.

Così per esempio fu per la famiglia di Mariella Barsottini, che nel 1944 aveva sette anni. Assieme ai genitori e al fratello più grande, Mario, abitava nel paesino di Strettoia, nel comune di Pietrasanta (Lu), un borgo agricolo posto proprio a ridosso delle alture dominanti la piana versiliese, in un’area di grande rilevanza strategica per i piani di fortificazione militare dell’Orgnizzazione Todt. Quando furono raggiunti dall’ordine di evacuazione, i Barsottini scelsero di dirigersi verso sud, per «andare incontro agli americani». Dopo una breve sosta nel paese di Valdicastello (Pietrasanta, Lu), in quei giorni vero e proprio crocevia per tutti gli sfollati versiliesi, la famiglia decise di seguire il consiglio di diversi compaesani e di puntare su Marina di Pisa (Pi), considerata una cittadina sufficientemente lontana dai pericoli della Linea Gotica. Nelle settimane successive, nonostante la grande distanza dal paese d’origine, la madre di Mariella, Rina, donna coraggiosa e intraprendente, pur di riuscire a recuperare qualcosa da mangiare per figli e marito, non esitò a tornare periodicamente ai propri terreni, sfidando i posti di blocco e correndo i mille pericoli del passaggio del fronte.

Ecco come Mariella rievoca oggi il ruolo delle donne nei duri mesi dello sfollamento:

Una cosa bella che facevano le donne, perché per gli uomini era troppo pericoloso, era quella di cercar di ritornare a Strettoia per prendere qualcosa da mangiare, perché là avevano lasciato tante cose, tutto! E allora, c’era chi cercava di riprendere la patata, chi recuperava il vino, l’olio, però, sempre col rischio di essere ammazzati. Anche la mia mamma lo fece, da Marina di Pisa. Due volte.

in viaggio verso la garfagnanana in cerca di ciboNei lunghi mesi dello sfollamento, poi, particolarmente complesso si rivelò il procacciamento del sale, genere indispensabile alla dieta, divenuto introvabile sul mercato già dalla primavera del ’44: agli sfollati versiliesi, non rimase altra scelta che ricavarlo dall’acqua di mare. In vista dell’avanzata alleata, tuttavia, l’Organizzazione Todt aveva provveduto a minare l’intera fascia costiera versiliese, lasciando sgombero dagli ordigni soltanto un unico, stretto corridoio di spiaggia presso la foce del fiume Versilia, vicino alle fortificazioni del Cinquale. Data la rilevanza strategica dell’area, il posto pullulava di soldati tedeschi: nessun uomo si sarebbe mai sognato di andarci. Nei mesi dello sfollamento, infatti, proprio in questo punto si snodava ogni giorno una lunga coda di donne composte e silenziose, in attesa del proprio turno per poter raccogliere in una secchia qualche litro d’acqua di mare. Una volta portatala ai monti, se fossero riuscite a passare indenni gli sbarramenti germanici, l’avrebbero fatta bollire o evaporare in un lattone, ricavandone, forse, un preziosissimo pugno di sale grezzo.

Le donne dovettero infine affrontare il difficile compito della protezione dei familiari in caso di rastrellamenti nazisti. Sui villaggi della montagna versiliese, le SS piombavano all’improvviso, rivoltando ogni centimetro degli alloggi, in cerca di uomini e ragazzi da portar via. In un clima di puro terrore, spesso con figli e mariti nascosti in soffitta o appena sotto le assi del pavimento, ancora una volta stava alle donne riuscire a dissuadere i soldati dal compiere ricerche più approfondite, ricorrendo a tutti i diversivi e le doti mimiche del caso, pur di riuscire a salvare le vite dei propri cari. Naturalmente, gli sforzi potevano benissimo risultare vani, e costare anche la vita.

Maria Antonia Quadrelli, nel 1944, aveva tredici anni. Quando giunse l’ordine di sfollamento, dovette abbandonare la sua abitazione delle Prade (Seravezza, Lu), e sfollare, assieme alla madre, alla zia e ai suoi cinque fratelli, nel villaggio montano di San Carlo Po, all’epoca nel comune di Apuania. Ancora oggi, l’anziana signora ricorda bene le drammatiche incursioni notturne delle SS, che penetravano con la forza nelle case in cerca di uomini da rastrellare (la sua vivida testimonianza è consultabile fra i “Materiali collegati”).

A buon diritto, dunque, è lecito affermare che le vere protagoniste dello sfollamento in Versilia furono le donne, che si rivelarono infatti scaltre e coraggiose, ben determinate ad “agire nel mondo” per difendere la vita e la sopravvivenza delle proprie famiglie e delle proprie comunità.

Federico Bertozzi, laureato in storia contemporanea presso l’Università di Pisa, si occupa di storia della seconda guerra mondiale, con particolare attenzione alle esperienze dei civili in guerra e alla raccolta delle loro memorie. Recentemente ha  pubblicato per Pezzini editore, “Attaccarono i fogli: si doveva sfollà!” – Indagine storico-antropologica sull’esperienza dello sfollamento in Versilia nella Seconda Guerra Mondiale. 

Articolo pubblicato nell’agosto 2014.