1

Un archivio di vite sospese.

La nascita del centro di accoglienza della Rugginosa si deve alla volontà di creare a Grosseto una struttura civile dove i migranti sbarcati nel sud Italia potessero trovare immediato alloggio, ricevere le cure di base ed essere informati sulle operazioni necessarie per la definizione della loro posizione giuridica. Fu a questo scopo che nel giugno 2014 l’ex asilo della Rugginosa, posto ai margini della statale Aurelia Antica, fu riorganizzato per garantire, oltre a posti letto sufficienti per ampi gruppi, anche il vitto e le cosiddette cure tutelari.

migranti01

Mama Africa, maggio 2015

La storia del giacimento documentario della Rugginosa inizia con i primi arrivi dei migranti avvenuti nel 2014 e copre un arco cronologico di circa 4 anni, in cui si è registrato il passaggio di più di 2000 persone. Arrivati in autobus per lo più dopo aver attraversato il Mediterraneo su barconi –della drammaticità del viaggio rimane traccia in tanti scritti e disegni–, i migranti rimanevano qualche giorno alla ex scuola materna della Rugginosa in attesa dei necessari rilievi sanitari, in un ambiente essenziale, ma accogliente agli occhi stanchi di chi arriva dall’inferno, trovavano ristoro, un letto, degli abiti puliti. Portavano addosso ancora il dolore, le ferite di un dramma iniziato molto tempo prima. Ecco che le famiglie, uomini, donne, ragazzi e bambini si trovavano subito accolti, si distendevano, si riposavano dopo un’esperienza dolorosa e terribile durata a lungo e terminata solo in quell’istante.

Un ruolo chiave ebbe la trasformazione stessa dell’edificio, progressivamente adattato alle esigenze della vita quotidiana e alla condivisione di spazi e tempi fra gli operatori e gli “ospiti” della struttura, che venivano coinvolti nella sua gestione. Le attività pratiche, le prime lezioni di italiano, il dialogo con i mediatori, che approdava di solito nel racconto della propria storia, fecero parte quindi di un’insieme di azioni messe in campo per riempire le lunghe giornate e, allo stesso tempo, migliorare l’instaurarsi di quelle prime relazioni umane che sono alla base dell’accoglienza e dell’integrazione. I migranti trovavano umanità e sostegno e, rassicuratisi, nelle poche giornate di riposo e attesa di una nuova collocazione, iniziavano a disegnare, a scrivere, a raccontare. Il disegno, la narrazione per immagini o il semplice gesto del “creare insieme”, diventavano allora un canale di comunicazione immediato, libero dai vincoli linguistici e comunicativi.

I disegni venivano appesi al muro, le stesse pareti si riempivano di scritte, pensieri, immagini. Chi lasciava il centro dopo la sua breve permanenza, lasciava una traccia, un messaggio che presto veniva emulato e ripetuto da chi arrivava dopo, in una sorta di passaggio del testimone. Nel corso degli anni i migranti della Rugginosa hanno realizzato, ciascuno secondo le proprie capacità, disegni o opere più complesse, dai murales alle incisioni con la tecnica dell’aerografo, dalle semplici impronte delle mani che i più piccoli, con la guida degli operatori, lasciano sul foglio, più un gioco che non una intenzione narrativa, ai collage che gli adolescenti realizzano ritagliando dalle riviste fotografie di famiglie sorridenti, macchine sportive, tavole imbandite con frasi semplici e incisive a ribadire il messaggio “In future”.

miganti03

Impronte di bambini eritrei, luglio 2015

Così è nato il deposito dei documenti della Rugginosa, composto da disegni che non sono dei semplici segni sulla carta, scarabocchi tracciati per ammazzare il tempo, o ritagli di giornale; sono segni di memorie e di speranze, fissano uniche e irripetibili emozioni di chi ha appena lasciato un mondo e ne trova un altro, e vi proietta speranze e preghiere. Sono documenti che testimoniano una storia viva, fatta di qualche oggetto, parole e immagini, ma anche di carne e sangue e raccontano di un centro di prima accoglienza che ha progressivamente assunto il valore di un piccolo esperimento di integrazione. Emerge con forza dunque la peculiarità di questo giacimento documentario: l’archivio è un segno, dato di un fenomeno che è transitato nel cuore del territorio grossetano, traccia di una realtà lontana e defilata rispetto alla città e alle sue mille facce. Grosseto non se ne è accorta, era altrove, mentre alla Rugginosa si impegnavano risorse, energie, competenze e c’era bisogno di dedizione coraggio e umanità. Le carte, che potrebbero essere buttate o finire tranquillamente in qualche ripostiglio in attesa di essere dimenticate o distrutte dal tempo, vengono prese a cuore dagli operatori, sono conservate, divengono oggetto di interesse da parte del direttore del Coeso Fabrizio Boldrini, storico di formazione, che ne avverte il profondo valore storico, umano e civile.

Dal punto di vista archivistico, le memorie e i disegni prodotti dai migranti della Rugginosa costituiscono un archivio inconsueto. La sua peculiarità è il fatto stesso di essere nato qui, sotto i nostri occhi, divenuto un archivio di memorie ancora in formazione, mentre il presente trascolora divenendo storia da interpretare e da scrivere. Non figura nei manuali di archivistica niente di simile. Non esistono casi analoghi da cui trarre modelli o ispirazione. La conservazione e dunque il riordino, affidato all’Isgrec, si è rivelato da subito un’importante e difficile sfida, sin dalla sua fase progettuale. Infatti, non si tratta nemmeno di un materiale classico, che per consuetudine di studi, possiede già un metodo di analisi e un sistema consolidato di archiviazione. Il materiale per la sua natura complessa ed eterogenea richiede l’incrocio di competenze diverse: vi sono disegni che vanno descritti, ma anche testi che si intrecciano alle immagini e sono scritti in varie lingue a comporre un mosaico estremamente multiforme e vivido di esperienze tutte umane.

192

Disegno di un giovane nigeriano, settembre 2014. E’ riconoscibile in basso il palazzo delle poste di Grosseto

I disegni, poi, sono stati fatti usando ogni tipo di carta disponibile, dalla normale carta da fotocopiatrice a fogli di album, in qualche caso, a carta grezza da pacchi o a semplici tovagliette usa e getta per i pasti consumati in comune. Ad esempio, fa parte del giacimento documentario un corpus di 26 fogli ricavati da tela cerata con logo UNHCR, fittamente coperti di testi in lingua eritrea, sia sul recto che sul verso, che recentemente tradotti, hanno restituito un epistolario di un gruppo di eritrei passati dai campi della Libia, singolare testimonianza di vite sospese. Sono stati per lo più usati pennarelli, ma anche tempere penne e matite. In qualche caso alcuni ragazzi hanno utilizzato le superfici delle pareti del centro di accoglienza per esprimersi e creare evocative immagini di speranza, scrivere frasi di ringraziamento per gli operatori, o pensieri sulla terra appena lasciata.

Pertanto, per la estrema varietà e per la deperibilità dei materiali, talvolta per qualche tempo esposti alla luce diretta, i materiali sono stati digitalizzati nell’ottica di costruire un sito da cui in futuro poter attingere on line favorendo e promuovendone l’utenza. Si è elaborata una scheda descrittiva che tenesse conto delle caratteristiche fisiche del documento e del suo supporto, unitamente alle tecniche utilizzate per produrlo, ma che consentisse anche la trascrizione il più possibile fedele dei testi e la loro traduzione, per permettere di individuare parole chiave che potessero consentire ricerche per argomento, per nazione di provenienza dell’autore, per lingua, ma anche per le immagini utilizzate, i simboli, gli elementi figurativi.

Lunga e seria è stata la riflessione sui temi legati alla classificazione e alla creazione di possibili serie archivistiche e la revisione incessante del lavoro di analisi e catalogazione anche alla luce degli elementi che progressivamente sono emersi durante il lavoro di schedatura. Su tutti, tuttavia, il criterio per l’ordinamento e la collocazione delle schede descrittive che appare preminente è quello cronologico, che va a ricostruire le ondate degli arrivi delle persone migranti che, iniziati nel 2014, hanno visto una notevole crescita ed intensificazione negli anni 2015 e 2016, per poi diminuire quasi scomparire nel 2018 a seguito delle politiche ministeriali. Dunque, prevale il criterio storico-cronologico legato all’evolversi delle vicende geopolitiche che fanno sfondo alle esperienze umane dei migranti ma ne costituiscono pure il sostrato profondo e il motore principale.

migranti06

Foto di un murales nelle stanze del centro di prima accoglienza. Un pick-up pieno di persone attraversa il deserto

Tutto questo lavoro non sarebbe stato possibile senza il continuo confronto con gli operatori che hanno fornito ogni tipo di informazione e supporto utile per la contestualizzazione e la corretta lettura dei materiali, elemento imprescindibile per la loro descrizione e catalogazione.

Del passaggio dei migranti e delle loro vite sospese tra due mondi rimangono circa 520 disegni e 31 lettere, alcuni raccoglitori di cartelle cliniche, qualche oggetto. Dall’analisi complessiva affiorano nitidamente alcuni filoni tematici principali: espressioni di riconoscenza, la percezione dell’Italia e degli italiani, il racconto del viaggio affrontato per arrivare sulle coste italiane, il pensiero per la famiglia lontana e per il paese di provenienza, i desideri e gli auspici.

I ringraziamenti sono rivolti all’Italia, alla popolazione e alle istituzioni italiane, alle ONG che operavano nel Mediterraneo, alla Croce Rossa, alle forze dell’ordine e all’esercito. I nomi degli operatori della struttura vengono spesso citati nei documenti, accompagnati da espressioni di riconoscenza e affetto. L’Italia viene percepita come la “patria della protezione”, una “casa della pace”, dove regnano “l’uguaglianza, la fraternità e il rispetto dei valori umanitari”. In alcuni documenti è descritta come la “land of milk and sugar” o il “milk and honey”, attribuendole quindi una valenza simbolica di “terra promessa” o “paradiso terrestre”. In contrapposizione, la Libia viene spesso descritta come un “inferno”, un “penitenziario a cielo aperto”, un posto in cui “è meglio non rimanere” e dove “gli arabi uccidono le persone di colore”. Essi vengono descritti come figure vessatorie, che trattano i migranti come “schiavi”, “animali” e “strumenti di lavoro” e che estorcono loro denaro e averi.

migranti11

Trad.: Sotto il rifugio di un sole caldo noi facciamo i nostri sinceri ringraziamenti all’Italia e alla Croce Rossa. Noi saremo riconoscenti verso la nazione italiana fino alla fine della nostra vita. Senza dimenticare Lobna, Sarah, Cinzia e le loro colleghe. Lettera di ringraziamento di giovani della Guinea, settembre 2014

Il viaggio affrontato è un argomento ricorrente ed è sempre descritto come un’esperienza estremamente drammatica. In alcuni documenti si fa riferimento alla traversata nel deserto ma le più numerose sono le descrizioni del viaggio via mare per raggiungere l’Italia: nei disegni sono rappresentate spesso le imbarcazioni sovraffollate, dalle parole trapela la paura e lo sgomento. Alcuni ricordano di aver pensano ai propri cari, altri di aver pregato Dio di salvarli, altri ancora raccontano delle urla e dei pianti. Sovente i migranti raccontano delle operazioni di salvataggio, con riferimenti all’umanità e alla competenza dei soccorritori.

Anche il tema degli affetti è molto presente. C’è chi esprime affetto per la propria madre, chi sente la mancanza dei genitori e degli amici e si augura di rivederli. C’è poi chi parla con amore e nostalgia della moglie e dei figli rimasti in patria e spera che un giorno possano raggiungerlo. I migranti molto spesso menzionano il proprio paese di provenienza, non sempre in chiave positiva. I più hanno lasciato la propria terra a causa di guerre, di problemi economici e familiari, della violenza etnica, della mancanza di libertà di parola, dell’etnocentrismo, della corruzione e delle dittature.

migranti05

Foto del murales in uno dei locali del centro di prima accoglienza

Frutto di una precisa contingenza storica, l’archivio di migranti della Rugginosa colpisce anche per la potenza espressiva di tali disegni, per l’immediatezza comunicativa delle testimonianze, capaci di astrarre le sofferenze di quegli uomini e donne per renderle esempi universali del dramma delle migrazioni del nostro tempo. Oggi il centro della Rugginosa è chiuso, la situazione è cambiata, è sfumata per trasformarsi in altro, esito di leggi frutto di politiche che mutano. Tuttavia, ciò che è accaduto in luoghi come la Rugginosa chiede uno spazio di analisi e di riflessione, solleva domande e sollecita le coscienze su qualcosa che è già storia e non deve essere dimenticato. Per questo presto sarà on line una mostra virtuale con un’ampia selezione del materiale. Sono previsti progetti didattici con le scuole e un documentario, che ripercorrerà la storia del centro di prima accoglienza, degli operatori, dei suoi ospiti.




Carmignano nel secondo dopoguerra.

Per la realizzazione di una ricerca sul Carmignanese alla quale stiamo attendendo, abbiamo avuto di recente un interessante colloquio con Riccardo Cammelli, autore de Il Poggio e il Campano (Carmignano, Attucci, 2017), una dettagliata ricostruzione delle vicende che portarono alla nascita del Comune di Poggio a Caiano. Ne proponiano il testo ai lettori di ToscanaNovecento.

 Qual era la situazione a Carmignano dopo la liberazione?

A Carmignano, come nel resto della Toscana, la guerra aveva prodotto danni molto seri. I collegamenti con Firenze, con Prato, con Vinci e con il resto del Montalbano erano problematici a causa delle condizioni delle strade; le case e gli edifici scolastici erano da ricostruire, l’acquedotto non esisteva (i pozzi erano insufficienti e c’era chi pativa la sete). Si tenga presente che a quell’epoca le opere pubbliche – alpari dei piani regolatori – dovevano passare dal vaglio ministeriale, e l’attesa dell’approvazione da Roma rallentava molto la loro realizzazione.

Ed il quadro politico?

Dal punto di vista politico, Carmignano rappresentava (insieme con l’alto Mugello, cioè con i comuni di Firenzuola, Londa, Marradi, San Godenzo e Palazzuolo sul Senio) una delle isole bianche in provincia di Firenze (quello del capoluogo, sotto questo profilo, era un caso più complesso, con caratteristiche sue proprie). Per la DC fiorentina il Carmignanese, come l’alto Mugello, era un’area molto importante: lo era negli anni Cinquanta e Sessanta, quando essa inviò un personaggio di spicco come Ivo Butini a fare l’assessore nel comune mediceo, e lo era successivamente quando a Poggio a Caiano negli anni Settanta fu sindaco Sergio Pezzati. Per tornare alle peculiarità di Carmignano, le frazioni di Poggio a Caiano e Poggetto si distinsero da subito con il risultato del referendum monarchia-repubblica del 1946, votando in maggioranza per la prima, a differenza del resto del territorio. Alle elezioni per la Costituente la DC ebbe il 44,06% dei voti, alle politiche del 1948 raggiunse addirittura il 53,39%. Il partito cattolico governò il paese con giunte monocolori fino al 1960 e circa un terzo dei voti democristiani provenivano dalle frazioni di Poggio a Caiano e di Poggetto, dove viveva un ceto medio fatto in prevalenza di artigiani, commercianti e impiegati pubblici e privati. Il voto cattolico era rilevante anche a Carmignano, dove si registrava una forte presenza di dipendenti comunali, ed in frazioni come Artimino. Le sinistre erano più forti altrove, a Comeana, a Poggio alla Malva ed a Seano. A sinistra votavano parte dei mezzadri, i lavoratori salariati (per esempio gli operai della Nobel) e gli scalpellini di Comeana e di Poggio alla Malva.

Quali furono le principali realizzazioni dell’amministrazione comunale bianca?

Senz’altro il ripristino ed il miglioramento della rete viaria, la costruzione dell’edificio della scuola media a Poggio a Caiano e, nel 1959, l’inaugurazione dell’acquedotto, che venne poi completato negli anni successivi. Per quanto riguarda la realizzazione di quest’ultima opera, fu molto importante l’interessamento del senatore democristiano pratese Guido Bisori, all’epoca sottosegretario agli interni.

 Che giudizio ti senti di dare sugli anni in cui la DC ebbe il controllo del Comune attraverso giunte monocolori (1946-1960)?

Tenendo conto delle risorse limitate del comune – la storia è la medesima per tutti i comuni delle dimensioni di Carmignano – si può parlare di un bilancio complessivamente positivo: Giacomo Caiani e Leonardo Civinini sono stati i sindaci della ricostruzione e, da questo punto di vista, essi hanno certamente raggiunto l’obiettivo minimo: strade asfaltate, scuole di vario ordine e grado, e come già ricordato l’obiettivo fondamentale dell’acquedotto.

Nel 1961 si insediò una giunta DC-PSI presieduta dal democristiano Leonardo Civinini. Come maturò questa svolta?

Maturò per gli stessi motivi che portarono il PSI al governo del Paese: il mutato atteggiamento della Chiesa verso la collaborazione fra cattolici e socialisti dopo l’elezione di papa Giovanni XXIII (1958) e l’attenuarsi della guerra fredda. Molto importante e influente, per quanto riguarda Carmignano, fu poi l’esperienza del centro-sinistra nella vicina Firenze, avviata da Giorgio La Pira nel 1961. Il clima culturale e politico fiorentino della seconda metà degli anni Cinquanta era caratterizzato da un  grande fermento ed anticipava già di alcuni anni il portato del Concilio Vaticano secondo. Era la Firenze di Giorgio La Pira, della giovane segreteria DC di Edoardo Speranza, Nicola Pistelli, Ugo Zilletti, e più tardi di Ivo Butini e Cesare Matteini; la Firenze in cui agivano in provincia e in periferia preti “scomodi” come don Milani e qualche anno più tardi don Mazzi all’Isolotto; la Firenze in cui operava un PSI autonomista, fuori dalla linea morandiana, caratterizzando la sua azione con le aperture di Mariotti e Paolicchi. A questo proposito va ricordato l’apporto degli ex azionisti che entrarono nel PSI: Lagorio, Morales, Codignola per citarne alcuni; a questi si aggiungeva l’esperienza de Il Ponte, di Calamandrei ed Enriques Agnoletti; era infine, ma non ultima per importanza, anche la Firenze del PRG di Edoardo Detti. Ho lasciato fuori da questo elenco il PCI, alle prese con il processo di ricambio del gruppo dirigente con l’VIII Congresso. Guido Mazzoni lascia la guida del partito locale in favore degli “innovatori” Fabiani e Galluzzi, avviando così il cammino di allontanamento dal massimalismo, verso la formazione di una cultura di governo locale che già teneva conto dei “ceti medi”. Tutto sommato il panorama politico offriva qualcosa di straordinario a livello, direi, italiano: un laboratorio politico e culturale  che avrebbe finito per influire in qualche modo sulle dinamiche nazionali, certamente sul resto della provincia e quindi anche su Carmignano.

Due anni dopo fu varata la prima giunta di sinistra PCI-PSI, guidata dal socialista Guido Lenzi. Il centro-sinistra ebbe dunque a Carmignano vita assai breve. Perché?

Dopo le elezioni amministrative del 1960 ci vollero alcuni mesi di trattative per preparare la svolta di centro-sinistra e si arrivò così all’estate del 1961. Un anno dopo, nel luglio del 1962, Poggio a Caiano diventò un comune autonomo e questo segnò di fatto la fine del centro-sinistra a Carmignano. Anche durante il percorso che portò all’autonomia di Poggio, la DC pensava di mantenere comunque il governo dei due futuri comuni. Alla base di tutto ci fu un errore di calcolo da parte dei democristiani, che speravano di governare il nuovo comune, dove erano molto forti, e di tenere comunque Carmignano. L’erroneità del calcolo, che aveva forse più le sembianze di una speranza, fu appurata da Bisori: gli giungevano notizie e impressioni che volle controllare. Chiese allora al personale del ministero di effettuare delle proiezioni elettorali, che dettero questi risultati: Poggio a Caiano sarebbe stata a guida DC, mentre Carmignano sarebbe stata appannaggio dei socialcomunisti. Le speranze ed i calcoli sbagliati venivano smentiti dalla matematica. L’elemento probabilmente ignorato da chi nutriva aspettative ottimistiche derivava dalle conseguenze del distacco di Poggio, che fece scendere i due comuni sotto i diecimila abitanti. Nei comuni con meno di diecimila abitanti si votava col maggioritario e, siccome a livello regionale esisteva un accordo fra socialisti e comunisti per le alleanze nel governo locale, ciò rese impossibile la prosecuzione dell’alleanza DC-PSI.

 Puoi riassumere brevemente le ragioni su cui poggiava la richiesta di autonomia di Poggio a Caiano?

La richiesta di autonomia avanzata nel 1957 aveva due precedenti: altre due richieste – formulate rispettivamente prima della grande guerra e durante il fascismo – erano state infatti respinte. La richiesta del 1957, sostenuta da una raccolta di firme, andò invece in porto entro cinque anni. I fattori della spinta all’autonomia erano di tipo economico, politico ed identitario. Le frazioni di Poggio a Caiano e Poggetto erano in buona parte composte, come già ricordato, da imprenditori, artigiani, commercianti e impiegati. Un ceto medio cosciente del fatto che il comune di Carmignano stesse viaggiando a due velocità: di fronte al boom economico appena iniziato, la parte agricola e collinare stava decadendo, mentre le zone urbanizzate della piana erano partecipi dello sviluppo. L’elemento economico si fondeva con quello politico: la richiesta di autonomia fu facilitata dal fatto che il colore politico dei richiedenti era lo stesso del governo centrale. La DC di Poggio a Caiano riuscì ad interessare e coinvolgere nel percorso il segretario provinciale del partito, Cesare Matteini; il senatore eletto nel collegio cioè Bisori; il parlamentare Giuseppe Vedovato; in vario modo le diocesi di Pistoia e di Prato, e don Milton Nesi, responsabile dei Comitati civici pratesi. Un peso notevole ebbe infine l’elemento identitario. Poggio a Caiano, infatti, aveva sempre avuto una sua peculiarità rispetto al resto del comune: la Villa medicea (poi reale) era il centro culturale, sociale ed economico attorno al quale la frazione si era sviluppata, un “indotto” dalle molteplici valenze, a cui si aggiungeva l’Istituto delle minime suore del Sacro Cuore, altro centro “gravitazionale” religioso, culturale e sociale. Anche la geografia contribuiva a diversificare Poggio dal resto del comune: Poggio, infatti – collocata in pianura, ben collegata con la strada statale a Firenze ed a Pistoia – era sempre stata un crocevia di scambi e non per nulla aveva avuto, nei primi decenni del Novecento, il tram e il telefono, simboli di progresso e di distinzione rispetto ai centri vicini.

Quali sono stati, a tuo parere, gli eventi più importanti nella storia di Carmignano nel secondo dopoguerra?

Sul piano politico va ricordato che Carmignano fu a guida DC fino al 1963, ma certamente merita attenzione la breve e dimenticata parentesi del centro-sinistra ed il distacco di Poggio a Caiano, che portò le sinistre alla guida del Comune. Su quello economico la crisi della mezzadria, maturata negli anni Cinquanta-Sessanta, con le sue enormi conseguenze a livello sociale.

 È corretto affermare che, dopo la fine dell’istituto mezzadrile, Carmignano si è riassestata sul piano economico, trovando un equilibrio che si basa, da un lato, su un’agricoltura che fornisce prodotti di nicchia (vino ed olio, in primo luogo) e, dall’altro, su un temperato sviluppo industriale?

Sì, l’affermazione è corretta. Nel 1961, come ricordò il sindaco Leonardo Civinini in consiglio comunale, c’erano già 2.500 pendolari (su poco più di 4.600 attivi) che andavano verso la piana pratese e fiorentina a lavorare nel settore secondario, nell’industria e nell’artigianato. Negli anni successivi quel numero crebbe, e si ebbero due risposte all’industrializzazione: da un lato la nascita dei laboratori e degli “stanzoncini” tessili presso la casa di abitazione; dall’altro la prosecuzione del pendolarismo verso le zone produttive. Quanto all’agricoltura, sebbene vi fosse qualche fenomeno di sostituzione della manodopera con altra venuta dal sud della Toscana o dell’Italia, il numero degli addetti al settore primario scese senza sosta. Ma, in Toscana come altrove, si riuscì a convertire un dramma economico ed occupazionale in un’opportunità di sviluppo. Da un lato i due “Piano Verde” del 1961 e del 1966, e dall’altro la nascita delle regioni con le deleghe annesse, determinarono una diversa attenzione verso il settore dell’agricoltura. Le colture promiscue, miste, caratteristiche dell’era mezzadrile, lasciarono il posto alle monocolture ad alta specializzazione della vite e dell’olivo. Un graduale ma preciso orientamento guidato dalle aziende agricole locali che hanno consentito di offrire quelle eccellenze del territorio che sono oggi il vanto dell’area carmignanese e poggese. Relativamente agli anni più recenti, va tenuto presente anche lo sviluppo dell’agriturismo, dovuto ad una sensibilità, maturata nella seconda metà degli anni Ottanta, tenendo conto delle esigenze di un turismo che muta abitudini e modalità di permanenza sul territorio, e che allarga i suoi orizzonti al di fuori delle città d’arte toscane.

L’industria è concentrata soprattutto a Seano ed a Comeana (lungo la via Lombarda, l’arteria che collega Comeana stessa a Poggio a Caiano). Quali sono i rami di attività più importanti?

Lo sviluppo della parte pianeggiante del territorio carmignanese ha a che fare con lo sviluppo demografico ed economico connesso al distretto pratese, ed è legato, nei decenni più recenti, a spostamenti di persone da Firenze e Pistoia verso Carmignano e Poggio a Caiano: dalla fine degli anni Sessanta agli anni Ottanta Seano e Comeana crescono: lo sviluppo demografico si accompagna a quello urbanistico, edilizio ed economico. La pianificazione urbanistica di quei periodi, fino agli anni Novanta, prevede aree destinate alla produzione artigianale ed industriale nella zona compresa fra Prato sud, Seano e la periferia nord di Poggio a Caiano, oltre alla zona sviluppatasi successivamente lungo la via Lombarda. Il settore più importante è quello del tessile-abbigliamento, che si pone come indotto di Prato, ma ci sono anche diverse piccole aziende meccaniche.




Le Ville Sbertoli: un manicomio durante l’occupazione nazifascista

Quando si parla delle Ville Sbertoli, si fa riferimento al manicomio della città di Pistoia. Nate come Casa di Salute nel 1864 per volontà di Agostino Sbertoli e divenute poi Ospedale Neuropsichiatrico Provinciale nel 1951, le Ville Sbertoli si ergono come monumenti del passato sull’amena collina di Collegigliato, pochi chilometri a nord della città di Pistoia.

Chiuse definitivamente nel 2011 dopo numerosi cambi d’uso, dalla loro fondazione agli anni Quaranta del Novecento, hanno rappresentato un centro di ricovero estremamente raffinato e rivolto ad una clientela internazionale, cosmopolita, aristocratica e alto borghese proveniente dalle principali città italiane e dall’estero. Ancora oggi, nonostante le varie ristrutturazioni operate a partire dagli anni Cinquanta del Novecento e l’abbandono, colpisce la bellezza architettonica del complesso sviluppatosi secondo i desideri dello Sbertoli in una serie di padiglioni disseminati con uno stile liberty ed eclettico.

Malgrado i cambi di gestione, l’andamento della Casa di Salute prosegue senza discontinuità fino all’avvento del secondo conflitto mondiale, in particolar modo fino all’occupazione tedesca di Pistoia iniziata l’11 settembre del 1943 e conclusasi l’8 settembre del 1944.

Così come altre realtà, Pistoia subisce due drammatiche conseguenze derivanti dall’occupazione: i bombardamenti alleati e le persecuzioni contro nemici politici e persone di stirpe ebraica. Entrambe le vicende influiscono direttamente sull’andamento della Casa di Salute. I tre bombardamenti della città, avvenuti tra fine ottobre 1943 ed inizio gennaio 1944, inducono le autorità della Repubblica Sociale Italiana a trasferire i detenuti del carcere cittadino nei Villini della Casa di Salute. Numerosi furono i prigionieri politici, fra cui alcuni ebrei, che furono reclusi dai nazifascisti all’interno del complesso. Tra questi, vi furono anche i giovani renitenti alla leva della Repubblica Sociale Italiana che il 31 marzo del 1944, condotti alla Fortezza Santa Barbara, subirono la fucilazione.

Le notizie più significative riguardo le vicende all’interno delle Ville Sbertoli, emergono direttamente dall’Archivio dell’Ospedale Neuropsichiatrico di Pistoia, in particolar modo dalla consultazione delle Cartelle Cliniche e dei Registri dei Morti. Nel Registro numero cinque si scopre che il giorno 22 giugno 1944 muoiono cinque uomini originari di Santonuovo per «fucilazione» e che il giorno 16 settembre 1944 viene ucciso, sempre per fucilazione ma con la specifica di «az. guerra», un giovane ragazzo di diciassette anni. Oltre a questi, emergono i casi di T. U., ventinove anni, bracciante, che il giorno 29 luglio 1944, viene «fucilato dai tedeschi» a Tizzana, e di N. E., ventiquattro anni, che il giorno 30 luglio 1944, viene «mitragliato dai tedeschi» nella località di Ponte del Gatto, S. Baronto, Lamporecchio, perendo per «ferite a. d. f. alla testa» (armi da fuoco).

Dalla consultazione delle cartelle cliniche emerge, poi, il fatto che durante il periodo bellico i ricoveri crescono progressivamente e che oltre alle degenze annoverabili pienamente alla malattia mentale, vi sono due ulteriori profili ascrivibili uno alla categoria dei ricoveri derivanti dalla guerra e dai bombardamenti, l’altro a quella dei ricoveri artefatti.

Riguardo i primi, le cartelle ci riportano la vicenda di tre ex combattenti sconvolti psicologicamente dal servizio militare.

Il giovane ventisettenne B. E., fu chiamato il 1° settembre 1938 «sotto le armi e inviato in Libia ove incominciò a soffrire disturbi nervosi tanto gravi che per un mese e mezzo venne ricoverato nell’Ospedale di Bengasi». D. A., ventitré anni, soldato ferito con pensione di guerra «nel 1940 combatté in Russia dove diceva talvolta di sentire delle forze telepatiche. Tornato in Italia rimase per un certo periodo in casa, ma avendo commesso delle stranezze fu internato nell’Ospedale Psichiatrico di Maggiano (Lucca)». C. G., avendo militato in Montenegro, «ebbe un forte esaurimento in seguito al quale cadde in stato di depressione. Fu rimpatriato con diagnosi di “sindrome depressiva”».

Dall’analisi delle cartelle emergono, poi, numerosissimi casi di ricoveri ascrivibili agli shock da esplosione che testimoniano chiaramente la diretta conseguenza dei tre bombardamenti della città. Le degenze spesso si svolgono nell’arco di pochi mesi e dall’assenza di quasi la totalità della documentazione medica, si comprende come l’allontanamento dalla città in una zona separata dal teatro di guerra, bastasse a lenire la psiche dei ricoverati. Sono persone definite sane la cui condizione di «agitazione» si verifica a seguito dei bombardamenti «vedendo cadere le bombe a poca distanza». Come il caso del commerciante ventunenne T. R., di cui si dice che «a seguito di trauma psichico dovuto allo scoppio di una bomba si cambiò improvvisamente in uno stato di particolare fatuità»; o il caso più dettagliato di P. G., venti anni, che «in uno dei bombardamenti su Pistoia rimase per circa un’ora sotto le macerie dove perirono la madre e i cinque fratellini. Ebbe per questo un forte shock, ma seguitò a lavorare nelle ferrovie. In altro bombardamento fu nuovamente ferito. Da allora egli rimase nel terrore di non poter sfuggire alle incursioni. Durante gli allarmi egli è incapace di qualsiasi iniziativa anche se si tratta di mettersi al sicuro».

Nella categoria dei ricoveri causati dalla guerra sono degni di nota anche due casi di delirio paranoico a sfondo politico e persecutorio, nei quali, a detta dei ricoverati, la persecuzione era messa in atto dai fascisti o dai nazisti.

Come P. M., che «a seguito degli avvenimenti del 25 luglio scorso cominciò ad avere preoccupazione prima, poi addirittura mania di essere arrestato e fucilato. Susseguentemente subentrò autoaccusa, mania persecutiva»; o di B. O. che «subitò un trauma psichico il 2 giugno 1944, per una perquisizione avvenuta in casa sua, cominciò ad avere degli accentramenti ideologici. Poco tempo dopo a causa della morte di un tedesco, profondi rimorsi cominciarono a dar noia al soggetto e dopo, grado a grado, si sviluppò la mania di persecuzione. Dice che è stato condannato a morte e che da un momento all’altro devono venire a prenderlo e giustiziarlo».

Per quanto riguarda i ricoveri artefatti, la figura principale attorno a cui le varie vicende si dipanano è quella del direttore sanitario Marcello Silvestrini. Poche le informazioni che si riescono a ricavare su di lui, ma, grazie al suo silenzioso lavoro di assistenza e solidarietà, firmando ricoveri, tenendo i contatti con le famiglie e allontanando i controlli dei militari dai reparti, permise a molti di eludere l’arruolamento forzato o la deportazione.

Numerose sono le cartelle che al loro interno non presentano alcuna documentazione medica se non i decreti di ammissione e dimissione del tribunale. Ricorre spesso, negli atti del Silvestrini, specie in quelli indirizzati alle famiglie del ricoverato, la formula «al giorno della dimissione Vi terrò informato», o nella cartella clinica, nella sezione destinata ai motivi della dimissione, l’espressione «rilasciato/a per insufficienza titolo». Non è poi casuale il fatto che dei centoundici ricoveri avvenuti durante il periodo d’occupazione nazifascista, ventitré vengano dimessi nei due mesi successivi la liberazione della città, quasi tutti per «insufficienza titolo». Tra questi troviamo il caso di un giovane di ventiquattro anni, R. R, ricoverato con un generico certificato del medico di famiglia, Dott. Aldo Benelli, con l’avallo del comando tedesco datato 1° agosto 1944. Troviamo poi anche alcuni ebrei. Visto l’intento, le cartelle non solo sono prive di qualsiasi documentazione, ma non presentano neppure riferimenti dell’estrazione ebraica degli ospiti; ma, dall’analisi dei cognomi, compare distintamente l’origine ebraica dei ricoverati.

In un caso, quello del paziente D. V., la cartella ci riporta interessantissime e toccanti informazioni. D. V. nato a Charkow, in Ucraina si legge che:

                 Essendo di origine ebraica, le nuove disposizioni di Legge l’hanno obbligato a dimettersi dal posto di Imp. alla Banca e ciò ha influito fortemente sulla sua costituzione nervosa, che non ha mai dato l’impressione di energia. Essendo fortemente esaurito con mania persecutiva, in seguito allo scoppio della guerra (1939-40) viene arrestato come straniero, e le sue condizioni fisiche e psicofisiche ne richiesero il ricovero alla Villa Aprica in Como per circa 2 anni.

 Trasferito alle Sbertoli, gli viene redatta la diagnosi di neuropsicastenia, malattia caratterizzata da stanchezza, malinconia e depressione. Viene rilasciato per impossibilità di sostenere la retta. Una toccante lettera del 1958 da lui scritta indirizzata direttamente al Silvestrini – segno evidente di quanto il suo operato significò per la sua vita – riporta:

                 Io lasciai le Ville Sbertoli nel Luglio 1946 […] in attesa e nella speranza di poter ritrovare la mia famiglia, dalla quale ero stato separato dagli eventi della guerra. Purtroppo però, ciò non è avvenuto, in quanto riuscii a sapere poi che mia madre e mia sorella, deportate dai nazifascisti in Germania ed ivi rinchiuse in un campo di concentramento e sterminio, vi trovarono la morte, dopo infinite sofferenze […]. Recentemente è stata emanata in Italia una legge che concede un sussidio di benevolenza (una specie di pensione) da parte dello stato, a favore di coloro che sono stati vittime di persecuzioni politiche e razziali in regime fascista e a causa di tali persecuzioni hanno contratto malattie, per effetto delle quali hanno perduto o visto menomata la loro capacità lavorativa. Ho presentato la relativa Domanda ed ora mi è stato richiesto di corredarla con un Certificato Medico, della Casa di Cura, dove sono stato ricoverato.

 Nonostante il Silvestrini non fosse più direttore delle Ville Sbertoli, dal manicomio di Perugia, dove si era trasferito, si adopera, ancora una volta, per la situazione di uno dei suoi ex pazienti, facendo richiesta al nuovo direttore. Non rimase inascoltato: dagli incartamenti risulta che il nuovo direttore si adoperò per la produzione del certificato «per uso pensione» riportando fedelmente tutti i dati del paziente. Se, infine, D. V. abbia ottenuto effettivamente il sussidio, questo, purtroppo, non emerge.

Mattia Eleni ha conseguito il Diploma di Liceo Classico presso il Liceo Statale Niccolò Forteguerri di Pistoia, quindi la Laurea Triennale in Storia presso Università degli Studi di Firenze, attualmente è studente di magistrale di storia all’Università di Pisa. 




La conoscenza scaccia la paura. Storie dall’Alto Adriatico, il confine più difficile del Novecento

A distanza di 72 anni dal 10 febbraio 1947, trattato di pace (1) scelto quale data simbolo per ricordare le tragedie del “confine difficile”, a 15 dalla legge che ha inserito nel nostro calendario civile il “giorno del ricordo”, torna la denuncia di un silenzio troppo lungo. Eppure, scriveva un decennio fa Enzo Collotti, la storiografia italiana avrebbe potuto raccogliere stimoli importanti da studi rimasti circoscritti all’ambito locale, ma che già negli anni Sessanta avevano cominciato ad inscrivere «con rigore […] il problema della Venezia Giulia nell’orizzonte europeo e nella proiezione balcanica della politica italiana»(2). Rimane il vulnus di un ritardo, da cui ereditiamo ancora le tracce di un grumo di rimpianti e amarezze, malgrado l’ultimo ventennio ci consegni una fioritura di opere importanti, e la possibilità di un approccio capace di impedire alle memorie di coltivare rancori.

Le voci raccolte nel documentario appena prodotto La conoscenza scaccia la paura. Storie dall’Alto Adriatico, il confine più difficile del Novecento (3) ne danno testimonianza. È l’ultimo esito di un progetto che ha avuto come momento-chiave un viaggio sui luoghi, ma raccoglie l’eredità di un lavoro lungo un quindicennio, passato attraverso l’esplorazione di fonti documentarie, testimonianze ed esperienza diretta dei segni di memoria o di oblio, rimasti tra Istria e Venezia Giulia (4). A questa intersezione di storie diverse e di lungo periodo è universalmente attribuito il carattere di “complessità”, proprio di ogni segmento di storia, ma qui con qualche ragione in più. In un breve arco cronologico, in uno spazio limitato, si sono addensati gli esiti di fenomeni spiegabili solo recuperandone le radici plurisecolari e con il filtro di uno sguardo sullo scenario del Novecento europeo.

Con la conoscenza storica, si ripete con insistenza, è possibile dare una spiegazione alle ragioni di una geografia politica, che registra le infinite variazioni del “confine mobile”. Se ne può raccontare la storia con i documenti della diplomazia che stabilisce chi sta di qua e chi di là del confine, verificando su carte storico-geografiche le linee che separano, comparandole ai mutamenti di altre frontiere fra Stati dell’Europa del Novecento. Sulle carte i nomi sono un altro indizio: nell’Istria ora italiana ora jugoslava, oggi italiana, croata e slovena, una città è Albona o Labin, Pisino o Pazin, Parenzo o Porec. Si fa storia anche con opere della grande letteratura di confine, che dà voce con un altro linguaggio al vissuto delle popolazioni, al sostrato di sofferenze che le verità della diplomazia e della geografia non registrano. È particolarmente attuale un libricino di Guido Crainz, storico, precoce contributo all’iniziale lavoro di uscita dalla stagione delle rimozioni. Nel 2005 mise Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa nelle mani di lettori comuni e di insegnanti, dal 2005 chiamati per legge a introdurre nei curricoli il “laboratorio della storia del Novecento”, violenze di guerra fra Stati e guerra civile, un sistema concentrazionario plurale, le foibe e l’esodo, non come “libro di storia, [ma] quaderno di suggerimenti, di consigli di lettura”. Crainz proponeva testi della letteratura europea che spezzava “vecchie incrostazioni”, rischiando di generare la “insicurezza che può nascere quando si devono abbattere i muri di dentro”, scommettendo sul superamento della “paura della storia” (5).

Tante di queste fonti sono state un viatico al lavoro nella scuola, per incoraggiare la conoscenza e la coscienza di una storia indispensabile a formare cittadini italiani ed europei. Nel corso del tempo, si è aggiunta l’esperienza dei luoghi, tentativo di arricchire una pedagogia della memoria attraverso l’abbondanza o l’assenza di segni rimasti. Nelle città della Venezia Giulia e dell’Istria, gli studenti hanno scoperto monumenti e lapidi, segni della memoria collettiva, nel tempo mutevoli. Gonars, in Friuli Venezia Giulia, campo di concentramento per slavi, rastrellati a partire dal 1942 nella Slovenia, occupata dal regime fascista, è un ologramma della storia della memoria: un vuoto nella memoria dell’Italia, responsabile non come popolo ma come Stato invasore, riempito da pochissimi anni da una monumentalizzazione dell’area del campo; poco distanti, nel cimitero, tre memoriali: jugoslavo il primo, seguito, dopo l’esplosione delle nazioni, dal tributo sloveno e croato alle vittime. Questi campi sono solo un episodio delle violenze italiane nei Balcani, da tempo uscite anch’esse dall’elenco delle storie rimosse (6).

A Goli Otok, l’Isola calva, né Jugoslavia né Croazia hanno ancora riconosciuto il dovere della memoria per le violenze subite dai prigionieri, in maggioranza italiani, di un campo, voluto per isolare e punire la dissidenza dalla Repubblica jugoslava di Tito (7). A Basovizza, è in memoria delle foibe il monumento, grandioso nelle dimensioni e nella forma – un enorme patibolo –, destinato ad evocare simbolicamente il riconoscimento tardivo delle violenze subite da italiani (8).

Le pietre monumentali di Redipuglia, rappresentando generali e soldati dell’esercito italiano, schierati come sul campo di battaglia, sono la tappa che può iniziare o concludere il viaggio sui luoghi. A guidare visitatori abbagliati dalla spettacolarità, è uno storico, Franco Cecotti. Racconta di due monumenti: il primo, più sobrio ricordo consegnato alle famiglie dei soldati morti, il secondo, retorica esaltazione del morire in guerra, per offuscare i lutti privati con l’orgoglio delle morti eroiche. Tappa indispensabile, dice l’taliano d’Istria Livio Dorigo, per capire (e sentire) l’inutile strage: «per andare un po’ avanti e un po’ indietro nella linea del confine […] quanti uomini morti per niente» (9).

Dorigo nel 2009, anno del primo viaggio di studio per insegnanti, a Padriciano offrì una prova involontaria di quanto possano essere diverse e conflittuali le stesse memorie delle vittime. Due opposte narrazioni della profuganza non impedirono ai visitatori di percepire l’offesa subita dai profughi, privati di case e mobili, oggetti e spazi, per una promiscuità imposta dall’affollamento di tante famiglie. Vi aggiunsero una riflessione sulla memoria, trattata quasi sempre come grimaldello per forzare l’ingresso nel passato, come se bastasse ricordare per fare i conti con la storia (10).

Padriciano (foto di L. Zannetti)

Campo profughi di Padriciano (foto di L. Zannetti)

Lo abbiamo incontrato di nuovo, a Trieste, quando ha cominciato a prendere forma l’idea di un documentario diverso dal primo (La nostra storia e la storia degli altri. Il confine orientale nel Novecento), in cui il nostro testimone privilegiato racconta il tempo lungo della sua vita. Profugo nel 1947 da Pola, parla del viaggio della sua famiglia verso il Villaggio giuliano di Roma, fino al ritorno, a Trieste. Ma il tempo del racconto va oltre il suo vissuto sul confine: inizia dal Risorgimento, dal bisnonno democratico, volontario nel 1848 per la Repubblica di Venezia, e arriva alla descrizione di un’associazione istriana, dal logo che ha colori dell’arcobaleno. L’adolescenza nella Pola fascista, la rivelazione della vera natura del fascismo l’8 settembre, il battesimo dell’orrore della guerra con l’impiccagione di un italiano (la eseguono giovanissimi soldati tedeschi), lo spaesamento della famiglia, sbattuta fra le violenze nazifasciste e la prepotenza di capi partigiani slavi. Alle foibe, il suo discorso arriva con fatica: un tutt’uno con la profuganza, scelta dolorosa come può esserlo l’abbandono di tutto, compresa l’identità. Sono sue le parole scelte per il titolo del documentario. Livio Dorigo le ha pronunciate a margine della sua idea dell’Istria omogenea per cultura, oltre l’artificio di frontiere, e dell’immagine del Mediterraneo, “mare che unisce”, mentre spiega le ragioni di un rigoroso antinazionalismo. Di famiglia italianissima da quasi due secoli nell’area, lui stesso si dichiara fino in fondo italiano, per tradizione, lingua e scelte culturali. Ma il dolore dell’esilio, forte nel ricordo e mai scomparso, ha un suo stile, diverso da quello che affiora in altre testimonianze raccolte nel viaggio, distinguendosi soprattutto perché esprime con una convinzione contagiosa la speranza nel futuro di un’Europa solidale. Stessa proiezione su un futuro di dialogo fra culture scopre chi cerchi a Fiume i segni delle relazioni tra la minoranza italiana e maggioranza croata.

Quella di Dorigo è come altre una memoria individuale. Quella collettiva si è espressa quest’anno con rituali identici, ma accenti nuovi, rimodellata dall’attualità, carica di pericolose tensioni. Sono tornate memorie rancorose, fratture che sembrano voler riportare indietro, all’epoca dello scontro, e “mettere in secondo piano” gli storici. Un commento sulla stampa dello storico Giovanni De Luna conclude amaramente la ricostruzione delle tappe che hanno condotto all’istituzione e alla celebrazione del Giorno del Ricordo fino a quest’anno:

Nell’uso pubblico della storia era così allora ed è così ora: non tesi che si confrontano sulle fonti e sui documenti, ma argomentazioni che diventano nodosi randelli da brandire contro i propri avversari. E le vicende del passato sono degradate a puri pretesti (11).

Colpisce il dualismo fra la dimensione culturale di questo appuntamento civile e la liturgia celebrativa, quasi che la lunga strada percorsa dal gran lavoro sulla storia del confine difficile – scientifico, divulgativo, di pedagogia della memoria – non sia stata capace di incidere abbastanza da impedire un ritorno alla pericolosa semplificazione dello scontro su carnefici e vittime di foibe ed esodo.

Monumento nel campo di Gonars (Foto di Luigi Zannetti)

Monumento nel campo di Gonars (Foto di Luigi Zannetti)

Ha stupito gli storici l’uso della categoria di “pulizia etnica” (12), come spiegazione delle violenze e degli infoibamenti senza distinguo o sfumature, in discorsi istituzionali di alto livello. Alcuni toni hanno quasi raggiunto lo stadio dell’incidente diplomatico con gli Stati balcanici, mentre alcune istituzioni locali in qualche caso si sono lasciate andare ad una politicizzazione esplicita. Sarebbe interessante oltrepassare la citazione di episodi e raccogliere dati, utili a capire il tempo presente, se e come stanno cambiando culture della memoria e strategie, quanto fecondo o più complicato è diventato il rapporto storia-memoria, se le attuali politiche memoriali hanno una reale funzione civile…

Guardando le cronache toscane, si trova grande varietà di forme nelle celebrazioni istituzionali. Ha prevalso l’invito a testimoni, nelle sale consiliari; è fatto normale, comune alla Giornata della Memoria, la presenza – residuale oggi, per la scomparsa dei testimoni – di ex deportati, politici o razziali. Per il Giorno del Ricordo, non sempre le istituzioni hanno badato a scegliere in modo da garantire rispetto per la solennità implicita nei luoghi delle cerimonie. A Pistoia, un’esperienza positiva: è stato l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea a proporre ed avere accolta dall’Ente locale una targa in ricordo dell’esodo. Il Comune di Siena ha fatto una scelta inedita e funzionale ad accrescere l’inquinamento delle ricostruzioni storiche, facendo prevalere altre, diverse ragioni: volendo unire memoria e ricordo, si sono mescolati deportazione ed esodo, Shoah e foibe, affidando per il 10 febbraio una lectio magistralis a Franco Cardini, storico noto per altri studi, non specialista dell’uno o dell’altro argomento. I consiglieri hanno ascoltato, dentro la lunga lezione, una (forse inattesa) severa contestazione verso chi ha usato la categoria di pulizia etnica.

Anche la Toscana ha accolto profughi (13), conserva segni di questo e di altri fatti, noti e studiati o da approfondire. La memoria dei luoghi è come altrove specchio di un complicato intreccio. Meno fitta che altrove è la mappa dei campi di internamento per slavi, allestiti dall’Italia durante la guerra fascista; più tardi, furono i campi di raccolta ad ospitare esuli giuliani e istriano-dalmati, talvolta in spazi già utilizzati come campi di prigionia, talvolta nel centro delle città, come a Lucca.

Si è molto arricchita la bibliografia sulla Toscana negli anni. La disseminazione degli esiti dei progetti rivolti alla scuola ha dimensioni importanti. Il documentario, ultimo strumento per la didattica, ha già avviato il suo cammino.

NOTE
1 Firmato a Parigi, conclude la seconda guerra mondiale ridisegnando il confine orientale. Sarà definitivo l’abbandono di terre istriane e dalmate, provvisoria l’istituzione del territorio libero di Trieste, zona A con amministrazione anglo-americana, zona B jugoslava. Definitivo nel 1975, con gli accordi di Osimo, il passaggio della zona B alla Repubblica di Jugoslavia.
2 E. Collotti, Introduzione, in T. Sala, Il fascismo italiano e gli slavi del sud, Tipografia Adriatica, Trieste 2008, p.11.
3 Regia di L. Zannetti, consulenza storica di L. Bravi e L. Rocchi, produzione Regione Toscana, ISGREC e ISRT, 2019.
4 Dal progetto Per la storia di un confine difficile: l’alto Adriatico nel Novecento (Regione Toscana-rete toscana degli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea) sono nate la summer school per insegnanti nel 2017, altre iniziative sul territorio e, nel febbraio 2018, il viaggio di studio per 50 studenti e 25 insegnanti toscani.
5 G. Crainz, Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma 2005, pp. 3-5.
6 Cfr. C. Di Sante, Italiani senza onore, Ombre corte, Verona 2005; E: Gobetti, L’occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia (1941-43), Carocci, Roma 2007.
7 Cfr. C. Di Sante, Nei campi di Tito. Soldati, deportati e prigionieri di guerra in Jugoslavia, Ombre corte, Verona 2007.
8 Troppo ampia la bibliografia sulle foibe per una scelta. Si rinvia al documentatissimo sito dell’Istituto storico del Friuli-Venezia Giulia https://www.irsml.eu.
9 Intervista a Livio Dorigo di Luca Bravi e Luigi Zannetti, Trieste, 9 febbraio 2018.
10 C’è una letteratura ricca di riflessioni su memoria individuale-collettiva e su costi e benefici delle politiche della memoria della Repubblica italiana, prodiga negli ultimi decenni di date per un calendario civile giudicato utile, ma troppo fitto. Non pochi storici si sono cimentati su questi argomenti tirandone conclusioni diverse. Non è il più recente, ma quello che appare a chi scrive più interessato a scavare sulla data di cui si tratta qui è G. De Luna, La repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli, Milano 2011.
11 G. De Luna, La storia utilizzata come un randello nel confronto politico, “La Stampa”, 10 febbraio 2019.
12 Nel sito web dell’Istituto regionale del Friuli-Venezia Giulia associato al Parri nazionale una sintetica spiegazione delle ragioni per cui sarebbe errato parlare di pulizia etnica. In Istria fu la categoria di “nemico del popolo” a guidare le violenze ordinate dai comandi delle brigate titine, mentre per le foibe giuliane “… l’obiettivo del governo jugoslavo non era quello di cacciare gli italiani dalla Venezia Giulia, ma di mobilitarli a forza nella lotta per l’annessione della regione alla Jugoslavia. Questo perché Stalin aveva esplicitamente chiesto ai rappresentati jugoslavi di corroborare le loro rivendicazioni territoriali con il consenso della popolazione, anche italiana. Naturalmente, non occorreva che tale consenso fosse spontaneo. Le stragi quindi, oltre all’intento punitivo, ne avevano altri due: decapitare la società della sua classe dirigente, fedele all’Italia, ed intimidire la popolazione italiana, affinché non si opponesse all’annessione”.
13 C. Di Sante, Stranieri indesiderabili. Il campo di Fossoli e i “centri di raccolta profughi in Italia (1945-1970), Ombre corte, Verona 2011.



Dispersi sì, dimenticati mai.

Ricostruire le vicende del Piroscafo Oria e dei soldati italiani che vi morirono durante la seconda guerra mondiale. È di prossima pubblicazione un’inedita ricerca sulle vicende del Piroscafo Oria, partito da Rodi e affondato il 12 febbraio 1944 presso l’isola di Patroklos in Grecia con oltre 4000 soldati italiani destinati alla deportazione in Germania. A firma di Luisa Ciardi, Michele Ghirardelli e Matteo Grasso, il libro, frutto di un progetto regionale che vede dal 2013 la collaborazione di più enti e istituzioni (Fondazione CDSE, Regione Toscana, Istituto storico per la Resistenza di Pistoia e la Rete dei Parenti delle Vittime del Piroscafo Oria) pone ulteriori sviluppi nella ricostruzione storica e nella ricerca dei singoli caduti del naufragio.

Il progetto nel corso degli anni si è arricchito di nuovi tasselli che hanno portato il Comune di Monsummano Terme a strutturare una collaborazione che portasse le vicende dell’Oria nelle scuole, attraverso progetti didattici, e all’attenzione della cittadinanza, grazie agli studi storici e all’intitolazione di un giardino. Questa fase è incominciata nel 2016, quando il monsummanese Renato Mazzei, nipote del disperso Righetto Pierattini, è entrato in contatto con Elena Sinimberghi, assessore alla cultura di Monsummano Terme; l’incontro ha poi trovato compimento fra il 2017 e il 2019 nell’ambito di un progetto triennale di ricerca.

Righetto Pierattini era un giovane di 21 anni quando, dopo l’Armistizio del settembre 1943, fu fatto prigioniero dalle forze naziste, rifiutando in seguito l’arruolamento nella Repubblica Sociale Italiana. Un atto di Resistenza e di fedeltà ai propri ideali: da un lato un giuramento fatto al Re d’Italia, dall’altro un’avversione verso il nuovo regime fascista. Fece parte della schiera di internati militari italiani, ma non riuscì a giungere in un campo di concentramento nazista: trovò la morte all’interno di una nave – appunto, il Piroscafo Oria – che lo stava trasferendo sulle coste greche per la deportazione in Germania.

Partendo da questo episodio, la ricerca ha dato vita ad un volume a più mani, curato dal docente universitario Michele Ghirardelli (nipote del disperso Ugo Moretto, fra i fautori delle prime ricerche sull’argomento una decina di anni fa e fra i sostenitori della nascita della Rete dei parenti delle vittime dell’Oria), dalla storica Luisa Ciardi (Fondazione CDSE, coordinatrice del primo progetto regionale sull’Oria) e dal sottoscritto (direttore dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia e autore delle indagini sui dispersi nella provincia pistoiese).

Nell’introduzione, Luisa Ciardi traccia un bilancio del percorso che in questi anni ha coinvolto l’Oria, partendo dalla sua memoria collettiva e giungendo al riconoscimento pubblico. La prima ricerca è affidata a Ghirardelli che si sofferma su alcuni aspetti fondamentali, nei quali fornisce un quadro storico molto approfondito e passa in rassegna la bibliografia sulla vicenda. Il suo testo non si limita a considerazioni di carattere generale e a pure riflessioni storiografiche, ha il merito di entrare nel dettaglio delle singole memorie e di intrecciare microstoria e macrostoria.

La seconda parte della ricerca interessa i caduti pistoiesi ed è strutturata su tre livelli, secondo il metodo scientifico dell’incrocio fra fonti diverse: archivistica, orale e bibliografica. Partendo dall’indagine a cura della Fondazione CDSE iniziata nel 2013, ho ripreso i nominativi riconducibili alla Provincia di Pistoia e li ho confrontati prima con i fogli matricolari conservati all’Archivio di Stato di Firenze, dove è possibile consultare le carriere militari dei soldati, poi con gli atti di nascita e di morte registrati presso gli archivi comunali. Solamente in una seconda fase e con queste informazioni in possesso, sono riuscito a rintracciare i familiari. Alcuni di loro erano già a conoscenza dell’Oria ed erano entrati a far parte della Rete delle famiglie dei dispersi. Altri, invece, non avevano avuto informazioni sufficienti riguardo il proprio caro, né in passato né di recente: le dichiarazioni di irreperibilità, quando arrivarono, nel caso pistoiese furono emesse fra il 1946 e il 1953, quindi con un ritardo minimo di due anni e massimo di nove rispetto alla tragedia, dati che confermano la tendenza nazionale. Vennero tutti liquidati dal distretto militare di Pistoia con la dichiarazione di irreperibilità e una frase rituale generica e ripetitiva che non rendeva giustizia alle loro storie: “Nessun addebito può essere elevato in merito alle circostanze della cattura e al comportamento tenuto durante la prigionia di guerra”.

Il contatto con i parenti ha permesso di attingere a un’ampia parte di patrimonio documentario, costituito da fotografie, lettere dal fronte, documenti e oggetti personali. In questa maniera la memoria privata delle singole persone si lega indissolubilmente –e contribuisce- alla grande storia dell’Oria. L’indagine locale ha una caratteristica determinante che può essere punto di forza: nonostante temi, fonti e metodi restino sostanzialmente quelli della storia generale, essa vive di ricerca, più che di letteratura, e perlustra fondi archivistici inediti e talvolta sconosciuti, come quelli comunali e familiari.

Sono state così ricostruite le biografie militari di 16 pistoiesi dispersi nella tragedia, corredate di lettere, immagini e testimonianze che andranno ad arricchire i caduti già rintracciati dalla grande famiglia dell’Oria.




I profughi giuliani, istriani, fiumani e dalmati in provincia di Grosseto

Il progetto “Per la storia di un confine difficile. L’alto Adriatico nel Novecento” della Regione Toscana (2017-2018)

Dalla prima applicazione della legge istitutiva del Giorno del Ricordo, avvenuta nel 2004, la Regione Toscana fu tra le prime in Italia a prendere a cuore il diritto a una cultura storica per la scuola su temi che entrarono da allora nel calendario civile nazionale. Così hanno cominciato ad entrare in classe le storie e le memorie dolorose del confine più difficile del Novecento italiano, a lungo rimaste patrimonio quasi esclusivamente locale. Gli insegnanti e gli studenti delle nostre scuole hanno insegnato gli uni, imparato gli altri la complessa storia del confine orientale “laboratorio della storia del Novecento”; si sono avviati verso la conoscenza dei luoghi delle foibe istriane e giuliane, di un sistema concentcover_summerrazionario ologramma delle violenze del Novecento, del lungo esodo delle popolazioni istriano-dalmate. Hanno intravisto gli spostamenti di un “confine mobile” e il lungo periodo di gestazione delle violenze, partorite da nazionalismi, guerre, forme di razzismo.

Nel 2017 un progetto sperimentale, frutto della collaborazione tra Regione Toscana, rete degli istituti storici toscani della Resistenza e dell’età contemporanea e Ufficio scolastico regionale, ha promosso un intervento sistematico: Summer school per insegnanti di scuola superiore, selezionati tramite bando, in preparazione del viaggio di un piccolo gruppo di studenti nei luoghi di memoria dell’area giuliana e istriana, preceduto e seguito da altre iniziative di formazione. La conoscenza storica ha un duplice valore, quando si trattano temi di tale delicatezza: è sapere ed educazione alla cittadinanza. Il programma della Summer school ha posto al centro eventi solo in apparenza racchiusi in un tempo breve e in un territorio limitato, ma appartenenti a una storia europea di lungo periodo. Un sovrappiù di valore è dato a questa iniziativa dal rilievo che hanno assunto, tra la fine del secolo scorso e il tempo presente, la riproposizione di violenze nell’area balcanica e, più recente, la questione dei confini tra popoli, Stati, culture.

Un ulteriore seminario formativo si è avuto a Siena (novembre 2017), nel corso del quale sono intervenuti il Presidente Antonio Ballarin ed esponenti della Federazione italiana degli esuli istriano-fiumano-dalmati. fra cui Marino Micich, Direttore dell’Archivio museo storico di Fiume. Altri ne seguiranno nei prossimi mesi.cover viaggio

Dal 12 al 16 febbraio 25 insegnanti e 52 studenti, accompagnati da rappresentanti della regione Toscana e della rete degli istituti storici toscani della resistenza, saranno sui luoghi del Confine. Redipuglia, Trieste, Gonars, Basovizza, Padriciano, Fiume, Albona e Fossoli saranno le importanti tappe di un viaggio durante il quale studenti e docenti avranno modo di incontrare studiosi e testimoni e di confrontarsi con studenti italo sloveni.

L’Istituto storico di Grosseto lavora sul Confine orientale da 14 anni. A una prima pubblicazione di materiali didattici sono seguiti convegni, eventi, ricerca. Ha organizzato, sempre per conto della Regione Toscana, un primo viaggio per un piccolo gruppo di insegnanti toscani nel 2009, narrato nel documentario “La nostra storia e la storia degli altri. Viaggio intorno al confine orientale“, e una mostra con lo stesso titolo che è stata esposta in tutta Italia (a Grosseto per ben due volte nei locali della Prefettura) e che si avvale dal febbraio 2017 di un catalogo bilingue, curato da Luciana Rocchi. Ultima pubblicazione, l’ebook del 2017 liberamente consultabile con gli esiti della ricerca pluriennale di Laura Benedettelli sui profughi giuliani, istriani, fiumani e dalmati in provincia di Grosseto.

 *****************************

L’esodo dalle terre di confine.

L’esodo dei giuliani, istriani, fiumani e dalmati, a differenza di quanto accadde per altre popolazioni di confine al termine del secondo conflitto mondiale, non fu la conseguenza di formali provvedimenti di espulsione, ma il frutto di una scelta, talvolta compiuta in forma ufficiale ricorrendo all’esercizio del diritto di opzione, previsto prima dal Trattato di Pace del 1947 e poi dal Memorandum di Londra del 1954, tal altra sul piano di fatto mediante il ricorso all’espatrio clandestino. Quello che avvenne nell’area dell’alto Adriatico fu comunque un fenomeno di espulsione di massa dovuto non a precise leggi, ma a forti pressioni ambientali che si erano venute a creare verso gli italiani e che ebbero di fatto la stessa efficacia di un decreto di espulsione.images

Le partenze dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia iniziarono prima della fine del II conflitto mondiale e della firma del Trattato di pace: da Zara avvennero quando la guerra era ancora in corso, sotto la spinta dei bombardamenti alleati; da Albona, Cherso, Veglia, Lussino e, in genere, dalle località dell’Istria meridionale, dove l’annessione alla Jugoslavia apparve più probabile, i profughi partirono con mezzi di fortuna sin dall’estate 1945. Fu però proprio in seguito alla firma del Trattato di pace che il fenomeno assunse carattere di massa.

fdr12gL’abbandono di questi territori, inoltre, non avvenne in un periodo di tempo limitato, ma si presentò come un fenomeno di portata temporale abbastanza lunga, superiore ai dieci anni, che ha portato a parlare di un “lungo esodo” e, secondo alcuni storici, di “esodi”, per distinguere le diverse fasi di uno stesso fenomeno migratorio, le cui varie ondate sono riconducibili a eventi precisi.

Un primo spostamento di popolazione si ebbe infatti a partire dal 1943, cioè nel momento in cui si verificò la prima ondata di infoibamenti nel centro dell’Istria, per poi riprendere nel 1945, quando, dopo che la IV Armata jugoslava nel mese di maggio aveva occupato Trieste, Gorizia e Fiume, si verificò una seconda ondata di infoibamenti, che spinse molte altre persone ad abbandonare le città.

La firma dell’accordo di Belgrado, che stabilì la linea Morgan fu un ulteriore momento in cui molti italiani decisero di abbandonare le località temporaneamente assegnate alla Jugoslavia, che in pratica considerava tali territori come annessi di fatto. Vi era comunque chi nutriva ancora la speranza che, con la definizione del Trattato di pace, queste terre tornassero a tutti gli effetti sotto l’Italia, ma quando tali speranze vennero definitivamente annientate si verificò una ripresa dell’esodo che si protrasse per più anni.image_gallery

L’esodo, come spiega anche Guido Crainz, fu dunque in stretto rapporto con questo alternarsi di speranze e delusioni che accompagnarono gli anni in cui le potenze definirono a tavolino i confini e quando i confini furono definitivamente decisi e impressi sulla carta, nero su bianco, l’esodo non ebbe più freni.

Furono migliaia i profughi che, partiti dalle tante località poste al di là del confine, vennero ospitati nei Centri di Smistamento, per poi approdare, per uno o più anni, nei Centri di Raccolta Profughi, prima di trovare una sistemazione definitiva.

Un problema con il quale dovettero confrontarsi i profughi a fine guerra fu quello molto complesso del riconoscimento delle cittadinanze, per cui si rese necessario inserire nel testo del Trattato di pace delle norme che riguardavano proprio la “gestione delle cittadinanze”.

0007179L’Articolo 19 del Trattato riguardava espressamente i cittadini italiani e prevedeva che sarebbero diventati automaticamente cittadini jugoslavi tutti coloro che, al 10 giugno 1940, fossero stati domiciliati nel territorio ceduto dall’Italia alla Jugoslavia, clausola che valeva anche per i figli nati dopo quella data. Essi avrebbero pertanto perso la cittadinanza italiana e sarebbero diventati a tutti gli effetti cittadini dello Stato subentrante, cioè della Jugoslavia. La cosa interessò le migliaia di italiani che erano nati e che vivevano da sempre in queste zone o che vi si erano recati per motivi di lavoro.

Proprio per ovviare a questo problema e concedere una libertà di scelta, il Trattato prevedeva che lo Stato al quale il territorio era stato trasferito, la Jugoslavia, avrebbe dovuto predisporre, entro tre mesi dall’entrata in vigore del Trattato stesso, perché tutte le persone di età superiore ai diciotto anni (e tutte le persone coniugate, sia al disotto od al disopra di tale età) la cui lingua d’uso fosse l’italiano, avessero la facoltà di optare per la cittadinanza italiana, entro il termine di un anno dall’entrata in vigore del Trattato stesso. Le persone che avessero optato in tal senso avrebb2h3v5hvero potuto così conservare la cittadinanza italiana. La Jugoslavia, alla quale il territorio era stato ceduto, poteva esigere, come di fatto avvenne, che coloro che si avvalevano del diritto di opzione si trasferissero in Italia entro un anno dalla data in cui questo era stato esercitato.

Il Trattato di pace, secondo quanto riportato all’Articolo 19, prevedeva dunque il diritto di opzione: optare significava scegliere la cittadinanza e optare per la cittadinanza italiana significava di fatto lasciare le terre dove si era nati, dove si era vissuti fino a quel momento, le terre che la diplomazia internazionale aveva assegnato alla Jugoslavia, optare significava in definitiva lasciare tutto quello che si aveva: la terra, la casa, gli affetti e prendere la via dell’esodo.

L’arrivo dei profughi a Grosseto.

Come riportato da Amedeo Colella in L’esodo dalle terre adriatiche. Rilevazioni statistiche, in Toscana, dove erano stati organizzati 10 tra campi profughi e Centri di accoglienza, arrivarono 6.074 profughi, di questi 252 giunsero nella provincia di Grosseto.

Qui, dove non era stata allestita nessuna struttura, l‘arrivo dei profughi avvenne nel corso di un periodo abbastanza lungo che andò dal 1943 al 1975, due gli anni che registrarono la maggiore affluenza: il 1946, con 41 arrivi, e il 1955 quando si registrarono 57 arrivi. Molti di loro erano transitati dal Centro Smistamento di Udine e dai Centri di Raccolta di Servigliano (allora in provincia di Ascoli Piceno, oggi di Fermo) e di Laterina, in provincia di Arezzo.

Centro Raccolta Profughi di PadricianoDei profughi arrivati nella nostra provincia 110 abitarono, per periodi più o meno lunghi, a Grosseto, dove molti profughi di seconda generazione risiedono ancora, a cui andarono ad aggiungersi altri 14 che, inizialmente residenti in altri comuni della provincia, dopo pochi anni si trasferirono nel capoluogo. Contemporaneamente avvennero anche alcuni trasferimenti in senso inverso, cioè dal capoluogo verso le varie località della provincia. Dopo Grosseto, le località verso le quali si indirizzarono in misura maggiore furono Massa Marittima, Ribolla, Follonica, Orbetello e Roccastrada.

Lo Stato si preoccupò abbastanza presto di precisare chi dovesse essere definito “profugo”.

Una delle prime circolari che vennero inviate ai Sindaci dei vari Comuni fu la n.892 del 28 novembre 1944 che riassumeva le disposizioni che erano state emanate dall’Alto Commissariato per i Profughi di Guerra e che erano state indirizzate ai Prefetti delle varie Province. In essa si faceva espresso riferimento alla qualifica di profugo di guerra che al momento doveva essere attribuita solamente a coloro che in seguito ad orrendi eventi bellici si sono trovati nella necessità di doversi trasferire in luoghi diversi dalla loro abituale residenza o che per ragioni contingenti non possono farvi ritorno. A questa data pertanto ricevettero la qualifica di profugo di guerra tanto gli italiani che iniziarono ad abbandonare le zone del Confine orientale, sottoposte in questo momento alla pressione tedesca, quanto gli italiani costretti ad abbandonare le zone che dopo l’8 settembre 1943 e dopo gli sbarchi alleati nel sud Italia diventarono zone di operazioni di guerra.

Per quanto riguardava l’Assistenza a favore dei profughi, tra le varie disposizioni in materia, il 4 marzo 1952 venne promulgata la Legge n.137, che prevedeva, tra le altre cose, la riserva del 15% degli appartamenti costruiti dagli IACP ai profughi, dando la precedenza a quelli ricoverati nei Centri di Raccolta dipendenti dal Ministero dell’Interno e, successivamente, agli assistiti fuori Campo. In base a tale legge, a Grosseto vennero costruiti vari alloggi, tra questi il lavoro più significativo riguardò l’edificazione, in quella che oggi è Piazza Albegna, di un palazzo ancora presente nella piazza.1441878909-esulegiuliana

Il 22 luglio 1952, e quindi a quattro mesi dalla emanazione della Legge n.137, il Sindaco della città Renato Pollini (1951-1970) venne informato dal Prefetto che il Ministero dell’Interno aveva disposto la costruzione a Grosseto di un gruppo di abitazioni per la sistemazione dei profughi, per un totale di 100 appartamenti di varia ampiezza, pregava quindi di sottoporre al successivo Consiglio comunale la possibilità di cedere gratuitamente l’area necessaria. Non disponendo il Comune di terreni propri, questi dovevano essere necessariamente acquistati mentre, per quanto riguardava i servizi pubblici, il Comune poteva e doveva impegnarsi ad assicurarli. Venne costituito un Comitato cittadino che dette vita ad una sottoscrizione per raccogliere la somma occorrente per l’acquisto del terreno e il 12 ottobre il “Comitato cittadino pro-case profughi giuliani” fece pubblicare sulla Cronaca locale del “Tirreno” un primo elenco di sottoscrittori con le cifre donate, per un totale che al momento ammontava a £. 268.400. Venne individuato il terreno per la costruzione del palazzo in una zona allora lontana dal centro, posta tra la Chiesa di San Giuseppe Cottolengo e il Villaggio Curiel, sul prolungamento di Via della Pace, quella che in seguito avrebbe preso il nome di Piazza Albegna. La zona, allora del tutto incolta e caratterizzata da campi, era di proprietà dell’Ingegner Benedetto Pallini, che al tempo era consigliere comunale.

Il Ministero dei Lavori Pubblici inviò direttamente all’IACP di Grosseto una Circolare riguardante la costruzione degli alloggi che definiva anche la somma preventivata per la loro realizzazione: £ 48.000.000. Fu affidato all’IACP l’incarico di progettazione, esecuzione e contabilizzazione dei lavori occorrenti per la realizzazione del programma e vennero comunicate alcune “istruzioni” per dare uniforme e rapido corso all’attuazione del programma stesso.

mappa2

Pianta originale di una delle case del “Palazzo dei profughi”, Piazza Albegna, Grosseto

Il Progetto del fabbricato venne realizzato e firmato dall’Ingegner Gastone Saletti e porta la data del 28 febbraio 1953. Nel Fondo IACP sono conservati tutti i disegni del progetto, tra cui il prospetto principale e la pianta di un piano tipo. I 40 appartamenti, come si ricava dai disegni, erano formati dall’ingresso, il soggiorno con un terrazzino, una cucina ricavata in una rientranza del soggiorno (con lavello e cappa aspirante), una camera, un bagno (con lavandino, water e piccola vasca da bagno) ed erano di circa 60 – 65 metri quadrati.

I lavori principali per la realizzazone del fabbricato si svolsero dal novembre 1953 al novembre 1954 e la prima consegna degli alloggi avvenne il 24 maggio 1955.

Tali alloggi vennero destinati sia ai profughi che provenivano dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, ma anche a quelli arrivati dall’Albania e dalla Libia, tutti comunque assistiti nei Campi di Raccolta, ad eccezione di tre famiglie che arrivarono direttamente dalla zona B del territorio di Trieste.

Se quella di Piazza Albegna fu la costruzione che accolse contemporaneamente il numero maggiore di profughi, va ricordato che negli stessi anni vennero costruiti a Grosseto, dall’IACP e dall’INCIS, altri alloggi di edilizia popolare il cui 15%, in base alla Legge 137/1952, venne riservato ai profughi.

Il “palazzo dei profughi”, Piazza Albegna, Grosseto

Analogamente a quello che avveniva a Grosseto anche in altre località della provincia vennero realizzati degli appartamenti, in tutto 165, il cui 15% venne destinato ai profughi.

Queste le località interessate dagli interventi di edilizia popolare: Arcidosso, Casteldelpiano, Cinigiano, Follonica, Gavorrano, Manciano, Monterotondo Marittimo, Orbetello, Paganico, Pitigliano, Porto S. Stefano, Potassa, Puntone, Roselle, Santa Fiora, Selvena, Sorano.

Complessivamente, nel periodo 1953 – 1964, a Grosseto e in provincia vennero assegnati ai profughi più di 140 alloggi.




Primo Levi e l’arte

La più importante opera di Primo Levi non è quella legata alla letteratura bensì quella legata all’arte” sostiene il professor Paolo Coen della Università di Teramo.

Comunque, si dice che non sono molte le citazioni di opere d’arte nelle opere di Levi, né che lo scrittore sembri troppo attratto dal mondo artistico; tuttavia due cose smentiscono tale affermazione: 1) a un certo punto, per passatempo – Levi ha sempre lavorato con le mani, aggiustando ad esempio i giocattoli dei figli – ha cominciato a costruire con i fili di rame ricoperti di vernice, provenienti dalla Siva, l’azienda chimica per cui lavorava, degli animali – una farfalla, un gufo, un coccodrillo – che poi regalava agli amici o teneva in casa. Questo passatempo, nella raffigurazione della farfalla, può presentare analogia con la raccolta L’angelica farfalla (1966) di straordinaria elevatezza e, al tempo stesso, profondità.

Il tema che sta alla base di questa raccolta è quello della «permutazione delle specie e delle forme» L’«angelica farfalla» è una citazione da Dante: «O superbi cristiani, miseri lassi, / che, della vista de la mente infermi, / fidanza avete ne’ ritrosi passi, / non v’accorgete che noi siam vermi, / usati a formar l’angelica farfalla, / che vola a la giustizia sanza schermi?». Siamo in Purgatorio X, 121-26, nella cornice in cui i superbi purgano il loro peccato per ascendere al premio eterno. Ora su questa possibile duplicità si costruisce la raccolta di racconti di cui stiamo parlando: si può andare verso il basso o verso l’alto, a seconda della scelta che si è fatta. E l’umano e il bestiale, in questo accidentato percorso, si corrispondono e talvolta si fondono, creando ircocervi difficilmente distinguibili.

paolo-coen-arte-e-musei-della-shoah-per-imt-alti-studi-lucca-1-638il gufo è il mio autoritratto” diceva scherzosamente Levi. E in effetti con quegli occhiali enormi, i capelli un po’ a punta e la barbetta, nell’ultimo periodo della sua vita, Levi un po’ assomigliava a un gufo. Doveva trovarlo divertente, visto che i gufi ricorrono spesso nella sua opera. Andando a cercare immagini per il lavoro su Una stella tranquilla se ne trovano diversi, a partire da quelli che Levi disegnava al computer. Levi si paragona a un gufo anche quando racconta del periodo in cui scrisse Se questo è un uomo. Era il 1946 e Levi lavorava ad Avigliana, un po’ fuori Torino, in una fabbrica di vernici. Scrisse il libro in treno, nelle pause dal lavoro e soprattutto di notte, nella foresteria della fabbrica, dove il suo ticchettare alla macchina da scrivere veniva considerato parecchio strano dai colleghi. «Ero il gufo notturno che batteva alla macchina da scrivere», disse Levi. E per un bel po’ di tempo la sua scrittura sarebbe rimasta così, un’attività notturna (o almeno serale), a cui si dedicava dopo il lavoro, dopo che aveva “cambiato pelle”, passando da chimico a scrittore. Ma il gufo più importante e è un altro, è una specie di maschera.

Appartiene a una serie di “sculture” che Levi fabbricava con il filo di rame. Questo era la materia prima del suo lavoro di chimico: il filo di rame, infatti, è un conduttore elettrico, ma per essere usato deve prima essere trattato con una vernice isolante, quella che appunto si produceva alla Siva, la fabbrica in cui lavorava Levi. Più o meno come succede in molti suoi racconti, anche qui la materia prima è fornita dal lavoro di chimico e dalle esperienze vissute in quella veste per poi trasformarsi in arte, in libri o, in questo caso, in strani manufatti.

C’é una foto in cui Levi “indossa” la maschera da gufo che è diventata piuttosto simbolica. Così pare acquisire valore allegorico, un buon modo per rappresentare la complessità della figura di Primo Levi, e in particolare la differenza tra il Levi pubblico e il Levi privato, tra il Levi a cui abbiamo accesso noi tramite i suoi libri e quello che invece rimane intimo e nascosto. Nel 1986, Mario Monge, suo concittadino, l’ha fotografato mentre «indossa» una di questi animali di fronte all’obiettivo, proprio un anno prima della morte.

Una di queste foto è diventata la copertina del saggio, di ben 700 pagine, Primo Levi. Di fronte e di profilo (Guanda) di Marco Belpoliti. Il libro presenta un titolo suggestivo che richiama le foto segnaletiche e in copertina ha una foto di Levi che mostra una maschera in filo di rame a forma di gufo. Belpoliti non nasconde la struttura che sostiene la sua opera ma anzi la ostenta, come l’architettura del Centre Pompidou a Parigi.

 Ma l’opera d’ arte più famosa di Levi è il Memoriale italiano  del Blocco 21 di Auschwitz1,

Progettato dallo Studio architetti: BBPR (Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Gian Luigi Banfi, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers) voluto dall’’A.N.E.D. del quale è tuttora proprietà. Inaugurato anni ’80 e arricchito di significato dagli affreschi di Mario Samonà, dai testi di Primo Levi, dalle musiche di Luigi Nono, con la regia di Nello Risi

Il gruppo degli architetti progettisti è lo stesso del Museo al Deportato  di Carpi, inaugurato nel 1973, una struttura frutto dell’impegno civile di artisti che furono anche testimoni degli avvenimenti che rappresentavano. Essi si sono avvalsi della collaborazione di  Renato Guttuso. Nel museo sono conservati suggestivi graffiti di alcuni grandi pittori come Picasso Longoni Léger, e ovviamente Guttuso che hanno commentato a loro modo la deportazione sulle pareti del museo.

 Il Memoriale 21, voluto realizzato all’interno della camerata in una baracca del campo, è dedicato ai deportati italiani nei Lager nazisti.

Originariamente il blocco 21 fu il reparto chirurgico, dove i deportati furono sottoposti a operazioni sommarie e raccapriccianti esperimenti. Poi quelle mura furono affidate all’Italia, perché vi allestisse il suo padiglione della memoria: Auschwitz, Blocco 21. Esso ha la forma di un tunnel di tela e armatura di metallo, sollevata da un impalcato e tesa attraverso i vuoti spazi della baracca.  Assume la forma di una ossessiva spirale a elica che avvolge il cammino del visitatore in un percorso unitario e ossessivo lungo ottanta metri che rappresenta e rievoca la spirale di violenza nella quale i deportati furono travolti. Attraversandola, come in un brutto sogno, si rivivono i momenti della disperazione, della presa di coscienza, della volontà di sopravvivenza e della vittoria sul male.

Mediante un’armatura lignea la spirale tende una banda continua di tela, sulla quale sono rappresentate le immagini del fascismo, dell’antifascismo, della Resistenza, della deportazione e dello sterminio, dipinte da Samonà e commentate dalle parole di Primo Levi.

Dilatata nelle tre dimensioni, scandita dalle viste alterne della baracca e dei dipinti, la spirale ricompone l’incubo doloroso, coniugando spazio architettonico e pittura per trovare una comunicazione immediata e universale.

Si tratta inoltre della prima opera d’arte vivente in cui i testimoni potevano mettersi a sedere.

E sono alcune di queste immagini, come ad esempio la falce e martello o il volto di Antonio Gramsci, elementi comunisti insopportabili nella Polonia post patto di Varsavia post Solidarnosc, tornata fortemente cattolica e nazionalista, che sono stata la prima fonte dello smantellamento del Blocco 21. A tanti anni di distanza, la vicenda ricorda Tilted Arc, il capolavoro di Richard Serra distrutto per ragioni politiche. Tilted Arc  era una controversa opera d’arte minimalista, creata sotto forma di istallazione pubblica da Richard Serra e collocata in Foley Federal Plaza in Manhattan dall’1981 al  1989. Essa era lunga 120 piedi e alta 12, con una superficie non finita ricoperta di acciaio COR-TEN. I critici ne contestarono la bruttezza, ritenendo che essa deturpasse quel sito della città. Dopo un acceso dibattito pubblico, la scultura fu rimossas per volere della corte federale e non è stata mai più esposta.

Distrutto, in qualche senso lo è anche il blocco 21, perché spostare un’opera d’arte dal suo contesto originale, dal contesto di Primo Levi, significa appunto sottrarne ogni alito di vita e, insieme, ogni possibilità di lettura.

Gli elementi rappresentati facevano parte di un tutt’uno storico dall’ omicidio Matteotti alla Shoah.

image003Il blocco 21 è un’opera site specific, che non potrebbe né dovrebbe avere una collocazione in un altro luogo. Invece è stata sbarrata. Dal 2011, una porta chiusa, anche nel giorno del settantesimo anniversario della Shoah, sbarrata anche per gli storici e gli studiosi, impedisce di vedere “il «Memoriale ai deportati caduti nei campi di sterminio nazisti”. La parte italiana è stata chiusa d’ imperio con una decisione unilaterale dalla direzione del museo, per divergenze, per così dire, di filosofia: ritengono che un’opera di quel tipo – artistica e figlia del tempo – gli anni Settanta – in cui è stata concepita, non sia compatibile con l’approccio didascalico che hanno inteso dare al museo. Dopo il crollo del Muro, infatti, alcuni dei padiglioni di Auschwitz, affidati alle varie nazioni, iniziano ad essere ripensati, anche in base a nuove prospettive storiografiche. In Italia, qualcosa si muove a fine 2007, quando il governo Prodi stanzia 900 mila euro per il restauro del Blocco 21 mentre gli intellettuali si interrogano se il Memoriale sia o non sia troppo figlio degli anni Settanta, se puntando di più sull’antifascismo non finisca per trascurare la Shoah. L’A.N.E.D. lo difende. Ma chiude il discorso il Museo di Auschwitz: l’arte non basta, serve un allestimento didattico. Un esempio, il padiglione francese, rinnovato nel 2005. Tra rinvii e ricorsi si arriva al 2011, quando il Museo chiude il Blocco dell’Italia, che rischia di essere sostituita da un altro Paese.

 «Davanti al pericolo di smantellamento, anche se non siamo d’accordo, abbiamo accettato di riportare il Memoriale in Italia», racconta Dario Venegoni, presidente dell’A.N.E.D. .

Fino all’annuncio che l’opera andrà a Firenze, in base alla Risposta all’interrogazione scritta presso il Senato n. 4-05184 Fascicolo n. 123.

Resta da capire cosa ne sarà del Blocco ancora chiuso. Firenze ha individuato la sede della sua nuova esposizione negli spazi di EX3, centro d’arte attualmente vuoto.

 Qui il Memoriale del blocco 31 troverà collocazione all’interno dell’EX3 proprio accanto a piazza Bartali, quasi a ricongiungere in questo progetto di memoria collettiva anche l’impegno del grande ciclista, riconosciuto “giusto tra le nazioni” da Yad Vashem. I

Il luogo non è di certo il massimo, perché a ricordare l’olocausto c’e’ solo il nome della Piazza. L’edificio, uno strano parallelepipedo grigio antracite, più adatto ad un hangar di aviazione che a un museo della memoria, è lo spazio Ex3 del quartiere Gavinana, area semiperiferica e non troppo valorizzata, piena di centri commerciali.

Non è dato sapersi come, nell’interno ancora vuoto, la spirale del fu Blocco 21 troverà collocazione, ma di certo la location è del tutto decontestualizzata e la migliore opera d’arte di Primo Levi non si meritava una fine così.

Contenti saranno forse gli studenti, costretti dai docenti a visitare questo luogo della memoria, che poi potranno pranzare al Mc Donald’s e fare un po’ di shopping, dimentichi di cultura, arte, passato e perciò anche del loro futuro. A meno che istituzioni ed enti culturali interessati riescano a costituire un ampio (lo spazio c’è) e strutturato centro di documentazione, didattica e ricerca, capace di dare contestualizzazione al nuovo museo del Blocco 21, restituendo, per quanto possibile fuori dal suo contesto, la forza del messaggio artistico e culturale di Levi, pur lontano dall’ambiente era stato pensato.




Europa: dal passato al futuro. Il Treno della Memoria 2019

23 gennaio: questa mattina inizia la nostra visita di Cracovia sotto la neve a meno 7 gradi, ma ci stiamo quasi abituando al freddo. Ironia della sorte si è invece ammalata la nostra guida con 39 di febbre! Trovata poi una nuova, comincia la nostra escursione. Cracovia, inserita nel patrimonio dell’Unesco (accoglie infatti 10 milioni di turisti all’anno) era stata la capitale della Polonia prima di Varsavia. Contando la popolazione studentesca, ha circa un milione di abitanti. È una città ricca di cultura, con ben 29 università. Durante l’occupazione nazista, Cracovia fu sede del governatorato tedesco, che si installò nel Wavel fino alla liberazione da parte dell’armata rossa il 18 gennaio 1945, anche se la nostra guida (cosa che nella Polonia attuale non stupisce) dice “siamo caduti dalla padella alla brace”, aggiungendo addirittura che si stava meglio sotto i nazisti! Poi inneggia a Papa Wojtyla, e a Solidarnosch che hanno portato la libertà e al governo attuale che ha ridotto la disoccupazione al 2%.
La nostra visita inizia sulla Vistola sotto la Fortezza del Wavel. Il fiume è stato frutto della ricchezza della città perché, sfociando presso Danzica, era mezzo di comunicazione commerciale : da qui partiva l’oro bianco, cioè il sale, e qui arrivava l’oro giallo, cioè l’ambra.
Il primo castello del Wavel è stato fondato alla fine del XI secolo e poi è stato ampliato dopo il 1320, quando Cracovia è diventata capitale, subendo ulteriori trasformazioni in epoca rinascimentale. Adesso è sede museale, che conserva anche la celeberrima Dama con l’ermellino di Leonardo da Vinci. Purtroppo non c’è tempo per visitarlo, così come non visitiamo neppure la cattedrale, che sorge su quella stessa collina.
Percorriamo la “via canonica”, e, come spesso accade visitando Cracovia con una guida, ci tocca una sorta di pellegrinaggio tra una foto del papa e l’altra che costeggiano la strada. Imbocchiamo poi una parte della Via Reale, chiamata via del Castello peri congiunge esdo con la piazza principale. Questa via è detta anche strada delle chiese, perché ve ne sorgono ben 10, la maggior parte costruite per volere dei gesuiti nel 1600, utilizzando anche architetti italiani. La guida ci tiene a farci vedere la chiesa dei Santi Pietro e Paolo dove si sono sposati i genitori del Papa! In tutta la città sono ben 130 chiese. Arriviamo nella piazza principale, la Piazza del mercato, grande ben 4 ettari, divisa a metà dal palazzo loggiato chiamato Palazzo dei tessuti (adesso pieno solo di souvenir). Tutti i monumenti di questa Piazza sono stati fatti saltare in aria dai nazisti che non volevano che si conservassero le vestigia della grandezza polacca. La nostra visita si conclude sotto la torre, l’unica traccia dell’ex municipio abbattuto dagli Asburgo nel 1800 per poter creare qui una piazza d’armi.

Quindi, presso l’università Jagellonica, la più antica della Polonia, si tiene il dialogo fra studenti italiani e polacchi e i testimoni sopravvissuti ad Auschwitz.
Partecipano il Magnifico Rettore dell’università, il vice sindaco di Cracovia, il direttore della commissione europea in Polonia, il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, ambasciatori e consoli dei due paesi e il vicepresidente della commissione europea, Frans Timmermanns.
Coordina l’incontro con i testimoni, due italiane -le sorelle Bucci- e una polacca – Lidia Maksymowicz- il professore Gozzini.
La prima parte dell’incontro verte sulle loro testimonianze.
Andra questa volta racconta anche ciò che accadde loro alla liberazione del campo: una jeep con un uomo che, in una lingua diversa, offre loro del cioccolato. Dopo un breve soggiorno in ospedale, vengono trasferite in una scuola di Praga, dove ricevono cure ma non amore. La loro rinascita avviene in un collegio inglese, nel Surrey, dove vengono trasferite dalla croce rossa insieme ad altri bambini ebrei. Tatiana si sofferma invece sul ricongiungimento con i genitori, iniziato con una fotografia che li ritrae nel giorno del matrimonio e terminato con un viaggio in treno, percepito da loro come noioso, da Roma a Trieste.
Oggi le sorelle parlano con voce limpida, con la consueta complicità, quella che ha contribuito a salvare loro la vita. È la volta di Lidia, una delle ultime testimoni polacche, anche lei deportata bambina. In comune con le sorelle Bucci sente il silenzio delle baracche, il dover imparare presto il tedesco, e l’interesse sadico del Dottor Mengele.
Lidia racconta l’estenuante viaggio in treno, alla fine del ’43, dalla Bielorussia ad Auschwitz, la selezione: il nonno e la nonna sono indirizzati verso le ciminiere, mentre lei e la mamma vengono mandate verso “la vita”. E fa effetto sentir questa parola, così come il fatto che lei non abbia riconosciuto la madre, vestita con il pigiama a righe e rasata. Con voce ferma racconta la vita nella baracca, fra insetti e diarrea, imparando a convivere con la morte. Pallida e trasparente, cercava di nascondersi quando veniva chiamata da Mengele, che utilizzava loro come cavie per creare “l’uomo nuovo”, il prefetto ariano. È bello sentire della solidarietà da parte di certi abitanti dei paesi limitrofi, che alla madre, che lavorava schiava lungo la Vistola, davano un po’di cibo. Già da bambina Lidia impara la lotta per la sopravvivenza e la mancanza di solidarietà: perfino fra bambini non si parlava.
Un altro dettaglio che la unisce ad Andra e Tatiana è il ricordo dell’arrivo di un soldato con la stella rossa, che le dà pane e margarina. Portata per qualche mese in una casa di Oswiecim, riscopre la normalità, anche se i segni del male assoluto sa che sono rimasti dentro di lei.
Adesso son gli alunni a fare domande: “quali pensieri vi hanno aiutato nel campo a sopravvivere?” Le Bucci rispondono il fatto di essere in due; Lidia cambia argomento e narra invece il ricongiungimento dopo anni, in Russia, con la madre, che ella credeva morta. Alla domanda “perché il male assoluto non è riuscito a cambiare l’umanità?” Tatiana sospira a lungo, poi dice di non capirne la ragione, perché gli uomini sono tutti uguali; secondo Lidia dipende dai giovani come sarà il mondo in futuro.
La seconda parte dell’incontro verte su quel grande guscio protettivo che è l’ Europa. Timmermanns asserisce che essa è nata sulle ceneri dei campi di concentramento nazisti. Invita poi i giovani a votare alle prossime elezioni europee, a maggio, in maniera consapevole.
Iniziano poi le domande del Citizen Dialogue. La prima verte sulla Brexit, che Timmermanns definisce la più grande ferita nella sua carriera politica. Una studentessa polacca domanda se si stanno prendendo provvedimenti a livello europeo contro le fake news che condizionano gli esiti elettorali. Timmermanns risponde che c’è stata una conferenza a Bruxelles su questo argomento e anche sulla propaganda alla violenza via internet. Ma la legislazione non sarà l’unica risposta, la principale sarà il pensiero critico. Uno studente polacco invita polemicamente Timmermanns a persuaderlo di seguire questo modello obsoleto di Europa. La risposta tuona energica e un po’ adirata: “non sopporto chi si lamenta senza agire. Fate voi in modo che l’Europa assomigli all’idea che avete di essa, plasmatela, cercate strumenti per combattere le recrudescenza di fascismo, l’aumento dei nazionalismi -bravi a paralizzare e distruggere, mai a costituire-, l’ascesa della Cina, la crisi nell’Europa meridionale”. Prende poi la parola il presidente del Parlamento giovanile toscano, che inneggia all’accoglienza e chiede come si fa per far tornare l’ Europa un valore, per far capire che la mescolanza etnica è una risorsa. Rossi risponde che la Toscana è già multietnica, con 100.000 rumeni, che si sono integrati e fanno in gran parte i muratori, altri 100.000 dall’Albania, la maggior parte dei quali fanno i vivaisti. E poi molti altri dall’est Europa, dalla Cina e dal Nord Africa. Bisogna combattere il razzismo, già concedendo a tutti i bambini nati sul suolo italiano la cittadinanza italiana. Ma figuriamoci se questo governo discuterà dello ius soli, penso fra me e me. “Dobbiamo combattere l’indifferenza e l’ignavia e non permettere che muoiano altre persone, ad esempio in mare, senza aiuto”. Timmermanns, grande conoscitore del nostro paese, dice che sa che l’Italia, così come la Grecia, si sono sentite abbandonate dalla Unione Europea di fronte al problema dei flussi migratori. L’UE, invece, deve fare sentire che i problemi del vicino sono i tuoi. La questione successiva verte sulle posizioni euroscettiche, sulla percezione che l’UE non sia più un’unione fra popoli ma fra banche. “L’Europa non è un’istituzione del passato, diciamolo con determinazione, non con aggressività.
È in gioco il futuro dell’Europa! parliamone. La commissione europea non è che un piccolo strumento nelle mani dei cittadini”. Con questa esortazione di Timmermanns si conclude il Citizen Dialogue sul futuro dell’Europa: imparare dal passato, capire il futuro.