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Gli altri e Ilio Barontini

“Gli altri e Ilio Barontini”: è il titolo della ricerca di Mario Tredici (Ets, 2017) sui comunisti livornesi che, a vario titolo, furono inviati dal loro partito in Urss tra la fine degli anni venti e la metà degli anni trenta, e in cui si riassume sinteticamente il senso di questo lavoro.  Infatti se Ilio Barontini è stato un uomo politico assai noto e celebrato , “gli altri” sono rimasti finora pressoché sconosciuti: su di loro è caduta una spessa coltre di oblio. Ma allora, negli anni segnati dalla dittatura fascista, ebbero un ruolo significativo per mantenere in vita l’organizzazione illegale comunista in Italia, alimentare l’emigrazione in Francia e poi essere inviati dal Pci in Urss, un tratto distintivo perché emblematico di un valore politico. Quattro di loro combatterono in Spagna nelle Brigate Internazionali, e uno Menotti Gasparri cadde nel novembre 1936 in difesa di Madrid.

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Ilio Barontini (al centro in piedi, con la cravata e le mani in tasca) in una foto di gruppo con Togliatti e Nilde Iotti (Archivio Istoreco, Livorno)

Ilio Barontini, è stato finora l’unico cui siano state dedicate ben tre biografie: la prima, la tesi di laurea di Giovanni Degl’Innocenti, scritta nel 1981-82. Poi a seguire quella scritta a due mani da Era Barontini e Vittorio Marchi nel 1987, e infine quella di Fabio Baldassarri edita nel 2013. I documenti base su cui si è sviluppata questa ricerca sono ovviamente i fascicoli del casellario politico centrale all’Archivio centrale dello stato. Una raccolta di dati di natura poliziesca, comunque fondamentali, senza i quali per quasi tutti loro si sarebbe del tutto persa ogni memoria. La persecuzione come strumento di conoscenza, insomma. Documentazione certo parziale e tendenziosa, arricchita però, in vari casi, dalle lettere inviate dagli emigrati alle famiglie e dunque in grado di restituirci il tratto umano e momenti del pensiero politico. Di assoluta importanza è stato anche l’archivio del partito comunista, depositato alla Fondazione Gramsci, poiché su quasi tutti era stata stilata almeno una scheda biografica dall’ufficio quadri del Pci a Mosca. Per i militanti che furono in Spagna è stato di grande utilità anche l’archivio delle Brigate Internazionali, sempre alla Fondazione Gramsci.

Per Barontini, che certamente è la personalità di maggior rilievo politico, l’autore ha scelto di concentrare la ricerca, anche e soprattutto per la dimensione internazionale della sua attività (Francia, Unione Sovietica, Spagna, Etiopia, ancora Francia nel maquis e poi la Resistenza in Emilia-Romagna), su alcuni problemi ancora aperti: quale fu il suo impegno in Francia subito dopo la fuga da Livorno nel maggio 1931; come e perché fu inviato in Unione Sovietica, con note negative come sostenne Paolo Robotti; come si configurò il suo ruolo nel paese del socialismo al tempo di Stalin.  Emerge in sostanza un profilo di Barontini come stalinista a tutto tondo. Fu permeato da quella temperie politica come quasi tutti quelli che ebbero un ruolo dirigente nel Pci in quel tempo, tanto più se si trovarono a vivere e operare nell’Urss.

Il mito, di cui è stato da sempre circonfuso, si è nutrito di una perniciosa rinuncia a un serio approccio critico. Come invece merita, dato che è stato uomo del suo tempo, non ha partecipato a deliziosi balli di gala ma ha attraversato le fasi della storia del XX secolo più dure e drammatiche. Poteva essere solo cavaliere dell’ideale? In sostanza è emersa una figura con forti chiaro-scuri, che nel periodo qui analizzato (in sostanza dal 1927 al 1936) ha avuto un ruolo di primo piano.

La ricerca d’archivio ha consentito di accertare in via definitiva il fatto che Ilio Barontini fu inviato in Unione Sovietica per punizione. Era tra i dirigenti operativi del Centro estero del Pci, responsabile dell’invio di corrieri in Italia e fu travolto dal clima di sospetti nella “grande inchiesta” interna al Pci condotta nel 1932 da Giuseppe Dozza. E di cui si trovano accenni negli scritti di Giorgio Amendola, Mario Montagnana e Aldo Agosti. Fu accusato di “disordine, settarismo, non buona politica dei quadri” come ebbe a rilevare Togliatti. Fu ritenuto responsabile in sostanza di scarsa vigilanza cospirativa e rimosso dal delicato incarico. E gli andò bene, perché Dozza chiese addirittura di sospenderlo per sei mesi dal partito, sanzione che l’Ufficio politico rifiutò di infliggergli. Il libro ricostruisce nel dettaglio la complessa vicenda, finora trascurata dalla ricerca storica.

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Ettore Borghi (Casellario Politico Centrale, Archivio Centrale dello Stato)

Poteva essere una caduta definitiva, invece in Unione Sovietica riuscì ben presto a riabilitarsi e a entrare nel nucleo dirigente dell’emigrazione. Barontini aveva personalità, carattere e “nervi saldi” come si riconosceva. Risalì la corrente, pur patendo un altro infortunio con il rifiuto opposto ai dirigenti sovietici ad andare a Odessa. Pur di restare a Mosca (si era ben inserito nel Club degli emigrati italiani e si era anche innamorato) accettò le conseguenze del suo rifiuto: venne rimosso dall’incarico di funzionario del Profintern e dovette andare a lavorare in fabbrica. Sempre nel 1933 fu implicato, politicamente, nella tragica vicenda che portò all’omicidio di Alberto Bonciani, alias Grandi. Che venne soppresso in un albergo nel centro di Mosca. Finora la vicenda, per il contesto in cui si svolse, aveva sollevato gravi dubbi sul coinvolgimento della dirigenza del Club. La ricerca ha potuto utilizzare una vasta documentazione (anche risalente all’Nkvd) da cui esce una piena conferma della fondatezza di quei sospetti. Anche Barontini fu tra gli estensori di ripetute accuse e avvertimenti sul caso Bonciani.

Grazie alle lettere alla famiglia e alla documentazione d’archivio la ricerca ha teso a delineare quali fossero la mentalità e formazione politica di Barontini quando lasciò la Francia per Mosca. L’esperienza sovietica ne accentuò i tratti, segnò e plasmò la personalità politica di Barontini in senso stalinista. Esito che lui stesso ebbe a segnalare nell’autobiografia: “Non sono mai stato in dissenso con il partito”; “mi sono sforzato di assorbire quanto più ho potuto di ideologia marxista leninista stalinista”. E, in effetti, a Mosca, nel Club Internazionale di cui fu uno dei leader, fu sempre schierato a fianco di Paolo Robotti “stalinista al 100 per 100” come lo definì Dante Corneli. Lui “soldato disciplinato” fu allineato convintamente con il partito fino alle estreme conseguenze anche nella lotta senza quartiere contro i compagni accusati di bordighismo o di trotzkismo. Una lotta politica che nell’Urss di Stalin si trasformò ben presto in tragedia con oltre cento comunisti italiani soppressi e molti altri spediti nei gulag. Una tragedia che il Pci tenne celata fino al novembre 1961, quando proprio Robotti fu autorizzato a parlarne in comitato centrale. Quando Barontini arrivò a Mosca nel settembre 1932, era un dirigente in disgrazia, quando ne uscì, quattro anni dopo, nell’estate 1936 aveva uno status di tutto rilievo, tanto che fu tra i 62 che firmarono il famoso appello ai “fratelli in camicia nera”

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Armando Gigli (Casellario Politico Centrale, Archivio Centrale dello Stato)

Ma torniamo agli “altri”. Alle biografie degli altri otto militanti: vite parallele con tratti ed esiti assi diversi.  Astarotte Cantini e Menotti Gasparri ebbero un destino tragico: il primo fu represso nelle purghe staliniane, l’altro cadde combattendo a Madrid. Cantini era di origini assai modeste, militante anarchico poi diventato comunista, emigrò in Francia e quindi in Russia dove fu soppresso nel 1938. Il secondo, operaio vetraio, fu condannato giovanissimo dal Tribunale speciale, riuscì a fuggire in Francia dove peregrinò molto stentatamente nell’emigrazione (faceva letteralmente la fame), con compiti modesti nei ranghi dei Comitati proletari antifascisti (Cpa) finché venne inviato in sanatorio in Russia fino alla tragica morte a Madrid. Tamberi è una figura atipica: piccolo commerciante in fallimento fuggì  in barca da Livorno con Ilio Barontini e Armando Gigli; visse e lavorò a Mosca per oltre cinque anni e riuscì a tornare in Italia con un passaporto ottenuto dall’ambasciata italiana nell’autunno del 1936, mentre già dilagavano le repressioni staliniane. Riuscì, singolarmente, a passare indenne tra le insidie di Scilla e Cariddi.

Urbano Lorenzini emerge come la figura più compromessa con lo stalinismo: ebbe – come rivendicò – rapporti sistematici con l’Nkvd per denunciare alcuni dei propri compagni di Odessa. Ettore Borghi, di origini contadine, ebbe un ruolo fondamentale nella ricostruzione dell’organizzazione giovanile comunista a Milano: arrestato nel settembre 1934, fu condannato a 18 anni di galera. Nel dopoguerra di affermò come dirigente della Federmezzadri di cui fu segretario generale. Anche Armando Gigli, processato e assolto per insufficienza di prove nel 1927-28 dal Tribunale speciale, fu inviato più volte come corriere in Italia. Arrestato nel 1935 fu condannato a 12 anni. Assai controversa invece la figura di Angiolo Giacomelli, tra i fondatori del Pci a Livorno. Transfuga nel 1927, dal 1929 al 1932 a Mosca, inviato come corriere in Italia fu arrestato. Rimesso in libertà grazie all’amnistia del decennale svolse un ruolo occulto ma molto importante tra il 1933 e il 1935 quando venne nuovamente arrestato nel febbraio nella grande retata frutto di una delazione di un vecchio comunista, Tullio Baronti. Giacomelli fece il compromesso con l’Ovra con l’obiettivo di scoprire la spia o le spie che avevano provocato la caduta dell’intero gruppo dirigente comunista. La cosa si riseppe: da qui l’ostracismo, con l’espulsione per tradimento dal partito, fino alla sua riabilitazione completa nel 1969. Infine di grande rilievo la figura di Silvano Scotto, un portuale che fu l’anima della riorganizzazione del Pci dopo le ripetute retate dei primi anni ’30. La ricerca, proprio nell’ambito della sua biografia, ricostruisce anche il quadro politico degli anni della svolta a Livorno mettendo in luce una coriacea e persistente  volontà combattiva del piccolo nucleo comunista esistente in città. Che non cedette mai le armi.

Quella che esce da questa ricerca è una galleria di figure politiche, con l’obiettivo di ricostruire, attraverso loro, un periodo di lotte e di travagli umani e politici, segnato da una durezza di vita e di sacrifici, di dolori non solo dei militanti ma anche e soprattutto delle loro famiglie (molto importanti le lettere inviate a madri, mogli e figli). Anni ed esperienze connotati certo da asprezze, settarismi, opacità e talora gesti politici condannabili, ma anche anni ricchi di occasioni di crescita e riscatto, di coraggio e di dignità. Di lotte contro il fascismo. Questi tenaci combattenti fuggirono dall’Italia sotto il segno di un’amara sconfitta, ma sicuri che presto o tardi le cose sarebbero cambiate (è il leitmotiv di quasi tutte le lettere alle famiglie) e con una fiducia totale nel ruolo dell’Unione Sovietica. Un’ancora di salvezza, in un mare in tempesta.

 * Mario Tredici, giornalista professionista, è stato capocronista delle redazioni di Pontedera e di Livorno per il quotidiano “Il Tirreno” e vice capo redattore responsabile delle pagine nazionali. Membro del consiglio nazionale della Fnsi, del consiglio regionale toscano e del consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, è stato assessore alle culture del Comune di Livorno dal 2009 al 2014.




Giovanni Fattori, lettere di un montalese dal lager nazista

Giovanni Fattori, classe 1924, proveniente da una famiglia contadina di Montale, figura tra gli Internati Militari Italiani (IMI) rinchiusi nei campi di concentramento nazisti. La sua storia si interseca con il clima bellico sorto dopo l’entrata in guerra dell’Italia fascista. Nel 1942, con il richiamo alla leva, fece domanda per entrare nel corpo dei carabinieri: nel giro di pochi mesi fu accettato e iniziò l’addestramento insieme ai colleghi. Il 19 luglio 1943, dopo il bombardamento di Roma, venne inviato nella capitale, dove prestò servizio nella zona più colpita, ovvero il quartiere di San Lorenzo. Pochi giorni dopo, con la caduta e l’arresto di Benito Mussolini, cambiò completamente lo scenario italiano. Furono proprio i carabinieri ad arrestare il duce che fu tenuto prigioniero in un primo momento presso la caserma della scuola allievi carabinieri di Roma, dove era alloggiato Fattori.

A settembre, dopo l’Armistizio, le lettere inviate da Giovanni alla famiglia mostravano la situazione in cui versava la nazione, con la nascita della RSI e l’occupazione militare e amministrativa tedesca. Nonostante la profonda censura, Giovanni raccontava che i nazisti avevano occupato le caserme romane ma lui, insieme ai suoi superiori, rimaneva al proprio posto in una situazione apparentemente non drammatica. Invece il 7 ottobre su ordine firmato direttamente dal ministro della difesa della RSI, il maresciallo Rodolfo Graziani, furono arrestati tutti i carabinieri presenti a Roma: il loro numero oscillava fra 1500 e 2500. Erano malvisti dai fascisti e dai nazisti ed erano considerati un ostacolo troppo grande a causa della loro duplice natura di corpo combattente e corpo di polizia, per cui l’Arma sarebbe dovuta rimanere a tutela dell’ordine e a difesa dei cittadini. Infatti, dieci giorni dopo, i nazifascisti compirono la più rilevante retata in Italia contro gli ebrei con l’arresto e la deportazione di 1023 persone catturate nel ghetto di Roma: i carabinieri rappresentavano l’unico corpo che si sarebbe potuto opporre.

Dopo quattro giorni di viaggio, stipato in un vagone con un buco nel pavimento di legno come gabinetto, giunse alla stazione di Tarvisio e proseguì per Kapfenberg. Fu definito IMI insieme ad altri 650.000 militari rinchiusi nei lager nazisti. Viveva con altri sedici uomini in una baracca senza finestre nel campo di lavoro di Bruck an der Mur, appartenente all’immenso lager di Wolfsberg. Venne inquadrato nel reparto ferroviario dove riempiva i carrelli di carbone per le locomotive, ricevendo due pasti al giorno:

“Un pane in otto, veniva spezzato da un appuntato che comandava la baracca. Un pane e la brodaglia. E c’era cavolo, di molto. Rape di quelle italiane, ne mandavano a vagonate. E poi ci buttavano qualche pezzetto di margarina, per condimento”.

Gli scambi epistolari con la famiglia e con i conoscenti sono frequenti anche se sottoposti a censura. Il tempo di ricezione variava da uno a tre mesi e dalle lettere emergeva la profonda solitudine del campo di concertamento, la mancanza di affetti familiari e l’annichilimento portato dalla guerra.

Più volte gli emissari di Mussolini si presentarono al campo di lavoro, tentando di convincere i militari ad arruolarsi nell’RSI con i più svariati motivi: minacciandoli, promettendo condizioni migliori, assicurando la libertà, facendo leva su argomenti morali e ideali, ricordando la famiglia in Italia. Si calcola che circa il 90% degli internati abbia manifestato un secco rifiuto. La baracca di Giovanni confermò l’andamento: su 16 uomini solamente una persona di circa 30 anni accettò, dichiarando che intanto sarebbe tornato in Italia e poi avrebbe tentato di aggregarsi alle formazioni partigiane. Possiamo dunque affermare che la scelta fu sinonimo di rifiuto e di resistenza: nonostante la sofferenza patita, subendo ogni tipo di vessazione e sopruso, i militari accettarono di restare all’interno dei lager nazisti piuttosto che tornare a combattere insieme ai repubblichini. Una resistenza passiva, rimasta a lungo nell’ombra, con la quale gli italiani non si piegarono alle lusinghe, ma resistettero in massa alle violenze e ai ricatti. I motivi erano di varia natura ma, principalmente, i soldati intendevano difendere la propria dignità e quella delle istituzioni nazionali, fra cui quella del re, alle quali avevano giurato fedeltà.

Durante la fase finale della guerra, a inizio 1945, le condizioni di vita e di lavoro degli internati peggiorarono progressivamente, aggravandosi anche a causa del rigido inverno e delle prepotenze delle guardie. Il cibo iniziò a scarseggiare e i sintomi dell’imminente crollo nazista riecheggiavano nell’aria. A marzo 1945 Giovanni rischiò di non vedere la liberazione quando alcuni aerei alleati bombardarono la zona:

“Io mi sono riparato nella fogna che andava restringendosi. L’entrata era chiusa dalla terra e dai detriti e non potevo uscire: ci sono rimasto un giorno. La mattina dopo sono venuti gli amici Vanchetti e Giannella, hanno scavato e mi hanno tirato fuori. Mi sono ricoperto di sfoghi su tutto il corpo, avevo la febbre alta e le guardie mi hanno portato a piedi all’infermeria di Bruck. Quando sono arrivato ho perso i sensi e mi sono ritrovato in una camerata di 30 letti. È suonato l’allarme molte volte, tutti sono scappati, io sono rimasto solo. Si vede che quando uno non deve morire, non muore”.

Fra fine aprile e inizio maggio le guardie sparirono dal campo e Giovanni, una volta guarito, si mosse in un’ Europa rimasta senza collegamenti, distrutta dalla guerra e dai bombardamenti, non in grado di garantire un tessuto civile su cui fare riferimento. Rientrò a casa in poco tempo, verso la metà di maggio, grazie all’aiuto di alcuni ferrovieri tedeschi e di altri civili italiani. Il suo nonno lo aspettava nell’angolo della cucina a fianco del camino. Gli disse: “Meno male che avanti di morire ti ho rivisto”.

Matteo Grasso, laureato in storia, svolge attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti della storia contemporanea. E’ direttore dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia dal luglio 2016. Ha pubblicato alcuni saggi riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale sui Quaderni di Farestoria, periodico quadrimestrale dell’ISRPt. 




“Volevamo chiamarti Angelita”

“Volevamo chiamarti Angelita” è una vecchia canzone dimenticata degli anni Sessanta. Parla di una bambina dai capelli biondi adottata dai soldati brasiliani sbarcati ad Anzio. Li accompagna nell’esplorazione della città  laziale tenendo in mano delle conchiglie piene di sabbia per poi morire cadendo vittima della reazione tedesca. Ad Anzio la storia di Angelita, che tutti ritengono vera, è ricordata da un monumento rappresentante una bambina che alza le mani in un volo di gabbiani.

Monumento ad Angelita ad Anzio

Monumento ad Angelita ad Anzio

Anche la montagna pistoiese ha un monumento che ricorda una ragazza, Graziella, uccisa dai tedeschi in ritirata davanti agli Alleati, quando ormai erano già  passate alcune settimane dalla liberazione di Pistoia, avvenuta l’8 settembre 1944.

Graziella Fanti oggi è una lapide nel piccolo giardino pubblico delle Piastre, una località  celebre per il campionato della Bugia, posta sulla strada granducale che conduce alle piste dell’Abetone e nei pressi della quale nel 1944 scorreva la linea Gotica, zona di combattimenti che, come afferma il Sac. Vasco Lorenzini causarono la morte di quattro persone della parrocchia e di tre sfollate.

Graziella Fanti era nata il 21 dicembre del 1927 e quindi il 21 settembre 1944 era una ragazza di 17 anni dalle trecce bionde e dallo sguardo un po’ malinconico. Era una “bastarda”, una figlia della colpa, perché Bruna, sua madre, donna di servizio presso alcuni nobili che villeggiavano alle Piastre, era rimasta incinta ventenne e senza essere sposata. Qualcuno diceva che il padre di Graziella fosse il padrone di casa, altri che fosse un uomo di Roma, altri ancora, come la testimone Miranda Pisaneschi, sostengono che questi fosse emigrato in Francia e che tornò in Italia solo a guerra finita.

La madre e la figlia vivevano presso le Piastre in località  detta il “Brocco” con un uomo, separato dalla moglie, che si prendeva cura di loro. Bruna e il patrigno erano comunisti e non frequentavano la parrocchia. Per la mentalità  dell’epoca essere comunisti e conviventi portava ad essere malvisti ed esclusi dalla piccola e tradizionale comunità locale. Pare che fosse negata loro anche la benedizione pasquale.

Erano sfollati lontano dalle Piastre presso il paesino di Le Forri e abitavano in una capanna di fango e paglia vicino al ruscello. La ragazza aveva alcune amiche in località  “Il Casone di sotto”, sempre nei pressi delle Piastre.

Il 21 settembre 1944 Graziella si recò al ruscello nel folto del bosco, come faceva ogni giorno probabilmente, al fosso dei Gambioni nei pressi delle Forri, a lavare i panni. Si credeva al sicuro, lontana dalla soldataglia tedesca che aveva il suo quartier generale a Cassarese, sulla strada che dalle Piastre conduce a Casamarconi.

Non portava conchiglie in mano come Angelita, ma del sapone e un cesto di vimini. Cantava, Graziella, per dimenticare la cattiveria della gente e la guerra. La sua voce, probabilmente, fu udita da alcuni soldati tedeschi, pare tre, innervositi dalle cattive notizie sull’andamento della guerra. Si era chinata sul ruscello, i panni stesi intorno. Forse aveva accanto a se gli abiti del patrigno. Probabilmente più che la bellezza della ragazza furono questi ad attirare i sospetti dei nazisti. Forse questi ipotizzarono che la ragazza collaborasse con i partigiani lavando loro i panni.

Graziella fece in tempo a vedere i soldati avvicinarsi e impaurita tentò di fuggire, ma i colpi sparati vigliaccamente da questi la raggiungero alle spalle mentre chiamava la madre. Si dice che i tedeschi allontanandosi imitassero stupidamente le sue parole “Mama, mama”. Sulla fine di Graziella esistono diverse versioni: alcuni testimoni affermano che morì sul colpo, altri che mani pietose la portarono morente in un fienile nei pressi delle Forri dove spirò.

Graziella, sola in vita, rimase, purtroppo, sola anche da morta. Nessuno nel paese reclamò il corpo, nè la chiesa, nè i partigiani. Solo dieci giorni dopo un uomo di nome Lido prese il corpo coperto di sangue per darle una sepoltura.

foto 3Finita la guerra la madre fece porre sulla tomba nel cimitero delle Piastre una lapide bianca con su scritto “uccisa dalla barbarie nazista”. Sulla lapide la foto della ragazza, le trecce bionde, lo sguardo malinconico.

Passarono gli anni e il mondo si dimenticò di Graziella.

Nel 1974 a Treviso è in corso uno dei primi convegni di agricoltura biodinamica. Un uomo, un archelogo, si presenta a Ivo Beni presidente allora dell’Associazione Biodinamica Italiana con un sacchetto di chicchi di grani trovati in una tomba egizia. Gli consegna i chicchi con la promessa che se questi avessero prodotto del grano si sarebbe dovuto chiamare con il nome della figlia morta in guerra tanti anni prima: Graziella. Consegnati i chicchi l’uomo se ne va senza rivelare il proprio nome.

I chicchi vengono seminati e in capo a qualche anno il miracolo si compie. Da quei pochi chicchi oggi si produce un grano che porta il nome di una ragazza uccisa dalla barbarie nazista settanta anni fa. Non sapendo qual era il cognome del padre della ragazza si è provveduto ad attribuire una ulteriore denominazione facendo riferimento al nome del Sole, Ra, nella religione egizia.

Quel grano, frutto di un pugno di antichi chicchi e un piccolo monumento nel parco di un paesino di montagna, ricordano oggi una ragazza per troppo tempo dimenticata perché come dice Chita Banerjee Divakaruni “Finché esisterà  del pane fresco, le cose non potranno guastarsi in maniera irreparabile”.




Il “trenino dei marmi” versiliese: ascesa, gloria e caduta di un “servizio utile”

Lavorò per più di 35 anni e, oltreché una mirabile opera d’ingegneria, rappresentò per l’intera Versilia storica un formidabile strumento di sviluppo nei decenni chiave d’inizio Novecento che ne decisero la vocazione economica: fu la “Tranvia della Versilia”, ricordata ancora oggi dagli anziani della zona come “marmifera”, o semplicemente “trenino dei marmi”.
Le prime iniziative volte a promuovere la costruzione di moderne infrastrutture per mettere in collegamento le cave dell’entroterra con il litorale, naturale sbocco commerciale per il prezioso marmo bianco delle Apuane, risalgono in realtà alla seconda metà dell’Ottocento: del resto, all’epoca, non molto lontano, il bacino estrattivo di Carrara si era dotato di una rete ferroviaria propria già nel 1876, via via accresciuta e di notevole utilità per la movimentazione dei blocchi verso il porto di Marina di Carrara e la linea ferrata Genova-Pisa.
Fu soltanto nel 1903, che un comitato locale versiliese decise di dar vita ad una società di diritto britannico denominata “The Carrara Versilia Electric Railway and Power Limited”, che, presentato alla Provincia di Lucca il progetto per una ferrovia a scartamento ridotto che soddisfacesse le richieste logistiche dell’area, otto anni dopo ottenne l’autorizzazione alla posa in opera della rete, denominata “Tranvie Elettriche Versiliesi” (TEV). A causa del trasferimento delle competenze in merito dagli enti locali al governo centrale, però, i lavori di costruzione dovettero attendere ancora un poco, e presero il via soltanto nell’agosto 1913.

1919: il caratteristico scavalco di Querceta, che permetteva al “trenino dei marmi” di superare la via Aurelia e la linea ferroviaria Genova-Pisa appena più a monte. Sulla sinistra, è visibile la chiesa di Santa Maria Lauretana. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 203]

1919: il caratteristico scavalco di Querceta, che permetteva al “trenino dei marmi” di superare la via Aurelia e la linea ferroviaria Genova-Pisa, situata appena più a monte. Sulla sinistra, è visibile la chiesa di Santa Maria Lauretana. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 203]

Le prime sezioni ad essere inaugurate, il 15 gennaio 1916, nel bel mezzo della Prima Guerra Mondiale, furono quelle comprese fra Querceta, Seravezza e Pietrasanta, per una lunghezza complessiva di quasi 11 km: pensato eminentemente per il trasporto merci, il tracciato offrì fin da subito anche un apprezzato servizio passeggeri. Di particolare rilevanza, oltre al deposito-officina per il materiale rotabile edificato presso la frazione di Ripa di Seravezza appena a monte del ponte Foggi, su cui passava la diramazione che conduceva a Pietrasanta, era la grande opera di scavalco della ferrovia tirrenica eretta a Querceta: lunga quasi 180 metri, realizzata in metallo e cemento armato, costituiva di fatto una fermata sospesa in pieno stile americano, con tanto di scale da cui era possibile scendere al paese. Sempre a Querceta, la TEV disponeva poi di uno speciale binario di collegamento con il grande piazzale della società marmifera Henraux, sfruttato per il caricamento dei blocchi sui pianali della ferrovia Genova-Pisa.

Manovre di composizione di un convoglio presso il capolinea della marmifera di piazza Garibaldi, a Forte dei Marmi. Cartolina del 1932. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 124]

Manovre di composizione di un convoglio presso il capolinea della marmifera di piazza Garibaldi, a Forte dei Marmi. Rara cartolina del 1932. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 124]

Pochi anni dopo, la rete raggiunse Forte dei Marmi, e, solo per le merci, la località di Trambiserra, presso Malbacco di Seravezza, centro di raccolta dei marmi della valle del Serra e del monte Altissimo: con l’allungamento dei binari fino alla costa, si completò così il primo collegamento ferrato fra i bacini estrattivi dell’entroterra ed il punto d’imbarco del materiale, lo storico ponte caricatore del Forte, posto a breve distanza dal capolinea TEV di piazza Garibaldi, proprio affianco al Fortino.

Di fronte alle crescenti richieste del mercato, poi, l’infrastruttura si espanse verso il cuore delle Apuane, risalendo l’angusta valle del torrente Vezza: l‘inaugurazione della tratta Seravezza-Pontestazzemese si tenne il 31 maggio 1922, e, oltre ad un pregevole risultato ingegneristico, per la natura geografica delle aree attraversate, costituì pure un notevole passo avanti sulla via della modernizzazione dell’arcaica montagna versiliese.
Perché la nuova rete potesse davvero dirsi capillare, tuttavia, mancava ancora un tassello: un collegamento con le frazioni più remote della montagna stazzemese e con i ricchi bacini marmiferi dell’area di Arni. Un’opera complessa e assai dispendiosa, in termini di uomini, mezzi e risorse finanziarie necessarie, che, dopo l’apertura di una prima tratta fra le località di Iacco e Pollaccia nel 1923, vide finalmente la luce nel 1926, quando la strada ferrata, che in questa sezione di quasi 16 km aveva tutte le caratteristiche di una vera e propria linea di montagna, con tanto di rifornitori d’acqua e binari di salvamento per eventuali convogli fuori controllo in discesa, raggiunse Tre Fiumi, vasta spianata compresa fra le vette del Freddone, del Sumbra, del Sella e dell’Altissimo. Per superare il colle del Cipollaio, fra l’altro, che separava la conca di Arni dal resto della Versilia, si rese necessaria la realizzazione dell’opera d’arte più impegnativa dell’intera ferrovia dei marmi: l’escavazione di un lungo tunnel nel ventre della montagna, che, lungo 1.135 metri, mise in comunicazione due versanti fino a quel momento completamente isolati, e, sfruttata ancora oggi dalla Strada Provinciale 13, che ripercorre esattamente l’antico tracciato della marmifera, prese il appunto nome di galleria del Cipollaio. Nel 1927, anche quest’ultima sezione della linea venne aperta ai passeggeri, mentre fu definitivamente abbandonata l’intenzione iniziale di prolungare il tracciato fino a Castelnuovo di Garfagnana.

Veduta d’insieme della rete TEV negli anni della sua massima espansione: nel complesso, l’infrastruttura si estendeva per 37 km.

Veduta d’insieme della rete TEV negli anni della sua massima espansione: nel complesso, l’infrastruttura si estendeva per ben 37 km.

A quel punto, l’avveniristica infrastruttura della TEV, nata come una visione e completata in 14 anni di lavori, raggiunse il suo aspetto finale: una rete efficiente, che quotidianamente movimentava uomini e materiali attraverso le gole ed i pendii di un territorio aspro e meraviglioso, slanciandosi attraverso borghi, strade, torrenti, valli, strettoie e crepacci, coprendo, dal mare alla montagna, un impressionante dislivello di 850 metri di altitudine, con punte di pendenza del 60‰ nei pressi del valico del Cipollaio.
Assai gradito da imprese e residenti, nel giro di pochi anni il nuovo trenino cambiò per sempre il volto della Versilia storica, conferendole l’aspetto di un territorio moderno e al passo coi tempi, connesso alle principali arterie di comunicazione del Paese. A farsi carico del grosso volume di merci e passeggeri, oltre a diverse decine di vagoni, erano sei piccole locomotive a vapore, che ogni giorno sbuffavano vistosamente i propri fumi sferragliando fra gli olivi della piana o su per le rocce delle Apuane (l’idea originaria, ricordata anche nel nome della rete, di elettrificare l’intera struttura, era stata infatti accantonata nel 1921): tre a due assi, di fabbricazione britannica, chiamate Z1, Z2 e Z3, meno potenti e pertanto riservate alle tratte più dolci, e tre a tre assi, tedesche, più capaci e quindi destinate al servizio lungo l’impegnativa “linea di Arni”. Oltre ad una sigla, quest’ultime ricevettero pure un soprannome, che riprendeva la denominazione di alcuni toponimi della montagna versiliese: Z4 Arni, Z5 Sumbra e Z6 Corchia.

Pietrasanta, 1924: coincidenza tra un convoglio a vapore della marmifera, riconoscibile sulla sinistra, ed una vettura elettrica del tram SELT per la marina, visibile sulla destra. Siamo in piazza Carducci, proprio di fronte a Porta a Pisa e alla Rocchetta Arrighina. [Enrico Botti, Saluti dalla Versilia, p. 48]

Nel corso degli anni Venti, la TEV visse il proprio momento di splendore: frequentata da un gran numero di turisti, che presso i capolinea di Forte dei Marmi e Pietrasanta potevano trovare anche le fermate del tram elettrico della SELT (Società Elettrica Litoranea Tramviaria) che portava lungo la costa fino a Viareggio, la nuova ferrovia entrò pian piano nell’immaginario collettivo ed iniziò a comparire su un gran numero di fotografie e cartoline (alcune delle quali sono visibili nel corpo del presente articolo, mentre altre sono consultabili in allegato fra i Documenti dalle fonti).

Ripa di Seravezza, anni ’10: veduta del ponte Foggi, sul quale passava la diramazione della ferrovia marmifera per Pietrasanta. Sullo sfondo, è visibile il grande deposito-officina della TEV, gravemente danneggiato dalla guerra nel 1944. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 221]

Ripa di Seravezza, anni ’10: veduta del ponte Foggi, sul quale passava la diramazione della ferrovia marmifera per Pietrasanta. Sullo sfondo, è visibile il grande deposito-officina della TEV, gravemente danneggiato dalla guerra nel 1944. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 221]

I contraccolpi della crisi del 1929, tuttavia, combinati alcuni anni dopo con gli effetti nefasti della politica estera aggressiva del fascismo sugli scambi commerciali internazionali, influirono negativamente sulle attività estrattive della Versilia, riducendo la domanda e generando un sensibile aumento della disoccupazione. Parallelamente, rimanendo elevati i costi di manutenzione, i margini di profitto della ferrovia iniziarono a diminuire.
Con gli anni Trenta, poi, il trenino dovette cominciare a fare i conti con una nuova, inattesa minaccia al proprio ruolo egemone nella movimentazione locale dei passeggeri: quella del trasporto su gomma, quella dei torpedoni della società Fratelli Lazzi, che, a fronte di un’elevata flessibilità di utilizzo e di costi d’esercizio davvero ridotti, offrivano spostamenti a prezzi concorrenziali, raggiungendo anche le più remote località della montagna apuana. Come risultato, il 20 gennaio 1936 il servizio viaggiatori della tranvia venne soppresso.
A sancire il definitivo tramonto della marmifera dal panorama versiliese, tuttavia, fu la Seconda Guerra Mondiale: le distruzioni operate dai nazisti in vista della ritirata sulla Linea Gotica, infatti, non risparmiarono neppure le strutture della TEV, infliggendo loro un colpo mortale. Nel 1944, assieme all’adiacente chiesa di Santa Maria Lauretana, il ponte di scavalco di Querceta fu minato e fatto saltare in aria, crollando sulla via Aurelia e sulla ferrovia tirrenica: contestualmente, per impedire un pratico passaggio agli Alleati, la linea d’Arni fu danneggiata in più punti e l’accesso lato mare della galleria del Cipollaio distrutto con l’esplosivo. Nel corso dei bombardamenti americani sulle posizioni tedesche, poi, andò quasi completamente in macerie anche il deposito-officina di Ripa.

Levigliani di Stazzema, 1930: una suggestiva visione del “trenino dei marmi” al lavoro sull’impervia “linea d’Arni”, completata nel 1926 ed aperta al traffico passeggeri l’anno successivo. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 249]

Levigliani di Stazzema, 1930: una suggestiva visione del “trenino dei marmi” al lavoro sull’impervia “linea d’Arni”, completata nel 1926 ed aperta al traffico passeggeri l’anno successivo. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 249]

Quando i fumi della guerra si diradarono, la Versilia giaceva in ginocchio, devastata da sette mesi di feroci battaglie combattute nel cuore delle sue contrade. Con grande sforzo, nonostante la povertà diffusa e la penuria di materiali, la ferrovia dei marmi poté essere riattivata il 2 luglio 1946, eccettuata la tratta Querceta-Forte dei Marmi, per l’impossibilità di ricostruire il costoso scavalco della Genova-Pisa. Del resto, in quel terribile 1944, era saltato in aria anche il ponte caricatore del Forte: l’epoca dei blocchi calati a valle dalle locomotive e caricati sui bastimenti dai buoi e dalla “Mancina” era ormai finita.

Querceta, 1929: il grande piazzale della società marmifera Henraux, con i colli di Strettoia ed il monte Folgorito sullo sfondo. In primo piano, il ponte di scavalco della ferrovia marmifera, che sarebbe stato fatto saltare in aria dai genieri nazisti nel 1944. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 208]

Querceta, 1929: il grande piazzale della società marmifera Henraux, con i colli di Strettoia ed il monte Folgorito sullo sfondo. In primo piano, il ponte di scavalco della ferrovia marmifera, fatto poi saltare in aria dai genieri nazisti nel 1944. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 208]

Di fronte a guadagni sempre più declinanti e ad una sempre più agguerrita concorrenza del trasporto su gomma, che permetteva di raggiungere direttamente i piazzali delle cave in quota, nella prima metà del 1950 il braccio Iacco-Pontestazzemese fu chiuso. Il 30 giugno dell’anno successivo, il trenino dei marmi fece il suo ultimo viaggio e l’intera rete della TEV chiuse i battenti: senza dare troppo nell’occhio, usciva così di scena un generoso protagonista della vita quotidiana versiliese del primo Novecento, che, oltre ad aver reso possibile il grande sviluppo economico del territorio, ne aveva contribuito a radicare il senso di appartenenza comunitaria, riducendo sensibilmente le distanze fra pianura e montagna.
Ancora oggi, la memoria degli anziani locali riserva un posto speciale al vecchio “trenino dei marmi”, uno spazio affettuoso, intriso di sincera nostalgia per un mondo ormai percepito come irrimediabilmente perduto. A tal proposito, in chiusura, valga su tutte la testimonianza di Concettina Bertonelli. Classe 1935, nativa di Arni, ricorda:

Me lo ricordo sempre il trenino, il trenino che dico io: era chiamato anche la tramvìa. Partiva dal Forte, da piazza Garibaldi, e pò andava sù sù sù, Seravezza… Portava i marmi, quelle robe lì, ma anche i passeggeri: era un servizio utile. A Querceta c’era un doppio ponte, perché c’era la ferrovia e poi questo trenino. Poi andava in su, sulla via d’Arni. Fino a Tre Fiumi, però, è! Da Tre Fiumi in poi, niente: a piédi! Sicché quel poco di roba che si portava su, c’era da caricassela sulle spalle e via. Dopo, allora, son venuti i pullman.




Hill 366: una storia da raccontare

Il 7 ottobre 2017, il Comune di Carrara e la Pro Loco di Fontia hanno promosso un’iniziativa per onorare la memoria di due uomini: Don Dario Fazzi e il Lieutenant-Colonel John James Phelan. L’evento, celebrato in occasione del 73° Anniversario dell’incendio di Fontia, rientra nel programma di iniziative inserite nel progetto “In cammino verso la Costituzione (1948-2018)” a cura del Gruppo di lavoro del Comune di Carrara per le celebrazioni e la promozione della memoria della Resistenza e dei principi della Costituzione.

La commemorazione a cui ha aderito Angel Matos, Direttore del Florence American Cemetery (American Battle Monuments Commission), ha visto la partecipazione del partigiano carrarese Giorgio Mori e ha avuto il riconoscimento del veterano di guerra britannico Harry Shindler (96 anni, militare sulla Linea Gotica), che ha scritto un discorso di cui è stata data lettura durante la manifestazione.

Durante la Seconda guerra mondiale, Fontia rappresentava un centro strategicamente importante per la Wehrmacht. Su ordine del Feldmaresciallo Albert Kesselring la zona rientrava nella Linea Gotica, il sistema difensivo realizzato dai tedeschi per fronteggiare l’avanzata degli Alleati. L’Organizzazione TODT costruì diverse postazioni tobruk, bunker e trincee, tuttora visibili.

03A Santa Lucia si trovava l’osservatorio tedesco da cui venivano diramati ordini per i cannoni a lunga gittata presenti sul promontorio di Punta Bianca. Proprio per questo Fontia e Santa Lucia furono teatro di aspre battaglie durante l’avanzata della Quinta Armata USA che battezzò quel luogo “Hill 366”. Tra i militari caduti per la liberazione dell’Italia nel territorio carrarese c’è stato il Lieutenant-Colonel John James Phelan, decorato della Silver Star, caduto nei combattimenti svoltisi per la conquista dell’osservatorio tedesco di Santa Lucia.

L’iniziativa ha avuto inizio con gli onori al cippo che ricorda l’incendio del paese e ha visto la partecipazione degli studenti delle scuole del territorio (Scuola Media “A. Dazzi” e ITC “D. Zaccagna”). La giornata del 7 ottobre è stata l’occasione per ricordare non solo l’incendio del borgo, ma per raccontare, attraverso una mostra, allestita nei locali della Pubblica Assistenza di Fontia, gli importanti avvenimenti e combattimenti svoltisi per la liberazione del paese durante la Seconda guerra mondiale.

E’ stata riaperta al pubblico la Cappella di Don Dario Fazzi, il coraggioso parroco di Fontia che difese la popolazione del paese durante i 20 terribili mesi dell’occupazione nazi-fascista, sulla cui lapide il Sindaco di Carrara Francesco De Pasquale ha deposto una corona.

Dopo la Messa in suffragio delle vittime della guerra, celebrata nel vicino Santuario di Santa Lucia, si sono svolti gli interventi delle autorità . Dopo il saluto del Sindaco, sono intervenuti: la senatrice Laura Bottici, il consigliere regionale Giacomo Bugliani e il segretario ANPI della sezione di Carrara Ferdinando Sanguinetti. Toccante la testimonianza della sig.ra Eda Corsini, che nel 1944 era una bambina, ha ricordato Don Dario Fazzi, che rischiò la vita pur di salvare i suoi paesani. Il Presidente della Pro Loco di Fontia Cristiano Corsini ha letto una lettera che Don Fazzi scrisse nel 1970 a Dusseldorf in occasione dell’incontro dei reduci della 148ª Divisione di fanteria tedesca. Don Fazzi dopo la guerra si impegnò² nella ricostruzione della Chiesa di Santa Lucia, distrutta dai bombardamenti, con il progetto di fare di quel colle dove si erano scontrati uomini di diverse nazionalità, un luogo dedicato alla pace. L’orazione ufficiale è stata affidata al Dott. Pierpaolo Ianni che ha ricordato l’importanza della Resistenza e ha tratteggiato il profilo di Don Fazzi e del Lieutenant-Colonel Phelan. Nel suo intervento ha inoltre descritto quanto emerge dal diario della 473rd United States Infantry, che costituisce una fonte essenziale per ricostruire quanto avvenne in quei drammatici giorni del 1945 tra Fontia e Santa Lucia. La giornata si è conclusa con il discorso di Angel Matos, Direttore del Florence American Cemetery, e lo scoprimento di una targa in marmo in memoria del Lieutenant-Colonel John James Phelan (1914-1945).




San Francesco… da Fiesole

«La I.C.S.A. ha il suo Stabilimento a pochi chilometri da Firenze ai piedi delle suggestive colline di Fiesole. Lo Stabilimento ha un’estensione di mq. 50.000 completamente cintati. Il nuovo Teatro di posa copre la superficie di oltre mq. 18000; il secondo Teatro, attualmente in costruzione, coprirà i 3.200 mq. […] Nelle vaste estensioni di terreno rimanenti, sono le ricostruzioni di gran parte della vecchia Assisi, fra le quali sotto la vigile ed intelligentissima direzione del Conte Giulio Antamoro, stanno svolgendosi le azioni del film». Così «L’Eco del Cinema. Periodico cinematografico mensile», diretto dal produttore Carlo J. Bassoli, presentava nel «Numero speciale francescano», dell’ottobre 1926 lo scenario in cui si stava girando il primo vero e proprio kolossal italiano su una figura di un santo nella storia del cinema italiano. Il Frate Francesco, uscito nel 1927 e diretto da Giulio Antamoro, fu dunque un evento eccezionale per l’epoca, connesso alle grandi celebrazioni che i vertici ecclesiastici e lo Stato italiano vollero dedicare al VII centenario della nascita di San Francesco d’Assisi. Per l’occasione venne dunque ricostruita quasi per intero un’Assisi medievale alle porte di Firenze, per quella che giornali e riviste dell’epoca descrissero come un’impresa cinematografica «senza alcun dubbio destinata a varcare tutti i confini ed a spargersi per tutto il mondo» e «un’opera concreta di risorgimento dell’Industria Nazionale a fini economici e di utilità generale».

18277441283_cc18e08809L’evento centenario francescano giungeva in un frangente particolare sia per la storia delle relazioni tra Stato e Chiesa sia per la storia del cinema italiano. Ecco perché questo film si presta meglio di altri a chiarire le articolate dinamiche che governarono la rappresentazione dei santi sugli schermi fascisti in un quadro di reciproche strumentalizzazioni tra Chiesa e regime. Nel numero speciale de «L’Eco del Cinema» sopra menzionato, il direttore Bassoli, dopo aver magnificato il ruolo del «magnifico Duce del fascismo» nel «glorificare la sublime opera francescana», fece notate che la produzione cinematografica dell’Italia fascista, in tutte le sue varie componenti, si era assunta «il compito nobilissimo» di «diffondere l’idea francescana»:

Industriali intelligenti, uomini preclari della politica, della nobiltà e del commercio – scrisse Bassoli – superando sacrifici e contrarietà d’ogni genere, si sono raccolti volenterosi per la realizzazione della vicenda del Poverello di Dio, in una iconografia grandiosa che affermerà al mondo ancora una volta l’inesauribile vitalità del genio italico e la decisa affermazione di una nuova vita della Industria Cinematografica italiana.

È fuor di dubbio che gli anni del fascismo rappresentino il periodo in cui anche nella cinematografia italiana  fu più evidente lo sforzo di proporre una legame che congiungesse in modo singolare l’Italia ad alcune specifiche figure canonizzate dalla Chiesa. Nel caso del film su san Francesco d’Assisi, tutta l’architettura promozionale dell’evento cinematografico fu centrata sull’appellativo coniato da Gabriele D’Annunzio nella celebre orazione tenuta in Campidoglio nel 1919: «il più italiano dei santi, il più santo degli italiani». Gli scopi del fascismo furono duplici: non solo utilizzare il potere sempre più pervasivo del mezzo cinematografico per promuovere una coniugazione del culto a san Francesco che assecondasse la celebrazione della nazione, tra i cardini  della cultura politica fascista; ma anche impiegare la fama internazionale di un «grande italiano» per rialzare le sorti di una industria nazionale del cinema giunta al suo punto più basso dopo i fasti degli anni Dieci.

Un’iniziativa che fu sposata senza troppe riluttanze anche dalle gerarchie della Chiesa, in un momento di rimodulazione dei canoni su cui informare le tattiche di promozione dei santi in un periodo in cui era in atto un’accelerazione del percorso che avrebbe condotto alla Conciliazione tra l’Italia e la Santa Sede. La stampa evidenziò non solo l’«appassionata ed entusiastica collaborazione morale» dei francescani, ma anche che il soggetto cinematografico aveva ottenuto l’imprimatur del Vicariato romano, il che era «indice di sicura adesione da parte della Santa Sede». Corrispondenze evidenti che tuttavia non impedirono che risaltassero tra i cattolici i pericoli collegati a questa forma innovativa di divulgazione della santità: ad accendere le ire del danese Johannes Jørgensen, coinvolto direttamente nella sceneggiatura e autore nel 1911 del fortunatissimo volume la Vita di S. Francesco, fu l’ammiccante inserimento nel film di una sottotrama rosa – «l’avventura di Arnaldo di Sassorosso e della sua amante Misia di Leros» – tributo al mainstream hollywoodiano.

* Gianluca della Maggiore è assegnista di ricerca in Storia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa di cinema, Resistenza e movimenti politici.




Abbasso la guerra, viva la rivoluzione!

Questa breve nota storica comincia da venticinque anni dopo i fatti che ne sono l’oggetto. Frugando fra i documenti del Casellario Politico Centrale del periodo fascista mi capitò di incontrare, ormai diverso tempo fa, il nome di Natalina Barbieri, arrestata a Siena nel 1942 perché in una salumeria, mentre “la proprietaria del negozio affettava il salame, si permise di fare delle odiose e sboccate allusioni dicendo: vorrei affettare la fava di Mussolini”. Frase che – forse la spia fu la salumiera, forse un’altra cliente – le costò la condanna al confino. Nella sua scheda, oltre alle consuete, nelle relazioni del Casellario, notizie denigratorie – vedova di guerra unita more uxorio con un sovversivo, dedita al vino, sboccata – lessi anche che nel 1917, poco prima di venire a trovarsi in stato di vedovanza – il marito sarebbe morto in Albania nel 1918 –, aveva partecipato, a Sinalunga dove era nata nel 1889 e dove allora risiedeva, ad una manifestazione piuttosto burrascosa. Era un indizio che confermava che alcune proteste contro la guerra, di cui si aveva, fino ad allora, soltanto vaga e frammentaria memoria, si arano verificate anche nel territorio senese. Magari in forma meno estesa ed eclatante che in altre zone della Toscana, ma pur sempre significativa.

In seguito, grazie agli studi preparatori della mostra “Fotografi in trincea. La Grande Guerra negli occhi dei soldati senesi” (2016), curata da Gabriele Maccianti, venne individuato, all’Archivio Centrale dello Stato, un fascicolo che ha consentito una ricostruzione finalmente più puntuale e ha innescato la possibilità di altre ricerche negli archivi comunali e giudiziari.

Oggi è dunque possibile raccontare, anche con una certa dovizia di particolari, le manifestazioni che si verificarono in due distinte zone della provincia di Siena, il Chianti (Radda 7 maggio; Gaiole 8 maggio) e la Val di Chiana (Sinalunga 6 gennaio; Montepulciano e Chiusi 6 agosto), nel contesto più ampio di gesti individuali e di parole contro la guerra il cui moltiplicarsi, proprio nel corso del 1917, è attestato dal notevole aumento delle denunce e dei processi contro chi si comportava in modo tale da “deprimere lo spirito pubblico e altrimenti diminuire la resistenza del paese o recar pregiudizio agli interessi connessi con la guerra e con la situazione interna internazionale dello Stato”.

A Sinalunga furono circa trecento le donne e i ragazzi che, dalle campagna circostanti, si diressero in paese aggregando man mano una folla di un migliaio di persone. I carabinieri chiesero rinforzi, ma sorpresi dall’evento di cui non avevano avuto sentore, furono nell’impossibilità di disperdere la manifestazione, durante la quale vennero lanciati sassi che infransero i vetri di alcuni uffici pubblici e delle case del sindaco e di altri amministratori comunali. Meno violenta, ma comunque intensa risultò la protesta di fronte al municipio di Chiusi durante la quale fu deciso di rifiutare il sussidio statale spettante ai parenti dei richiamati, come atto di insubordinazione verso uno strumento che sembrava voler favorire la prosecuzione del conflitto. Alla periferia del centro abitato di Montepulciano furono invece fermate, ma non senza tafferugli, le donne provenienti da Acquaviva e da Abbadia, quest’ultima località già teatro, nell’agosto del 1916, di un assembramento di fronte alla villa di un possidente per chiedere che il prezzo del grano non venisse aumentato, assembramento conclusosi in una sassaiola per l’intervento troppo rude di un fattore verso le manifestanti. Sempre nella zona fra Acquaviva e Abbadia di Montepulciano, nel medesimo periodo venne lanciato un appello clandestino alle famiglie mezzadrili affinché si rifiutassero di seminare il tabacco perché sottraeva terreno e forza lavoro alle colture alimentari tanto più indispensabili nella penuria del tempo di guerra, iniziativa che, accompagnata da due incendi dolosi, preoccupò molto i grandi proprietari terrieri e le autorità.

Chiara è la matrice sociale e di genere di questi sommovimenti, così come confermato anche dagli elenchi degli arrestati, composti per la stragrande maggioranza da nomi di donne, quasi tutte salariate agricole, qualcuna mezzadra, qualche altra “dedita alla casa”. Più difficile dirimere il rapporto fra spontaneità e organizzazione. Indubbiamente i disagi e i lutti causati da un conflitto di cui, nonostante le offerte dei pace degli Imperi Centrali di fine 1916, non si intravedeva il termine, la certezza che ogni giorno in più di combattimenti avrebbe causato chi sa quanti ulteriori morti e feriti, i vuoti affettivi delle assenze, i racconti delle sofferenze, dei rischi, delle insensatezze di tante azioni militari al fronte fatti da quanti tornavano in licenza, ne costituirono la base materiale e psicologica. La sola richiesta di riavere vivi ed integri i mariti, figli, fratelli era di per sé un possente elemento di comunità di intento avverso al conflitto e al suo perdurare, senza il bisogno di troppi indirizzi e indottrinamenti politici. Ma almeno in Val di Chiana – più incerta è la valutazione nel Chianti, dove forse andrebbe studiata con molta attenzione la presenza di un clero orientato dal vescovo di Arezzo che fu, in Toscana, fra i più ostili al conflitto – traspare una regia di matrice socialista.

Traspare nelle convocazioni effettuate non solo con il passaparola, ma anche con i manifesti, traspare nel fatto che l’epicentro del movimento furono le località in cui il socialismo, con le sue strutture organizzate e le sue sedi, era più radicato, traspare in obiettivi quali il rifiuto del sussidio o in parole d’ordine esplicite come quella annotata nella sentenza che condannò le donne di Abbadia di Montepulciano per i fatti del 1916, e cioè “abbasso la guerra, vogliamo la pace, viva la rivoluzione”.




Guerra, fame, malattia

La pandemia d’influenza “spagnola” scoppiò nell’autunno 1918, quando la Grande Guerra stava terminando. Nessun angolo del globo fu risparmiato: la malattia si diffuse rapidissima, grazie ai traffici di uomini e mezzi causati dal conflitto. Nei Paesi occidentali, la macchina statale fu messa in ginocchio mentre altrove, come in Africa, la malattia stravolse ritmi economici e produttivi cristallizzati da decenni. Nel mondo, il virus uccise tra 24 e 100 milioni di persone, con un indice di mortalità tra i 2,5 e i 21,7 decessi ogni 1.000 abitanti. Le vittime prescelte della malattia furono le persone nella fascia d’età dai venti a quarant’anni: infatti, la spagnola sviluppò complicazioni non tanto negli elementi deboli o malnutriti, quanto tra gli individui più sani e forti.

L’Italia fu tra i Paesi europei che più soffrirono della pandemia: le stime, discordi tra loro, oscillano tra 600.000 e 350.000 morti. La difficoltà a ricostruire una storia e una statistica della malattia in Italia è diretta conseguenza dell’oppressiva censura imposta dal governo. I bollettini sanitari vennero contraffatti e ai giornali fu imposto di pubblicare notizie rassicuranti. Le autorità vietarono persino i normali riti funebri. L’interesse del governo fu tutelare lo sforzo bellico in un momento decisivo, mentre il virus avanzava nel fronte interno. La Toscana risultò la regione centrosettentrionale più colpita, stimando circa 30.000 morti.

La malattia investì tutta la regione, ma ebbe conseguenze più nefaste nella provincia. In queste zone limitrofe, i costi e le necessità della guerra avevano ridotto al minimo i servizi essenziali. In questa casistica rientra Pistoia, all’epoca parte della provincia di Firenze, dove fin dal 1915 le condizioni delle classi meno abbienti, per l’aumento del costo della vita, erano peggiorate. Le condizioni sanitarie, già precarie nell’anteguerra per lo sconquasso finanziario dei Regi Spedali del Ceppo, si deteriorarono per il passaggio giornaliero di truppe e per la mancanza di medici. Alla situazione non giovò, dopo Caporetto, l’afflusso in città dei profughi veneti bisognosi di assistenza.

L’influenza pandemica si manifestò l’area pistoiese dalla metà di settembre, contagiando dapprima le fasce più esposte come i funzionari della pubblica amministrazione. All’inizio dell’emergenza, il sottoprefetto invitò i cittadini ad avere cura della propria igiene – facendo ricadere la responsabilità della malattia sul singolo – mentre raccomandò i sindaci di smentire «ogni notizia che abbia carattere di gravità». Minimizzare l’esplodere del contagio fu l’obbiettivo anche della stampa locale. Il periodico «La Difesa religiosa e sociale» affermò che «uno dei mezzi più efficaci per andare immuni dal contagio è quello di non avere paura. Morale alto, ecco il miglior disinfettante, e insieme con questo morigeratezza di vita e preghiera umile a Dio». Il giornale consigliava quale rimedio l’uso di stimolanti come il caffè.

In ottobre, tuttavia, la situazione precipitò. Il prefetto decretò la chiusura dei cinematografi e delle scuole. Il vescovo di Pistoia e Prato, Gabriele Vettori, impose la disinfezione dei luoghi di culto e delle acquasantiere, e raccomandò di areare le Chiese prima e dopo le funzioni. Il vescovo, però, decise di non sospendere o limitare le messe.

Il sistema di approvvigionamento annonario divenne difficoltoso per la mancanza di manodopera, in larga parte contagiata dalla spagnola. Le lunghe file fuori dai negozi si ingrossarono, diventando tra i principali vettori del virus. Il Comune emanò misure contro gli affollamenti e fu limitato ai malati l’accesso ai punti di distribuzione. Nonostante i divieti, molti malati, per timore di non ricevere la propria quota, si recavano ugualmente nei luoghi preposti all’approvvigionamento, esponendo al contagio i cittadini ancora sani. L’amministrazione di Pistoia, sull’esempio di altre città, istituì delle rivendite alimentari riservate agli ammalati in possesso di certificato medico.

La spagnola decretò il collasso dei Regi Spedali: la struttura completò la sua crisi finanziaria e amministrativa, tanto che la prefettura di Firenze dovette commissariarla. La mancanza di medici – buona parte era stata richiamata al fronte – lasciò intere condotte, soprattutto della montagna, con poca assistenza. I dottori rimasti operavano in condizioni disagiate e senza i mezzi di trasporto necessari a coprire le grandi condotte. Diversi medici, debilitati dai massacranti turni di lavoro, furono contagiati e tornarono a lavoro solo dopo lunghe convalescenze. Non mancarono casi eclatanti. Scoraggiato dalla grave situazione, il dottor Lai abbandonò la condotta di Cireglio. L’amministrazione comunale, minacciando di denunciarlo, impose al dottore di riprendere servizio. Dietro la diserzione del medico, si celava il malessere per le estreme condizioni in cui operava.

A metà ottobre, la situazione era talmente grave che la Misericordia di Pistoia si trovò senza i cavalli sufficienti per trasportare il gran numero di salme. Scarseggiavano persino le casse da morto tanto che il sindaco ordinò alla direzione ospedaliera di far trasportare i cadaveri «avvolti in un lenzuolo bagnato con disinfettante». Soltanto davanti alle proteste dei necrofori, il Comune ritirò la misura e attese la fabbricazione di nuove bare.

Davanti all’incapacità di aiutare la popolazione, le autorità pistoiesi si posero in linea con quelle nazionali: la spagnola andava censurata. Fu imposta la chiusura dei cimiteri per la festa del 2 novembre, per «evitare l’immancabile depressione degli animi allo spettacolo evidente e palpabile della tanta mortalità». Furono approntate nuove norme per il trasporto dei feretri al cimitero, che doveva avvenire «nelle prime ore della sera e anche nelle prime ore della mattina».

A metà novembre, le condizioni sanitarie migliorarono timidamente: il prefetto riaprì i cimiteri benché il contagio non fosse concluso, come si intuisce dalla colletta «pro vitanda mortalite finché non sia cessato il morbo influenzale» promossa dal vescovo. Ai primi di dicembre le condizioni della città tornarono alla normalità: il provveditore della provincia di Firenze decise per la riapertura delle scuole. La spagnola lasciò dietro sé molti strascichi nella popolazione, colpita da innumerevoli lutti, come nelle autorità. Nel timore di nuovi episodi pandemici, il Comune progettò l’ampliamento dei cimiteri per far fronte a improvvisi picchi di mortalità.

Un conteggio preciso del numero dei morti nell’area pistoiese non è di facile stima: le fonti documentarie sono lacunose e vari decessi riconducibili alla spagnola furono refertati sotto altre cause (come le polmoniti). Stando ai pochi dati a disposizione, si può ipotizzare un numero di morti per la spagnola oscillante tra le 1.500 e le 1.800 persone nel pistoiese.

Francesco Cutolo si è laureato in Storia contemporanea all’Università di Firenze con una tesi sull’influenza spagnola. Lo scorso giugno è stato eletto nel Consiglio direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, con cui da anni collabora. A novembre inizierà il dottorato in Storia presso la Scuola Normale di Pisa.