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L’anticomunismo italiano e il ’56

Tra l’ottobre e il novembre del 1956 l’Ungheria balzò al centro delle cronache internazionali per la rivolta pacifica della popolazione contro il sistema sovietico. Un evento cruciale che riverberò i suoi effetti nel breve e nel lungo periodo rimodulando, anche in Italia, le coordinate entro le quali si sviluppò la Guerra Fredda e la questione comunista. In occasione dei sessant’anni da quegli avvenimenti l’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno (Istoreco), ha promosso un convegno dal titolo “Ungheria 1956. Considerazioni inattuali in una cornice di guerra”. L’iniziativa ha avuto luogo giovedì 27 ottobre 2016,  presso la Sala Conferenze dell’Istoreco, Palazzo della Gherardesca. Pubblichiamo qui un’estratto della relazione tenuta in quest’occasione da Andrea Mariuzzo, ricercatore in Storia contemporanea presso la Scuola Normale Superiore di Pisa.

Riflettendo sul valore periodizzante, finanche di crisi esistenziale, che il 1956 ebbe anche nel contesto della sinistra italiana, può apparire curioso il fatto che le elezioni politiche tenute appena due anni dopo, il 25 maggio del 1958, si siano risolte in una generale stabilizzazione del quadro di consensi ai vari partiti, dopo un decennio di lotte al calor bianco e di conseguenti continue ridefinizioni degli equilibri, e che addirittura il Partito comunista italiano si sia rivelato capace di incrementare di 600.000 voti il proprio corpo elettorale rispetto al già positivo risultato della campagna del 1953 contro la cosiddetta “legge truffa”, passando in termini percentuali dal 22,6% al 22,7%. Di fronte a questo quadro generale viene soprattutto da chiedersi perché le rodate centrali di mobilitazione anticomuniste non siano riuscite ad avvantaggiarsi appieno della crisi esplosa con la denuncia dei crimini staliniani al XX Congresso del PCUS e della denuncia della violenta repressione dell’insurrezione ungherese, punta dell’iceberg di una più generale violenta agitazione nei paesi del blocco orientale di fronte alle attese generate della “destalinizzazione” e ai significativi mutamenti nella classe dirigente al potere.

Per quanto riguarda l’agenzia socio-culturale di gran lunga più influente nel confronto col comunismo nell’opinione pubblica italiana, la Chiesa cattolica, è innanzi tutto necessario notare che gerarchie ecclesiastiche avevano da tempo elaborato un’interpretazione teologico-politica e pastorale del comunismo ateo e materialista come assoluta manifestazione dell’errore e dell’allontanamento dell’uomo da Dio. Essa sembrava definitivamente confermata tanto dalla requisitoria di Chruščëv nei confronti di Stalin, quanto dall’intervento militare a Budapest a fine anno. Tuttavia i protagonisti delle battaglie contro il “pericolo rosso”, dal “microfono di Dio” padre Lombardi al potente presidente dell’Azione cattolica Luigi Gedda, apparivano ormai appannati nel loro smalto, intenti più che altro a curare la disciplina interna al mondo ecclesiale e al cattolicesimo organizzato, e scottati dalla difficoltà con cui negli anni passati il successo delle mobilitazioni anticomuniste aveva dato inizio al tanto agognato percorso di conversione della società italiana e al suo ritorno all’obbedienza alla Chiesa.

Dal canto suo, nel primo decennio dopo la fine della Seconda guerra  mondiale la stampa liberal-conservatrice di parte laica o comunque non apertamente confessionale si era rivelata un importante volano per la diffusione di un “senso comune” anticomunista nel pubblico meno politicizzato, con una scelta di campo che si era fatta chiara in vista dell’appuntamento elettorale del 18 aprile 1948 e che si era confermata negli anni successivi. Di fronte ai moti dell’Europa orientale e in particolare al dramma ungherese, però, i fogli quotidiani più “istituzionali” evitarono di seguire le voci più radicali nelle polemiche sulle violenze sovietiche, da Oggi, a Epoca, al Candido guareschiano, al Borghese di Longanesi. In molti casi, poi, l’area della destra intellettuale non riuscì neppure ad offrire un’interpretazione pienamente condivisa dei fatti. Basti pensare alla polemica tra Longanesi stesso e un suo autore di punta, inviato a seguire i fatti da vicino, Indro Montanelli. Quest’ultimo, firma di prestigio del Corriere della Sera inviato tra Vienna e Budapest in occasione delle sollevazioni, usò spesso la rivista longanesiana per esprimere posizioni meno controllate e legate alla cronaca di quanto stava accadendo a Budapest. Tuttavia, il giornalista di Fucecchio si rivelò pronto a smentire ogni semplicistico tentativo di etichettare in senso tradizionalista genuinamente filo-occidentale il complesso e variegato fronte dell’opposizione antisovietica attivo in Ungheria, giungendo fino alla rottura col direttore, più propenso a trovare senza contraddizioni nella rivolta la conferma della propria diffidenza anticomunista.

In generale, la ricezione degli sconvolgimenti del ’56 in Italia tra le voci più critiche nei confronti dell’esperienza comunista appare segnata dal fatto che il gioco politico si svolgeva ormai in larga misura su altri tavoli, specie dopo i risultati delle elezioni del 1953. Con essi, da un lato si vedeva consolidata la presenza sociale del PCI, ormai ineliminabile il suo ruolo di “opposizione istituzionale”. Dall’altro, la maggioranza di governo centrista era uscita da quel voto definitivamente indebolita, al punto che la sua classe dirigente doveva cercare nuovi spazi vitali: in questo termini si potevano spiegare tanto la maggiore autonoma della Democrazia cristiana dalla Chiesa con l’operazione di radicamento del partito messa in opera durante la leadership di Amintore Fanfani, quanto la trasformazione della pur persistente ostilità alla minaccia comunista nei termini positivi della crescente attenzione al Partito socialista liberato dalla zavorra del “frontismo”. Per queste ragioni il discorso anticomunista aveva perso centralità, ed era destinato a restare un “basso continuo” nel sottofondo del dibattito pubblico almeno fino alla crisi definitiva dei grandi partiti di massa e della loro capacità di aggregare e dirigere il consenso.




L’ALTRA ALLUVIONE

«Ognuno ricorderà come nei giorni dell’alluvione si facessero le cose che erano necessarie con l’unico criterio del fare subito, del fare presto, dell’intervenire immediatamente».

Dopo la devastazione che ha colpito il centro di Firenze fin dalle primissime ore del mattino, alle 5.00 a Lastra a Signa, i torrenti Rimaggio, Guardiana e Vingone, affluenti in riva sinistra dell’Arno, rompono gli argini e inondano Ponte a Signa, lungo via di Sotto, le zone di Stagno e Tripetetolo, oltre al centro storico, dove si registrano picchi di inondazione di cinque metri. Quasi contemporaneamente il Bisenzio rompe a San Piero a Ponti, per un tratto di circa ottanta metri, riversando le proprie acque su San Mauro a Signa e Campi Bisenzio. Poco dopo, alle prime luci dell’alba, sotto una pioggia ancora incessante, l’Ombrone Pistoiese rompe l’argine sinistro prima a Ponte a Tigliano, per un tratto di quasi cento metri, inondando la campagna meridionale di Prato (Tavola, Cascine Medicee di Tavola, Castelnuovo, San Giorgio a Colonica, Le Fontanelle) poi a Castelletti, nel comune di Signa. Unendosi a quelle del Bisenzio, le acque dell’Ombrone sommergono Lecore, Sant’Angelo (dove si registrerà una delle situazioni più difficili da gestire per il totale isolamento in cui la frazione si verrà a trovare) e Le Miccine. Più a ovest i torrenti Stella e Quadrelli sommergono Caserana e l’area della Querciola, nel comune di Quarrata, oltre a Valenzatico e Olmi. Il Fosso di Iolo e il Torrente Calice peggiorano la situazione pratese. Infine, l’Arno, rompe a San Donnino. Il reticolo è completamente collassato: l’Arno, è al massimo della sua portata, e i suoi due affluenti principali nella zona, Bisenzio e Ombrone, sono costretti a “tornare indietro” perché il fiume non riceve e così fanno gli affluenti minori e tutto il reticolo di canali e gore, causando rotte e tracimazioni. La tempesta perfetta.

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San Mauro

A metà mattina il cielo si rischiara, tutto intorno un’unica, luccicante distesa d’acqua, a perdita d’occhio. Ma non si tratta di un “mare della tranquillità” bensì di un’inondazione senza precedenti, improvvisa e furibonda, che in alcuni punti ha raggiunto oltre cinque metri e spazzato via tutto ciò che ha trovato sul suo cammino: case, negozi, fondi artigianali, automobili, mezzi da lavoro, fattorie, animali. Chi abita in quelle zone è abituato alle piccole inondazioni, venti, trenta centimetri, ma nessuno si aspetta niente del genere e le precauzioni, quindi si sono limitate a paratoie alle porte e qualche suppellettile riparata sopra un tavolo o su un mobile. Tutto inutile.

La macchina dei soccorsi si organizza, spontanea, in ogni frazione colpita, e le testimonianze qui si assomigliano un po’ tutte: grande spirito di solidarietà, coraggio, intraprendenza: zattere di fortuna costruite con assi e bidoni, i cosiddetti “brusini”, per portare in salvo parenti, amici, vicini o far arrivare loro da mangiare. Beni di prima necessità, come acqua, pane e latte, per chi ha ancora la fortuna di averli, passati di casa in casa sui fili dei panni o con canne di bambù; mezzi privati a disposizione dei comuni, che in brevissimo tempo si organizzano in centri operativi (piccole unità di protezione civile ante litteram) di raccolta e smistamento di aiuti e interventi. Un’unica grande comunità riunita, oltre ogni distinzione culturale, sociale e politica, in un’unità d’intenti che non si vedeva, forse, dal secondo Dopoguerra. Gli aiuti organizzati arriveranno pochi giorni dopo e, fra i contadini che non erano mai stati al mare, in molti ricordano i patini di Viareggio, che vedevano per la prima volta.

In tutto questo va ricordata la straordinaria opera del Comune di Prato, “un’isola in un mare di disperazione”, come fu definita più volte nelle cronache di quei giorni, il cui centro rimase all’asciutto, sommersa la sua parte meridionale, prestata con grandissima generosità sul suo fronte cittadino e su tutti quelli circostanti, fino a Fiesole, Empoli, Castelfiorentino. Come scrisse il sindaco di Firenze Piero Bargellini in un telegramma al sindaco di Prato Giorgio Vestri del 21 novembre: “Firenze ancora col fango alla gola rivolge a lei e alla sua generosa città un primo fervido ringraziamento per l’opera di soccorso”.
Con il deflusso delle acque arrivò il grande problema della ripulitura dalla nafta e dal fango e l’amara constatazione che molto era irrimediabilmente perduto, soprattutto nelle zone agricole, che saranno in gran parte abbandonate a favore di piccola imprenditoria tessile e artigiana. Ma erano gli anni Sessanta e a Natale di quell’anno il peggio sembrava davvero già superato.

*estratto dal libro di Aurora Castellani “L’altra alluvione – Il 4 novembre 1966 a Prato, Campi Bisenzio, Signa, Lastra a Signa e Quarrata” – Edizioni Medicea Firenze – www.edizionimediceafirenze.it

“L’altra alluvione” racconta, con materiale fotografico e documenti inediti, il 4 novembre 1966 fuori Firenze: Prato, Campi Bisenzio, Signa, Lastra a Signa e Quarrata. Una calamità quasi sconosciuta ma non meno dolorosa per chi subì la furia improvvisa di Arno, Bisenzio, Ombrone pistoiese e di molti torrenti, in molti casi perdendo tutto; di certo non lo spirito, il coraggio e la generosità. Si reagisce e ci si rimboccano subito le maniche per ripartire e aiutare parenti e amici, offrendo quel che si ha per distribuirlo ai meno fortunati. E i comuni, Prato in testa, si fanno trovare pronti ad accogliere questo grande slancio, la mobilitazione spontanea di una comunità intera che si riunisce per portare aiuto ovunque ci sia bisogno.

Aurora Castellani (Prato, 1980), editor e traduttrice, lavora nel mondo dell’editoria dal 2007, curando pubblicazioni di vario genere. È stata assessore alla Cultura e Pubblica Istruzione del Comune di Vaiano dal 2009 al 2014 e attualmente è Presidente del Museo della Deportazione e Resistenza di Prato. Dal 2015 è direttore editoriale di Edizioni Medicea Firenze. Questo è il primo lavoro a sua firma, frutto di una lunga ricerca d’archivio e interviste inedite.




Bisenzio

Fino a quando, a seguito della smobilitazione dei Lanifici negli anni Cinquanta, l’arrivo dei carbonizzi e delle tintorie non iniziò a inquinare le acque limpide del fiume, il Bisenzio non era solo un corso d’acqua sulle cui sponde erano nate le principali industrie del pratese.

Era il palcoscenico dei divertimenti estivi di tutti i ragazzi che trascorrevano ore nelle pozze d’acqua create dalle pescaie o nei canali delle gore; era una fonte di alimento e guadagno, attraverso la pesca e il duro lavoro dei renaioli; era il luogo dove le donne, chine sui sassi, lavavano panni e indumenti.

Proprio le testimonianze dei ragazzi d’allora, raccolte con cura dal Centro di Documentazione Storica della val di Bisenzio negli ultimi trent’anni, permettono di rievocare con vivacità i mille legami intessuti tra la gente del posto e un corso d’acqua: uno scambio continuo e infinito, dove ogni singola risorsa offerta dal fiume era sfruttata o piegata ai bisogni primari e secondari della comunità.

E sicuramente l’aspetto ludico era tra i bisogni secondari pienamente soddisfatti dal fiume: tutti i ragazzi, dal più piccolo al più grande, sapevano nuotare con sicurezza: prima nelle piccole pozze confortati dagli alti massi che fuoriuscivano dall’acqua, per poi affrontare le varie pescaie che accompagnavano il corso del Bisenzio, mentre nelle gore si facevano gare di nuoto per varie categorie d’età, a eliminazione, perché più che due per volta non si poteva gareggiare per lo stretto margine delle due sponde.

Nella vita sociale prima della Seconda guerra mondiale il Bisenzio era ancora l’ambiente deputato al benessere e alle attività fisiche dei bambini: in epoca fascista, infatti, le principali colonie elioterapiche erano dislocate lungo il fiume, e l’aria fresca del Bisenzio accompagnava i disciplinati bagni di sole e di fiume, i saggi ginnici e i giochi.

Tra fabbrica e fabbrica, tra pescaia e pescaia, il fiume era pulito, trasparente. La buona qualità delle acque permetteva anche la presenza di pesci delle più varie specie -broccioli, lasche, codinelle, barbi, boghe, anguille- da catturare con peculiari specializzazioni: con le mani e le forchette; in apnea frugando tra gli scogli; con l’amo e il tramaglio (una rete alta e lunga); “a rintrono”, facendo uscire storditi i pesci da un anfratto dove era stato scagliato un sasso sopra l’altro; a “frugnolo”, dove, nelle ore notturne, a lume di carburo con un retino piccolo si illuminavano i pesci che rimanevano fermi, o ancora “a corda”, con cordicelle che facevano girare i fusi delle filande presi in filatura. Molti di questi sistemi erano proibiti dalla legge e non passava settimana, nel periodo dalla fine di marzo a ottobre, che non ci fosse qualche inseguimento da parte della Guardia Forestale e dei Carabinieri. Pochissimi avevano la licenza di pesca e quasi tutti rischiavano: alcuni lo vendevano, arrotondando la paga della fabbrica, ma per la maggior parte dei pescatori di frodo il pesce era una delle basi dell’alimentazione. Il ristorante “Il Bongino” presso La Tignamica (Vaiano) si era specializzato nella frittura di pesciolini di Bisenzio e il lunedì -quando a Prato chiudevano i negozi e le attività- molti cittadini si riversavano sulle sponde del fiume a pescare per poi pranzare alla celebre locanda.

4-giovani-donne-a-lavare-panni-e-indumenti-nel-bisenzioAltra fonte di guadagno era costituita dalla rena, creatasi dall’arrotatura della pietra arenaria prodottasi nel fiume durante le piene, scavata e raccolta con fatica dai renaioli nei vari posti di prelievo autorizzati. Nella maggior parte dei casi i renaioli erano anziani che conoscevano bene il fiume e sapevano dove scavare il greto; per arnesi avevano un picco, un badile e una rete metallica inchiodata ad un telaio in legno rettangolare” strumentale alla divisione tra ghiaia e rena, venduta poi ai muratori come collante per la calce e il cemento.

Le rischiose inondazioni del Bisenzio, che più di una volta avevano travolto uomini e animali (come il direttore dello stabilimento Sbraci Godi Noris nel 1932) ed erano state indagate dai più illustri fisici e ingegneri (come Galileo Galilei nel 1631) erano ancora una volta sfruttate a fini economici: oltre alla rena, la piena era attesa per i pezzi di indumenti (rivenduti agli stracciaioli) e le tavole di legno (utilizzate per scaldarsi) che la furia delle acque portava a valle, ripescate con rudimentali ganci attaccati ad aste lunghe anche dieci metri.

Ad utilizzare il fiume principalmente per lavare erano ovviamente le donne, e per alcune “fare la lavandaia in Bisenzio” era un’occupazione professionale. Il lavoro era particolarmente duro: nella Val di Bisenzio quasi tutte le donne erano operaie nelle numerose fabbriche e, uscite dal turno, ad ogni stagione si dirigevano con i panni sporchi sugli argini del fiume, in ginocchio sui sassi. Ambiti ma rari erano i pozzi o le gore che talvolta si trovano lungo i fossi dei vari paesi.

Come un piccolo mare, il Bisenzio tra le due guerre era l’elemento principe nella vita delle varie comunità dislocate lungo il fiume: un ecosistema di relazioni e affetti, di svaghi e preoccupazioni, di lavoro e sostentamento.




A fronte alta davanti al padrone.

Il 7 novembre 2016 abbiamo avuto un interessante colloquio con Gennaro Meli, responsabile della Federterra di Carmignano negli anni Cinquanta-Sessanta. Proponiamo il testo dell’intervista ai lettori di ToscanaNovecento.

Quando e dove sei nato? Che ricordi conservi della tua infanzia?
Sono nato a Carmignano il 31 gennaio 1922, in una famiglia di mezzadri. I miei genitori lavoravano in un podere che era di proprietà di diversi padroni. La Carmignano di quand’ero ragazzo era un paese che si reggeva sull’agricoltura, dove i rapporti interpersonali erano diversi, molto diversi, da come sono oggi. Rammento ancora quando ci si riuniva, per esempio in occasione della vendemmia: c’era quello che cantava di poesia, quello che suonava, ed il clima era festoso, riuscivamo a scordare, per un momento, le difficoltà della vita. Non c’era, allora, l’individualismo che c’è oggi, la solidarietà, anche quella di classe, non era una parola vuota e questo rappresentava un punto di forza per gli organizzatori, per il movimento contadino.

Come ti sei avvicinato al sindacato e quali cariche hai coperto al suo interno?
Tornato dal servizio militare, fui colpito dall’impegno che, tanto a livello locale quanto a livello nazionale, i dirigenti del Partito comunista e della CGIL mettevano per migliorare le condizioni di vita dei contadini. Fu così che decisi di impegnarmi a mia volta, di cercare di dare il mio contributo. Si trattò di una scelta non facile e non priva di conseguenze perché, allora, chi militava attivamente nel sindacato veniva boicottato dai padroni e spesso non riusciva a trovare lavoro: io ho provato questo sulla mia pelle. In seguito sono diventato responsabile della Federmezzadri di Carmignano che, almeno fino alla fine degli anni Cinquanta, gravitava su Firenze più che su Prato. Io avevo rapporti diretti con Vittorio Magni, segretario della Federmezzadri provinciale, e spesso mi recavo in via dei Servi, dove avevano sede il partito e la Camera del lavoro. Ho pubblicato anche diversi articoli sui problemi dei contadini della mia zona sull’Unità e su Toscana nuova.

Puoi dirci qualcosa sulle condizioni dei contadini del Carmignanese negli anni Cinquanta-Sessanta?
Molto dipendeva dal tipo di podere che il mezzadro coltivava: se il podere dava olio, vino, frutta il contadino stava meglio, ma, in generale, si può parlare di condizioni di vita difficili: in tanti dovevano tirare la cinghia. I carichi di lavoro erano pesantissimi, la meccanizzazione insufficiente, le condizioni delle abitazioni pessime. In molte case i servizi igienici mancavano od erano cattivi, non c’era la corrente elettrica, non c’era l’acqua. Dove abitavo io, ad esempio, per procurarsi l’acqua bisognava fare un chilometro a piedi per arrivare ad una sorgente, portandosi dietro le mezzine. Nella fattoria di proprietà della contessa Lepri, nella zona di Artimino, le case dei contadini erano dei veri tuguri. Ricordo che quando andai a parlare con la contessa per chiederle di far eseguire dei lavori di miglioramento, mi voleva denunciare. “Non vedo l’ora – le dissi –, mi denunci, così poi ci facciamo due risate insieme”.

Quali erano le principali rivendicazioni dei mezzadri di Carmignano?
Oltre al miglioramento delle coloniche, le richieste più importanti riguardavano, come altrove, i contributi unificati, l’imponibile di manodopera, la meccanizzazione ed una modifica del riparto dei prodotti che, tenendo conto degli apporti reali, assegnasse al mezzadro una quota superiore al 50%.
Io avevo organizzato in modo capillare la Federterra, creando più gruppi di dieci-quindici contadini, ognuno con un suo capogruppo, per un totale di circa cinquecento mezzadri. Quando si trattava di fare una riunione, portavo l’avviso ai capigruppo e nelle case di campagna. Per parlare con la controparte, si formava una delegazione. I proprietari, spesso, non si presentavano e le trattative si svolgevano coi fattori, che adottavano una tattica dilatoria, sostenendo di dover riferire al padrone perché non potevano prendere determinate decisioni e così via. Con alcuni proprietari ci furono scontri molto duri, in specie col conte Contini Bonacossi, proprietario della Fattoria di Capezzana, la più grande della zona. Il conte aveva incaricato il fattore, un certo Del Giallo, di discutere con noi la questione dell’addebito ai mezzadri dei contributi unificati. I contadini erano stati costretti a firmare un documento in cui accettavano di pagare i contributi. Io però riuscii a convincerli a ritirare la firma. Si costituì poi una delegazione composta di una ventina di mezzadri e si andò da Del Giallo che, con fare altezzoso, rifiutò di riceverci. Io gli risposi a tono ed alla fine la battaglia fu vinta.

Il sindacato cattolico era forte tra i contadini della zona?
La CISL era forte dove c’erano molti coltivatori diretti, ma fra i mezzadri la sua presenza era una presenza minoritaria. Nel Carmignanese il sindacato cattolico era radicato in certe zone di tradizione bianca, moderata, Era questo il caso di Artimino: rammento che una volta io e Vieri Bongini, responsabile del movimento contadino pratese, giunti ad Artimino per un comizio, ci trovammo di fronte alla piazza completamente vuota. Il comizio però andava fatto perché i contadini conoscessero le nostre idee, le nostre proposte: “Non ti preoccupare – dissi a Vieri –, tanto nelle case ci sentono”. E parlammo lo stesso.

Che giudizio dai oggi della mezzadria e come hai vissuto la sua crisi?
L’istituto mezzadrile era un istituto superato perché non riusciva a soddisfare i bisogni della famiglia colonica, perché non garantiva un reddito soddisfacente ai contadini. Questo è sicuro. Però alla fine della mezzadria non è seguito qualcosa di meglio, è seguito il nulla. Occorreva una riforma agraria strutturale, che desse ai contadini la terra ed i mezzi per lavorarla. Ma questo non è mai avvenuto a causa delle resistenze dei proprietari. Come risultato abbiamo avuto lo spopolamento delle campagne, e questo, certamente, è stato un male.




Battista Tettamanti e Teresa Meroni: due vite parallele

Battista Tettamanti e Teresa Meroni, compagni di lotte e nella vita, costituiscono due esempi di un tipo di quadro sindacale largamente diffuso nel periodo a cavallo fra Otto e Novecento. Entrambi di umili origini (il padre di Battista faceva l’ortolano, Teresa era nata in una famiglia di operai), impossibilitati a frequentare studi regolari, trassero dall’esperienza di fabbrica la capacità di riflettere criticamente sulle condizioni di sfruttamento dei lavoratori, trovando nel Partito socialista e nel sindacato dei validi strumenti di formazione, che ne fecero degli organizzatori coraggiosi e concreti.
È grazie agli uomini ed alle donne che, come Battista e Teresa, compirono questo tipo di percorso, affrontando l’ostilità dei padroni e la persecuzione poliziesca, che la classe operaia è passata da “classe in sé” a “classe per sé”, maturando piena coscienza dei propri diritti ed acquisendo la determinazione necessaria per difenderli e per allargarli. È grazie a questo tipo di quadro sindacale che i lavoratori hanno potuto realizzare le conquiste più importanti prima dell’avvento del fascismo. Basta ripercorrere, anche rapidamente, le vite di Battista e di Teresa per rendersene conto.
Nato a Como nel 1879, Tettamanti si iscrisse nel 1896 alla Lega socialista della sua città e – dopo un breve periodo trascorso in Svizzera, dove era stato costretto ad emigrare dalla mancanza di lavoro – si mise subito in luce all’interno del sindacato, diventando nel 1907 segretario della Camera del lavoro comasca e conservando tale carica fino al 1914. Sono rimaste impresse nella memoria collettiva le lotte condotte in quegli anni dagli apparecchiatori, dagli edili (che nel 1908, sotto la sua responsabilità, occuparono i cantieri, anticipando di dodici anni l’esperienza delle occupazione delle fabbriche) e dai contadini della Brianza.
Abbastanza di frequente accadeva che il sindacato inviasse i quadri più sperimentati, formatisi di regola nel triangolo industriale, in zone del Paese dove l’organizzazione era giudicata meno forte. Fu così che nel 1915 Battista si trasferì a Prato per dirigere il movimento cooperativistico della Val di Bisenzio, la Lega laniera di Vaiano ed il settimanale socialista Il lavoro. Sul Lavoro Tettamanti scrisse molti articoli, alcuni dei quali rivelano una notevole capacità di analisi politica (tali sono, ad esempio, i pezzi in cui egli critica la linea dei vertici massimalisti del PSI, oppure quelli in cui, sia pure nel quadro di un’interpretazione abbastanza schematica del fascismo, riesce a cogliere la peculiarità di tale movimento nell’essere la sua base sociale costituita da una massa di piccoli borghesi spostati passati al servizio del capitale).
Durante il “biennio rosso” Battista fu alla testa delle più importanti lotte operaie, a cominciare dal moto del caroviveri del luglio 1919, quando la Valle del Bisenzio assunse l’aspetto di una piccola repubblica sovietica che si estendeva al’incirca da Santa Lucia a Montepiano e che aveva il suo centro a Vaiano. Tettamanti era a capo del Comitato di agitazione che dirigeva il moto: le amministrazioni comunali della Vallata vennero dichiarate decadute e sostituite da “commissari del popolo”, la bandiera rossa innalzata sul balcone del palazzo comunale di Vernio. Una guardia di lavoratori ebbe l’incarico di mantenere l’ordine pubblico. Nelle fattorie e nelle fabbriche furono eseguite requisizioni di generi alimentari e di tessuti che, raccolti presso le sedi sindacali, vennero poi distribuiti alla popolazione col 50% di riduzione sui prezzi correnti.
Passata la bufera del tumulto contro il caroviveri, Prato fu scossa da un imponente sciopero generale degli operai tessili, proclamato nell’ottobre del 1919. Battista fu molto attivo durante tutto il periodo dell’agitazione, e particolarmente significativo, perché indice di un costume davvero superiore, ci sembra il fatto che, pur essendogli state offerte due candidature di sicura riuscita alle politiche del 16 novembre, egli le rifiutasse, ritenendo cosa sconveniente abbandonare i lavoratori in lotta.
Nel gennaio del 1921 – quando, dopo l’occupazione delle fabbriche, i grossi industriali, costretti in un primo tempo a cedere alle richieste degli operai, erano ormai passati al contrattacco finanziando le squadre fasciste, sostenute dall’apparato burocratico e militare dello stato – Tettamanti venne arrestato mentre, alla testa degli edili della ferrovia Direttissima Bologna-Firenze, stava cercando di resistere all’offensiva delle ditte cui il governo aveva appaltato i lavori dopo l’estromissione delle cooperativa operaie.
Scontata la pena di otto mesi inflittagli dal Tribunale di Firenze, venne espulso dalla Toscana con un provvedimento di polizia e si stabilì a Milano, dove fu attivo nell’opposizione clandestina, cosa che gli valse la condanna al confino (trascorso a Favignana, a Lipari ed a Ventotene).
Nel 1924 lasciò il PSI per il Partito comunista d’Italia, nel quale confluì con la frazione terzinternazionalista.
Dopo la caduta del regime Tettamanti partecipò alla Resistenza, tenendosi costantemente in contatto con il Partito comunista e con i partigiani per mezzo di numerose riunioni svoltesi a Como ed a Lecco (dove, nel marzo del 1944, quando un’ondata di scioperi di chiaro significato politico interessò varie località dell’Italia centro-settentrionale, fu tra gli organizzatori della protesta).
Il 26 aprile 1945 Battista riassunse la carica di segretario della Camera del lavoro di Como che tenne fino al 1950, riannodando così, al pari di altri vecchi organizzatori, i fili di un’esperienza avviata in anni lontani.
Successivamente coprì varie cariche di rilievo, restando sulla breccia fino al 1963, quando un collasso cardiaco pose fine ad una vita che può ben dirsi esemplare.
Molti punti di contatto con quella di Tettamanti presenta la biografia di Teresa Meroni.
Nata a Milano nel 1885, Teresa aderì al PSI nel 1905, quando aveva appena vent’anni. Attiva propagandista, si trasferì a Vaiano nel 1915, insieme con Tettamanti, e quando quest’ultimo venne richiamato alle armi lo sostituì al vertice della Lega laniera, di cui divenne segretaria.
In tale veste Teresa fu protagonista di tante vertenze che si svolsero in quel torno di tempo nel Pratese, segnalandosi soprattutto per i suoi sforzi intesi ad organizzare il proletariato femminile. La lucida consapevolezza del fatto che la questione femminile era parte non secondaria di quella sociale, rappresenta l’elemento che più di ogni altro rende interessante la figura della Meroni. Essa si colloca così all’interno di un filone femminista presente nel socialismo italiano (filone che in Anna Kuliscioff ebbe l’esponente di maggior spicco) il cui obiettivo era l’attuazione di un progetto di emancipazione della donna in quanto tale e non solo in quanto operaia.
Un altro elemento che caratterizzò la propaganda della Meroni fu la recisa opposizione alla guerra. A Teresa si deve, con ogni probabilità, un manifesto “alle madri operaie”, pubblicato dal Lavoro il 25 aprile 1915 e sottoscritto da alcune donne vaianesi, che colpisce per la puntuale analisi di classe in esso svolta. Ma a Teresa si deve soprattutto l’organizzazione, nel luglio del 1917, di una memorabile marcia delle donne da Vaiano in direzione di Prato per manifestare, in modo clamoroso, contro il conflitto in corso.
Nel 1918 la Meroni venne internata a Livorno e successivamente a Castelnuovo di Garfagnana, ma anche in quelle località continuò imperterrita a svolgere la sua attività politico-sindacale. Tornò in Val di Bisenzio nel 1919, in tempo per partecipare, con un ruolo da protagonista, al moto del caroviveri.
Costretta a fuggire da Vaiano in seguito all’attacco fascista del 17 aprile 1921, Teresa si trasferì a Milano, prendendo parte attiva all’opposizione clandestina e guadagnandosi una condanna al confino. Nel 1924 aderì al PCd’I.
Rimpatriata nel 1937 per fine periodo, riprese subito l’attività politica antifascista che si saldò con quella da lei svolta successivamente nel periodo resistenziale.
Dopo la guerra si stabilì a Como insieme con Battista e per diversi anni fece parte del comitato centrale della FIOT nazionale. Morì nella città lariana nel 1951.
A questo punto qualcuno potrebbe forse chiedersi perché si sente il bisogno di ricordare oggi personaggi come Tettamanti e la Meroni. A questa domanda credo che si possa fornire una duplice risposta. Innanzitutto va osservato che la ricerca storica non è mai fine a se stessa perché fornisce alla conoscenza degli elementi sempre nuovi, ed è quindi occasione di arricchimento culturale e stimolo alla riflessione critica. Ma in questo caso mi pare di poter dire che essa assume una valenza del tutto particolare, che le conferisce il sapore dell’attualità. L’esempio di Battista e di Teresa è infatti ancor oggi da meditare in quanto essi hanno speso la loro vita battendosi per dei valori fondamentali (quelli della solidarietà, del progresso e dell’uguaglianza) che non hanno affatto perso la loro validità e che vanno anzi recuperati per cercare di ricostruire nel nostro Paese una forza politica autenticamente di sinistra. Questo, a mio avviso, è ciò che dà il senso a questo articolo e che rende l’esempio di Battista e di Teresa tuttora vivo e pieno di significato.




“La Versilia tra antifascismo, guerra e Resistenza”

Percorrendo l’antica “via di Marina” (oggi Strada Provinciale 9) che dal Pontile di Forte dei Marmi conduce ai bacini marmiferi di Arni di Stazzema, all’ingresso del paese di Seravezza, in corrispondenza del bivio che porta alla piccola frazione di Riomagno sul torrente Serra, incontriamo il ponte del Pratale: proprio in questo luogo, il 29 luglio 1944, militari tedeschi delle SS, datisi alla rappresaglia dopo l’esplosione di un colpo d’arma da fuoco contro il comando nazista di villa Pilli/Henraux – appena superato il ponte sulla sinistra -, impiccarono con il filo spinato Uria Viti (44 anni) e Virgilio Furi (53 anni), sommariamente catturati sul fianco della montagna antistante la residenza e quindi torturati. Gli altri due uomini arrestati nel corso del rastrellamento, Demetrio Bardini (42 anni) e Filiberto Tardelli (38 anni), anch’essi estranei ai fatti, seviziati per ore allo scopo di ottenere informazioni sui partigiani presenti in zona, furono parimenti condotti al ponte del Pratale e costretti a scavarsi la fossa con le proprie mani ai piedi dei loro compagni: fucilati, vennero sepolti sotto uno strato di scaglie di marmo.

Il ponte del Pratale è soltanto uno dei molti siti storici inclusi nella nuova guida “La Versilia tra antifascismo, guerra e Resistenza”, primo volume di un progetto tripartito dell’Isrec di Lucca teso a valorizzare i luoghi della memoria presenti sul territorio provinciale. Testo originale, bilanciato fra approfondimento scientifico e fruibilità turistica, il libro, edito per i tipi di Pezzini Editore di Viareggio (Lu), raccoglie i contributi di Federico Bertozzi, Jonathan Pieri ed Andrea Ventura, giovani storici versiliesi coordinati dal prof. Gianluca Fulvetti dell’Università di Pisa.

La copertina della nuova guida storico-turistica "La Versilia tra antifascismo, guerra e Resistenza", pubblicata da Pezzini Editore di Viareggio (Lu).

La copertina della nuova guida “La Versilia tra antifascismo, guerra e Resistenza”, scritta da Federico Bertozzi, Jonathan Pieri ed Andrea Ventura e pubblicata da Pezzini Editore.

I tre autori, dopo essersi suddivisa la ricca bibliografia di riferimento presente sul tema, hanno effettuato una difficile opera di cernita fra i molti siti esistenti, inserendoli quindi, affianco ad un percorso introduttivo “speciale” dedicato al Parco della Pace di Sant’Anna di Stazzema, in quattro “Percorsi della memoria” principali: percorribili anche in auto, questi tracciati, senza pretese di completezza, hanno tuttavia lo scopo di ricostruire dei contesti spazio-temporali, conducendo il visitatore interessato alla scoperta di fatti puntuali, dinamiche e volti della guerra in Versilia. Aiutato da numerose immagini di oggi e di ieri, assistito da indispensabili mappe per localizzare i vari luoghi e seguire le indicazioni per le mete successive, il lettore interessato, residente o turista che sia, potrà così scegliere fra il Percorso 1 (Forte dei Marmi – Sant’Anna di Stazzema), il Percorso 2 (Strettoia di Pietrasanta – Arni di Stazzema), il Percorso 3 (Massaciuccoli – Valpromaro) ed il Percorso 4 (Città di Viareggio), toccando con mano le case, i ponti, le strade, le storie ed i boschi che composero l’esperienza collettiva della Seconda Guerra Mondiale in Versilia, attraverso le tragedie dell’occupazione nazista, le speranze della Resistenza armata, i drammi dello sfollamento, le angosce dei bombardamenti e dei combattimenti sulla Linea Gotica, le distruzioni del territorio, la gioia della Liberazione angloamericana e lo sforzo corale della ricostruzione postbellica.

Il monumento dei "Pioppetti", posto all'ingresso della Valfreddana nel comune di Camaiore (Lu), incluso nel Percorso Massaciuccoli-Valpromaro, ricorda le decine di vittime civili della strage nazista del 4 settembre 1944.

Il monumento dei “Pioppetti”, posto all’ingresso della Valfreddana nel comune di Camaiore (Lu), incluso nel Percorso Massaciuccoli-Valpromaro, ricorda le decine di vittime civili della strage nazista del 4 settembre 1944.

Realizzata grazie al fondamentale contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, la guida, frutto di un anno e mezzo di lavori, comprende poi, per ogni percorso principale, una serie di “Altri luoghi”, ovvero siti non inclusi nei tracciati primari ma da essi facilmente raggiungibili: pensati per il visitatore più attento, essi vanno a completare le ricostruzioni storiche delle varie micro-aree componenti il territorio versiliese. L’ultima parte dell’opera comprende infine tre “Sentieri della memoria”, semplici tracciati di montagna, studiati con l’assistenza dell’esperto Filippo Fambrini di Valdicastello di Pietrasanta (Lu), per conoscere avvenimenti e protagonisti della Resistenza e della repressione antipartigiana sulle Alpi Apuane. A chiudere la pubblicazione, che sarà seguita a breve dagli altri due “tasselli” del progetto editoriale, ovvero le guide sulla Mediavalle/Garfagnana e sulla Lucchesia, una sintetica bibliografia/sitografia utile al lettore per eventuali approfondimenti. Dopo la prima presentazione tenutasi presso il C.R.O. Darsene di Viareggio lo scorso 30 settembre, la guida versiliese (prezzo di copertina: 10 Euro) tornerà alla ribalta il prossimo venerdì 14 ottobre 2016, quando, alle ore 17:30, verrà nuovamente presentata nella prestigiosa sede di Sala Cosimo I del Palazzo Mediceo di Seravezza (Lu): dopo i saluti del Sindaco di Seravezza Riccardo Tarabella e del Presidente del Consiglio comunale Riccardo Biagi, interverranno il curatore Gianluca Fulvetti e due degli autori, Federico Bertozzi ed Andrea Ventura.




La seconda guerra mondiale a Lamporecchio

Nessun paese toscano rimase intatto dall’orda nazifascista scatenata in Italia dopo la pubblicazione dell’Armistizio, l’8 settembre 1943. L’esercito tedesco occupò gran parte della penisola e vi stabilì le basi per imporre la propria volontà; la piana pistoiese fu coinvolta nel conflitto per circa un anno, fino ai primi giorni del settembre 1944, quando i partigiani occuparono i paesi abbandonati dai tedeschi prima dell’arrivo delle forze angloamericane.
In quei giorni, nel caos generale, furono molti i soldati alleati che scapparono e trovarono rifugio presso famiglie italiane, aiutati dai cosiddetti “helpers” che dettero loro protezione assicurando vitto e vestiti, alloggio in casa o nei fienili. Nel pistoiese le zone interessate da questi eventi furono principalmente quelle pedemontane; tuttavia a Porciano quattro ex-prigionieri inglesi furono catturati il 22 ottobre 1944, dopo che avevano ricevuto aiuto a Cantagrillo.
Il ruolo di commissario prefettizio, responsabile della gestione dell’intero comune, fu ricoperto da Afrisio Vannacci fino al 2 novembre 1943, quando venne sostituito dal geometra Bindo Martelli, coadiuvato dal sub-commissario Cesare Benelli.
Uno dei fatti più gravi verificatosi nella cittadina fu l’arresto di quattro uomini di origine ebraica portato a termine da fascisti italiani: Enrico Menasci, Ildebrando Trevi, Aldo Moscati, Giorgio Moscati. I primi due vennero detenuti a Firenze, internati nel campo di Fossoli in Emilia Romagna e deportati nel campo di sterminio di Auschwitz dove morirono il giorno dell’arrivo, il 26 febbraio 1944.
I fratelli Aldo e Giorgio Moscati, sfollati in paese con la famiglia, furono condotti nel carcere di Pistoia. In seguito vennero trasferiti alle “Murate” di Firenze e internati a Fossoli. Il 22 febbraio 1944 furono deportati ad Auschwitz. Arrivati in Polonia, i due furono separati con la forza al momento delle selezioni: fu quella l’ultima volta che si videro. Giorgio perse la vita appena arrivato, probabilmente nelle camere a gas appena arrivato. Aldo invece lavorò per circa un anno nel comando trasporti e cavi, poi fu assunto come aiuto-infermiere nell’ospedale. Durante gli incontri serali, a lavoro finito, Fu là che nacque l’amicizia, mantenuta anche nel dopoguerra, con alcuni italiani deportati e con Primo Levi, durante gli incontri serali a lavoro finito. Aldo Moscati negli anni ’70 raccontò:

Un rancore contro chi a suo tempo mi aveva denunciato, non ce l’ho. All’inizio ho avuto anch’io sentimenti di vendetta, ma li ho subito respinti: la vendetta non ha senso. D’altronde con chi avrei potuto prendermela, col marescialletto che mi ha arrestato?

Con l’arrivo dell’estate 1944 la situazione si fece sempre più difficile a causa dell’avanzata alleata e della ritirata tedesca verso la linea gotica. In molti comuni della zona, intorno ai primi di luglio, le autorità e i dipendenti comunali fascisti lasciarono il posto di lavoro, cercando un luogo sicuro o scappando a nord insieme ai tedeschi per paura di ritorsioni in prospettiva della liberazione.
Un’esperienza unica avvenne a Lamporecchio dopo la partenza del commissario prefettizio repubblichino. Il 2 luglio 1944, in piena occupazione nazista, 42 persone in rappresentanza di tutte le categorie sociali si radunarono nella sede comunale con lo scopo “di dare al comune un’amministrazione che provveda alla continuità dei servizi”. Ogni categoria elesse i propri rappresentanti e il comune fu così gestito per due mesi, fino alla liberazione, da un Comitato di Assistenza Pubblica (foto 1) che non aveva funzioni politiche, ma operava per il reperimento dei generi alimentari e sanitari. Gli eletti furono: Corrado Ancillotti, Sergio Tarabusi e Giovanni Meozzi per gli esercenti industriali; Giulio Minghetti, Pierantonio Cosci e Guido Catolfi per i proprietari terrieri; Mario Pancani, Giuseppe Fanti e Guido Ferradini per i conduttori diretti; Eugenio Ciattini, Primo Trinci, Giulio Bettarini e Pietro Morosi per gli operai artigiani; Giuseppe Desideri, Guido Fagni e Quintilio Postorri per i coloni mezzadri.
I rappresentanti deliberarono l’elezione come presidente di Luigi Giampalma, una scelta lungimirante poiché si trattava di un uomo non compromesso col regime fascista. Nato a Campli (vicino TeramoTE), lavorava come impiegato e sottufficiale della pubblica sicurezza. Nel post-liberazione fu un esponente di rilievo della Democrazia Cristiana e rilasciò questa breve dichiarazione scritta:

Sono sempre stato antifascista e per tale ragione non ebbi fortuna nella carriera. Dovetti aderire nell’agosto 1932 ed iscrivermi nel Partito fascista per non essere mandato via dall’Amministrazione. Dopo il 15 giugno 1944, avvenuta la fuga dei dirigenti fascisti del Comune di Lamporecchio, presi la direzione della cosa pubblica del Comune, come capo del Comitato della salute pubblica e come Commissario prefettizio.

Durante la stagione estiva diversi lamporecchiani persero la vita a causa delle violenze tedesche, dello scoppio di mine, delle cannonate e delle bombe alleate. Ricordiamo il caso di Maria Assunta Pierattoni, assassinata dopo numerose peripezie nel novembre 1944 ad Arni (Stazzema) e del ventenne Foscarino Spinelli impiccato a Montecatini insieme a Bruno Baronti con l’accusa di essere partigiano.

riconoscimento-qualifica-partigiano-fredianiNell’ambito della lotta partigiana, la formazione di Lamporecchio fu la comunista “Squadra di Azione Patriottica” (S.A.P.), guidata da Giovanni Calugi. Aveva sede presso la Cisterna di Montefiori e, oltre agli scontri a fuoco, si occupò di raccolta armi, di servizio informazioni, di sabotaggi, di aiuto nei confronti di fuggiaschi e della popolazione.

Il paese fu liberato il 2 settembre 1944. Il giorno dopo, sciolto il precedente Comitato di Assistenza Pubblica, il CLN locale si riunì nell’ufficio comunale del paese e i componenti progettarono un piano di attività basato sulla collaborazione di tutti e destinato esclusivamente al bene della collettività; vennero anche salutate le truppe di liberazione dell’esercito alleato che, per mezzo di cinque rappresentanti, assistettero all’assemblea.

Il 6 settembre 1944 fu eletto sindaco Foscolo Maccioni e fu nominata la giunta comunale: Luigi Morelli, Reuccio Torrigiani, Paolo Ancillotti, Vannozzo Biondi, Raffaello Morelli e Francesco Fanti.

I problemi principali dopo la liberazione riguardavano l’approvvigionamento e l’alimentazione: furono effettuati accordi con i maggiori produttori agricoli e con gli altri comuni della zona. Furono utilizzati anche gli strumenti abbandonati dai tedeschi, come, ad esempio, due baracche in legno recuperate a Spicchio.
La giunta comunale dispose la revisione della toponomastica cittadina al fine di cancellare ogni riferimento al passato regime e con l’intenzione di ricordare le vittime della violenza nazifascista: viale Balbo divenne viale Antonio Gramsci, via Roma divenne via Giacomo Matteotti e via Rospigliosi divenne via Martiri del Padule. Nel dicembre 1944 furono fondate le Case del Popolo di Lamporecchio, Porciano-Fornello, San Baronto, Papone, Cerbaia.

Dopo anni di dittatura, finalmente gli italiani poterono esprimere la propria opinione attraverso libere elezioni.
Il 2 giugno 1946, per la votazione sull’assemblea costituente, con una partecipazione del 95,54%, il PCI ottenne la maggioranza assoluta e il comune fu inserito tra i più comunisti d’Italia, andamento confermato anche nei decenni successivi. Nel referendum vinse nettamente il fronte repubblicano con l’82,3%, la percentuale più alta di tutta la provincia.
In seguito, il 6 ottobre 1946, alle elezioni amministrative s’imposero i Socialcomunisti e il ventinovenne Gettulio Cenci, proprietario di una ferramenta, fu eletto sindaco, carica ricoperta per tre legislature.

Matteo Grasso, laureato in storia, svolge attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti della storia contemporanea. Collabora sia con l’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia (ISRPt), di cui è il Direttore dal giugno del 2016, sia con l’Associazione Culturale Orizzonti di Lamporecchio che diffonde il mensile Orizzonti. Ha pubblicato alcuni saggi riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale sui Quaderni di Farestoria, periodico quadrimestrale dell’ISRPt.




Reagire alla crisi, progettare il futuro.

Anni addietro ebbi modo di intervistare la professoressa Gabi Dei Ottati, collaboratrice del professor Giacomo Becattini, sul problema della nascita del distretto industriale a Prato. L’intervista apparve su Azione sindacale. Periodico della CGIL di Prato nel numero del 1° marzo 1992. Oggi che la struttura socioeconomica della città ha subìto profonde trasformazioni, ci sembra utile riproporre il testo dell’intervista ai lettori di ToscanaNovecento.

 Superata la fase della ricostruzione, il sistema produttivo pratese conobbe un periodo di intenso sviluppo e fu quindi investito, alla fine degli anni Quaranta, da una crisi molto grave che durò, all’incirca, sino al ’52. Quali ne furono le cause?

 A Prato la ricostruzione fu molto rapida: la città venne liberata nel settembre ’44 ed un anno dopo la capacità produttiva dell’industria locale era già tornata ai livelli prebellici. Successivamente, l’elevata domanda di prodotti tessili e le commesse dell’UNRRA favorirono un processo di sviluppo che, fra il ’45 ed il ’48, portò quasi al raddoppio del numero degli addetti. Il gruppo dei lanifici a ciclo completo era ancora l’asse portante del sistema, disponendo di più della metà dei macchinari esistenti nell’area ed occupando circa i 3/5 della manodopera, anche se le aziende impannatrici e terziste si erano moltiplicate nel periodo precedente alla crisi. I lanifici a ciclo integrato producevano essenzialmente per l’esportazione, mentre le ditte più piccole lavoravano soprattutto per il mercato interno. Per conseguenza, in fase di alta congiuntura, questi due modi diversi di organizzare la produzione potevano convivere senza problemi. La crisi colpì dapprima le imprese minori che, verso la fine del ’47, cominciarono a risentire del calo della domanda interna (un fenomeno in parte fisiologico, dopo una fase di forte espansione della domanda stessa, ed in parte attribuibile ai provvedimenti deflazionistici varati dal governo ed alla concorrenza delle aziende del Nord), e si estese poi alle imprese più grandi. Queste ultime collocavano tradizionalmente gran parte della loro produzione in India ed in Sudafrica. Prima della guerra, esse operavano in quei paesi in regime di oligopolio e, applicando la strategia dell’intesa, avevano stretto degli accordi per trarre il massimo vantaggio da tale situazione. Ma la nascita di un’industria tessile locale spinse l’India ed il Sudafrica ad adottare delle misure protezionistiche che ne favorissero la crescita. L’adozione di queste misure ebbe per Prato conseguenze gravissime in quanto si tradusse nella perdita dei suoi principali mercati esteri. Altri mercati (Est europeo e Cina) furono perduti per motivi politici. La crisi fu poi acutizzata dagli oneri fiscali gravanti sulle imprese, dall’esaurirsi delle commesse dell’UNRRA, dal mancato rimborso dei danni di guerra e, soprattutto, dalla svalutazione della sterlina (settembre ’49) che causò ai lanifici maggiori un danno consistente, sia in termini di riduzione dei crediti sia in termini di ordinazioni annullate.

 La risposta degli industriali alla crisi consistette nella smobilitazione delle fabbriche. Perché venne imboccata questa via?

 La crisi pose ai grandi industriali il problema della sottoutilizzazione degli impianti cui essi reagirono prendendo come modello l’impannatore e quindi affidando ad imprese terziste alcune lavorazioni che in precedenza si svolgevano all’interno dei loro stabilimenti. Senza dubbio gli imprenditori percepirono i vantaggi immediati che la smobilitazione assicurava loro (riduzione dei costi, aumento della flessibilità della produzione). Più difficile è stabilire se da parte padronale vi fosse la volontà di attuare un disegno che antivedeva gli elementi positivi di più lungo periodo insiti nella dis-integrazione dei lanifici a ciclo completo. Certo è che allora la cosa fu vista da tutti come un ripiego.

 Quella della smobilitazione era una scelta obbligata?

 Diciamo che, nelle condizioni date, la smobilitazione fu per gli industriali pratesi la scelta più logica, in quanto una parte del sistema produttivo locale era già organizzata sulla base di aziende medio-piccole e nell’area esisteva una vocazione all’imprenditorialità che era congrua ad una ulteriore polverizzazione del sistema stesso. Fu questa trasformazione che, accrescendone la flessibilità, permise poi alle industrie pratesi di rivolgersi a mercati che richiedevano prodotti di qualità migliore.

 Il sindacato avanzò delle proposte concrete per risolvere la crisi? Elaborò al riguardo una strategia realistica o si limitò a polemizzare contro i licenziamenti?

 Il sindacato fece il suo mestiere lottando contro i licenziamenti, ma non seppe elaborare delle proposte originali per uscire dalla crisi. Da questo punto di vista esso palesò senz’altro dei limiti, riconducibili ad una cultura ancora legata a vecchi schemi. Piuttosto va sottolineato che un programma per risolvere la crisi fu approvato dalle categorie economiche cittadine e dal consiglio comunale di Prato. Questo programma (alla cui elaborazione prese inizialmente parte anche la locale Unione industriale, che però ritirò poi la sua adesione) consisteva in una serie di proposte da presentare ai ministeri competenti. L’iniziativa del comune fallì, nel senso che le proposte formulate non vennero accolte dal governo, ma servì a compattare, in nome della difesa degli interessi di tutta la città, le forze sociali, politiche ed economiche in un momento particolarmente grave. L’iniziativa non fu quindi inutile: essa rappresentò, al contrario, un fatto importante per il nascente distretto industriale pratese.

 Che cosa si deve intendere per distretto industriale?

 Molto succintamente, si può definire il distretto industriale, di cui ha parlato per primo Alfred Marshall riferendosi ad alcune zone dell’Inghilterra vittoriana, come una forma di organizzazione economica che (ove ricorrano in una stessa località determinate circostanze, concernenti la tecnologia, la natura della domanda e l’ambiente socio-culturale) permette ad una molteplicità di imprese specializzate di modeste dimensioni di raggiungere un alto grado di flessibilità produttiva, realizzando economie di scala e di varietà a livello di area anziché di singola azienda.

 La smobilitazione fu un fenomeno locale o nazionale? In particolare, essa interessò gli altri centri tessili del Paese?

 In linea generale è certo che, se fenomeni analoghi si verificarono in altre parti del Paese, essi non ebbero la stessa rilevanza che assunsero a Prato. Ciò posto, si può osservare che un distretto industriale molto simile a quello pratese si formò, negli anni Cinquanta, nel Carpigiano, dove esistono numerose piccole aziende che operano nel settore della maglieria.

 Quali sono le ragioni dell’efficienza economica del modello produttivo nato dalla smobilitazione?

 Poiché tale modello è un esempio tipico di distretto industriale marshalliano (DIM), esse sono quelle che garantiscono l’efficienza economica del distretto stesso. Già abbiamo detto che esso consente di godere di economie di scala e di varietà a livello di sistema. E questo si deve alla divisione del lavoro fra tante piccole imprese complementari. A ciò si deve aggiungere un alto tasso di diffusione della professionalità (che nel DIM non è dunque patrimonio di pochi) e la realizzazione di forti economie nei costi di transazione.

 Tale modello è ancora valido oppure si deve pensare a qualcosa di diverso?

 Innanzitutto va detto che, in quanto modello di organizzazione economica, il DIM ha in sé elementi di razionalità riconosciuta che permangono al di là delle specifiche vicende di questo o di quel distretto. Se poi si guarda al caso pratese, il problema consiste nello stabilire se le condizioni che hanno consentito la formazione e la crescita del distretto industriale sussistono ancora. A me non sembra che tali condizioni siano venute meno e quindi la strada da percorrere non è quella di uno stravolgimento dell’attuale modello produttivo (verso cui continuano fra l’altro ad essere orientate le preferenze della maggioranza degli imprenditori locali), ma quella di un suo aggiustamento volto a contenere le diseconomie interne del sistema.