All’alba della Costituzione italiana

Il 2 giugno 1946, all’indomani del ventennio fascista ed a poco più di un anno dalla Liberazione e dalla conclusione del conflitto sul nostro suolo, il popolo italiano fu chiamato a scegliere tramite referendum tra la monarchia e la repubblica e contemporaneamente ad eleggere i deputati all’Assemblea Costituente.

Le cronache dell’epoca raccontano che gli italiani sfidando la calura di una domenica di fine primavera – inizio estate, in modo composto, disciplinato e tradendo emozione attendono pazientemente all’esterno dei seggi il loro turno.

L’affluenza alle urne sarà vicina al 90% e ciò testimonia la grande voglia di partecipazione e di esprimere il proprio voto in modo libero.

Il referendum fu favorevole all’istituto repubblicano che conseguì il 54% dei consensi contro il 46% raggiunto dalla monarchia. A sua volta le consultazioni per l’Assemblea Costituente si caratterizzarono per il successo dei cosiddetti “partiti di massa” (DC, PCI, PSIUP) che ottennero ben 426 seggi su 556 a disposizione, cioè i ¾ del totale.

Tra coloro che furono eletti in Assemblea ci furono anche Calogero Di Gloria, Palmiro Foresi, Abdon Maltagliati e Attilio Piccioni, tutti candidati nella circoscrizione elettorale Firenze – Pistoia la quale annoverò anche Sandro Pertini e Teresa Mattei.

Ma chi erano i costituenti eletti. Di che cosa si occuparono in Assemblea?

Di GloriaCalogero Di Gloria nasce a La Spezia nel 1917, uomo di raffinata cultura, professore di storia e materie letterarie nei principali istituti cittadini, autore di poesie e padre fondatore della “Brigata del Leoncino”, associazione culturale cittadina organizzatrice di eventi, manifestazioni, momenti di approfondimento su tutte le forme dell’arte e delle scienze. Con le elezioni del 2 giugno 1946 sarà eletto nelle liste del PSIUP nella circoscrizione elettorale Firenze – Pistoia

In sede assembleare intervenne in materia di rapporti civili, sull’ordinamento di Regioni, Province e Comuni ed infine sull’architettura istituzionale del futuro Stato repubblicano.

Rispetto all’ordinamento degli enti locali insisteva sulla necessità di rafforzare le province attraverso l’assegnazione di maggiori risorse economico – finanziarie ed espandendo i loro poteri di intervento, solo in questo modo avrebbero potuto rispondere efficacemente ai bisogni dei rispettivi territori.  In relazione all’architettura istituzionale evidenziava l’opportunità della creazione di un sistema bicamerale e la necessità di dare luogo ad un Senato elettivo, inoltre si dichiarava a favore dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica mentre l’esecutivo avrebbe dovuto distinguersi per efficacia, efficienza e la capacità di rispondere agli interessi del Paese. Il 10 agosto 1997 terminerà di vivere.

Pistoia 3Palmiro Foresi nasce a Livorno nel 1900 da padre di simpatie repubblicane mentre la madre morirà prima che lo stesso raggiungesse i due anni di vita. Si dedica agli studi liceali e universitari, conseguendo la laurea in fisica e giurisprudenza, insegnando matematica presso l’istituto privato “Giuseppe Guerrieri” con sede nella città labronica, assumendo successivamente l’incarico di assistente di diritto ecclesiastico presso l’università di Pisa.

In politica è ricordato tra l’altro per essere stato uno dei fondatori del PPI Livorno, mentre nell’ottobre 1944 è eletto segretario provinciale della DC pistoiese.  L’incarico di maggior prestigio sarà l’elezione alla Costituente con le consultazioni del 2 giugno 1946 con quasi 7000 preferenze. Nella medesima fece parte della Commissione per l’esame dei disegni di legge che vide la partecipazione di autorevoli personalità quali Piero Calamandrei e Nilde Jotti. Tra i suoi interventi e contributi si ricorda in particolare quello relativo alla stesura dell’articolo 45 che recita così: «La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità. La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato».  Con esso si intendeva disciplinare l’impresa cooperativa e l’impresa artigiana cercando di tutelare la cooperazione con finalità di mutualità.

Foresi sarà poi rieletto anche nelle prime due legislature del Parlamento repubblicano e svolgerà anche un ruolo importante relativamente a vicende locali quali quella che vide contrapposte la Lazzi e la SACA, aziende di trasporto pubblico della provincia di Pistoia, inoltre sarà determinante per la risoluzione del contrasto tra imprenditori agricoli e lavoratori delle aziende ortovivaistiche e che si concluse con la firma del “Lodo Foresi” nel dicembre 1954. In seguito sarà Presidente dell’Ente Nazionale Previdenza ed Assistenza Statali, consigliere al comune di Roma e capogruppo della DC. Si spegnerà nel dicembre 1980.

Abdon Maltagliati nasce a Vellano (Pescia) il 7 novembre 1894 da famiglia di contadini poveri, condannato a 22 anni di carcere per i fatti di Empoli (ingiustamente accusato) e dal quale vi uscì nel 1932. Si rifugia inizialmente in Francia e successivamente in Unione Sovietica dove svolse il ruolo di direttore della Radio Italiana di Mosca, per poi rientrare nel novembre 1945 a Pistoia, dopo aver effettuato un esperienza anche nell’esercito sovietico. Segretario della Camera del Lavoro di Pescia, il 2 giugno 1946 sarà eletto nelle liste del PCI deputato alla Costituente dove si occupò principalmente dei temi del lavoro e dei lavoratori e pur non contribuendo a scrivere materialmente gli articoli riconducibili al principio lavorista cioè a quel principio che considera il lavoro come strumento di realizzazione della personalità di ciascun individuo. Il suo impegno e la sua attività saranno alquanto importanti nell’affermazione di quei principi precedentemente elencati. Cesserà di vivere il 10 novembre 1957.

Pistoia 4Attilio Piccioni nasce a Poggio Bustone in provincia di Rieti il 14 giugno 1892. Di professione avvocato sarà eletto per la lista della D.C. alle elezioni del 2 giugno 1946. Farà parte della Commissione dei 75 cioè quella che contribuirà alla stesura materiale del dettato costituzionale. Egli interverrà sul tema delle autonomie locali e in particolare sull’istituzione dell’ente Regione per il quale dichiara di essere a favore della sua creazione giudicata dallo stesso come baluardo per le libertà dei cittadini e per le libertà democratiche del Paese, affidando loro anche una potestà legislativa rispettosa comunque dell’ordinamento statale. Oltre al tema illustrato interverrà anche sulla formazione e la composizione della seconda Camera cioè del Senato, auspicando che questi sia su base regionale.

Sarà poi ricordato per aver svolto il ruolo di Ministro degli Esteri dal quale si dimetterà nel settembre 1954 a seguito del coinvolgimento del figlio Piero nello scandalo “Montesi”.  In seguito sarà rieletto al Parlamento ininterrottamente fino alla legislatura che si conclude anticipatamente nel 1976, anno in cui viene a mancare.

Filippo Mazzoni nasce a Pistoia nel 1972. E’ laureato in Storia e Scienze Politiche. Collabora con l’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia di cui fa parte anche del Consiglio Direttivo. É autore della pubblicazione “La federazione comunista pistoiese dalla Liberazione al <<terribile>> 1956 (2003), ha collaborato assieme ad altri ricercatori alla stesura del volume “Pistoia fra guerra e pace” (2005) ed ha curato con P. L. Guastini e G. F. Marcucci “All’alba della costituzione italiana. I quattro costituenti pistoiesi (2008). É inoltre autore della pubblicazione “Una storia da non dimenticare. Ricostruzione storica dell’eccidio del 31 marzo 1944 alla Fortezza S. Barbara (2008 e ristampa 2015). Infine per conto della casa editrice Ibiskos ha pubblicato “Il terribile quindicennio (1969 – 1984). La storia delle stragi raccontate ai ragazzi” (2014). Con Stefano Bartolini ha curato il recupero dell’Archivio “Andrea Devoto” conservato presso il Polo delle Scienze Sociali dell’Università di Firenze, inoltra collabora con la rivista “QF – Quaderni di Farestoria” edita dall’Istituto.

Articolo pubblicato nel giugno del 2015.




Firenze davanti alla guerra

Dal 2 agosto 1914 al 24 maggio 1915 le manifestazioni a favore e contro la guerra si distinsero a Firenze per tre elementi: un progressivo intensificarsi della violenza, un continuo ripetersi e una larga diffusione nel tessuto cittadino.

Il fronte interventista era ben radicato tra la borghesia, una parte dell’aristocrazia e una folta schiera di intellettuali e personalità pubbliche. A dicembre il gruppo nazionalista rinunciò addirittura alla campagna elettorale delle elezioni comunali per dedicarsi esclusivamente alla propaganda interventista «per agitare e tener desto con comizi, conferenze, dimostrazioni lo spirito pubblico contro i neutralisti di ogni colore. […]”». Sul fronte opposto il neutralismo si radicò profondamente nelle zone popolari ad alta concentrazione operaia, come San Frediano, Porta alla Croce, S. Lorenzo, S. Spirito.

I loggiati di piazza Vittorio Emanuele (oggi piazza della Repubblica) divennero, secondo “Il Nuovo Giornale”, «la palestra più comoda per le diatribe fra neutralisti e interventisti».

1. Equilibrio_europeo_1914Nonostante l’imposizione salandrina di tenere comizi “privati” con invito in modo da evitare manifestazioni in luoghi pubblici e, dunque, disordini, questi scoppiavano lo stesso all’uscita di  tali ritrovi. Così accadde dopo una conferenza del professor Della Torre sul poeta e pubblicista dalmata Arturo Colautti. I partecipanti, in maggioranza studenti, si recarono in piazza Duomo cantando l’inno di Mameli e inneggiando alla guerra. L’urto con i socialisti «si tradusse in una vera e propria battaglia a colpi di bastone, pugni e calci». Dopo ripetute cariche, disposti i cordoni di truppa, e eseguiti alcuni arresti la situazione tornò lentamente alla normalità [ACS, MI, DGPS, DAGR, A5G, b. 94, f. 212 (Firenze), sf. 1, rapporto del Prefetto Cioja, 1-12-1914].

Talora furono i giornali oggetto di violenze popolari. All’uscita della conferenza dell’ex podestà di Fiume Icilio Baccich nel salone dell’Unione liberale a cui avevano partecipato circa 400 uditori, tra cui molte personalità pubbliche cittadine, alcuni di questi si recarono sotto «La Nazione», la cui redazione fu circondata e presa d’assalto, quasi in un improvviso chiarivari.  L’urto con la polizia e «plotoni di guardie e di carabinieri» si consumò in piazza Vittorio Emanuele, con numerose cariche delle forze dell’ordine e arresti di massa, tra cui quello di Francesco Giunta e Ezio Maria Gray, future personalità di spicco fasciste, e del giornalista del «Nuovo Giornale», Orazio Pedrazzi, che descrisse l’esperienza drammatica dell’arresto e della camera di sicurezza. Alla vista dei fermi, una signora plaudì all’azione della polizia provocando la reazione dell’avvocato Eugenio Coselschi – futuro creatore dei CAUR fascisti – che la accusò di essere tedesca, mentre la folla invase la birreria «Mucke» al suono dell’inno di Mameli causando altre colluttazioni e altri arresti fino a mezzanotte.

A partire dalla primavera gli scontri si fecero sempre più frequenti, spontanei e gravi (anche per la diffusa detenzione delle armi) e si allargarono ad altre parti della città. La commemorazione della partenza dei Mille fu un nuovo pretesto per altri disordini: il 6 maggio gli studenti dell’istituto tecnico Galileo Galilei imposero l’esposizione della bandiera e la sospensione delle lezioni prima nel loro istituto poi in altri.

3. cpc terzaghiIl 17 maggio «La Nazione» scriveva»: «[…] le dimostrazioni patriottiche non si contano più. Ad ogni momento echeggiano in piazza Vittorio Emanuele, che è affollatissima, applausi e grida entusiastiche. Vengono lanciati palloncini con appese bandierine tricolori». In quei giorni il ministro delle Colonie, Martini, annotava sul suo diario: «se non ci sarà la guerra esterna ci sarà la guerra civile» e la stampa si chiedeva: «si va dunque alla guerra contro lo straniero o alla guerra civile?».

Anche gli atti vandalici o offensivi nei confronti di cittadini tedeschi (o presunti tali) o contro tutto ciò che era riconducibile alla Germania e all’Austria vanno letti alla luce di un dissenso verso la guerra, anche trasversale ai due opposti schieramenti: fu danneggiata una farmacia di proprietà di tale Hans Klatzsch (o Klotzsch) [ACS, MI, DGPS, Ufficio riservato 1911-1915 C. 2, b. 83A, consultato in copia presso ISRT, Nota della prefettura di Firenze, 22-8-1914]; alla stazione alcune famiglie di tedeschi furono prese di mira da studenti che fecero una dimostrazione patriottica creando tafferugli bloccati dalle forze dell’ordine; il signor Carlo Strauss fu oggetto di un incidente e tacciato di essere una spia; il console tedesco Oswald fu inseguito da un gruppo di interventisti al grido «Va fuori d’Italia, va fuori straniero!»; alcuni studenti ruppero il vetro dell’ufficio Loyd germanico che esponeva nelle vetrine telegrammi provenienti da Berlino e fotografie di soldati tedeschi [ACS, MI, DGPS, DAGR, A5G, b. 96, f. 212 (Firenze), sf. 10, ins. 1, rapporto del prefetto Cioja, 21-3-1915].

Le autorità pubbliche controllarono in modo ferreo Firenze e la sua provincia, soprattutto i gruppi di socialisti (per esempio Michele Terzaghi o il giornale socialista «La Difesa») e gli anarchici (soprattutto a Empoli e Montelupo), ma la miccia era ormai innescata.

5. gambrinusIl musicista Castelnuovo-Tedesco, cui era stato dato l’incarico di scrivere il canto patriottico Fuori i barbari!, in un suo libro di memorie avrebbe ricordato la sera della vigilia così: «Quando lo suonai quella sera in casa Corcos, suscitò l’entusiasmo generale; Ugo e i Rotigliano mi trascinarono fuori, mi portarono in piazza Vittorio Emanuele; al Caffè Gambrinus, dove ogni sera si adunavano i dimostranti, cacciarono l’innocua orchestrina del caffè che stava suonando, e mi misero lì, sopra un palco, al pianoforte, ad insegnare il canto alla folla! Era il 23 maggio 1915, proprio alla vigilia della dichiarazione di guerra: il giorno dopo l’Italia entrava in guerra a fianco degli Alleati, e poche settimane dopo i soldati cantavano il mio inno marciando verso le trincee».

Camilla Poesio ha conseguito il dottorato di ricerca nel 2009 presso l’Università Ca’ Foscari Venezia. Ha ricevuto due premi per la tesi di dottorato e una segnalazione per il suo secondo libro. È attualmente ricercatrice post dottorato presso l’Università Ca’ Foscari Venezia in cooperazione con la Fritz Thyssen Stiftung fino al 2016. Ha svolto attività di ricerca presso enti di ricerca pubblici e privati sia in Italia sia all’estero (Università Ca’ Foscari, Universität Bielefeld, Frei Universität Berlin, Fondazione Salvatorelli, Deutsches Historisches Institut in Rom). I suoi ambiti di ricerca sono la storia dell’Italia e della Germania del XX secolo in prospettiva comparata e transnazionale, i rapporti fra fascismo italiano e nazismo, i diritti umani, l’uso della violenza, la memoria pubblica e privata. Ha scritto il capitolo su Firenze e Provincia nel volume curato da Fulvio Cammarano, Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia, Le Monnier, Firenze, 2015.

Articolo pubblicato nel maggio del 2015.




La primavera del 1915 a Livorno

Per tutto l’autunno del 1914 e l’inverno successivo a Livorno non si erano tenute iniziative in piazza sulla guerra. Con la primavera del 1915 le cose cambiarono: furono le prime iniziative interventiste a suscitare un cambio di passo anche nella propaganda neutralista, provocando un gioco di botta e risposta che animò il dibattito cittadino.

A inizio aprile «Il Telegrafo» dava l’annuncio della formazione di un gruppo nazionalista livornese con oltre 100 soci; pochi giorni dopo gli anarchici riempivano l’Ardenza di manifesti contro la guerra. L’11 venne organizzata una dimostrazione pubblica a favore dell’intervento in cui avrebbe dovuto partecipare Peppino Garibaldi, nipote dell’eroe dei due mondi. I socialisti invitarono la «Livorno proletaria» a intervenire in massa per far «sentire e capire da qual parte sia la maggioranza». L’illustre ospite non venne e l’iniziativa si limitò a una riunione privata nella sede dei repubblicani; ciò non evitò che per strada si creassero incidenti tra interventisti e neutralisti, con una larga eco nella stampa locale. Socialisti e anarchici fecero stampare immediatamente volantini contro la guerra raffiguranti le vignette di Scalarini pubblicate sull’«Avanti!»; un tipografo che distribuiva tale materiale (e che probabilmente lo aveva anche prodotto) fu arrestato.

Nel frattempo alcuni dissidi interni agitavano il Partito socialista locale. Il 27 aprile in un’assemblea nella sede centrale «si portò in votazione la proposta di espulsione di quei socialisti ufficiali che avessero manifestato sentimenti interventisti. Tale proposta fu respinta dopo lunga discussione con 47 voti contro 17». Il giorno seguente la Camera del Lavoro, a maggioranza repubblicana, decise di respingere la proposta di sciopero generale in caso di entrata in guerra dell’Italia, lasciando ogni iscritto di decidere secondo coscienza.

0472 casa del soldato in venezia

Casa del Soldato a Livorno durante la prima guerra mondiale

A inizio maggio ripresero le iniziative contro la guerra, a partire dal grande comizio del 1º maggio alla pineta di Ardenza, e la dimensione pubblica assunse nuovi connotati: una conferenza tenuta il 9 nella sezione socialista di Borgo S. Jacopo vide l’intervento delle forze dell’ordine per rimuovere dei cartelli contro la guerra esposti fuori del locale. Tuttavia il fronte favorevole all’intervento sembrava aver preso una forza che prima non aveva. La commemorazione cittadina della resistenza all’attacco austriaco del 10 e 11 maggio 1849 assunse connotati interventisti, come sottolinearono i quotidiani locali; il 13 maggio la festa dell’Ascensione fu celebrata dal vescovo alla presenza di «molti soldati, specialmente bersaglieri», con una funzione speciale a favore della pace e della patria, in cui si dava la disponibilità ad appoggiare un eventuale ingresso in guerra.

Le dimissioni di Salandra furono anche per Livorno la vera prova di forza per gli schieramenti in campo. Dopo che le manifestazioni interventiste promosse dagli studenti nel pomeriggio del 14 erano andate deserte, i neutralisti si riunirono per impedire una nuova dimostrazione che si doveva tenere la sera. Furono le forze dell’ordine ad assicurare l’agibilità allo schieramento favorevole alla guerra: le persone arrestate quella sera furono 34.

Il 15 maggio «innumerevoli manifestini, distribuiti con grande larghezza, invitavano i neutralisti a riunirsi [il giorno dopo] alle 10 in piazza Mazzini. […] Data la gravità degli incidenti avvenuti l’altra sera, l’autorità politica aveva preso grandi misure di precauzione. Dentro il Cantiere Orlando era una compagnia di soldati agli ordini di un maggiore. In piazza, una quantità di agenti e di carabinieri»: «furono subito predisposti occorrenti servizi di P.S. per impedire assolutamente [il comizio e il corteo], servizi che raggiunsero lo scopo trattenendo dall’intervenirvi gran parte dei neutralisti». Un centinaio di persone riuscì comunque a radunarsi in piazza Mazzini, mentre alcuni cartelloni colorati venivano innalzati fra i dimostranti. Otto gli arrestati, giudicati per direttissima.

Lo stesso giorno, all’Ardenza, gli anarchici avevano organizzato un comizio con il pisano Virgilio Mazzoni: «all’uscita si tentò di formare un corteo di circa duecento persone che gridando: Abbasso la guerra!, viva il socialismo!, viva la rivoluzione!, si dirigeva in via del Littorale. […] Avvennero varie collutazioni tra le guardie di P.S. e i cittadini: vennero scagliati dei sassi che colpirono tre guardie e un carabiniere». Quattro gli arresti. «Anche a Montenero, sulla piazza del Santuario, venne tenuto un comizio in senso neutralista, dopo il quale avvennero dei disordini non gravi. L’intervento dei carabinieri valse a far ritornare la calma tra i pochi intervenuti».

Questi episodi furono gli ultimi tentativi dei neutralisti livornesi di far sentire la propria voce in piazza di fronte all’imminente ingresso nel conflitto europeo. La decisa e probabilmente inaspettata reazione delle forze dell’ordine, più che il limitato confronto in piazza con gli interventisti, raffreddò gli intenti di socialisti e anarchici, già fiaccati dai dissidi interni. Il 18 maggio una grande manifestazione a favore della guerra si svolse senza alcun incidente; solo in serata, alcuni sassi furono lanciati alle finestre del «Corriere di Livorno», promotore delle dimostrazioni. I comizi neutralisti organizzati presso le sedi socialiste e anarchiche per il 20 maggio registrarono infine una partecipazione esigua: anche la voglia di ritrovarsi al chiuso, per discutere di cosa stava succedendo, sembrava essere venuta meno.

[L’articolo è tratto dal saggio dell’autore dedicato a Livorno, in Fulvio Cammarano (a cura di), Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia, Le Monnier, Firenze 2015, pp. 459-469]

*Stefano Gallo è assegnista di ricerca presso l’ISSM-CNR di Napoli. Il suo principale campo di ricerca è la storia delle migrazioni e del lavoro, ma si dedica anche alle vicende della Seconda guerra mondiale e della Resistenza. Collabora con l’Istoreco di Livorno, per il quale sta conducendo una ricerca sulla storia della Resistenza, ed è socio fondatore della SISLav (Società Italiana di Storia del Lavoro), di cui copre attualmente il ruolo di segretario coordinatore.

Articolo pubblicato nel maggio del 2015.




Lucca e la Prima guerra mondiale

Nell’anno della neutralità italiana – dal 2 agosto 1914 al 24 maggio 1915 – anche la provincia di Lucca, come il resto d’Italia, fu percorsa da dibattiti e tensioni che coinvolsero, sul tema della guerra, le forze politiche, le correnti culturali, la popolazione.

Nell’occasione si evidenziarono anche le diverse identità di una provincia davvero composita. La “Lucchesia”, la Versilia, la Valle del Serchio, la Garfagnana (che allora però era in provincia di Massa), la Valdinievole (Pescia e Montecatini, che ora sono però in provincia di Pistoia), presentarono infatti le loro realtà a volte comuni, ma spesso anche alquanto difformi, per specificità locali.

Un primo dato comune è che non si ebbero intorno a questa discussione quei picchi di violenza che, soprattutto se andiamo alla conclusione, si presentarono in altre parti d’Italia, sì da configurare, a detta di alcuni storici, situazioni di vero e proprio conflitto civile. Nella nostra provincia sono in evidenza in questo senso solo alcuni limitati episodi, tra cui spicca la violenta manifestazione neutralista che impedì il comizio di Cesare Battisti a Viareggio (31 gennaio 1915), “risolta” comunque con qualche contuso e danni materiali, presenza moderata delle forze dell’ordine e soprattutto senza vittime (che invece si verificarono in situazione simile, un mese dopo, a Reggio Emilia).

Si presenta qui il problema di valutare gli orientamenti dello spirito pubblico sui temi della guerra. Come è noto fin dagli studi di Vigezzi, l’indagine promossa nell’aprile del 1915 dal Governo – e quasi subito ritirata – su quali fossero gli orientamenti dell’opinione pubblica nel caso di intervento dell’Italia in guerra, non annovera la risposta del prefetto di Lucca. Non è comunque difficile ipotizzare una situazione in linea con l’andamento nazionale: il punto di partenza era certamente una diffusa approvazione dell’orientamento neutralista, che ondeggiava dalla esplicita opposizione alla guerra alla speranza che l’Italia potesse rimanerne fuori; le ragioni dell’intervento, che maturarono soprattutto in settori sociali specifici (borghesia urbana, professionisti, studenti) si fecero strada, mentre affioravano voci in tale direzione sull’orientamento della politica governativa e sull’andamento segreto dei lavori diplomatici, creando un senso di progressiva ineluttabilità dell’intervento; e se l’adesione entusiastica non sembrò affatto coinvolgere le maggioranze, si diffuse l’impressione di una accettazione “rassegnata” (come dice Vigezzi) del sacrificio come necessario e, a quel punto, magari anche nobile e doveroso. Ed ecco che, nelle fasi finali, indipendentemente dal permanere ed anzi dall’accentuarsi della contrapposizione e dello scontro, la società civile mise in atto una partecipe mobilitazione a sostegno dello sforzo economico ed umano che anche la provincia di Lucca, come per il resto d’Italia si preparava a sostenere.

 

Queste valutazioni non possono comunque prescindere dal quadro politico che orientava l’opinione pubblica rappresentandone al contempo un termometro attendibile. A questo livello si svolse un dibattito davvero intenso, più articolato e complesso di quanto non si sia soliti rappresentare.

A sinistra, l’“Estrema” (socialisti, repubblicani, sindacalisti, anarchici, sinistra radicale) conobbe la spaccatura di quella unità che aveva avuto il suo momento più significativo nel corso delle agitazioni della “settimana rossa”, che per la verità scossero soprattutto la Versilia e che invece interessarono assai modestamente Lucca.

Il partito socialista fu la roccaforte del neutralismo militante, soprattutto per la battaglia condotta da Luigi Salvatori, sulle piazze versiliesi e sul suo periodico, “Versilia”: voce di un “neutralismo assoluto” che giunse fino alla (inascoltata) richiesta ai vertici nazionali del partito, nei giorni caldi di maggio, di uno sciopero nazionale contro la guerra. Nel resto della provincia, se si segnalò una vivace attività dei socialisti a Pescia, la stessa area socialista non rimase immune da divisioni nel capoluogo, dove si ebbero ampie adesioni alle ragioni dell’intervento, come testimonia la vicenda del principe del foro Francesco Bianchi, già distaccatosi dalla linea del partito ai tempi della guerra di Libia ed ora strenuo fautore dell’interventismo democratico.

La divisione attraversò anche il gruppo sindacalista, con l’“interventismo rivoluzionario” di Alceste De Ambris. A Viareggio questa prospettiva conquistò Lorenzo Viani, che divenne così l’elemento rilevante, per quanto sostanzialmente isolato, della divisione che percorse anche il campo anarchico.

Maggioritaria fu invece la professione interventista dei repubblicani, variamente rappresentati in provincia. In Versilia, la voce più stentorea fu quella di un “non politico”: quella del poeta Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, animatore e guida della cosiddetta “Repubblica di Apua”. In tutta la provincia era questo il settore più intensamente legato all’eroica epopea del volontariato democratico garibaldino, che veniva ora rievocata e rinnovata.

Muovendo la nostra attenzione verso il centro politico, troviamo l’area per lo più connotata come “democratica”: radicale, laica, massone, con aspirazioni di governo, sia a livello, sia a livello locale (con esperienze  specie in Versilia, durature a Pietrasanta e più frammentarie a Viareggio). E’ un settore che subisce nel 1913 il colpo dell’alleanza tra i liberali moderati e i cattolici promossa dal patto Gentiloni, con significativi contraccolpi negativi anche sul piano amministrativo (la sconfitta di Pietrasanta, per esempio); ma che ha anche i suoi punti di forza: a Pescia per esempio nella figura di Ferdinando Martini, ministro delle colonie di Salandra. La posizione sulla guerra di questo settore, laico massone e filofrancese, si viene precisando (con l’eccezione neutralista di Barga) in direzione dell’intervento, dove con maggiore, dove con minore impazienza, dove più, dove meno precocemente.

A destra dei democratici si estende il grande centro liberale, moderato, monarchico, governativo, le cui posizioni riflettono le incertezze, le divisioni e i “tentennamenti” della linea di governo nazionale.

Abbiamo tutta un’area che si ispira a giolittiani di stretta osservanza, quali sono il deputato versiliese  Giovanni Montauti e quello garfagnino Ernesto Artom, che predicano finché possibile la prudenza della via diplomatica. Va anche detto che a questi livelli, l’alleanza inaugurata con i cattolici preme sulla via del neutralismo.

Ma è proprio al cuore della provincia che i liberali si muovono con maggiore libertà incalzando in senso opposto Salandra, sicché a Lucca “l’orologio dell’interventismo” è anticipato rispetto al resto della provincia. E non certo per le pressioni del gruppo nazionalista, nel capoluogo presente con una attività che non ha eguali in provincia, ma con una forza non in grado di incidere al di là delle pubbliche prese di posizione. Forse invece per una certa qual “vocazione” nazionale della classe dirigente lucchese, evidenziatasi per esempio nel maggio 1914, quando l’intera città era scesa in difesa dei suoi studenti, colpiti dalla polizia del prefetto Cotta e dalla magistratura per la loro dimostrazione in favore degli italiani di Trieste.

Rimane da dire dell’altro corno della politica cittadina: quello dei cattolici, di cui va sottolineata in generale l’adesione alle linee del neutralismo dettato da Benedetto XV, rinforzata dalla particolare coerenza del loro leader più prestigioso, sul piano culturale, oltre che politico: appunto Lorenzo Bottini. Sicché, analizzando la parabola di questo neutralismo, si potrà arrivare alla conclusione – solo apparentemente paradossale – che proprio dentro il gruppo dirigente della società lucchese, i liberali più interventisti di tutta la provincia convissero con i cattolici più neutralisti.

Si presentarono, in provincia, tutti i diversi motivi di fondo del neutralismo cattolico: quello filoaustriaco e filotriplicista dell’intransigentismo (forse più rappresentato a Viareggio, a quanto risulta dalla linea dell’“Eco Versiliese”); quello della partecipazione all’interesse nazionale (inalberato contro l’internazionalismo “disfattista” dei socialisti): la pace è nell’interesse nazionale, in nome del quale i cattolici professano a più riprese di essere anche pronti all’eventualità della guerra; e terzo, il neutralismo di principio, quello etico, che parla più direttamente alla popolazione e organizza le mobilitazioni di preghiera per la pace.

Ma – anche qui una distinzione interna – se l’arcivescovo Marchi sospende la mobilitazione dei fedeli attorno a Pasqua, pronto ad invocare sull’esercito italiano la protezione del “dio delle vittorie”, è Bottini l’ultimo ad arrendersi. Lui, che già era stato contrario alla guerra di Libia per motivi di principio (applicando lo stesso principio che da un punto di vista clericale gli aveva fatto condannare la presa di Roma al Papa per rifiutare consenso alla “conquista di Tripoli al Sultano”), con motivazioni tutte politiche arriverà a salutare le dimissioni di Salandra (13-16 maggio): gli abbiamo voluto bene (aveva scritto: siamo disposti a farci guidare da lui come una moglie dal buon marito), ma la sua politica di guerra non la condividevamo. Si dà per vinto solo il 23 maggio: Alea iacta est.

 

Articolo pubblicato nel maggio del 2015.

 

 




L’incendio di Brolio

Roma liberata e la collaborazione con il Governo Militare alleato nel racconto di Bettino Ricasoli.

Nella tarda primavera del ‘44 Roma è ancora occupata dai nazisti mentre il fronte è bloccato a Cassino.
Dopo l’Armistizio Bettino Ricasoli, non volendo aderire all’esercito di Salò, si è arruolato nella Guardia palatina del Vaticano. In questo modo è al sicuro dai rastrellamenti. Da molto tempo ha perso i contatti con i familiari, non sa più nulla di loro né riesce a far avere sue notizie. Ma una notte accade qualcosa…

“Finalmente cominciò la ritirata tedesca da Roma. Io mi trovai proprio sugli spalti di un terrapieno, che fa parte della Casa Generalizia dei Gesuiti, la notte fra il 3 e il 4 giugno del ‘44. Si vedevano i Tedeschi che venivano via con tutti i mezzi possibili e immaginabili su carretti, in bicicletta, in motocicletta, sulle automobili sequestrate, sui carri armati. Passavano lungo il Tevere e andavano verso nord. Per tutta la notte c’è stata una colonna disordinata di fuggitivi e poi, a un certo momento, è finito tutto. Dopo un’ora sono arrivati gli Alleati con le camionette. Faceva impressione vedere tutti questi mezzi, i carri armati. Ma il passaggio è stato completamente pacifico. Non credo che i tedeschi abbiano opposto, anche in altre parti di Roma, nessuna resistenza. Anzi, dopo tutto il rumore delle truppe in ritirata, prima dell’arrivo degli Americani c’è stato un periodo di assoluto silenzio. Capimmo che era la fine dell’esercito tedesco e che fra poco sarebbero arrivati gli Alleati. Infatti dopo un’ora cominciarono ad arrivare le prime truppe. Era mattina, il passaggio dei tedeschi era durato tutta la notte”.

Roma è finalmente libera. Ricasoli vorrebbe tornare subito a casa, è in ansia per la sorte dei familiari ma, con il fronte in rapido movimento, è impossibile trovare mezzi di trasporto. Per fortuna parla un ottimo inglese. Fa conoscenza con un certo colonnello Kennedy, destinato a essere il responsabile dell’agricoltura nel futuro Governo Militare alleato della Toscana. La persona giusta al momento giusto.

“Gli avevo detto che mi interessavo di agricoltura nell’azienda della mia famiglia e che ero studente di Agraria all’università di Firenze. Allora il colonnello mi chiese: “Se vieni con me, mi puoi aiutare e darmi dei consigli, perché io di agraria non me ne intendo”. Io accettai volentieri, e allora si combinò che lui mi portava con sé sulla sua jeep, e con questa, via via che il fronte avanzava, ci spostavamo in su lungo la costa. Stemmo a Santa Marinella per qualche tempo, poi andammo fino a Civitavecchia e poi su fino a Grosseto. Era la prima provincia della Toscana, il colonnello già si sentiva un po’ investito, anche se nelle province toscane il responsabile dell’agricoltura, che era lui per tutta la regione Toscana, non aveva un proprio corrispondente, un proprio ufficio per l’agricoltura, per cui doveva affidarsi agli uffici dell’alimentazione. Mi disse “Qui non ho nessuno a cui io possa dare delle istruzioni. Senti, se vuoi rimanere in una delle province toscane rimani, anzi, se hai qualche altro amico disposto a fare come te, io lo manderei in altre province. Io starò a Firenze e terrò i contatti attraverso voi”. Io accettai e scelsi Siena. Pensavo che i miei fossero ancora a Brolio, ma eravamo rimasti interrotti dalla guerra, non sapevo cos’era successo”.

Nella città di Siena appena liberata Bettino Ricasoli collabora con il Governo Militare Alleato. Ha il suo ufficio in Prefettura, alloggia con gli ufficiali, pur essendo un civile – il passaggio nelle Guardie Palatine comportava il licenziamento dall’esercito – e viene trattato come uno di loro.
In provincia invece si combatte ancora, i cannoni alleati piazzati sotto le mura sparano verso nord. Un giorno si sparge la voce che il castello di Brolio sta andando a fuoco…

“Sentii la gente che si era radunata nella piazza del Duomo che diceva: “A Brolio c’è stato un combattimento, è andato tutto distrutto”. Impressionato, andai subito sulle mura di Siena, a San Francesco, da dove si vede benissimo Brolio. La giornata era bellissima, chiara, e vidi effettivamente il castello in una nuvola di fumo rosso. Pensai “sta bruciando”. Proprio sotto Siena c’erano delle batterie di cannoni che sparavano in quella direzione. Ero molto preoccupato per la sorte dei miei. Immaginavo che fossero lì, ma avrebbero anche potuto essere andati via, non potevo saperlo. Dopo qualche giorno l’avanzata alleata proseguì abbastanza rapidamente e anche Brolio venne liberato. Alcuni ufficiali inglesi mi dissero: “Adesso si può andare, ti portiamo a vedere cos’è successo”.
Trovai il posto ridotto male, ma tutti i miei, i genitori, le mie quattro sorelle e il mio fratello minore, erano lì e stavano bene. Mi resi conto che quel fumo rosso che si vedeva da Siena era la polvere dei mattoni della facciata. Le cannonate, esplodendo sul mattone, davano una polvere rossa che tingeva le nuvole di fumo. Era quella la causa del rosso, non c’era stato nessun incendio”.

Ironia della sorte. Il castello è stato scelto come rifugio dalla famiglia Ricasoli e, per un certo periodo, anche da una cinquantina di contadini. Si rivela invece il luogo più pericoloso, l’unico edificio della zona ad essere preso di mira dalle cannonate. Per via della sua posizione elevata, i Tedeschi vi hanno stabilito un posto d’osservazione e da lì dirigono il fuoco delle artiglierie contro gli Alleati che, in risposta, cannoneggiano il castello per diverse ore al giorno.

“I tedeschi lì erano pochissimi, una pattuglia, pochi soldati che non avevano altro scopo che di dirigere il fuoco sulle colonne alleate che da lì potevano vedere. Volevano far credere che lì ci fosse una forza militare di una certa importanza. Stavano nelle cantine, e anche i miei familiari vi si erano rifugiati. Anzi, prima che gli alleati si avvicinassero, le mie sorelle avevano fatto amicizia con uno o due di questi ufficiali tedeschi e loro con i binocoli gli facevano vedere i movimenti dei carri armati alleati intorno a Siena. Le mie sorelle si divertivano, “si vede la guerra!” dicevano. A un certo momento sentirono il fischio di un obice che passava sopra le loro teste, allora i tedeschi dissero loro di mettersi al sicuro in cantina perché il gioco si faceva più pericoloso.
Il cannoneggiamento contro il castello durò parecchio, diverse ore tutti i giorni. Quando io arrivai a Siena era in pieno svolgimento. La liberazione del castello avvenne quattro-cinque giorni dopo”.

I primi ad entrare a Gaiole e nel castello come liberatori sono i Sudafricani. Gente civilissima e ottimi soldati, così li ricorda il barone. Dopo il passaggio del fronte, tutto intorno spuntano gli accampamenti. Brolio diventa zona di riposo per le truppe che hanno combattuto in prima linea e che periodicamente si alternano con quelle delle retrovie.
Il castello è danneggiato, ma le mura hanno resistito egregiamente alle cannonate. Qui come altrove ci si mette subito a riparare, a ricostruire.
Bettino Ricasoli continuerà a collaborare con il Governo Militare alleato per alcuni mesi. Il suo ufficio deve organizzare tutto il settore agricolo nella provincia di Siena. Lascia l’incarico a fine ottobre del ‘44 per riprendere gli studi di agraria che aveva dovuto interrompere.
La guerra non è finita, nel nord si combatte ancora. Ma nelle zone liberate si ricomincia a vivere.

(Seconda parte della testimonianza di Bettino Ricasoli, raccolta il 5 marzo 2004)

la prima parte dell’intervista in: L’8 settembre di Bettino Ricasoli

Articolo pubblicato nel maggio del 2015.




L’8 settembre di Bettino Ricasoli

L’Armistizio, la dissoluzione dell’esercito, Roma occupata dai nazisti nel racconto di Bettino Ricasoli.

La tragedia dell’8 settembre 1943 ha segnato un’intera generazione di Italiani.
Dopo l’annuncio dell’Armistizio centinaia di migliaia tra soldati e ufficiali, sparsi sui vari fronti di guerra, si trovarono di colpo privi di ordini, senza saper che fare né dove andare, abbandonati alla mercé dei Tedeschi, non più alleati ma nemici.
Qualcuno riuscì a tornare a casa con mezzi di fortuna. Chi cercò di resistere, come i nostri soldati a Cefalonia e Corfù, venne massacrato senza pietà. Oltre 630.000 militari italiani, rastrellati o catturati con l’inganno, furono deportati in Germania.
Bettino Ricasoli aveva allora 21 anni. Richiamato alle armi nel gennaio del ‘43, alla fine di luglio era a Terracina per un periodo di addestramento prima di essere inviato al fronte. Qui lo colse l’8 settembre, quando non aveva ancora combattuto né sparato un solo colpo.
Il barone ha accettato di raccontare la sua personale avventura. Lucidità e chiarezza della narrazione, insieme all’eccezionalità delle circostanze di cui è stato testimone, rendono preziosa la sua testimonianza.

“C’era già stato lo sbarco a Salerno, Terracina e la ferrovia Roma-Napoli venivano spesso bombardate dall’aviazione alleata. Noi dovevamo sorvegliare la costa e agire se ci fossero stati degli sbarchi nel tratto fra il monte Circeo e Terracina. Lì ci prese l’8 settembre. Rimanemmo ai nostri posti, non sapendo esattamente cosa fare, tutte le comunicazioni con i comandi erano interrotte. Con i nostri ufficiali decidemmo di togliere gli otturatori ai cannoni per renderli inservibili, nel caso che i tedeschi si impossessassero di queste zone, e di andare a Sabaudia, dov’era il comando della divisione da cui dipendevamo. Vi arrivammo andando a piedi attraverso i campi durante la notte per non farci vedere. Eravamo convinti che i Tedeschi avrebbero opposto resistenza”.

Li attendono due sorprese. La prima è che a Sabaudia il comando di divisione non c’è più, dissolto come neve al sole. Increduli e confusi, i soldati decidono di tornare indietro e rioccupare le posizioni, per non rischiare di passare da traditori. Precauzione inutile, perché la postazione è deserta e dei comandanti non c’è traccia.
La seconda sorpresa è che i Tedeschi fuggono in maniera disordinata, con tutti i mezzi che riescono a trovare.

“Scappavano lungo la costa con chiatte, barche, barconi, soprattutto di notte. Andavano verso il nord. Vicino a noi c’era una postazione antiaerea tedesca. Una mattina un gruppo di soldati tedeschi che erano al servizio di questa postazione, armati fino ai denti, con collane di proiettili, vennero a dirci: “La guerra è finita, noi ci arrendiamo a voi”, proprio così. Noi non sapevamo cosa fare nemmeno di noi stessi, non avevamo più rifornimenti di cibo, non sapevamo più niente, eravamo abbandonati lì. Gli dicemmo: “Se volete restare con noi rimanete, ma non abbiamo nemmeno da darvi da mangiare”. Allora andarono via”.

Nei primi giorni dopo l’armistizio i Tedeschi che si trovano a sud di Roma attraversano una fase di smarrimento, con l’esercito alleato che incalza. Scappano verso il nord più velocemente che possono senza incontrare, purtroppo, nessuna resistenza. Ben presto si riorganizzano e riprendono il controllo della situazione.

“Per un certo numero di giorni anche i Tedeschi non sapevano cosa fare e si ritiravano. Secondo quello che potevamo giudicare noi dal nostro punto di vista, se a Roma ci fosse stata una volontà di combattere, se ci fosse stato un esercito organizzato e comandato in modo efficace, sarebbe stato possibile bloccarli. Dopo qualche giorno, a una settimana circa dall’armistizio, è arrivato nella nostra zona, fra il monte Circeo e Terracina, un ufficiale tedesco. Hanno emesso un proclama in cui si stabiliva che tutti i giovani in età militare dovevano consegnarsi alle autorità tedesche. A quel punto decidemmo di andar via”.

Rientrato in Toscana Bettino Ricasoli si ricongiunge ai familiari, che da Firenze si sono trasferiti nel loro castello a Brolio, presso Gaiole in Chianti. Dovrebbe essere una sistemazione abbastanza sicura, lontana dalle principali vie di comunicazione. Ma non è affatto sicura per il giovane, che a Gaiole è un personaggio molto in vista. Non avendo nessuna intenzione di arruolarsi nell’esercito di Salò, non gli rimane che nascondersi. Sceglie Roma, dove ha dei parenti che possono aiutarlo ed è più facile far perdere le proprie tracce.
Nella capitale occupata dai nazisti l’atmosfera è cupa. Repubblichini e tedeschi danno la caccia ai renitenti, gli scantinati sono pieni di sfollati, manca il cibo. Il Vaticano ricorre a un espediente per salvare un certo numero di giovani dai rastrellamenti: li arruola nella Guardia Palatina. Tra di loro c’è anche Bettino Ricasoli.

“A un certo momento il Vaticano ha voluto mettere più al sicuro molti di quei giovani che erano a Roma nelle mie condizioni e ottenne dal comando tedesco di aumentare l’arruolamento delle proprie guardie palatine, per proteggere gli immobili extraterritoriali, che appartengono allo stato del Vaticano ma sono nella città di Roma.
In quell’occasione anch’io riuscii a entrare al servizio della Città del Vaticano, con l’obbligo di fare un turno di guardia ogni 10 giorni. Fui assegnato alla Casa Generalizia dell’ordine dei Gesuiti, che è dietro il colonnato di San Pietro e domina la collina che guarda il Tevere. Ci sono ancora le vecchie mura di Roma, il servizio consisteva nel passeggiare avanti e indietro su queste mura. Facevo il turno di guardia e mi occupavo di assistenza. Roma si riempì di sfollati dalle campagne che venivano su, spinti dall’avanzare del fronte. Venivano dal napoletano, da Cassino. Stavano accampati in questi tunnel, erano state organizzate delle mense che ottenevano dal Vaticano piselli secchi che venivano cotti e distribuiti. Me ne alimentavo anch’io. Giravo per Roma con una tessera che avrebbe dovuto proteggermi se fossi incappato in quelle che chiamavano le retate: i repubblichini chiudevano un gruppo di strade e passavano al setaccio tutti quelli che erano dentro; se trovavano qualcuno in età da militare veniva preso e portato via su al nord, si diceva nei campi di concentramento in Germania. Ma con la carta del Vaticano si era quasi sicuri”.

Nonostante la fame e il clima di oppressione Ricasoli è convinto, come tutti, che gli Alleati non tarderanno ad arrivare. Nell’autunno del ‘43 nessuno immagina che il fronte rimarrà bloccato a Cassino per sei lunghi mesi. E l’occupazione nazista della Capitale si trasforma in un incubo che sembra non aver mai fine.

(Prima parte della testimonianza di Bettino Ricasoli raccolta il 4 marzo 2004)

La seconda parte dell’intervista in “L’incendio di Brolio”.

Articolo pubblicato nel maggio del 2015.




20 aprile 1945: la liberazione di Castelnuovo Garfagnana

Gli ultimi mesi della seconda guerra mondiale sono molto difficili per la popolazione della Garfagnana, benché la zona rappresenti un fronte secondario per le truppe Alleate presenti in Italia.

Lo scenario di guerra si è stabilizzato sin dall’autunno precedente. A nord della Linea Gotica (che taglia la valle dal Monte Altissimo e dal gruppo delle Panie fino al Monte Romecchio attraversando Cascio, Perpoli, Palleroso), i territori di Castelnuovo di Garfagnana, Camporgiano, Careggine, Pieve Fosciana, Castiglione di Garfagnana, Villa Collemandina, San Romano, Piazza al Serchio, Minucciano e Sillano sono ancora occupati dall’esercito tedesco e dai soldati della Repubblica Sociale Italiana, mentre Barga, Vergemoli e Gallicano sono già liberate da tempo.

I primi mesi del 1945 scorrono senza grandi battaglie, tutt’al più scaramucce che impegnano anche formazioni partigiane, ma con continui bombardamenti e cannoneggiamenti che mettono a dura prova i garfagnini. In una di queste circostanze, il 13 febbraio, muoiono ben 30 persone in un rifugio antiaereo che viene centrato da un bombardiere americano.

Nel mese di aprile è prevista l’offensiva finale sulla Linea Gotica da parte degli Alleati. Il fronte tirrenico si muove con qualche giorno di anticipo: il 442° Reggimento nippoamericano “Nisei” e il resto della 92ª Divisione “Buffalo” avanzano in modo graduale e costante nell’area apuano-versiliese.

Le conseguenze si fanno sentire, com’è ovvio che sia, pure in Garfagnana. I partigiani della formazione “Luigi Dini” – operativa nella zona occupata – si impegnano sempre più spesso in scontri con soldati tedeschi e italiani, sottraendo loro armi, munizioni e cavalli. Le diserzioni nell’esercito repubblicano diventano giorno dopo giorno sempre più numerose. Il generale Carloni, dopo un’azione partigiana nei pressi di Castiglione, ordina il prelievo di un numero di ostaggi non inferiore a cinque in ognuna delle giurisdizioni affidate ai suoi ufficiali affinché tali arrestati siano uccisi, in rapporto di uno a uno, “per ogni aggressione e cattura e danni arrecati ai militari sul luogo dove il fatto è avvenuto”. Il maggiore Mario Bin rifiuta di eseguire l’ordine di catturare ostaggi.

Lunedì 16 aprile 1945 la Divisione Italia, scoperta per decine di chilometri su entrambi i lati dopo l’avanzata americana verso Carrara (liberata l’11 aprile), riceve l’ordine di abbandonare le posizioni sulle Apuane e di spostarsi verso il passo del Cerreto e dei Carpinelli, verso la Lunigiana.

castelnuovo - via testiMercoledì 18 aprile anche i tedeschi ripiegano. Padre Nicola D’Amato, rettore del Santuario della Madonna della Stella di Migliano (Fosciandora), che si trova proprio a ridosso del fronte, scrive:

“Alle 15.20 l’ultima cannonata, e per sempre. Deo gratias! (…) Fervono i preparativi delle truppe da ogni parte: passano a lunghe teorie gruppi di tedeschi equipaggiati di ritorno dal fronte. Partono i turchestans coi loro asini stracarichi, parte nuovamente anche l’autoambulanza. Pian piano si fa il vuoto intorno a noi, nei nostri paesi. Noi guardiamo colla gioia negli occhi, ma cerchiamo di nasconderla per quanto sia possibile. Siamo ormai alle 15.30. Giù in fondo, verso la stazione, una forte detonazione ci avverte che anche il ponte di Ceserana è saltato in aria”.

Giovedì 19 aprile l’obiettivo dei partigiani – pochi e disorganizzati – rimasti nel territorio occupato è salvare i ponti che i tedeschi in ritirata hanno minato. Non riescono nel loro intento e così molti viadotti (tra cui quello ferroviario in località Villetta) vengono fatti saltare. Nella relazione della formazione “Dini” ecco come viene raccontata la distruzione di un piccolo ponte in località Pontecosi:

“La notte del 19/4/45, nel tentativo di salvare il ponte e la centrale (idroelettrica, NdR) di Pontecosi, dopo aver preso posizione nella prossimità, si attendeva il momento opportuno poiché le truppe tedesche erano in ritirata, le quali impartivano ordini ad alta voce alle guardie site sul ponte, dicendo loro di far saltare il medesimo appena passate le ultime tre compagnie. La prima e la seconda passarono, mentre attendevamo la terza per aprire il fuoco si sentì un ordine riferitoci da un partigiano austriaco, il quale era di accendere le mine. Ci affrettammo a far fuoco, ma il ponte saltò ugualmente, però la centrale, anch’essa da informazioni avute destinata a saltare, rimase incolume. Al nostro fuoco rispose la 2° Compagnia Tedesca lì vicina”.

Intanto, a Vergemoli, nella zona sotto controllo Alleato, il Plotone C – guidato da Giovanni Battista Bertagni, già protagonista nell’autunno precedente di una serie di azioni di sabotaggio nei territori occupati – del Battaglione Autonomo Patrioti Italiani “Pippo”, in collegamento con i servizi segreti americani, riceve l’ordine di avanzare verso nord, mentre gli americani avanzano fino a Perpoli e Palleroso.

La mattina di venerdì 20 aprile è proprio Bertagni a entrare per primo a Castelnuovo: il principale centro della Garfagnana è irriconoscibile: le bombe lo hanno quasi totalmente distrutto. Nelle ore successive arrivano anche gli americani della Buffalo.

Gli ultimi soldati italo-tedeschi a lasciare la Garfagnana saranno i bersaglieri della Divisione Italia, che tra sabato 21 e domenica 22 aprile 1945 abbandoneranno Piazza al Serchio. La popolazione della Garfagnana farà i conti ancora per molti mesi con le conseguenze della guerra e delle sue distruzioni.

Nel 2009 i sedici comuni della Garfagnana sono stati decorati con la medaglia d’oro al merito civile proprio per le privazioni e i danni sofferti a causa della guerra.
Feliciano Bechelli si è laureato in Scienze politiche presso l’Università di Pisa e collabora con l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Lucca. Giornalista pubblicista, è direttore responsabile della rivista dell’Istituto “Documenti e studi”. Di recente pubblicazione il suo volume Storie di guerra e di Resistenza. Garfagnana 1943-1945 (Pacini Fazzi, 2015). 

Articolo pubblicato nell’aprile del 2015.




13 aprile 1921: l’assassinio di Carlo Cammeo, segretario della Federazione socialista di Pisa

A Porta Nuova, in via Contessa Matilde sull’edificio della Circoscrizione n. 6, è posta una lapide che porta il seguente testo:

“Per sicaria mano fascista / cadeva assassinato / il 13 aprile 1921 / Carlo Cammeo / glorificando col sangue / la santità della scuola / e la sua fede nell’idea socialista / la giunta municipale di Pisa / all’alba della libertà / interpretando i sentimenti della cittadinanza”.

L’edificio in cui è murata la lapide è l’ex scuola dove insegnava Carlo Salomone Cammeo (nato a Tripoli il 6 maggio 1897) e dove fu assassinato. La via che oggi dall’incrocio di Porta Nuova si congiunge a Piazza Manin è dedicata al militante socialista e, dove è sepolto Cammeo – ebreo e ateo –, sul monumento funebre è incisa una falce e martello su di un libro aperto, caso unico per il cimitero israelitico. A parte la strada, la lapide e la tomba con i suoi simboli, oggi a Pisa resta ben poca cosa della memoria di Cammeo. All’epoca dei fatti il suo nome però era ben conosciuto e nonostante la giovane età aveva alle spalle già un discreto curriculum vitae, tanto da ricoprire ruoli importanti ai vertici del Partito socialista. La sua tragica morte segnò una svolta nella storia politica e sociale della città della torre pendente, che fu contrassegnata negli anni seguenti dall’affermarsi della violenza fascista e statale contro il movimento dei lavoratori e le sue organizzazioni politiche.

La guerra civile scatenata dai fascisti, con la complicità di buona parte delle forze dell’ordine dello Stato liberale, fu una risposta politica e militare alle lotte del “Biennio rosso” (1919-1920). Il primo dopoguerra fu caratterizzato da una grande partecipazione popolare, spesso spontanea, alle lotte di rivendicazioni salariali e sociali. Si era creato un clima diffuso di attesa per un cambiamento radicale della società, si aspettava l’esplodere della rivoluzione, com’era successo in Russia nel 1917 e questo aveva fortemente intimorito le classi dirigenti che sembravano impotenti a contrastare tale movimento. La nascita del fascismo toscano, la riorganizzazione delle organizzazioni padronali e la ripresa su vasta scala della repressione statale coincise con il declinare dell’iniziativa politica delle forze della sinistra che non seppero cogliere l’occasione per dare una svolta al paese. La violenza fascista e statale aprì un periodo, che per numero di vittime e di distruzioni, potremmo definire il “Biennio nero” (1921-1922) e che segnò la fine della democrazia liberale.

La Toscana nei primi mesi del 1921 fu attraversata da uno scontro violentissimo tra le squadre di fascisti, organizzate soprattutto dalla direzione fiorentina del movimento, e le forze della sinistra, anarchici, comunisti, socialisti e sindacalisti. Angelo Tasca in un suo noto volume sulla nascita del fascismo afferma che nei primi sei mesi del 1921 in Toscana furono distrutti 137 edifici: 11 case del popolo, 15 camere del lavoro, 11 cooperative, 70 circoli socialisti e comunisti, 24 circoli operai e ricreativi, 2 società mutue, 1 sindacato operaio e 3 redazioni di periodici.

Pisa non fu esente da quest’ondata di violenza. Il fascismo locale, riorganizzatosi da poco dopo una prima infruttuosa esperienza, guidato dal capitano Bruno Santini, ex ardito di guerra originario di Carrara, aveva raggiunto la notorietà all’inizio del 1921 con l’attacco alla nuova Giunta provinciale guidata da Ersilio Ambrogi socialista – poi comunista –. Il fascismo trovò consensi fra gruppi di studenti, ex militari, liberi professionisti, esponenti delle forze dell’ordine – soprattutto carabinieri – e giovani esponenti delle principali famiglie benestanti tra cui alcuni della comunità ebraica.

Il 25 marzo 1921 da Pisa una squadra di fascisti parte dirigendosi a Lucca e precisamente a Ponte a Moriano. Scopo della missione è di dar man forte ai camerati locali per togliere dalla sede del circolo ricreativo socialista il simbolo dei “soviet”, cioè la falce e martello. L’obiettivo è raggiunto ma gli operai avuta notizia del fatto corrono in paese e i fascisti si danno alla fuga; alcuni di loro rimangono staccati dal gruppo principale a causa di un guasto all’autocarro su cui viaggiano e ben presto vengono circondati dagli operai. Nasce una rissa e alla fine a terra rimane ferito mortalmente il fascista pisano Tito Menichetti. Sulla dinamica della sua morte ci sono versioni discordanti, il processo, che si tenne un anno dopo i fatti, individuò come unico responsabile il ferroviere Giuseppe Neri, originario di Castagneto Carducci, che subisce una condanna a 17 anni e 7 mesi di reclusione.

Pisa venne listata a lutto, un manifesto fascista invitava allo scontro:

“Cittadini. Si muore per voi. Si muore per salvare la nostra Italia travagliata dalla rovina e dal terrore ove tentano di trascinarla i folli criminali del comunismo e dell’anarchia per ricondurla sulla via della pace e del lavoro. Fascisti! Il corpo sanguinante di un’altra giovane vita si frappone fra noi ed i nostri nemici. Nessuno pianga. Nessuno si pieghi di fronte alla bara. Tutti in piedi! Con la fronte alta giuriamo. Tito Menichetti sarà vendicato! Senza pietà!”.

Lo stesso Bruno Santini durante i funerali incita pubblicamente alla vendetta.

Carlo_CammeoCarlo Cammeo scrisse un articolo sul settimanale socialista pisano «L’Ora nostra» del 1° aprile 1921, in risposta alle minacce fasciste, nel quale si richiamavano le responsabilità di chi, sulla morte di Tito Menichetti, stava imbastendo una “indegna speculazione patriottica”. È un j’accuse che espone il giovane socialista alla reazione fascista, che non si farà attendere. Un nuovo articolo di Cammeo, uscito sul numero successivo del settimanale, nel quale si ironizzava sulla partecipazione di alcune donne alle marce fasciste, fa scattare la vendetta fascista: la mattina del 13 aprile Mary Rosselli-Nissim e Giulia Lupetti raggiungono la scuola dove sta insegnando Cammeo e con una scusa lo invitano ad uscire dalla classe. Il maestro appena raggiunto il cortile è fatto segno di due colpi di pistola, sparati dal fascista Elio Meucci, cade a terra esangue, di fronte ai bimbi terrorizzati, mentre il gruppo di fascisti si dilegua repentinamente.

L’autore dell’assassinio è uno studente di farmacia dell’Università di Pisa mentre le due donne sono figlie di alti ufficiali del distaccamento militare. In particolare la Lupetti, che pochi mesi dopo per i suoi meriti sarà nominata segretaria del fascio femminile, è figlia del comandante del presidio militare. I fascisti responsabili della morte di Cammeo, grazie alla complicità delle autorità e all’interessamento del sottosegretario alla giustizia Arnaldo Dello Sbarba, saranno tutti prosciolti dall’accusa di omicidio. Le coperture di cui beneficia il gruppo di fuoco rappresentano la testimonianza dell’intreccio che da subito s’instaura fra i gruppi di fascisti locali, le autorità militari e quelle di carabinieri e guardie regie. Questo stretto rapporto è testimoniato anche dal prefetto di Pisa De Martino che in una missiva del 21 aprile al presidente del consiglio Giolitti testimoniava questa complicità.

Le organizzazioni della sinistra pisana – la Federazione prov.le socialista, il Gruppo comunista, la Camera del lavoro confederale (CGdL), la Camera del lavoro sindacale (USI), i Sindacati ferrovieri, la Lega Proletaria e l’Unione anarchica pisana – firmano un manifesto di condanna dell’assassinio di Carlo Cammeo e proclamano due giorni di sciopero generale.

I funerali di Cammeo sono imponenti per partecipazione popolare e di associazioni, alcuni esponenti politici prendono la parola, tra gli altri il segretario della Camera del lavoro (CGdL) Giuseppe Mingrino, il socialista Amulio Stizzi, il repubblicano Italo Bargagna e l’anarchico Gusmano Mariani. Questa volta sono funerali di classe, proletari, a rimarcare ormai il netto distacco tra il movimento operaio organizzato da una parte e lo Stato e le forze reazionarie dall’altra.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2015.