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Roccastrada 1921. Un paese a ferro e fuoco

* Il 1921: lo squadrismo alla conquista della Maremma

La Toscana è annoverata tra le regioni chiave per comprendere la nascita del fascismo, che com’è noto prese forma nei tre anni che precedettero la marcia su Roma del 1922. Il 1921, in particolare, rappresentò per la Maremma come per le altre zone della regione, il momento culminante del fenomeno squadrista, che del fascismo movimento politico fu il braccio armato: a partire dall’assassinio a febbraio del 1921 del sindacalista comunista Spartaco Lavagnini, le violenze degli squadristi, irradiandosi da Firenze, si susseguirono feroci in tutta la Toscana; vi si distinsero molti “avventurieri” fiorentini, fondatori dei primi fasci nelle province di Arezzo, Siena, Livorno e Grosseto (primo in provincia di Grosseto fu presumibilmente quello di Ravi nel novembre 1920). 

etruriaI fascisti “forestieri” circolavano in regione per dare coraggio agli elementi locali, ma soprattutto per suscitare disordini che potessero costituire quella “provocazione” necessaria come pretesto per una sistematica campagna di occupazione del territorio (che via via veniva indicato come da “purificare”, “spurgare”, “bonificare”). La modalità di azione degli squadristi era quella delle cosiddette “spedizioni punitive”, che miravano alla devastazione delle sedi e dei luoghi di aggregazione dei partiti (principalmente il Partito socialista) e alla intimidazione degli avversari politici. Una modalità che descrive perfettamente la violenza fascista che si scatenò sulla città di Grosseto fra il 27 e il 30 giugno 1921, su Orbetello il 10 luglio e su Roccastrada il 24.

Dino Perrone Compagni

«A Civitavecchia tuona il cannone. L’Umbria è in fiamme. In tanti altri paesi divampa la guerra civile. Dopo la disfatta elettorale il fascismo grida: “Ora viene il bello!”» si legge su “Il Risveglio”, settimanale socialista maremmano, nel maggio del 19211. Anche in Maremma, nella primavera del 1921, le “gite di propaganda” si susseguirono ai margini della provincia (una prima di fascisti senesi colpì Monterotondo, Montieri, Gerfalco e Travale, mentre una spedizione guidata dall’empolese Romboli fu organizzata a Santa Fiora e Bagnore). Il capoluogo veniva progressivamente accerchiato, prossimo obiettivo predestinato: fu nella seconda metà di giugno che il marchese Dino Perrone Compagni, segretario politico del fascio di Firenze, preparò la “conquista” di Grosseto con l’invio di “13 pellacce” (fra cui il famigerato squadrista Dino Castellani), a cui si unirono immediatamente altri fascisti fiorentini, provenienti da Foiano della Chiana e già alloggiati in città presso l’Hotel Bastiani.

Dal diario di uno squadrista toscano, Mario Piazzesi, che partecipò a quella prima incursione si legge

si sarebbe andati nella città tabù, che se da Carrara a Perugia, da Spezia alla Romagna Toscana, le piane e i monti erano stati arati in lungo e in largo dalle nostre scorribande, Grosseto piantata lì in mezzo alle paludi, in quella Maremma che sembrava rimasta ai tempi di Gasparone, era o almeno appariva intangibile. E tutti rossi nella piana malarica: rosso il comune, rossa la provincia, rossi i combattenti, i repubblicani più spinti degli stessi comunisti”2.

Squadristi grossetani (fonte: La Maremma, numero sul ventennale della fondazione dei fasci di combattimento)

Il 27 giugno 1921, si ebbero i primi scontri a Grosseto tra gli squadristi e i “sovversivi” locali, ma fu con l’arrivo dei rinforzi, che conversero da tutta la Toscana, e con la morte in uno scontro individuale di un fascista, il giovane senese Rino Daus, che Grosseto diventò un vero e proprio campo di battaglia: circa 700 camicie nere devastarono non soltanto le sedi del partito socialista, comunista e repubblicano, insieme alla Camera del Lavoro e alla Lega dei Terrazzieri, ma anche luoghi di ritrovo dei “sovversivi” e la tipografia de “Il Risveglio” (un fatto eclatante, quest’ultimo, che costrinse da quel momento i socialisti grossetani a organizzare i propri mezzi di diffusione fuori dalla Maremma)3. Furono presi di mira i “rossi” più noti, dispensate per strada bastonature e olio di ricino. Seguì una surreale scena: in una città ormai terrorizzata, Dino Castellani costrinse all’esposizione del tricolore dalle finestre e, “in espiazione dei misfatti rossi”, fece inginocchiare le camicie nere e la popolazione cittadina in Piazza del Duomo in un’imponente manifestazione in onore di Rino Daus4. Vi furono vittime e numerosi feriti, prima che i fascisti ripartissero, non mancando di provocare incidenti sulla via del ritorno a Roccastrada, Montorsaio, Sasso d’Ombrone e Scansano. A quei fatti seguì qualche giorno dopo l’analoga “conquista” di Orbetello.

** La strage di Roccastrada del 24 luglio 1921

Archivio Niosi, Panorama di Roccastrada

Archivio Niosi, Panorama di Roccastrada

Culmine di quell’estate di sangue, però, fu l’efferata strage di Roccastrada. La spedizione squadrista del 24 luglio sul paese è un esempio chiaro di quell’inedito tipo di operazioni che definiscono le fasi iniziali della presa di potere da parte del fascismo: incursione in camion di gruppi di squadristi, provenienti anche da località distanti, che si concentrano nei diversi paesi per devastarne i luoghi simbolo e colpire le case dei “bolscevichi”, tentando la conquista delle amministrazioni “rosse”. Una spedizione punitiva contro obiettivi precisi, in questo caso contro la Roccastrada “roccaforte rossa”, e in primis contro il suo sindaco socialista Natale Bastiani.

Il piccolo Comune delle Colline metallifere era stato oggetto dell'”attenzione” fascista già nell’aprile del 1921: contro il paese si appuntavano infatti da tempo le ire dell’Agraria e degli elementi fascisti, che avevano accolto con sdegno il successo elettorale clamoroso registrato dal partito socialista alle elezioni amministrative del 1920. Bersaglio diretto fu proprio l’amministrazione comunale, nella figura del sindaco Natale Bastiani, che nell’aprile del 1921 aveva ricevuto una prima intimidazione dal segretario politico di Firenze dei fasci di combattimento, Dino Perrone Compagni: in un telegramma, altezzoso e irridente, questi pretendeva da Bastiani le dimissioni, pena l’assumersi, “in caso contrario, ogni responsabilità di cose e di persone”5.

Dante Nativi

Dante Nativi

Per comprendere la vicenda è utile tornare ai fatti che nell’ottobre del 1920 avevano insanguinato il vicino Comune di Civitella Marittima. Lì si trovava la villa dell’agrario Ferdinando Pierazzi, possidente terriero che in Maremma era stato uno dei pochi a rifiutare la rinegoziazione dei patti colonici negli anni dei moti contadini e che diventerà in seguito uno dei principali esponenti del fascismo provinciale. La contrapposizione fra Pierazzi e la Cooperativa agricola di produzione e consumo di Roccastrada, guidata dal socialista Dante Nativi, aveva portato nel 1920, per un sopruso a danno di un mezzadro, a un moto popolare cui aveva preso parte anche il sindaco roccastradino Bastiani; nell’interpretazione dei giornali moderati, proprio Bastiani era stato individuato come l’istigatore e quindi il responsabile di un assalto alla villa che veniva letto come preterintezionale, ma che invece era specchio di una situazione sociale incandescente6.

Archivio Niosi, Via Nazionale con il Palazzo del Comune, Roccastrada

Archivio Niosi, Via Nazionale con il Palazzo del Comune, Roccastrada

Roccastrada, la cui tradizione repubblicana era stata definitivamente soppiantata nel 1920 con il voto amministrativo a favore dei socialisti, aveva vissuto nel dopoguerra trasformazioni importanti, legate proprio alla mobilitazione per le lotte operaie e contadine, e una conseguente politicizzazione della popolazione7. Ad esempio, durante la campagna elettorale per le elezioni politiche del 1921, che a Roccastrada porteranno un consistente numero di voti ai comunisti, il comizio improvvisato di un candidato del fascio di difesa nazionale era stato interrotto da un gruppo di giovani che avevano intonato “Bandiera Rossa” e poi l’oratore era stato colpito da una bastonata alle spalle8. Un piccolo precedente che aveva esacerbato il rancore dei fascisti verso il paese, a cui si deve aggiungere l’ira derivata dai colpi di fucile sparati lungo la strada (nei pressi della frazione di Torniella) contro la salma dello squadrista Rino Daus, morto negli scontri di Grosseto, durante il ritorno dei fascisti senesi dalla spedizione punitiva su Grosseto. L’indomani, il primo luglio, Roccastrada fu oggetto di un primo attacco fascista che devastò le case dei “sovversivi” del paese e rese più attuale il timore che gli squadristi sarebbero ritornati: sia da parte della popolazione9, sia da parte dello stesso prefetto di Grosseto che in un telegramma al ministro dell’Interno del 15 luglio esplicitava le proprie preoccupazioni al riguardo, “tralasciando però di prendere, secondo quelli che erano i suoi poteri, la benché minima misura precauzionale”10.

ordine nuovoA quella prima incursione seguì la spedizione punitiva del 24 luglio, ben diversa per organizzazione e forze impiegate: all’alba 60 squadristi armati di tutto punto, guidati dal famigerato Dino Castellani, arrivarono in camion in paese e devastarono sistematicamente le case del Sindaco, degli assessori e del presidente della Cooperativa di consumo. Si scagliarono contro l’orologeria del comunista Ferdinando Tagliaferri e il bar dell’anarchico Davide Bartaletti. Bastonarono ed inseguirono vari cittadini identificati come “sovversivi” a colpi di revolver, ferendone gravemente alcuni. Quattro ore e mezzo dopo, ubriachi, i fascisti ripartirono alla volta delle frazioni di Sassofortino, Roccatederighi e Montemassi, per continuare la cosiddetta “gita di propaganda”.

All’uscita dal paese, però, un colpo esploso, probabilmente accidentalmente dallo stesso camion su cui viaggiava, uccise il giovane squadrista Ivo Saletti. I fascisti gridarono all’assassinio, ipotizzando un agguato comunista (di cui la sentenza emersa dal processo del dopoguerra stabilì che non esistevano prove), e rientrarono in paese per vendicare il camerata ucciso. Rimasero vittime della violenza cieca 10 roccastradini (Tommaso Bartaletti e suo figlio Guido, Antonio Fabbri, Giuseppe Regoli, Francesco Minoccheri, Ezio Checcucci, Luigi Nativi, Angelo Barni, Vincenzo Tacconi, Giovanni Gori), mentre numerosi furono i feriti e i danni a case e negozi, messi a ferro e fuoco. Infine dopo ore i fascisti lasciarono il paese, scortati da un camion di 30 carabinieri giunti da Siena dopo la strage per dare rinforzo a quelli di Roccastrada, rimasti chiusi “precauzionalmente” nella Caserma in attesa.

Sull’inerzia dei carabinieri si appuntò l’inchiesta aperta dall’Ispettore di Pubblica Sicurezza Alfredo Paolella, che era stato inviato in provincia per garantire l’ordine pubblico e indagare sui fatti di Grosseto. Paolella parlerà inizialmente di un’azione dei carabinieri che a Roccastrada “non è apparsa sufficientemente sollecita ed energica“, in seguito protesterà apertamente non soltanto per il mancato intervento ma anche per la “deplorevole” mancata identificazione dei fascisti responsabili: nella relazione al ministro dell’Interno del 4 agosto successivo, Paolella espliciterà il malumore dovuto al fatto che

per l’eccidio di Roccastrada, dovuto a un’accozzaglia di giovinastri briachi di liquori e di sangue, condotti da un mercenario violento, i mandati di cattura furono spiccati dopo non poca titubanza e solo in seguito alle mie formali dettagliate e insistenti denunzie”11.

ivo saletti

Ivo Saletti

Di fatto, due giorni dopo, mentre i funerali partecipatissimi delle vittime roccastradine si svolgevano quasi in forma dimessa, senza simboli o discorsi politici, a Grosseto il corteo funebre di Ivo Saletti vedeva la partecipazione di migliaia di persone, accompagnate dalla banda musicale; vi presero parte numerose rappresentanze dei fasci toscani, l’on. Aldi Mai, presidente dell’Associazione Agraria maremmana, e lo stesso Dino Castellani, che, ancora libero di circolare, poté persino tenere il discorso commemorativo del “martire” Saletti12, avviando anche per lo squadrista grossetano quel processo di “beatificazione” che già era in corso per il senese Rino Daus.

*** Una vicenda dimenticata?

Forte fu l’immediato risalto sulla stampa nazionale e locale, caratterizzato da un’insieme di ricostruzioni e interpretazioni diverse e contrastanti, spesso intrecciate con accuse reciproche di falsità e ipocrisia (soprattutto in merito alla morte, accidentale o meno, di Ivo Saletti)13. La dinamica dei fatti raccontata dalle pagine de “L’Ordine nuovo” o de “L’Avanti!”, con quell’infierire degli squadristi ubriachi su cittadini inermi (non “sovversivi” come inizialmente era stato detto), la resero via via fatto poco edificante per lo stesso fascismo: nonostante alcuni giornali tentassero di inserire la narrazione dei fatti di Roccastrada fra quelli che avevano portato alla gloriosa “rigenerazione della Maremma” ad opera del fascismo, quindi, la strage di Roccastrada venne sempre più raramente rammentata e fu progressivamente rimossa anche dalla memoria fascista della “conquista” del territorio maremmano, eccezion fatta per la figura del “martire” Ivo Saletti.

Dopo la firma del patto di pacificazione fra fascisti e socialisti del 3 agosto, lo stesso Mussolini, del resto, parlò dei fatti di Roccastrada in un’intervista a “Il Resto del Carlino” come di uno di quegli episodi che fecero “impallidire” un po’ “la stella del fascismo14. Chiurco, nella sua “Storia della rivoluzione fascista”, tenterà ancora successivamente di presentarla come una reazione alle violenze “rosse”, scrivendo quasi a giustificazione che si trattò di “inesorabili” rappresaglie, scaturite da una vera e propria battaglia che si era diffusa per tutte le vie del paese, e precisando che “gli squadristi erano già esasperati per gli inenarrabili strazi subiti dai fascisti a Sarzana“. La strage di Roccastrada, in effetti, si spiega solo se inserita non soltanto nel più ampio contesto provinciale, ricollegandola a quel processo di espansione del fascismo maremmano che ha luogo nell’estate del 1921, ma anche in riferimento al più ampio contesto regionale e al clima instauratosi in Toscana dopo gli eventi avvenuti pochi giorni prima a Sarzana. Da non tralasciare, però, il rilievo nazionale di questo evento, che fece profonda impressione in un momento in cui era in corso la trattativa sul patto di pacificazione tra fascisti e socialisti e, all’interno del movimento fascista, la crisi determinata dallo scollamento fra l’ala militare e la dirigenza politica.

Archivio Niosi, Fascisti del fascio di combattimento di Roccastrada, anni Venti/Trenta

Archivio Niosi, Fascisti del fascio di combattimento di Roccastrada, anni Venti/Trenta

Ciò, ovviamente, in aggiunta ai diversi nodi di interesse per quel che riguarda la storia della comunità in cui la strage avviene e in cui segna un punto di rottura drammatico con la tradizione politica precedente del Comune e del territorio. Quella sulla strage di Roccastrada e sulle complessive violenze squadriste del 1921 in Maremma è quindi un’operazione di recupero della memoria di un periodo fondamentale anche per la storia locale, ancora poco studiato e (forse) anche poco noto, ma che segnò l’inizio di un periodo di “assenza dell’autorità” sul territorio. A quei fatti seguirono la sospensione delle sedute e delle attività, poi le dimissioni di gran parte dei Consigli comunali socialisti della provincia; un punto di non ritorno verso il commissariamento prefettizio dei Comuni che preclude alla riforma podestarile fascista.

Da quel momento in poi la situazione locale per i “sovversivi” si fece complessa e incerta; i più conosciuti lasciarono il paese, e a volte la provincia, come ad esempio Dante Nativi, che si rifugerà da quel momento in Francia; chi rimase fu costretto al silenzio. 

Nel mese di ottobre fu inaugurato il gagliardetto del fascio a Roccastrada con un’imponente manifestazione; a novembre “L’Ombrone”, giornale ormai entrato nell’orbita fascista, ammoniva gli avversari sconfitti: “qui è bene che vi ricordiate che non fa più aria per voi (lettera minuscola) e che Roccastrada è ora Italiana di Fede, gentile di concetto, umanitaria di sentimenti a dispetto di tutti i farabutti social-comunisti15. Roccastrada era entrata negli anni più bui della sua storia.


NOTE:
1 “Il Risveglio”, 22 maggio 1921.
2 Mario Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano: 1919-1922, Società Editrice Barbarossa, Milano 2010.
3 Aristeo Banchi (Ganna), Si va pel mondo. Il partito comunista a Grosseto dalle origini al 1944, a cura di Fausto Bucci e Rodolfo Bugiani, Arci, Grosseto 1993.
4 Giorgio Alberto Chiurco, Storia della rivoluzione squadrista, Vol. I – La preparazione, Le Edizioni del Borghese, Milano 1972.
5 Molto noto per la diffusione che ne diede Gaetano Salvemini nelle sue “Lezioni di Harward”, il testo del telegramma è riportato in Angelo Tasca, Nascita e avvento del fascismo (Bari 1965) e recentemente anche nel volume di Mimmo Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista 1919-1922, Mondadori, Milano 2003.
6 Hubert Corsi, Le origini del fascismo nel grossetano (1919-1922), Edizioni Cinque Lune, Roma 1973.
7 Per una cronologia delle lotte operaie e contadine in Maremma dal maggio 1919 al maggio 1921, cfr. Ilario Rosati, Roccastrada-Roccatederighi nella storia d’Italia 1898-1915-1921, Pagnini e Martinelli editore, Firenze 2000, pp. 270-273.
8 Franco Dominici, Roccastrada 24 luglio 1921: cronaca di una strage, in Franco Dominici, Giulietto Betti, Fascismo, Resistenza e altre storie in Maremma, Effigi, Arcidosso 2020.
9 Fascismo: inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia, Edizioni “Avanti”, Roma 1963.
10 Maria Clotilde Angelini, I fatti di Roccastrada, in Nicla Capitini Maccabruni (a cura di), La Maremma contro il nazi-fascismo, La Commerciale, Grosseto 1985.
11 “Conflitti a Grosseto e provincia”, Rapporto dell’Ispettore di P.S. Alfredo Paolella al Ministro dell’Interno, 4 agosto 1921, in ACS, MI, DGPS 1921, b. 98.
12 Telegramma del Prefetto Rocco alla Direzione generale di PS, 26 luglio 1921, in ACS, MI, DGPS 1921, b. 98.
13 Rassegna stampa esaustiva è presente in Ilario Rosati, Roccastrada-Roccatederighi nella storia d’Italia 1898-1915-1921, cit.
14 “Il Resto del Carlino”, 3 agosto 1921.
15 Le onoranze in Provincia al Milite Ignoto, in “L’Ombrone”, 13 novembre 1921, n. 35.



Aspettando la rivoluzione: dai grandi scioperi alla “nascita” del PCdI a Firenze.

L’Italia del 1919-’20: un Paese spaesato, diviso, violento, gravato dal sommarsi di paure diverse e nuove, da consolidata estraneità nei confronti dello Stato, ostilità o indifferenza verso una classe dirigente spesso lontana e impermeabile, da un diffuso antiparlamentarismo, gravato dalla crisi economica, da disagio sociale, segnato dagli effetti di  una pandemia – la Spagnola – e dalle conseguenze del primo conflitto mondiale.

Firenze è parte di questo contesto. Anzi qui semmai le divisioni sono ancora più nette e gravi. La città è dominata da una classe dirigente conservatrice, ostile alla stella politica giolittiana, forte dei domini terrieri, signori dei poderi mezzadrili, detentori del potere politico ed economico. La propria superiorità rispetto ai ceti inferiori è un dato di fatto, una distanza naturale e incolmabile. Per povertà e disagio sociale può esserci solo benevolenza, paternalistiche concessioni, beneficenza. La città è stata interventista, intellettuali e studenti, professionisti si sono mobilitati, del resto proprio Firenze era stata sede della fondazione del movimento nazionalista, dimora di D’Annunzio, frequentata da Marinetti e dai futuristi. Fili ed eredità che si ritrovano nella fioritura di tante associazioni nazionaliste e anticomuniste nel dopoguerra, fra le quali anche un fascio abbastanza debole e precario. Ma è anche città di una crescente classe operaia. Paradossalmente proprio grazie alla guerra.

Firenze non era città di vere grandi fabbriche, se confrontate alla realtà del nord. I maggiori stabilimenti nel primo dopoguerra contano fra i 1000 e 2000 addetti. Ma è città di manifatture, che si radicano nella tradizione artigiana del territorio, pur in assenza di grandi stabilimenti è anche città operaia, frutto di uno sviluppo relativamente recente fra il primo decennio del secolo e gli anni della guerra. Di una classe operaia di tradizione artigiana, fiera del proprio mestiere, del proprio lavoro frutto di arte e conoscenze. Ancora a fine ‘800 la tradizionale dimensione agraria della classe dirigente fiorentina e la volontà di mantenere l’immagine di una Firenze d’arte e cultura avevano limitato lo sviluppo produttivo in una realtà frammentata e dispersa. Solo in età giolittiana ha una prima crescita, ma soprattutto negli anni del primo conflitto mondiale con la mobilitazione bellica degli stabilimenti, ad esempio le Officine Galileo passano dal 1907 al 1917 da circa 200 a circa 2000 addetti.

Una crescita che parallelamente vede l’esplosione di una presenza organizzata del sindacato e del partito socialista.  Nel 1920 il PSI conta oltre 8700 e la Camera del Lavoro oltre 63.000 soci divisi in circa 218 leghe. Una massa arrabbiata per i sacrifici e le scelte della guerra si organizza in una straordinaria rete di associazioni mutualistiche, ricreative, cooperative, accanto a quelle di partito e sindacato, trovando piena espressione nella dirigenza massimalista che ne ha assunto il controllo. Proprio la prospettiva neutralista e l’ostilità verso il conflitto mondiale accrescono i consensi dell’ala più intransigente del Psi fra le masse dei lavoratori già esasperate dalla precarietà e dalla durezza delle proprie condizioni lavorative. Peraltro la componente riformista, nonostante fosse ancora rappresentata da uomini come Giovanni Pieraccini e Giuseppe Pescetti e fosse radicata nelle associazioni economiche, sindacali e cooperative, aveva subito un duro colpo a seguito della svolta intervista di suoi numerosi esponenti, a partire dal direttore del periodico del partito “la Difesa”, Michele Terzaghi, espulso insieme all’on. Carlo Corsi. Tanto che proprio negli anni della prima guerra mondiale Firenze è definita la “capitale dell’intransigentismo”. La città aveva ospitato nel 1917 la Direzione nazionale del Psi che indica il sentimento patriottico come incompatibile con il marxismo e, in novembre, la riunione costitutiva dei gruppi “intransigenti-rivoluzionari” di Lazzari, Serrati, Gramscie Bordiga.

Un ruolo dominante dell’ala massimalista e rivoluzionaria che è ulteriormente rafforzato dal difficile contesto del dopoguerra. Fin dai primi mesi di pace tutte le categorie avanzano rivendicazioni e attuano scioperi. Alla Galileo sono molteplici le rivendicazioni per carovita o obiettivi politici. Centro dei moti per il carovita nel ’19 (con oltre 1400 arresti e oltre 400 persone mandate a processo) ai quali partecipano gli operai che raccolgono il malcontento di una comunità prostrata dal conflitto e dalle scelte governative dell’immediato dopoguerra. Del resto tutta la regione è scossa da tensioni e scontri. Nel 1919-1920 la Toscana è la seconda regione per numero di scioperi agricoli, seconda solo all’Emilia Romagna. I proprietari sono costretti nel corso del ’19 a rivedere le proprie posizioni e a concedere aumenti salariali.

Nel 1920 la situazione precipita. Toscana ed Emilia spiccano per numero di scioperi in un contesto nazionale che vede peraltro il nostro Paese al primo posto a livello europeo nel primo semestre di quell’anno. A gennaio quelli dei postelegrafonici e quindi dei ferrovieri aprono, pure a Firenze, una lunga scia di agitazioni, che vedono emergere sempre più la figura di Spartaco Lavagnini segretario della sezione fiorentina del sindacato ferrovieri. Proseguono le lotte agrarie. Nella primavera scontri prima in Emilia, poi in Toscana provocano vittime fra i lavoratori delle campagne e con scelte dal basso viene proclamato lo sciopero  a Firenze, Piacenza, Bologna e Modena. Dopo mesi di tensioni il 7 agosto 1920 viene firmato il nuovo patto colonico regionale fra agrari e Federterra. Ma la disputa sui patti agrari fra popolari e agrari nell’autunno del ’20 rimette tutto in discussione.

Anche nel mondo dell’industria i fronti contrapposti si muovono, gli industriali si organizzano in proprie associazioni, a maggio nel corso dell’ottavo congresso della FIOM Bruno Buozzi fa approvare un documento che chiede aumenti salariali del 40%, indennità di licenziamento, dodici giorni di ferie pagate all’anno. La CGdL approva i consigli di azienda destinati a tutelare i lavoratori in fabbrica e intervenire nell’organizzazione del lavoro. Per gli industriali è troppo. Contratti, diritti, miglioramenti delle condizioni di lavoro sono pretese inaccettabili in una totale negazione della dignità del lavoratore e del lavoro tanto più offensiva in un territorio come questo segnato da forti tradizioni e culture professionali. Non è solo una questione economica, è ancor prima una questione di rispetto mancato, negato, di riaffermazione di potere, gerarchie, tradizioni. Reazioni consolidate ma che diventano inaccettabili in un momento in cui davvero si vede la rivoluzione scuotere l’Europa. I lavoratori si muovono.

A Firenze il clima è già incandescente. 10 agosto  a Firenze in via Centostelle viene fatta saltare in aria la polveriera di San Gervasio provocando otto morti e molti feriti. 29 agosto comizio socialista a Firenze all’interno della campagna nazionale del partito per chiedere la smobilitazione delle classi di leva ancora sotto le armi, eliminazione della censura sulla stampa, amnistia per i reati di guerra, rapporti politici ed economici con la Russia. Le forze dell’ordine sparano sul corteo dei manifestanti senza adeguato preavviso per fermare una parte del corteo, di giovani, che volevano andare in corso dei Tintori verso la sede della Camera del Lavoro. 4 morti (tre operai e una guardia) e vari feriti. Mentre almeno cinquantamila persone con bandiere rosse seguono il funerale dei tre operai, viene proclamato lo sciopero generale.

L’occupazione delle fabbriche nel settembre del ’20 ha una partecipazione compatta e disciplinata delle poche grandi fabbriche e di molte delle aziende di modeste dimensioni. Dal 2 al 30 settembre l’occupazione interessa circa una decina di fabbriche e circa 3000 operai organizzate da fitta rete di rappresentanti di fabbrica, , commissioni interne, commissari di reparto, consigli di fabbrica, capaci di autogestire gli impianti che infatti, a differenza di altre regioni, continuarono a garantire ritmi di produzione quasi normali.

Aspetto qualificante delle lotte di fabbriche è l’attenzione prestata al tema della professionalità, al ruolo sociale e produttivo del lavoro. Aspetto che affonda le sue radici nelle caratteristiche di fondo della classe operaia fiorentina e che vede come corollario la lotta contro la concezione della fabbrica come dominio assoluto del padrone. C’è un’attenzione, quasi una cura della fabbrica, delle macchine, dei prodotti che segna la storia della classe operaia fiorentina e che emergerà in un momento drammatico quale la primavera estate del ’44 quando saranno gli operai a salvare le fabbriche dal trasferimento in Germania, voluto dai nazisti in ritirata, smantellandone i pezzi in modi tali da poterle poi, a liberazione avvenuta, ripararle, tutelando cose i beni dei padroni ma anche e soprattutto il proprio futuro e quello del Paese. La Pignone è la fabbrica che meglio rappresenta questa tendenza, non a caso nell’occupazione del 1920 commissione interna e commissari di reparto sono impegnati fortemente a dare prova di capacità e autonomia organizzativa e produttiva, la fabbrica sono anche loro perché senza il loro lavoro, senza la loro cultura del lavoro, la loro professionalità, i loro sacrifici, essa non esisterebbe, la fabbrica quindi non è solo il padrone. La rivendicazione del valore sociale ed economico del lavoro operaio sarà il filo rosso che segnerà tutte le diverse fasi del Novecento.

Contemporaneamente la dirigenza della sezione socialista conosce un processo di ulteriore radicalizzazione che si concretizza nell’esclusione degli esponenti riformisti dalle liste per le elezioni amministrative nell’autunno del 1920, che vedono peraltro la vittoria della lista “nazionale”. Al di là delle aspettative di massimalisti e comunisti, l’aspettativa della rivoluzione, spaventando ceti sociali diversi, consolida le forze conservatrici. A novembre la corrente comunista assume la guida della sezione urbana e di tutta la Federazione. L’adesione della maggioranza dei delegati fiorentini al Partito comunista d’Italia nel congresso di Livorno del gennaio del 1921 non appare quindi una sorpresa, ma il culmine del processo di radicalizzazione articolatesi negli anni e nei mesi precedenti. Infatti 4003 voti andarono ai comunisti, 3309 ai massimalisti e 229 ai riformisti. Come già sottolineava Giovanni Gozzini molti anni fa, tutta la regione vede una significativa adesione al nuovo partito, tanto che la Toscana ne è il secondo punto di forza a livello nazionale dopo il Piemonte. La scissione è maggioritaria nelle province di Firenze, Arezzo e Massa Carrara. Ma proprio a Firenze emerge uno degli elementi di maggiore novità del PCdI rispetto al PSI, pur nella stretta contiguità con valori e miti del massimalismo (che si rispecchiano in parte anche in una contiguità di classe dirigente): l’emergere di una nuova classe dirigente – ben simboleggiata dal segretario provinciale Spartaco Lavagnini – non solo espressione dei ceti operai e non più medio-borghesi, ma soprattutto interprete “di un rapporto diverso con le masse popolari, non più di tipo pedagogico e tribunizio – proprio degli “intellettuali” appartenenti alla tradizione socialista – bensì fondato su un’esperienza diretta di lotta e di organizzazione, molto più vicino alle aspirazioni e ai bisogni del popolo” [cfr. La formazione del partito comunista in Toscana 1919-1923, Quaderni dell’Istituto Gramsci – Sezione Toscana n. 3, Firenze, 1981, p. 208]. In città il nuovo partito riesce a strutturarsi significativamente e rapidamente grazie all’adesione plebiscitaria della Federazione giovanile socialista che porta in dote non solo entusiasmo, ma anche molte sedi, fondamentali per avviare un’organizzazione effettiva sul territorio. Immediato è l’impegno a costituire gruppi nei luoghi del lavoro, a partire dalle fabbriche; significativa la “conquista” della FIOM cittadina. Ma la strada appena imboccata non sarebbe stata agevole. E non solo per le divisioni a sinistra.

Firenze è, infatti, contemporaneamente precoce anche nelle violenze squadriste che intervengono a segnare la vita della città e della provincia, con la forza della violenza, proprio fra il dicembre del 1920 e i primi mesi del ’21, spinte dalle paure dei ceti medi spaventati dalla rivoluzione minacciata e soprattutto dai sostegni di agrari e industriali, la vecchia classe dirigente gravemente turbata dalla perdita del potere locale dopo le sconfitte alle elezioni amministrative tenutesi nell’autunno (con l’eccezione di Firenze città). Dopo il settembre delle bandiere rosse il quadro stava infatti rapidamente mutando e avrebbe colpito in primo luogo proprio la neonata sezione del partito comunista d’Italia con la barbara uccisione del suo segretario Spartaco Lavagnini, il 27 febbraio 1921. Troppo evocata, la rivoluzione aveva saputo suscitare e unire tutti i suoi oppositori proprio mentre i suoi sostenitori si dividevano ed isolavano, rimaneva mito e spettro, senza, del resto, essere mai stata realtà.




Un’ora di dolore per il proletariato pisano.

«L’Ora nostra», il periodico della Federazione pisana del Partito socialista, nel numero del 15 aprile 1921 con un titolo a tutta pagina, Un’ora di dolore per il proletariato pisano, annuncia la barbara uccisione, per mano fascista, di Carlo Salomone Cammeo, il ventiquattrenne segretario provinciale del partito.

Sulla prima pagina del periodico pisano l’apertura di questo numero è simbolicamente lasciata ad un comunicato congiunto a firma della «Federazione pisana del Partito socialista», del «Gruppo comunista», della «Camera confederale del lavoro» e della «Camera sindacale del lavoro», della «Lega proletaria reduci», dell’«Unione anarchica pisana» e della «Lega arti tessili». Fin dal primo momento non si fa di Cammeo un martire di parte socialista, ma il dolore per la sua morte è il dolore del proletariato pisano, dei lavoratori colpiti dalla violenza fascista, sotto lo sguardo compiaciuto dello stato e della borghesia pisana più reazionaria e conservatrice. Sulla prima pagina della citata edizione de «L’Ora nostra», il richiamo all’unità è di nuovo ribadito in un trafiletto a chiusura del comunicato del fronte antifascista pisano: «Questo numero è compilato da socialisti e comunisti, congiunti nel rendere al Caro Estinto il loro tributo di affetto». Sembrano di colpo allontanarsi, anche se per poche ore, le grida e il clamore delle reciproche accuse scambiate fino al giorno precedente, scontri che hanno visto l’apoteosi poche settimane prima a Livorno al 17° congresso del PSI; contrasti vissuti nelle singole sezioni del partito socialista dove si discuteva animatamente dei tempi della rivoluzione, di soviet e di «fare come in Russia» e reciprocamente si accusavano, con epiteti quali traditore e canaglia, proletari con proletari, lavoratori con lavoratori.

Questi primi mesi del 1921 sono contrassegnati da alcuni episodi regionali e nazionali che turbano l’opinione pubblica e accendono gli animi delle contrapposte forze politiche avviando l’intero paese verso una strisciante guerra civile che causerà lutti e profonde lacerazioni. A Pisa i fascisti con un concentramento di squadre proveniente da tutta la regione hanno impedito l’insediamento del nuovo consiglio provinciale eletto alle ultime elezioni amministrative di novembre. Il nuovo presidente, Ersilio Ambrogi, sindaco di Cecina, socialista rivoluzionario con precedenti libertari passato nelle file comuniste, a fine gennaio viene arrestato dopo un conflitto a fuoco con i fascisti[1]. Il 27 febbraio l’eco della morte del sindacalista e comunista, Spartaco Lavagnini, scatena la reazione delle forze di sinistra che proclamano lo sciopero generale. Nei giorni successivi in tutta la regione, oltre che nel capoluogo, si succedono scontri armati tra fascisti, forze dell’ordine e antifascisti con numerosi morti e feriti. Il primo marzo a Empoli un reparto di marinai scortati da carabinieri di transito nella città è fatto segno di numerosi colpi d’arma da fuoco da parte di militanti delle forze di sinistra e dalla popolazione che temono una nuova incursione dei fascisti. Al termine degli scontri rimarranno sul terreno 9 morti e 18 feriti. Empoli il successivo 19 marzo sarà poi devastata dai fascisti. Il 4 marzo è la volta di Siena dove i fascisti assaltano la Casa del popolo che viene conquistata e incendiata, dopo un duro conflitto armato. Il 23 marzo, infine, giunge la notizia dell’attentato dinamitardo al Teatro Diana a Milano che causa 21 morti e una ottantina di feriti. I responsabili dell’attentato, un gruppo di anarchici individualisti, saranno poi successivamente arrestati. Il fronte antifascista è sconvolto e indebolito dalle divisioni davanti ad una reazione, che si compatta dietro Mussolini e le sue squadre, pronta a legittimare ogni violenza che possa in qualunque modo impedire che l’Italia diventi «bolscevica».

Non sono parole di odio quelle che escono da «L’Ora nostra» in ricordo del proprio segretario, sono parole che invocano giustizia e pace:

Noi, lo ricordino i fascisti, non giuriamo sul corpo esangue di Carlo Cammeo, la vendetta, né la facciamo giurare ai lavoratori[2].

 Carlo Cammeo, maestro elementare, la mattina del 13 aprile viene ucciso nel cortile della scuola dove insegna, davanti agli occhi atterriti dei propri alunni, «sul limitare del tempio che è sacro anche ai delinquenti più comuni […] sul quale sono ancora impressi l’amore per il suo ministero e il sorriso dei suoi bimbi innocenti»[3].

Secondo la testimonianza di alcuni alunni, due donne, Mary Rosselli-Nissim e Giulia Lupetti, bussano al cancello della scuola chiedendo di poter parlare con il maestro Cammeo. Il custode della scuola le fa entrare e le donne vengono ricevute dal maestro proprio sulla soglia dell’aula dove sta tenendo lezione. Visto che le due fasciste si agitano ed esigono maggiore attenzione, Cammeo risponde che la scuola non è il luogo adatto per queste discussioni e, per evitare che gli alunni ascoltino questa conversazione, chiede loro di rimandare il confronto a lezione finita. Le due donne iniziano ad inveire contro il maestro e lo invitano a uscire nel giardino; una volta fuori una delle due gli consegna un foglio che, secondo la testimonianza di un alunno, Cammeo restituisce loro dicendo «Questo non è per me»[4]. In questo frangente entrano nel cortile della scuola tre uomini e uno di questi, Elio Meucci, studente universitario in Farmacia, ferisce mortalmente il maestro, con due colpi di rivoltella, mentre gli alunni assistono alla scena dalle finestre della classe. Nel fuggire lo stesso Meucci ferisce a una gamba la Lupetti, forse per errore o per simulare una colluttazione[5]; ma la tesi della morte di Cammeo durante uno scontro, inizialmente sostenuta dai fascisti, decade subito con le prime testimonianze[6].

La morte di Cammeo sconvolge la città di Pisa e l’intera provincia. Il «Sindacato Magistrale» scrive:

 Insegnanti di tutti i gradi! Nel Tempio sacro della Scuola è stata perpetrata la più nefanda violazione. Un vostro collega è stato ferocemente assassinato, mentre compiva sereno il proprio dovere di educatore[7].

La città si rende immediatamente conto del significato di questo gesto: la barbara uccisione di Carlo Cammeo, il luogo violato da questo episodio, rappresentano un passaggio irreversibile, sta succedendo qualcosa che non ha niente a che fare con le lotte politiche tra diverse fazioni, fino ad allora conosciute. «L’Ora nostra» non ha dubbi:

 L’episodio brutale e inqualificabile non ha precedenti […] Mai la vita degli uomini è stata in pericolo come ora. Mai in tanti anni, dal nostro risorgimento alle lotte operaie odierne, si è ucciso così impunemente[8].

Qual è la colpa di Carlo Cammeo? Sicuramente quella di essere socialista, di essere il segretario provinciale della federazione e principalmente di essere una brillante firma de «L’Ora nostra». Il motivo della sua condanna a morte è proprio un suo articolo pubblicato sul periodico socialista pisano del 1° aprile, con il quale Cammeo risponde alle minacce fasciste e svela la verità in merito alla morte dello squadrista Tito Menichetti, ucciso a Ponte a Moriano, pochi giorni prima, durante uno scontro tra squadristi e operai. Il 25 marzo infatti una squadraccia di fascisti pisani parte alla volta di Ponte a Moriano nella vicina provincia lucchese, l’obiettivo della spedizione è togliere dalla sede di un circolo ricreativo il simbolo dei Soviet: la falce e il martello[9]. Le camicie nere riescono nell’impresa, ma l’inatteso arrivo degli operai in paese avvisati della presenza dei fascisti scatena la fuga precipitosa di quest’ultimi; rimane inavvertitamente indietro un autocarro con a bordo una squadra che è costretta a scontrarsi con gli operai accorsi. Scoppia una furibonda rissa e rimane a terra, ferito mortalmente, il fascista pisano Menichetti[10].

I fascisti giurano vendetta e nei giorni successivi sui muri di Pisa viene affisso il seguente manifesto: «Tito Menichetti sarà vendicato senza pietà!». Un annuncio di guerra che il giovane segretario socialista, nell’articolo incriminato e che varrà la sua condanna a morte, commenta con queste parole: «Gli onesti, coloro che vedono con orrore il perpetuarsi di questa violenza fratricida, devono sentirsi l’animo pieno di ribrezzo, alla lettura dell’incosciente manifestino»[11].

Ma il fascismo pisano ha bisogno di un’altra verità e il giornale monarchico il «Il Ponte di Pisa», pubblicato in città dal 1893 e diretto da Enrico Mazzarini, si è già piegato al ruolo di bollettino dei nascenti fasci rionali pisani. Così la propaganda fascista, con l’appoggio incondizionato di un periodico già conosciuto e stimato dalla borghesia pisana, crea il proprio martire e identifica nel bolscevico il nemico dell’Italia, del benessere e della quiete pubblica. In un articolo senza firma su «Il Ponte di Pisa», attribuibile al direttore, si individuano nei socialisti i responsabili dei fatti di Ponte a Moriano e si consacra Tito Menichetti[12], a ruolo di «martire» perché «con ardore e valore aveva preso parte, giovane bello e ardito, alla santa guerra di liberazione […] ucciso […] dopo una non sanguinosa dimostrazione fascista, quando egli se ne stava seduto in quiete ad aspettare che l’automobile fosse rimessa sulla strada del ritorno»[13]. I funerali di Menichetti sono una manifestazione fascista cui si associano le principali forze politiche moderate e conservatrici locali, ne riporta minuziosa cronaca «L’Intrepido», il settimanale dei fasci di combattimento di Lucca e Pisa[14]. Una cerimonia che – grazie alla partecipazione ufficiale delle autorità nella figura del Sindaco Francesco Pardi del PLI[15], della Giunta, del senatore liberale David Supino, del Presidente della Cassa di Risparmio Giovanni D’Achiardi poi Podestà di Pisa e delle rappresentanze dell’esercito – accredita ufficialmente il fascismo locale a difensore dell’ordine costituito e Menichetti viene proclamato «martire» della «nuova crociata» contro il «bolscevismo dilagante». La cerimonia religiosa si svolge nella chiesa di San Frediano, mentre il clero assolve la salma, Bruno Santini, ex ardito di guerra e capo del fascismo pisano, incita i camerati alla vendetta[16]. Sul pennone del Ponte di mezzo sventola la bandiera a mezz’asta. Il corteo funebre attraversa il centro di Pisa, percorre i luoghi che hanno visto, negli anni precedenti, sfilare le manifestazione del movimento operaio e dei partiti sovversivi locali. La salma è preceduta da un plotone di Carabinieri e dai militari del Reggimento Artiglieria, al seguito le autorità cittadine e la scorta delle Guardie regie. Un’immagine, un evento che comunica alla città, senza ombra di equivoco, la scelta di campo delle istituzioni locali.

Il fascismo assurge così, anche grazie a questi rituali di massa che si replicano in ogni città, a  argine, in questo momento di crisi economica e politica, alle forze «bolsceviche e antinazional. Va ricordato che sotto questa etichetta venivano all’epoca classificati non solo i comunisti ma anche i socialisti, gli anarchici e i sovversivi in genere. In queste giornate lo squadrismo, col consenso degli apparati statali, fa della violenza armata lo strumento che cambia sostanzialmente il confronto politico e l’elemento che, di conseguenza, scatena la «guerra civile»[17].

Non c’è quindi più tempo, i fascisti lo hanno giurato e la stampa borghese pisana, voce di una classe che finanzia e copre la violenza fascista, è pronta a giustificare, pur armata di perbenismo, qualsiasi gesto.

Così la vendetta fascista, il 13 aprile, si scaglia contro il maestro Carlo Cammeo, segretario federale del partito socialista principale forza politica del movimento operaio pisano[18].

I funerali laici di Carlo Cammeo sono imponenti, assenti le autorità locali, una straordinaria manifestazione popolare attraversa la città e al termine si svolge un grande comizio, in Piazza del Duomo, dove prendono la parola, tra gli altri, il segretario della Camera del lavoro confederale Giuseppe Mingrino[19], poi tra i fondatori degli Arditi del popolo; il socialista Amulio Stizzi[20]; il repubblicano Italo Bargagna[21], poi uno dei punti di riferimento dell’antifascismo pisano e primo sindaco comunista della Pisa liberata e l’anarchico Gusmano Mariani[22] che anni dopo porterà il suo contributo alla lotta antifascista combattendo in Spagna nella formazione guidata da Carlo Rosselli.

«Il Ponte di Pisa» dà notizia dell’uccisione di Carlo Cammeo, in un piccolo trafiletto, con queste poche parole

 scriviamo del doloroso episodio pisano, così vivacemente sanguigno, che ci ricorda il ferimento di una signorina, la figlia del nostro amico colonnello Lupetti, e la morte di un giornalista, maestro delle nostre Scuole elementari[23].

 Il giornale pisano chiude la piccola nota editoriale appellandosi al più ambiguo perbenismo, con l’augurio che «sui livori […] ritornino a prendere il sopravvento l’amore e la pace». Nello stesso numero l’attenzione della redazione del giornale è invece concentrata sull’inaugurazione dei nuovi edifici della Clinica Medica diretta dal professore Giovan Battista Queirolo e la notizia dell’uccisione di Cammeo occupa più o meno le stesse battiture dell’articolo che ricorda la concessione della medaglia d’oro ad un calzaturificio pisano. Sulla medesima edizione, identico spazio viene dedicato a un’altra notizia che infastidisce la borghesia pisana: a Vecchiano, l’assessore comunista Pirro Pardi, falegname di professione, celebra i matrimoni civili senza indossare la fascia tricolore «come se fosse in Russia»[24]. Naturalmente nessun cenno ai funerali di Cammeo e alla manifestazione di protesta che ha coinvolto la città.

«L’Ora nostra», che nel periodo ’20-’21 raggiunge le 5000 copie, termina le sue pubblicazioni con il numero del 22 agosto 1922 – sconfitta dalle numerose violenze contro la sede del giornale, contro i suoi redattori e la tipografia che lo stampa – pur avvertendo i fascisti, nell’ultimo editoriale a firma del Direttore, che «L’Ora nostra non è morta, vigila, attenta alla sua missione elevatrice e purificatrice. La voce potente e gagliarda del proletariato pisano non è soffocata, né affievolita»[25].

«Il Ponte di Pisa» invece chiude le sue edizioni con il numero del 22 novembre 1934, alla morte di Enrico Mazzarini che ne è stato direttore ed anima per tutta la durata delle pubblicazioni, per oltre quarant’anni. L’ultimo numero, che annuncia la scomparsa del direttore, si apre con il telegramma del potente gerarca pisano Buffarini Guidi, all’epoca Sottosegretario agli Interni, indirizzato al suo camerata Alvaro Pinelli, «Morte Enrico Mazzarini mi ha molto rattristato. Porgo condoglianze e pregoti rappresentarmi ai funerali. Buffarini».

 

NOTE:
[1]La rimozione di Ambrogi dovuta all’arresto per i «fatti di Cecina» vedrà ancora per circa un anno un socialista alla guida dell’amministrazione provinciale, Guelfo Guelfi. Eletto nella sessione ordinaria dell’8 agosto 1921 Guelfi fu costretto alle dimissioni insieme a tutti i rappresentanti socialisti nell’agosto successivo a causa delle intimidazioni fisiche che impedirono in più d’un occasione di riunire il consiglio provinciale. Guelfi fu sostituito dal deputato Arnaldo Dello Sbarba e subito dopo da Annibale Tesserini che rimase in carica fino alle elezioni del febbraio 1923 quando venne eletto l’avvocato Filippo Morghen, da pochi mesi segretario federale del Partito fascista e leader di una coalizione che teneva insieme liberali, cattolici e fascisti. Cfr. A. Polsi, Il profilo istituzionale (1865-1944) in La provincia di Pisa (1865-1990), a cura di E. Fasano Guarini, Bologna, Il mulino, 2004, pp. 141-149.
[2]Non ammazzare, «L’Ora nostra», 15 aprile 1921.
[3]Ibidem.
[4]Di questo particolare si trova traccia nella testimonianza di un alunno riportata nell’articolo Cronaca del fatto doloroso, «L’Ora nostra», 15 aprile 1921. Nella stampa e nelle pubblicazioni successive relative all’episodio non si ritrova menzione e tanto meno notizie sull’oggetto della comunicazione consegnata dalle donne a Cammeo e da lui rifiutata. Le due donne non sono figure “anonime”: la Lupetti (che, per i suoi meriti, pochi mesi dopo sarà nominata segretaria del fascio femminile) è figlia del comandante del presidio militare; Mary Rosselli-Nissim è una signora già in là con gli anni, erede di una famiglia di sentimenti patriottici, il padre Pellegrino Rossi, mazziniano, e la madre, Janet Nathan, avevano ospitato nella propria casa Giuseppe Mazzini negli ultimi anni della sua vita.
[5]Cfr. G. Ciucci, La nostra inchiesta sull’uccisione di Carlo Cammeo, «L’Ora nostra», 15 aprile 1921 dove si riporta la testimonianza di un alunno: «Dopo ammazzato il maestro, quello che gli aveva tirato si è avvicinato a una signorina ed ha sparato sulla gamba che questi gli offriva».
[6]Anche il quotidiano cattolico «Il Messaggero Toscano» fa decadere fin dal giorno successivo l’ipotesi dello scontro: «noi riferiamo i fatti serenamente, secondo la sola versione che ci risultava attendibile, perché confortata da una testimonianza diretta e confermata da alcune circostanze indubbiamente rilevanti in Dopo la tragedia di Porta Nuova. Quel che dice il maestro Ciucci», «Il Messaggero Toscano», 14 aprile 1921
[7]L’angoscia del proletariato, «L’Ora nostra», 15 aprile 1921
[8]Non ammazzare, «L’Ora nostra», 15 aprile 1921.
[9]Sui modus operandi delle squadre fasciste cfr. M. Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista. 1919-1922, Milano, Mondadori, 2003 e, sulle relative azioni in Toscana, cfr. M. Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano. 1919-1922, Roma, Bonacci, 1980.
[10]Tito Menichetti diventa il primo martire del fascismo pisano, a lui verrà intestato un Fascio rionale, gli sarà riconosciuta nel 1927 la laurea ad honorem ed eretto, a Marina di Pisa, un monumento in suo ricordo. Il suo nome varcherà le soglie della nazione tanto che a lui sarà intestato il fascio di combattimento di Ginevra.
[11]C. Cammeo, Incoscienza, «L’Ora nostra» 1° aprile 1921. L’altro articolo che scatena la violenza fascista contro Cammeo è Le Valkirie, «L’Ora nostra» 8 aprile 1921 a firma «Libicus» nel quale Cammeo ironizza sulla partecipazione di alcune donne ad una manifestazione fascista.
[12]Chi ha provocato? «Il Ponte di Pisa» 1 aprile 1921.
[13]M. Razzi, In memoria del martire, «Il Ponte di Pisa» 1 aprile 1921.
[14]L’edizione de «L’Intrepido» del 3 aprile 1921 titola a tutta pagina: Lucca e Pisa affratellate nel dolore tributano solenni onoranze alla salma del fascista TITO MENICHETTI assassinato a Ponte a Moriano. Nello stesso numero si ritrovano continui richiami al sacrificio dei martiri fascisti caduti nelle varie città toscane, come Ugo Botti a Livorno, e, nella pagina dedicata alla cerimonia pisana, il comunicato del «Fascio Femminile di Pisa» prende inizio con parole evocative: «Italiani, si muore per voi!».
[15]Le elezioni amministrative dell’autunno del 1920 consegnano la città di Pisa al «Fascio liberale democratico» che controlla la maggioranza del consiglio comunale con 48 seggi: 20 liberali, 5 democratici nazionali, 4 pensionati, 7 combattenti e 12 fra radicali, socialriformisti e democratici indipendenti.
[16]Scrive Bruno Santini nell’articolo: «Nella Camera Mortuaria, pubblicato su «L’Intrepido» 3 aprile 1921: Chi sente il cuore non fermo […] esca dalle fila. Chi dubita, chi teme […] esca dalle fila. Coloro che sentiranno di poter restare continueranno il loro cammino […] più forte e più feroci. Si più feroci. E rivolgendosi agli avversari: Guai a loro il giorno che prendessimo la dolorosa decisione di contraccambiarli con la stessa insidia, perché sapremmo sorpassarli anche nella vigliaccheria e nella ferocia».
[17]Cfr. F. Fabbri, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande Guerra al Fascismo, 1918-1921, Torino, Utet libreria, 2009.
[18]In questi anni Carlo Cammeo è anche protagonista di varie vertenze che riguardano il mondo della scuola.
[19]Sulla figura di Giuseppe Mingrino cfr. E. Francescangeli, Arditi del Popolo. Argo secondari e la prima organizzazione antifascista, Roma, Odradek, 2000. V. anche M. Rossi, Arditi, non gendarmi! Dalle trincee alle barricate: arditismo di guerra e arditi del popolo (1917-1922), Pisa, BFS, 20112 e il fascicolo personale in Archivio Centrale della Stato, Casellario Politico Centrale, b. 3301.
[20]Già segretario della Camera confederale del Lavoro prima di Guseppe Mingrino.
[21]Sulla figura di Italo Bargagna cfr. Ricordo di Italo Bargagna e del 50° anniversario della liberazione di Pisa. Pubblicato dal Comune di Pisa nel settembre 1996 e Archivio Centrale della Stato, Casellario Politico Centrale, b. 340.
[22]Cfr. F. Bertolucci, Mariani Gusmano, in Dizionario biografico degli anarchici Italiani, t. 2, Pisa, BFS, Pisa, 2004 pp. 93-94.
[23]Ritorniamo all’amore e alla pace, «Il Ponte di Pisa» 16-17 aprile 1921.
[24]Su e giù per la provincia, «Il Ponte di Pisa» 16-17 aprile 1921.
[25]«L’Ora nostra» dirada le sue pubblicazioni, «L’Ora nostra» 22 agosto 1922.




Dalla battaglia contro il riformismo alla lotta contro fascismo e stalinismo: comunisti internazionalisti livornesi.

Presentiamo, in questo come in articoli che seguiranno, alcuni profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921.

Con ciò vogliamo non solo ricordare le basi politiche su cui il Partito Comunista nacque e cioè la rottura col PSI e le sue correnti (i massimalisti di Serrati e Lazzari e i riformisti di Turati, Treves e Modigliani), ma vogliamo offrire anche alcuni elementi di riflessione per non cadere nella vulgata di quella narrazione storica in base alla quale il PCI ha sempre rivendicato una sua continuità con la scissione di Livorno, fondando caso mai la sua specificità sugli svolgimenti politico-ideali seguiti all’assunzione della direzione del Partito da parte di Gramsci con il Congresso di Lione del 1926. Indubbiamente una discontinuità reale e profonda, che in quel congresso vede l’estromissione definitiva di gran parte di quel gruppo dirigente e di non pochi militanti che quel partito avevano fondato e guidato a partire dal 1921, per poi arrivare, tra il 1927 e il 1934 ad un graduale processo di espulsione degli stessi. Credo che sia d’obbligo qui ricordare in primis Amadeo Bordiga (1889-1970), colui che sino ad allora era considerato il leader de facto del partito e che nel PSI aveva raccolto attorno a sé già dal dicembre 1918 i militanti del gruppo napoletano de Il Soviet, contribuendo a fondare la Frazione Comunista Astensionista, vero motore della scissione comunista di Livorno. E come non ricordare Bruno Fortichiari (1892-1981), attorno al quale si era organizzata la sinistra socialista milanese durante il Biennio Rosso, divenuto successivamente responsabile del lavoro illegale del PCd’I (il cosiddetto Ufficio n. I) e dei rapporti con le altre formazioni che combattevano attivamente i fascisti sul campo (come gli anarchici e gli Arditi del Popolo). Esiste poi una seconda narrazione storica relativa alla nascita del PCd’I, ripresa dalla pubblicistica più disparata che vede nella scissione di Livorno una miopia politica manifestata dai comunisti, i quali uscendo dal PSI, avrebbero indebolito il fronte antifascista che si stava con fatica cercando di costruire. Tuttavia è d’uopo ricordare in sede storica che pochi mesi dopo la scissione di Livorno il Psi firmò un Patto di pacificazione con i fascisti (3 agosto 1921), che sicuramente ha indebolito il fronte antifascista nel mentre si andavano formando gli Arditi del Popolo, organizzazione nata per arginare le violenze delle squadre d’azione di Mussolini. Oltre a ciò è necessario dire che il 15 ottobre 1922, a tredici giorni dalla Marcia su Roma, il PSI subì una seconda scissione, questa volta da parte dei riformisti di Turati e Modigliani, che andranno a formare il Partito Socialista Unitario.

Per quel che concerne la storia della Sezione Livornese del Partito Comunista d’Italia, possiamo dire che essa venne fondata il 29 gennaio 1921 da un piccolo ma determinato nucleo di militanti che precedentemente avevano ricoperto dei ruoli dirigenziali all’interno del PSI, in primo luogo quei quattro consiglieri comunali eletti nelle file socialiste nel novembre 1920 che contribuirono a fondare la sezione comunista labronica: Gino Brilli, Ilio Barontini, Giuseppe Lenzi e Pietro Gigli. In particolare significativo è il ruolo politico di Giuseppe Lenzi che fu delegato livornese a Imola, dove si erano riuniti i rappresentanti della Frazione Comunista del PSI.

Alla sezione livornese aderirono immediatamente 255 militanti provenienti in modo quasi esclusivo dalle fila del Partito socialista, in particolare da quanti avevano già aderito alla Frazione Comunista Astensionista e alla Mozione di Imola; nel corso degli anni aderirono poi al PCd’I militanti provenienti dalla corrente cosiddetta terzinternazionalista del PSI (detta terzina, corrente facente capo a livello nazionale a Giacinto Menotti Serrati, già direttore dell’Avanti e a Fabrizio Maffi), come, nella città labronica, Athos Lisa, dirigente della locale Camera del Lavoro, oppure Alberto Mario Albanesi, solo per citare i più noti.

Una parte dei militanti livornesi provennero dall’anarchismo, soprattutto negli anni seguenti alla fondazione del Partito stesso, come ad esempio gli stessi Astarotte Cantini e Fernando Ferrari.  Altro contributo assai importante alla fondazione della sezione livornese del Partito giunse dai militanti della Federazione Giovanile Socialista, che quasi al completo passarono al nuovo PCd’I, con in testa Armando Gigli, Pietro Fontana e Angelo Giacomelli.

La caratteristica dei militanti comunisti di Livorno e provincia fu la sua componente di classe, quasi tutti di estrazione operaia, fatta eccezione per alcuni militanti, i quali copriranno un ruolo dirigenziale di primo piano, al contrario di estrazione borghese: Ilio Barontini, impiegato delle ferrovie, consigliere comunale nonché assessore aggiunto nella giunta socialista del sindaco Mondolfi, proveniente da una famiglia della piccola borghesia industriale (il padre possedeva la nota fabbrica di pipe Barontini); Anna Launaro e il suo compagno Ettore Quaglierini, entrambi figli della classe media labronica, appartenenti al ceto impiegatizio e intellettuale. Tutti costoro entreranno a far parte della componente dei funzionari a tempo pieno del Partito Comunista. A questi nomi va aggiunto quello di Ersilio Ambrogi, avvocato, deputato, sindaco di Cecina, appartenente ad una famiglia della media borghesia professionale di Castagneto Carducci. Tuttavia è necessario ricordare, in sede storica, che Cecina nel 1921 apparteneva alla provincia di Pisa e quindi Ersilio Ambrogi è stato un importante dirigente per la fondazione della sezione pisana del PCd’I. Egli comunque ebbe un ruolo importante durante l’autunno del 1920, insieme col fiorentino di origine svizzera professor Virgilio Verdaro, nella fase preparatoria precongressuale, ovvero nell’aspra campagna politica, svolta anche a Livorno nelle locali sezioni del PSI, a favore della Frazione Comunista e per l’espulsione della corrente riformista, capeggiata nel capoluogo labronico da Giuseppe Emanuele Modigliani. Quest’ultimo rispose di rimando a Ersilio Ambrogi, dicendo che non era il caso che il sindaco di Cecina venisse a Livorno a dettar legge e a cercare di subornare gli animi alla propria tendenza. In quel periodo vennero a Livorno a dar man forte ad Ambrogi anche Egidio Gennari e il fiorentino Filiberto Smorti. Quanto ad estrazione sociale, il resto dei militanti erano in gran parte operai metalmeccanici del Cantiere Navale Orlando o nelle fabbriche metallurgiche del comprensorio livornese; operai specializzati delle piccole e medie imprese site tutte nella zona di Livorno Nord, in particolar modo nel quartiere Torretta, detta la Manchester della Toscana (quindi tornitori, manovali, meccanici, falegnami, marmisti e vetrai); scaricatori portuali impiegati presso il porto di Livorno o lungo il sistema di canali che conducono ad esso (navicellai); marinai civili (fuochisti e mozzi); pescatori; ferrovieri e tranvieri ed infine commessi viaggiatori. Non mancava la componente proletaria agraria, fatta di braccianti e contadini, seppur di gran lunga minoritaria rispetto a quella operaia, concentrata nella zona settentrionale della città, nel quartiere oggi detto Fiorentina (dunque al di fuori della cinta daziaria), non distante da dove sorgevano i Mercati Generali, oppure nel Comune di Collesalvetti, la cui economia all’epoca era essenzialmente agraria. A ciò si aggiungono elementi della piccola borghesia commerciale e dei servizi: negozianti (pescivendoli e alimentari); ambulanti (frutta e verdura, prodotti caseari e vestiario) e infine parrucchieri. Stessa composizione si aveva nelle cittadine e nei paesi della provincia di Livorno, che fino al 1925 comprendeva solo la città di Livorno e l’Isola d’Elba, mentre successivamente dal novembre di quell’anno col Regio Decreto n. 2011/1925 verranno aggiunti il Comune di Collesalvetti, a nord di Livorno in direzione di Pisa, e i Comuni di Rosignano Marittimo, Cecina, Bibbona, Castagneto Carducci, Sassetta, Suvereto, Campiglia Marittima e Piombino a sud. In particolare in quest’ultima città si faceva sentire la presenza comunista all’interno dell’acciaieria.

Per quel che concerne la concentrazione spaziale all’interno della città labronica, la maggior parte dei militanti livornesi proveniva dai due quartieri tra essi confinanti, nonché più sovversivi di Livorno: Pontino e La Venezia, situati nella zona nord-occidentale dell’abitato, a ridosso delle due Fortezze e in prossimità degli scali marittimi. Il primo era essenzialmente un quartiere a carattere operaio, vicinissimo al già nominato quartiere Torretta, ad esso limitrofo. Il secondo era invece uno dei quartieri storici cittadini, ampliato a partire dal ‘600, popolato quasi esclusivamente da famiglie di lavoratori portuali, zona in cui ancora oggi sorge il diroccato Teatro San Marc (dove il PCd’I è formalmente nato) e in cui ancora oggi ha sede la Fratellanza Artigiana, luogo dove spesso si sono tenute riunioni sindacali e “sovversive”.

Sul grado di istruzione dei militanti comunisti livornesi c’è da dire che essa presenta un quadro piuttosto omogeneo, come del resto nella provincia: tutti sono più o meno alfabetizzati, ma non hanno gradi di istruzione oltre la licenza elementare e in molti casi neppure quella. Vi sono tuttavia delle eccezioni; alcuni posseggono la licenza media o meglio il cosiddetto avviamento al lavoro: Barotini, Kutufà, Mannucci, Scotto, Pietro e Armando Gigli. Una militante ha la licenza di scuola media superiore: Anna Launaro, mentre due sono i laureati: Ersilio Ambrogi in Giurisprudenza e Ettore Quaglierini in Scienze Politiche.

Le donne che in quegli anni entrano a far parte del PCd’I sono quattro: Anna Launaro, Alice Giacomelli e Alda Cheli a Livorno e la cecinese Primetta Cipolli.

La prima sede del PCd’I labronico fu collocata in via Santa Fortunata, probabilmente dove oggi ci sono le Scuole medie G. Borsi, nella zona centrale della città, vicino a Piazza della Repubblica e non lontano da piazza Grande dove si trova la Cattedrale. Via Santa Fortunata si trovava in un quartiere popolare, che ospitava quotidianamente il mercato e il Mercato Coperto (come del resto ancora oggi).

I membri del consiglio direttivo della sezione livornese del Partito Comunista d’Italia, in quei primi anni furono: Gino Brilli (che ricoprì il ruolo di primo segretario), Ilio Barontini (segretario nel 1921), Carlo Cantini, Pietro Gigli (anch’egli segretario nel 1922), Giuseppe Lenzi, Carlo Kutufà, Danilo Mannucci, Otello Gragnani, Pietro Gemignani, Angiolo De Murtas, Ugo Lorenzini, Quinto Vanzi ai quali si aggiungeranno Gino Niccolai, Alcide Nocchi, Fortunato Landini, Vasco Jacoponi, mentre nel sindacato assunsero importanti ruoli dirigenti i comunisti Archisio De Carpis e Athos Lisa.

Discorso diverso deve essere fatto per Ettore Quaglierini, il quale per le sue caratteristiche intellettuali già dal marzo 1921 è chiamato dal Centro Politico del Partito a Milano e inviato poi a Mosca dove lavorerà insieme alla compagna Anna Launaro per il Komintern.

In provincia si segnalano come fondatori delle locali sezioni Plinio Trovatelli, piombinese, già presente alla fondazione del PCd’I al San Marco e di lì a poco inviato come delegato al III° Congresso dell’Internazionale Comunista, nonché Macchiavello Macchi, fondatore insieme al fratello Mario della sezione Spartacus a Collesalvetti e assessore nella giunta comunale presieduta dal sindaco comunista Alessandro Panicucci.

I giornali comunisti diffusi a Livorno erano Il Comunista, organo ufficiale del partito; Battaglia Comunista, giornale delle Federazioni di Massa, Lucca, Pisa e Livorno che veniva stampato a Massa e Avanguardia, giornale della gioventù comunista. Esisteva anche un giornale comunista locale, stampato in pochi numeri tra il 1921 e il 1922 chiamato Il Garofano Rosso, di cui purtroppo alcuna copia è oggi reperibile. Con una certa probabilità erano diffusi, anche se in misura minore, Il Soviet di Napoli (sino al 1922), l’Ordine Nuovo di Torino e a partire dal 1924 l’Unità.

Con queste biografie dal carattere non agiografico, vogliamo dunque ricordare che è esistita una schiera di militanti comunisti, che, contro venti e maree avversi, rappresentati in primis dal fascismo e dallo stalinismo, hanno continuato la loro battaglia di comunisti e rivoluzionari in coerenza con la linea politica tracciata a Livorno nel 1921.

TROVATELLI PLINIO

(Piombino (Livorno) 20.1.1886 – Piombino (Livorno) 24.12.1942)

Nato a Piombino, nell’allora provincia di Pisa da Ferdinando e Cristina Grassi, di professione è tornitore. Militante socialista dal 1901 nei ranghi della Federazione Giovanile, si segnala già nel 1906 in quanto scrive su il Martello, foglio operaio diffuso a Livorno e Piombino, dove critica la politica dell’ala riformista del PSI rappresentata a Livorno da Giuseppe Emanuele Modigliani. All’entrata dell’Italia nel Primo Conflitto Mondiale è esonerato dal servizio militare, in quanto svolge il lavoro di tornitore in una fabbrica militarizzata, destinata alla produzione bellica; tuttavia svolge propaganda antimilitarista e disfattista tra gli operai a Piombino e successivamente, nel 1917, a Savona, dove viene trasferito per motivi di lavoro. Nel corso di diverse perquisizioni domiciliari gli vengono sequestrati documenti e altro materiale che comprovavano la sua attività sovversiva. Nel gennaio 1921 è tra i fondatori del Pcd’I a Livorno in quanto è tra i 58 delegati della Frazione Comunista al Congresso Socialista i quali fuoriescono dal Partito Socialista e si recano al Teatro San Marco. Nel maggio del medesimo anno è fermato a Luino (Varese) mentre tenta di espatriare in Svizzera per recarsi nelle Russia Sovietica come delegato del Pcd’I a partecipare, con voto consultivo, al III Congresso dell’Internazionale Comunista. Riesce a varcare la frontiera insieme al comunista istriano Franz Cinseb, ma i due appena giunti in Germania vengono nuovamente arrestati. Nell’aprile 1922 in occasione del Trattato di Rapallo tra Germania e Russia Sovietica, presta sevizio quale guardia rossa presso la delegazione sovietica presieduta dal Commissario del Popolo agli Affari Esteri Georgij V.Cicerin. Nel giugno 1923 emigra in Francia presso il fratello Gino, anch’egli militante comunista, dove lavora sempre come tornitore prima a Tolone e poi a Parigi. Anche in Francia continua a svolgere attività politica per il Partito comunista e per tali motivi nel giugno 1925 è espulso dal paese ed ottiene il visto per l’Unione Sovietica, grazie anche all’interessamento di Robusto Biancani, presidente del Club di Mosca e all’autorizzazione del Comitato centrale del Partito Comunista Francese. Stabilitosi nella capitale sovietica e ottenuta l’autorizzazione a iscriversi al Partito Comunista Sovietico, inizia a lavorare come tornitore presso la fabbrica Gomsa e successivamente per l’Istituto Aereo-idrodinamico Zaghi. In quegli anni si sposa con la con Dar’ja Balandina, cittadina sovietica, dalla quale avrà nel 1930 il figlio Bruno. Alla fine del 1929 è espulso dal Pci e poco dopo dal Partito comunista sovietico in quanto accusato di appartenere all’opposizione bordighista-trotzkista. Nel 1934 trova lavoro presso la Casa cinematografica Mejrabpomfilm, fondata da Willi Muzenburg e diretta da Francesco Misiano, già deputato comunista, tuttavia a causa del clima sempre più pesante dovuto all’inizio delle purghe staliniane nel dicembre del 1936, chiede alle autorità diplomatiche italiane il passaporto per potersi recare in Belgio presso il fratello Alfredo. Costantemente sorvegliato dalla polizia politica staliniana ed essendosi fatto notare insieme ad altri trotzkisti a fare propaganda antistalinista, nella documentazione d’archivio sovietica è descritto nei seguenti termini: “Mantiene un’ideologia trotskista antipartito, distaccato dagli altri compagni, ha legami con Sensi e Cerquetti”. Nell’ottobre 1937 ottiene l’autorizzazione a lasciare l’Urss e anche grazie al “Fondo Matteotti” si stabilisce a Bruxelles, presso il fratello, dove nell’aprile del 1938 viene raggiunto dalla moglie e dal figlio. In Belgio lavora presso la bottega del calzolaio Ovidio Mariani, antifascista italiano ed entra in contatto con antistalinisti italiani lì residenti, in particolare con militanti bordighisti.  Nel luglio 1940, con l’occupazione tedesca del Belgio, chiede alle autorità consolari italiane l’autorizzazione al rientro in Italia e ma la ottiene solo nel luglio di due anni dopo. Si stabilisce quindi nel luglio 1942 a Piombino, città che aveva lasciato nel 1917 e qui muore il 24 dicembre 1942.

FONTI ARCHIVISTICHE: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen.




Contro discriminazioni e sfruttamento. Le scelte di Alessandro Sinigaglia

Alessandro Sinigaglia nasce in una villa nel comune di Fiesole il 2 gennaio 1902, la madre Cynthia White è una “negra” come si diceva allora, americana, protestante, cameriera della famiglia Smith, trasferitasi pochi anni prima dagli USA, il padre, David Sinigaglia, di famiglia ebrea, meccanico, assunto presso la villa, di nove anni più giovane della moglie. Il fatto che il bimbo nasca solo sei mesi dopo le nozze alimenta le malelingue,  si diffondono anche voci che sia figlio di figure ben più illustri di quella casa. Alessandro è quindi figlio di minoranze più o meno accettate, ma che avevano conosciuto segregazioni e che anche in quel momento sperimentavano diffidenze e disprezzo. I pregiudizi sulle donne nere ammaliatrici e selvagge certo concorrono ad alimentare le false voci sulla sua nascita. I primi anni trascorrono sereni alla Villa, figlio dei domestici formato alla cultura americana dalla madre. Ma dal 1908 con l’ingresso a scuola iniziano i problemi, ad inizio Novecento non facile essere accettato per chi è diverso. Lui poi è la sintesi perfetta dei pregiudizi: figlio di madre nera e padre ebreo.

Segue gli sconvolgimenti del suo tempo fra il primo conflitto mondiale, la rivoluzione russa, un senso di crescente insofferenza per la condizione di serva della madre che peraltro muore nel 1920. Nel contesto del primo dopoguerra Alessandro è attratto dagli Arditi del popolo, anche se presto deluso dal rapido esaurirsi. Nel ’21 a seguito della volontà del padre di sposarsi in seconde nozze con un’ebrea e a fronte delle idee politiche del ragazzo, sono fatti allontanare dalla Villa. Vanno ad abitare in via Ghibellina n. 28 nel quartiere di Santa Croce, reso celebre da Pratolini nei suoi romanzi, ma il ragazzo vive male le scelte paterne.

Ad inizio ’22 è richiamato alla leva, marina, sommergibilista, è testimone della ferocia del bombardamento di Corfù nella crisi italo-greca del ’23 e ne è disgustato e anche per questo vuole lasciare e ci riesce dopo 21 mesi, congedo anticipato quale figlio unico di padre vedovo. Quando torna trova un’altra Firenze. Lavora come meccanico in vari stabilimenti. Dopo il congedo effettivo nel ’24 si avvicina al partito comunista non per scelta familiare, ma sente che la madre ne avrebbe capito l’ansia di libertà. Il suo primo impegno ufficiale sono le elezioni del ’24, quelle della legge Acerbo, ma tutto presto precipita fra l’omicidio Matteotti e la seconda ondata dello squadrismo in città a fronte di una sinistra e di un partito comunista peraltro segnati da divisioni interne e tattiche. Dopo l’instaurazione piena della Dittatura con le leggi fascistissime, sa di essere schedato anche se ancora non è diffidato né ammonito. La repressione sempre più capillare, l’assenza di informazioni con i fuoriusciti e il centro estero, il consolidarsi del regime rendono sempre più difficile la vita di chi si oppone integralmente al fascismo. Nel febbraio del ’28 la repressione distrugge la rete comunista fiorentina, Alessandro riesce a fuggire sfuggendo all’ondata di arresti, ma ormai è segnato. Alessandro lascia l’Italia, emigrando in Francia, anche per non mettere in pericolo le persone che lo hanno precedentemente aiutato. Per volontà del Partito, viene poi inviato in URSS, dove, come tutti si affida all’organizzazione del Soccorso rosso internazionale, scoprendo la presenza di centinaia di italiani a Mosca. Assume l’identità clandestina di Luigi Gallone. Non mancano i pericoli, essendo presenti anche i fascisti, essendo stati ristabiliti i rapporti diplomatici fra i due paesi ed essendo quindi presente l’Ambasciata con tutte le sue strutture, compreso i reticolo dei fiduciari ben inseriti nei circoli degli immigrati politici. Lo tengono sotto controllo anche i comunisti per valutarne affidabilità, disciplina e ortodossia, a partire dalla temuta polizia segreta sovietica. Il desiderio di dare notizie di sé al padre lo tradisce. La censura fascista intercetta una lettera e accresce la sorveglianza sia sui contatti italiani sia su di lui Mosca. Intanto segue il corso di propaganda e si innamora, ricambiato, di una giovane russa, Nina di origini asiatiche, che lavora al Soccorso rosso e che gli insegna la lingua; è portato allo studio delle lingue, conosce già francese e inglese, nel 1930 diventa padre di una bambina, Margherita, un periodo sereno mentre nelle informative della polizia fascista è indelicato sempre più come soggetto pericoloso. Nei primi anni Trenta è “emissario” cioè inviato del partito in altri paesi, ma viene tradito da Luigi Tolentino ex funzionario dell’Internazionale comunista che denuncia centinaia di compagni in cambio di un rientro protetto in Italia. Intanto deve affrontare anche i mesi cupi delle repressioni staliniane fra fine ’34 e inizio ’35 che si abbattono anche su italiani accusati di non essere in linea con lo stalinismo, deve essere sempre più riservato e guardingo. Nella primavera del ’35 lascia la Russia per la Svizzera per l’ennesima missione, salutando Nina e la bambina. Non farà più ritorno in URSS. Viene infatti arrestato il 28 agosto a poche decine di chilometri dal confine italiano, probabilmente su delazione. Il governo elvetico comunque ne decreta l’espulsione ma senza consegnarlo all’Italia e passa quindi in Francia dove riesce a scomparire per i successivi tre anni. Si trasferisce a Parigi sede del Comitato centrale del PCdI in esilio, svolge attività da corriere anche in Italia ma per viaggi sempre molto brevi. Nel ’36, dopo il golpe dei generali, parte per la Spagna, assume il nome di battaglia di Sabino. Ad Albacete incontra i volontari antifascisti fra i quali il livornese Mazzini Chiesa. Conosce l’esperienza della lotta armata in una dimensione bellica nuova rispetto ad ogni altra precedente esperienza condotta in Italia prima o durante la clandestinità. In virtù delle esperienze fatte durante il servizio militare viene arruolato nella Marina repubblicana come tecnico silurista alla base navale di Cartagena, il porto più importante della Spagna, sottotenente di vascello viene imbarcato su un incrociatore, contribuendo alla riorganizzazione dell’arma navale. Immediato lo scontro non solo con i golpisti ma anche con i fascisti italiani che intervengono attaccando le navi con i sommergibili, attuando una guerra di pirateria assolutamente illegale sulla base delle norme del diritto internazionale. Per la conoscenza delle lingue è nominato ufficiale di collegamento fra il comando della marina repubblicana e un gruppo di consulenti sovietici. Costante il rapporto con Longo che informa puntualmente delle condizioni della marina. Viene poi inviato a Barcellona per operare la bonifica degli accessi del porto, ed assiste ai bombardamenti fascisti sulla città. A fronte del crollo della repubblica, come tanti, cerca riparo in Francia. Alessandro finisce nel campo di raccolta di Saint Cyprien nei Pirenei orientali all’interno di una comunità multietnica e multirazziale di spagnoli, italiani, polacchi, rappresentanti di oltre 50 paesi. Viene poi trasferito nel campo di internamento di Gurs, il più grande del sud della Francia: 28 ettari per 18.500 “ospiti” suddivisi in 362 baracche, arriverà ad accogliere 24.500 persone. A seguito dell’invasione nazista della Francia e del rifiuto di arruolarsi nei servizi ausiliari, viene condotto nel campo di Vernet, a 100 km dalla frontiera con i Pirenei, il campo peggiore di tutta la Francia per le condizioni igienico sanitarie, la violenza dei gendarmi e l’ambiente atmosferico. Dopo l’occupazione nazista il campo passa sotto Vichy che nei mesi successivi procede ai rimpatri degli antifascisti, che di fatto sono solo costi inutili. Alessandro torna in Italia in manette.

Viene condannato al confino: a Ventotene dove arriva il 14 giugno 1941. Il confino, come sottolineano molti storici, è l’arma peggiore che il regime usa contro gli oppositori. Al di là dell’allontanamento dalla propria residenza, il confino è sottoposto a vigilanza e regole stringenti e a un sostanziale isolamento anche all’interno della comunità dove è trasferito, ad esempio non può sedere in locali e osterie ma consumare al massimo al banco “in piedi e nel più breve tempo possibile”. I confinati sono circa 850, di questi i politici sono 650 (gli altri alcolizzati, spacciatori, usurai…) fra i quali nomi noti come Terracini, Pertini, Rossi, Secchia, per i quali è previsto un pedinamento costante da parte di un milite. Lo colpisce incontrare anche qui ebrei e persone di colore, fra i primi Spinelli, Colorni, Curiel, fra i secondi l’eritreo Menghistù. Ma lo colpisce anche la storia di una ragazza di 28 anni, Monica Esposito, salernita, mandata al confino perché accusata di essere andata a letto con nero, violando così la legge 882 del 13 maggio in tema di relazioni affettive interraziali. L’attacco naziata all’URSS scuote anche i confinati e riapre dialoghi fra i diversi gruppi politici. Nel novembre del ’41 riceve la notizia della morte del padre. Il Ministero degli Interni prima tarda a concedergli la licenza per il funerale poi quando gliela assegna è troppo tardi e così gliela revoca, essendo venuto meno il motivo. Il passare dei mesi rende sempre peggiori le condizioni di vita fra freddo, penuria di cibo (tanto che viene concesso ai confinati di coltivare la terra), malattie.

Estate ’43 gli Alleati si avvicinano e l’isola è colpita dai combattimenti, viene affondato il battello che consentiva i collegamenti. Sapranno della “caduta” di Mussolini solo il 26 luglio. Tuttavia il nuovo Governo, in perfetta continuità, non muta le direttive di ordine pubblico e mantiene il confino per anarchici e comunisti. Solo le proteste variegate spingono il capo della polizia a rettificare con nuova circolare del 14 agosto.

A fine agosto ’43 Alessandro torna a Firenze. I comunisti sono fra i più organizzati, si ritrovano nella libreria di Giulio Montelatici in via Martelli o a casa di Fosco Frizzi in Santo Spirito, mentre fanno parte del Comitato interpartitico poi riorganizzato in CTLN dopo l’annuncio dell’armistizio. L’esperienza dell’attività clandestina rendono i comunisti consapevoli dei pericoli e pronti ad affrontare l’occupazione nazisti e i pericoli conseguenti. Nella riunione con Secchia del 14 settembre viene affidato ad Alessandro la responsabilità dell’organizzazione militare in città, così come in altre città della regione, come Arezzo dove invia il meccanico Romeo Landini, con cui aveva condiviso la guerra in Spagna, l’internamento in Francia, il confino a Ventotene. La scelta è dovuta alla valutazione delle sue esperienze del suo carisma e grande attivismo. Fascisti e nazisti sono consapevoli della sua pericolosità. Intanto il pci avvia l’organizzazione della propria struttura militare con le brigate Garibaldi in ottobre. Alessandro frequenta varie abitazioni di amici, cercando di sottrarsi al pericolo della cattura da parte di fascisti e nazisti, fra questi il direttore d’orchestra russo, ma con passaporto svizzero, Igor Markevitch. Contro lo strapotere nazifascista in città (segnato anche dalle razzie contro gli ebrei), i comunisti iniziano a pensare ad una strategia di lotta armata urbana, formando i GAP, istituti da fine settembre dal Comando centrale delle Brigate Garibaldi, ricalcando un tipo di lotta di resistenza armata diffusa in Francia, sia pur riadattata. Servono uomini di grande esperienza, a guidare i gap infatti di solito sono tutti ex volontari delle Brigate internazionali in Spagna, i componenti uomini di fede assoluta, consapevoli del rischio, con grandi capacità militari., fondamentale il coraggio e la segretezza (non devono conoscersi neppure fra di loro, se non i componenti di ogni piccola unità). Devono compiere attentati o azioni rapide, dimostrare che i nazifascisti non controllano le città, colpire bersagli simbolo. Il divieto di uso delle biciclette nelle città da parte dei nazisti è proprio conseguente a queste azioni, in quanto era il principale mezzo per agire e spostarsi. Alessandro dirige i GAP e coordina tutti i gruppi comunisti toscani. In provincia di Firenze azioni gappiste vi sono già in novembre in varie cittadine e conseguente è la riorganizzazione dei fascisti con la riorganizzazione della milizia nella nuova organizzazione della Guardia nazionale repubblicana. La prima azione dei GAP fiorentini è l’uccisione del ten. Col. Gino Gobbi capo della leva fascista e quindi simbolo del sistema militare imposto agli italiani per proseguire la guerra a fianco del nazismo, il 1° dicembre del ’43. La reazione è immediata all’alba del 2 dicembre cinque detenuti antifascisti sono fucilati alle Cascine (Oreste Ristori, Gino Manetti, Armando Gualtieri, Luigi Pugi, Orlando Storai). Il cardinale Della Costa condanna la violenza gappista difesa non solo dalla stampa clandestina comunista ma anche da quella azionista.

Su Alessandro pesano responsabilità sempre più complesse e solo lui ha l’esperienza necessaria ad affrontare quel tipo di lotta: dare indicazioni organizzative, di addestramento militare, gestire trasporto armi ed esplosivi, organizzare i gruppi, gestire le comunicazioni interne e con i vertici. Inizia a gestire anche contatti con gli operai delle fabbriche della città. 14 gennaio: gap fanno esplodere 9 ordigni in nove punti diversi della città contemporaneamente, impiegando di fatto tutti i gappisti e suscitando sconcerto fra fascisti e nazisti. La caccia ad Alessandro viene quindi affidata a due esponenti fra i più pericolosi della Banda Carità: Natale Cardini e Valerio Menichetti che con Luciano Sestini e Antonio Natali formano il gruppo dei così detti “4 santi” noto per i tratti di spietata ferocia. Il 17 gennaio attentato dei gap, fallito, al capitano della milizia Averardo Mazzuoli e interruzione in tre punti della ferrovia Firenze-Roma presso Varlungo. 21 gennaio bomba alla casa di tolleranza di via delle Terme, messa a disposizione di nazisti e fascisti. 27 gennaio sostegno allo sciopero alla Pignone, gli operai ottengono una distribuzione supplementare di tessere di pane, 30 gennaio bomba al Teatro La Pergola mentre è in corso una manifestazione fascista., 3 febbraio ucciso un sergente tedesco, 5 attaccata una pattuglia della GNR, uccisi due militi. Ad inizio febbraio avventori del bar Paszkosky picchiano una persona di colore. L’8 febbraio il noto tentativo di Tosca Bucarelli e Antonio Ignesti di mettere una bomba nel bar. Anche per consentire la fuga al compagno, la Bucarelli è catturata, torturata dalla Banda Carità, viene poi rinchiusa nel carcere di Santa Verdiana. 9 febbraio viene giustiziato un sergente della GNR alla Fortezza. L’11 febbraio un gap lancia sette bombe contro la sede della Feld Gendarmerie in via dei Serragli. Intanto Alessandro è   impegnato su più fronti organizzativi, a partire da uno sciopero operaio in risposta ai licenziamenti di dicembre ai danni degli operai rifiutatisi di trasferirsi a nord. 13 febbraio nuovi attentati sulla linea ferroviaria Firenze-Roma. La sera Alessandro ha fissato a cena con Antonio Lari vecchio amico e compagno, nella trattoria di via Pandolfini dove va a mangiare spesso. Ma entrano i “santi”, una spia ne ha denunciato la presenza. Vano tentare la fuga. Sinigaglia viene ucciso. Quando si sparge la notizia, tanti fiorentini scrivono sui muri scritte inneggianti ad Alessandro, tanto che è naturale e immediato che la 22 bis Brigata Garibaldi assuma il suo nome, sarà la prima ad entrare a Firenze per liberare la città.




Lungo l’aspra via dell’idea

A Livorno!
Ancora una tappa. È necessario. Lungo l’aspra via dell’Idea ogni tanto ci fermiamo, raccogliamo le forze, le passiamo in rassegna, ci volgiamo indietro, la guardiamo intorno e davanti, vicino e dietro.
Qualcuno stanco per l’asperità del terreno si ferma e ritorna, gli altri riprendono la marcia in file serrate che si ingrossano sempre di più strada facendo.

Così, il 4 gennaio 1921, «L’Avvenire» salutava il congresso di Livorno, dove, più divisi che mai, i socialisti erano chiamati a votare l’adesione alle 21 condizioni poste per l’ingresso nella Terza Internazionale. Organo della federazione circondariale socialista e dotato di una storia ultratrentennale, il settimanale era allora gestito dalla corrente maggioritaria nel partito: quei “socialisti massimalisti” che, rappresentati dal direttore de «L’Avanti!» Giacinto Menotti Serrati, avevano inizialmente guardato con favore sia al ruolo guida della Russia rivoluzionaria sia alla Terza Internazionale.

Molti erano però i motivi che stavano incrinando gli entusiasmi. La disgregazione dei partiti socialisti francesi e tedeschi suscitava analoghe paure per il partito italiano; decisivi erano stati anche i dubbi sulla possibilità di organizzare una rivoluzione in breve tempo, esibiti dall’occupazione delle fabbriche nel settembre 1920. Soprattutto il mancato appoggio dei massimalisti scavò un fossato profondo tra di loro e le frange più radicali: il gruppo torinese di «Ordine Nuovo» (rappresentato da Gramsci, Terracini e Togliatti), gli “astensionisti” campani di Amedeo Bordiga e l’eterogenea «terza componente» tosco-emiliana.

Se dal panorama nazionale spostiamo lo sguardo su quello pistoiese poco netta fu, a questo proposito, la posizione de «L’Avvenire», impegnato in quanto organo ufficiale del PSI locale a giostrarsi tra le sue litigiose correnti. Confusa era anche la situazione politica locale: nel 1919 la giunta clerico-moderata di Arrigo Tesi era stata commissariata per irregolarità nella gestione dei magazzini comunali e venne destituita. Tra il maggio e giugno  1919 erano stati organizzati numerosi scioperi tra i lavoratori dell’industria; il 4 luglio, durante la manifestazione contro il caro-vita, un esasperato gruppo di lavoratori assaltò il centrale Emporio Lavarini.

Come il direttivo nazionale, anche quello del PSI locale era discorde sulla linea da adottare. Buona parte della rivista – gestita allora da Pietro Querci – e del gruppo dirigente pistoiese era legata ai serratiani. A Capostrada forti erano i bordighiani, mentre in montagna il punto di riferimento era Savonarola Signori, sindacalista di simpatie ordinoviste e sindaco di San Marcello tra 1921 e 1922. Roccaforte dei riformisti era invece la Camera del Lavoro, presieduta da Alberto Argentieri.

Se l’editoriale A Livorno!, auspicava sì una scissione, ma a destra, i comunisti erano infatti favorevoli a creare un partito autonomo. Tra questi figurava l’autore de I comunisti al congresso di Livorno (pubblicato il 15 gennaio 1921), ON-DA:

Credo – scriveva infatti – che la frazione comunista, già a [sic] Partito Politico vibrante di vita e di fede, a Livorno debba iniziare la sua battaglia, non nell’orbita del passato, ma lontano da questo per un principio di purezza e di vitalità.

Ugualmente orientata verso la scissione a sinistra era la corrente riformista. Nel suo editoriale Da Genova a Livorno (pubblicato il 22 gennaio) V., nel ricordare le precedenti scissioni (quella degli anarco-sindacalisti, negli anni ’90; dei sindacalisti rivoluzionari, nel 1904; della minoranza favorevole all’intervento nella guerra italo-turca, nel 1912), bollava quella futura «una dolorosa ineluttabilità».

L’esito del congresso minò il complesso equilibrio del PSI pistoiese. La mancata adesione alla Terza Internazionale – che li rigettava a favore del PCd’I – contrastava con gli entusiasmi per la Rivoluzione russa e la convinzione di essere il partito più radicale dell’Europa occidentale. Con la scissione acquistavano un peso maggiore i riformisti e la CGL. Per di più, entro pochi mesi dal congresso, gli iscritti alle singole federazioni dovevano decidere se restare nel PSI o migrare nel PCd’I: scarsa era quindi la consapevolezza di quali strutture sarebbero rimaste ai socialisti.

Questo disorientamento ben emerse nel primo editoriale sull’argomento il 19 febbraio 1921. «Il Congresso della Terza Internazionale»,

non potrà nulla addebitare al nostro Partito Socialista Italiano, il più puro, il più intransigente partito socialista del mondo e finirà col conservarci nei ranghi, perché tenemmo e terremo il nostro posto con onore.

Fu questa una convinzione che venne ribadita anche nei mesi successivi, quando il voto del 10 marzo tra gli associati pistoiesi sancì il passaggio della sede e del settimanale al Pcd’I. Mentre con il numero 19 marzo «L’Avvenire» diventava l’“Organo della Federazione circondariale comunista”, gli esuli socialisti confluivano ne «L’Avvenire socialista», che ancora il 12 marzo ribadiva la vicinanza tra socialisti e comunisti:

I proletari che amano la causa rivoluzionaria non possono voler la divisione del Proletariato, sia pure nel solo campo politico. L’unione fa la forza!

Una condivisione messa fortemente in dubbio dall’altro elemento della diade. «Il partito socialista» chiosavano infatti i comunisti sul primo numero de «L’Avvenire»

prima e durante la guerra non à [sic] dimostrato chiaramente di possedere qualità rivoluzionarie […]. Il dopoguerra à [sic] poi lumeggiato tutta l’impotenza rivoluzionaria di questo partito […]. Ed allora come si fa a chiamare ancora rivoluzionario questo partito socialista?

 




“Agire, Agire, Agire!”

Davanti alla scelta di entrare nel conflitto mondiale, i socialisti pistoiesi risentirono delle divisioni del PSI nazionale. La linea ufficiale era di neutralità assoluta, ma le correnti erano in disaccordo, fronteggiandosi su «L’Avvenire», organo locale del partito. I riformisti, maggioritari in città, adottarono un orientamento attendista. I massimalisti, forti nelle zone bracciantili e nelle industrie della montagna, erano fermamente neutralisti. Le sezioni pistoiesi risentirono dell’ambigua linea di condotta della dirigenza nazionale, mettendo al primo posto la salvaguardia dell’unità del partito. Al di là di organizzare conferenze contro la guerra per mobilitare i ceti popolari, il partito non seppe farsi guida delle spontanee agitazioni antibelliciste. Solo nell’area di Lamporecchio, per merito del sindaco Idalberto Targioni, le manifestazioni ebbero caratteri più organizzati, ma si esaurirono con l’intervento (maggio 1915).

Dopo l’ingresso in guerra, le fratture si acuirono. Alcuni importanti esponenti, come il riformista Amulio Cipulat (direttore de «L’Avvenire») e Targioni, lasciarono il PSI e si “convertirono” all’interventismo. Questi abbandoni provocarono un’emorragia di iscritti, che indebolì soprattutto i riformisti. I massimalisti – tra i quali emerse una frangia di sinistra animata da giovani militanti, che rivendicava una linea rivoluzionaria – guadagnarono posizioni nel partito e nel giornale, che divenne assai critico con la giunta comunale. Intanto, a partire dal 1916 si acuirono le tensioni sociali, con scioperi dei lavoratori e proteste delle donne delle campagne contro la guerra. Nei moti, i socialisti locali mantennero però un ruolo passivo. Il partito era stato minato dalle defezioni, dalla coscrizione obbligatoria e dagli arresti. La dirigenza era poi divisa sul da farsi. I riformisti non appoggiavano le proteste e favorivano la collaborazione con l’amministrazione. L’ala intransigente intendeva supportare le agitazioni popolari e operaie. I massimalisti ebbero la meglio nel convegno collegiale del luglio ’17 e votarono di seguire il modello bolscevico, spogliandosi «di tutte quante le ideologie borghesi e anteporre alla patria l’internazionale proletaria». Nondimeno, la stretta repressiva successiva a Caporetto frenò le pretese rivoluzionarie. «L’Avvenire» interruppe le pubblicazioni per le divisioni della redazione.

Concluso il conflitto, il PSI pistoiese ebbe una crescita considerevole. Nonostante il peso acquisito, nei moti popolari contro il caroviveri e negli scioperi del 1919, i dirigenti, in linea con la segreteria nazionale e d’accordo con i rappresentanti della Confederazione Generale del Lavoro, non tradussero in pratica il motto “Fare come in Russia”, mantenendo le proteste nella legalità. Per «L’Avvenire», dove era forte la componente riformista, i tumulti erano il male del proletariato perché «peggiorano la sua condizione, allontanano il giorno della sua completa emancipazione […] suo compito è quello di prendere il timone della cosa pubblica». La base locale, ormai radicalizzata, chiedeva però una svolta rivoluzionaria e guardò alla frangia comunista, strutturatasi attorno al gruppo dei giovani militanti estremisti. Dopo le elezioni nazionali del novembre 1919, vinte dal PSI nel circondario di Pistoia (49 %), i comunisti presero il sopravvento nella sezione cittadina e su «L’Avvenire», come prova la scelta dei redattori di inserire nella testata il motto di «Ordine Nuovo», la rivista di Antonio Gramsci: «Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi perché avremo bisogno di tutta la nostra forza». Nell’agosto 1920, anche la Camera del Lavoro passò sotto il loro controllo. Proprio per l’influenza dei comunisti, le proteste del ’20 assunsero caratteri anticapitalisti. Culmine delle agitazioni furono le occupazioni delle fabbriche nell’agosto-settembre, che nel pistoiese interessarono le officine metallurgiche, come la San Giorgio, e gli stabilimenti più piccoli. Gli scioperanti locali speravano nell’insurrezione, ma l’accordo tra sindacati, governo e industriali pose fine alle occupazioni ed esaurì la spinta rivoluzionaria.

Nonostante il fallimento delle proteste, il PSI vinse le elezioni amministrative dell’autunno, strappando ai moderati vari Comuni del circondario e il capoluogo, dove fu eletto l’avvocato Bartolomeo Leati. Le fratture interne al partito divennero, però, insanabili. Il congresso nazionale di Livorno, previsto per il gennaio 1921, appariva una resa dei conti tra i riformisti di Turati, i massimalisti di Serrati e i “comunisti puri” di Bordiga. Quest’ultimi erano maggioritari nel pistoiese ed richiesero la direzione nazionale, su «L’Avvenire», ad espellere i riformisti e ad avere una linea politica più vicina alla III Internazionale. Ugo Trinci invitò a mettere da parte le discussioni e ad «agire, agire, agire!». Intanto, lo squadrismo fascista intensificava le sue violenze.

Nel congresso circondariale del dicembre 1920, la mozione comunista ottenne una maggioranza netta, mentre in gran parte d’Italia prevalse la mozione massimalista. Al Congresso di Livorno (gennaio 1921) si consumò la spaccatura: prevalse la linea di Serrati, ossia tenere dentro i riformisti senza però sciogliere i nodi politici, mentre i comunisti si scissero dando vita al Partito Comunista d’Italia (PCdI). A Pistoia, gran parte della dirigenza, tra cui Trinci, e dei militanti del PSI passarono alla neonata formazione, che controllava anche la Camera del Lavoro – dove sedeva il bordighista Onorato Damen, un giovane poeta locale – e «L’Avvenire». Nel marzo, i resti del PSI pistoiese mandò alle stampe il nuovo organo: «L’Avvenire socialista». Iniziava una contesa politica che indebolì il movimento socialista e operaio, nel momento in cui l’unità era necessaria per opporsi al fascismo. La giunta Leati non resse alla scissione, dimettendosi nel maggio 1921. L’amministrazione comunale, per le divergenze tra comunisti e socialisti, rimase vacante fino all’agosto 1922 quando i fascisti ottennero il commissariamento del Comune.

Francesco Cutolo, perfezionando presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, si è laureato in Scienze storiche all’Università di Firenze con una tesi dal titolo “L’influenza spagnola del 1918-1919: la dimensione globale, il quadro nazionale e un caso locale” , rielaborata e pubblicata nel 2020 per i tipi dell’Isrpt. È consigliere dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Pistoia e membro dell’associazione “Storia e città”. Fa parte delle redazioni delle riviste «Farestoria» e «Storialocale». È stato curatore delle mostre: “La città in guerra. Cittadini e profughi a Pistoia dal 1915 al 1918” (Pistoia, 2017); “Memorie d’autore. I grandi personaggi e la prima guerra mondiale” (Firenze,  2018; Montespertoli, 2019); “Le cicatrici della vittoria. Pistoia e le memorie della Grande Guerra” (Pistoia, 2019).




Alle radici della guerra civile a Pisa e nella provincia.

Fra il pomeriggio e la notte del 6 gennaio del 1920 a Pisa l’Arno rompe gli argini inondando interi quartieri, tra gli altri quello di S. Francesco subisce i danni più ingenti, le arcate del ponte delle Cascine cedono all’irruenza delle acque che, nel piano, tracimano nella zona di Uliveto e Caprona. È la seconda volta in un anno che l’alluvione mette in ginocchio la città.

A fronte della drammatica esperienza, e come già si è verificato nel corso della precedente inondazione nel gennaio del 1919, le autorità politiche non riescono a provvedere alle immediate richieste di assistenza né tanto meno ai bisogni della popolazione. Tutto ciò va ad aggravare la situazione già estremamente disagiata delle classi popolari colpite dagli aumenti dei generi di prima necessità e dalla disoccupazione[1]. A distanza di qualche giorno dalla piena, le forze dell’ordine devono intervenire per sciogliere una manifestazione di disoccupati che al grido «vogliamo pane e lavoro» tentano di avvicinarsi alla Prefettura[2].

È dalla primavera del ’19 che in città e provincia si susseguono moti spontanei di protesta, scavalcando spesso le organizzazioni sindacali e di categoria, contro le speculazioni, il rincaro dei prezzi e la disoccupazione.

I vertici prefettizi, in evidente difficoltà, subiscono continue modifiche. Ben cinque prefetti si avvicenderanno alla guida della città tra il 1919 e il 1922. Al contempo le tradizionali organizzazioni popolari, il Partito socialista, i gruppi anarchici, la Camera del lavoro confederale (CGdL) e la Camera del lavoro sindacale (USI) vedono infoltirsi le proprie file. In particolare i socialisti in questo momento sembrano essere la forza trainante dello schieramento popolare, nel collegio elettorale Pisa-Livorno alle recenti elezioni politiche del 16 novembre 1919 hanno raggiunto un risultato storico con il 41,1% dei consensi conquistati ‒ il 41,7% nella provincia pisana ‒, e ben tre deputati eletti: Giuseppe Emanuele Modigliani, Giuliano Corsi, Russardo Capocchi[3].

La speranza di arrivare in tempi brevi ad una rivoluzione «soviettista» come all’epoca si definisce, anima gran parte delle massi subalterne e fa da eco ad una propaganda caratterizzata da un forte massimalismo quasi messianico. Nel primo dopo guerra si diffonde la convinzione in tutte le forze di sinistra, che la crisi del regime liberale e monarchico sia ormai irreversibile. Il primo maggio del ’19 l’«Avvenire anarchico», il settimanale del movimento libertario locale che esce regolarmente dal 1910, apre il numero a tutta pagina con un titolo inneggiante alla imminente «rivoluzione mondiale»[4].

L’anno nuovo, quello della seconda piena dell’Arno, si apre con un altro ciclo di lotte soprattutto nel settore del pubblico impiego che crea la sensazione di essere vicini al punto di non ritorno della «marea rivoluzionaria». Proprio a Pisa sono compatti gli scioperi dei postelegrafonici che dei ferrovieri che hanno nella città della torre pendente uno dei leader più prestigiosi a livello nazionale, il macchinista anarchico Augusto Castrucci[5]; altri scioperi si verificano durante l’estate nelle campagne per il rinnovo del contratto colonico, mentre in settembre varie iniziative di protesta si verificano in occasione delle occupazioni delle fabbriche insieme ad una lunga agitazione dei boraciferi di Lardarello[6].

Di fronte alle continue manifestazioni, soprattutto quelle dei dipendenti pubblici, i partiti di governo reagiscono nel tentativo di bloccare un movimento che non solo crea disagi enormi nella pubblica amministrazione ma prende sempre più l’aspetto di un movimento di tipo insurrezionale. I pochi treni che viaggiano sono scortati da ufficiali e soldati, mentre alla stazione e lungo le linee vengono predisposti presidi militari con mitragliatrici e autoblindate. In città, come in altri luoghi in tutto il centro nord del Paese, si costituiscono gruppi di cittadini, per lo più composti da studenti e commercianti, che si offrono di sostituire i lavoratori in lotta e promuovono la costituzione di un Fascio di organizzazione civile[7]. La riunione di fondazione voluta con particolare fermezza dai dirigenti liberali locali si svolge presso l’Associazione commercianti e vi partecipano oltre ai liberali, esponenti radicali e massoni come i professori Alfredo Pozzolini, Quinto Santoli e Francesco Pardi. I popolari pur approvando i contenuti dell’iniziativa non vi aderiscono per la presenza dei massoni mentre si adoperano per costituire sindacati «bianchi» all’interno delle categorie di lavoratori più combattive. La sera stessa della costituzione del Fascio d’organizzazione civile le autorità di polizia, sotto la pressione delle forze politiche conservatrici, danno il via ad una larga serie di perquisizioni e di arresti. Per la prima volta a Pisa civili armati partecipano assieme alla forze dell’ordine al tentativo di stroncare la protesta operaia[8].  In Pisa, la notte dal 20 al 21, imperversò una bufera reazionaria, sino ridicola nella sua sproporzione. Furono arrestati da vere compagnie di armati, a baionetta innestata, tutti i più noti estremisti della città: G. Petracchini, E. Facciaddio, V. Mazzoni, F. Cioni, G. Fontana, G. Mariani, F. Gori ed altri moltissimi ferrovieri: Pagliai, Matteini, De Filippis, Cappagli, Castellacci, Favali e alcuni socialisti: Stizzi, Cammeo, ecc. […] Il giorno dopo, malgrado lo stato d’assedio effettivo, il terrore e lo scorrazzare per la città di camions armati di mitragliatrici e di gruppi di violenti e brutali armati provocatori. La città protestò spontaneamente proclamando lo sciopero generale, che non cessò che quando vennero posti in libertà tutti gli arrestati[9]. Lo sciopero dei ferrovieri si chiude il 30 gennaio con una vittoria: il governo è costretto ad accettare le richieste dei lavoratori; la riassunzione del personale licenziato, le otto ore di lavoro per il personale di macchina e per quello viaggiante, l’istituzione di finanziamenti per la costruzione di abitazioni per i lavoratori e l’introduzione nel Consiglio d’Amministrazione di cinque rappresentanti dei sindacati.

Tuttavia la mobilitazione delle organizzazioni proletarie continua ed il giorno stesso della conclusione dello sciopero arriva in città Errico Malatesta, l’agitatore anarchico che rientrato da poco più di un mese in Italia, ha assunto un ruolo determinante non solo all’interno del movimento anarchico ma più in generale per tutto il movimento operaio. Egli viene salutato da una folla che via via si infoltisce dietro il passaggio delle bandiere e l’eco degli inni proletari. Il «Lenin d’Italia», come Malatesta viene soprannominato tiene un acceso comizio in piazza dei Cavalieri, attorniato dai suoi compagni di fede. Il giorno dopo va a Livorno e al ritorno, nella nottata del 2 febbraio, viene arrestato a Tombolo[10]. Subito la notizia si propaga in ogni città e nei borghi delle province toscane. Le Camere del lavoro della regione proclamano uno sciopero generale. La sera stessa il governo è costretto a rilasciare il rivoluzionario. L’arresto di Malatesta non è casuale[11]. Il suo ritorno in Italia coincide, infatti, con una crescita notevole del movimento libertario: nella primavera del 1919 si costituisce a Firenze l’Unione comunista anarchica italiana che raccoglie centinaia di gruppi e sezioni in tutta Italia. Il movimento libertario può contare su solide radici nel tessuto popolare di vaste aree del paese come la Liguria, la Toscana, le Marche, ecc., inoltre ha una notevole influenza sull’Unione sindacale italiana, l’organizzazione sindacalista rivoluzionaria, il cui segretario è l’anarchico Armando Borghi[12], che conta diverse centinaia di migliaia di iscritti. Proprio intorno alla metà gennaio del ’20, durante lo sciopero dei dipendenti pubblici, il lavoro degli anarchici si concentra nel tentativo di portare sul piano operativo il Partito socialista nell’ipotesi di un progetto insurrezionale. Proprio a questo scopo gli anarchici organizzati propongono un fronte unico proletario dal basso quale elemento fondamentale della proposta rivoluzionaria che rivolgono a tutte le forze della sinistra di classe[13]. Il tentativo però fallisce soprattutto per l’opposizione di Serrati che è contrario ad un fronte che coinvolga anche il movimento fiumano di Gabriele D’Annunzio[14]. A febbraio esce il primo numero del quotidiano «Umanità nova» che arriva ad avere una tiratura di circa cinquantamila copie, nonostante i boicottaggi messi in opera dal Governo.

Pisa si colloca all’interno di questo progetto in una posizione particolare e contraddittoria. Da una parte la forte tradizione anarchica fa si che la cittadina sia considerata uno dei cardini della rete del movimento[15], dall’altra le posizioni critiche della redazione del settimanale l’«Avvenire anarchico» e di gran parte dei gruppi locali sul progetto di un’organizzazione unitaria nazionale comporta un forte antagonismo nei confronti della neonata Unione e di «Umanità nova»[16].

La cultura e l’orientamento politico degli anarchici pisani riflettono in parte quelle che sono caratteristiche molto diffuse in buona parte del movimento operaio e anarchico di quei tempi: un eccessivo massimalismo che nel caso pisano fa da cornice a una forte tradizione antiorganizzatrice, anche se su basi comuniste-anarchiche. Con l’arrivo di Renato Siglich (Souvarine) alla redazione del settimanale, anarchico individualista e «illegalista» triestino[17], le posizioni antiorganizzatrici dei gruppi pisani si rafforzano. Nonostante ciò l’anarchismo locale mantiene una notevole influenza su numerosi settori proletari della città. Le contraddizioni del gruppo redazionale dell’«Avvenire anarchico» si evidenziano in occasione dei moti del caroviveri dell’estate del ’19. Infatti la redazione esalta la spontaneità e l’autonomia delle masse e saluta la costituzione dei «comitati operai» come nuova forma di organizzazione capace di scavalcare le organizzazioni politiche e sindacali, ma al momento della proclamazione degli scioperi i redattori non possono fare a meno di intervenire sia come rappresentanti delle masse in movimento, nei confronti delle autorità, sia per stringere alleanze con i «cugini» socialisti[18].

La polemica antisocialista comunque, si rafforza anche per le posizioni del Partito socialista che oscillano fra il massimalismo ed il riformismo senza entrare quasi mai nei termini operativi per lo sviluppo di un processo rivoluzionario. Il contrasto poi si accentuerà, a livello nazionale, nel 1920 per i cedimenti della CGdL e del PSI – si pensi solo ad esempio all’atteggiamento della direzione del partito nei confronti dell’occupazione delle fabbriche – ma a livello locale si acutizzeranno già durante i primi giorni di maggio quando l’eco dei moti di Viareggio arriva in città.

Nell’occasione la Camera del lavoro sindacale e gli anarchici tentano di proclamare uno sciopero generale cittadino di solidarietà ma il progetto non trova molte adesioni e ad esso si oppongono francamente i socialisti. Gli anarchici accusano di tradimento il PSI e scatenano contro il gruppo dirigente del partito una violenta polemica che si trascina per parecchi mesi, esasperata anche dal fatto che le Guardie regie occupano arbitrariamente, per la prima volta, la Camera del lavoro sindacale[19] aderente all’USI. La sede era allora in una parte dell’attuale edificio dell’ex convento delle Benedettine e l’organizzazione sindacale pur essendo circoscritta nell’ambito territoriale della città, poche erano le sezioni a Cascina e Pontedera, poteva contare su diverse migliaia di iscritti, su un organo di stampa, il «Germinal», e su un attivo segretario come Primo Petracchini e propagandisti come Gusmano Mariani[20].

Fra anarchici e socialisti nascono altri dissidi non solo sulla questione degli scioperi politici e di solidarietà ma anche su altri problemi come l’organizzazione degli ex-combattenti. In città esiste già un’associazione di ex-combattenti rigidamente legata ad ambienti nazionalisti e conservatori. Fra le file dei rivoluzionari il problema è sentito non solo da un punto di vista rivendicativo, cioè di difesa degli interessi economici e assistenziali, ma anche in funzione di una prospettiva rivoluzionaria. Come in Russia si pensa che i soldati e gli ex combattenti possano avere un ruolo fondamentale nel processo rivoluzionario. Gli anarchici puntano sulla creazione di associazioni autonome di ex-soldati non legate ad ipotesi istituzionali. E a Pisa nasce dalla confluenza di elementi anarchici e socialisti, una Sezione autonoma combattenti che non ha, comunque, grande fortuna anche per lo sviluppo di una sezione della Lega proletaria sostenuta soprattutto dai socialisti e criticata dagli anarchici che vedono l’associazione come una emanazione del Partito con un solo fine, quello di aumentarne il consenso elettorale[21].

Il Partito socialista da parte sua non rinuncia all’antagonismo storico nei confronti del movimento anarchico, forte anche del fatto che per la prima volta dalla nascita del movimento operaio locale, sta assumendo un ruolo sempre più egemonico grazie ad una sua crescita soprattutto nelle campagne dove l’organizzazione Camerale, guidata dai socialisti, conta, all’inizio del 1920, oltre ventimila organizzati[22].

Nell’estate del ’20, come già accennato, le campagne sono attraversate da una lunga agitazione dei contadini che nella provincia avrà un epilogo tragico: ad Orciano, nella metà di luglio, una manifestazione di contadini viene fatta segno da parte dei carabinieri di numerosi colpi d’arma da fuoco causando la morte di un colono e il ferimento di alcune persone[23]. Lo sciopero che in tutta la Toscana coinvolge migliaia di contadini e coloni è importante perché, oltre a conquistare il primo e unico patto colonico regionale[24], rappresenta anche una prova di forza nei confronti dei popolari che negli ultimi due anni hanno fatto notevoli progressi nell’organizzazione sindacale delle leghe «bianche». Lo sviluppo del leghismo bianco coincide con quello del Partito popolare, soprattutto con la costituzione della Confederazione italiana del lavoro (CIL) il cui primo congresso nazionale si svolge nel marzo del 1920 proprio nel capoluogo della provincia[25]. Il sindacalismo cattolico, che si pone su di un piano di aperta rivalità nei confronti di quello socialista, è guidato da Giovanni Gronchi, deputato al parlamento e segretario della CIL, e ha le sue principali roccaforti fra i piccoli coltivatori ed i mezzadri[26], in particolare della Valdera, anche se non mancano sezioni fra i lavoratori tessili, ferrovieri e postelegrafonici. Nella mezzadria i cattolici vedono il superamento della concezione classista del socialismo. Nella mezzadria l’antitesi sociale, di cui si nutre il socialismo per nutrire l’odio di classi, è soppressa. Il lavoratore dei campi è un socio del proprietario. La proprietà diventa un condominio, nel quale l’ingegno e il braccio, il lavoro e il capitale si fondano in una delle più alte forme, nella primordiale e fondamentale forma di produzione della ricchezza[27]. La struttura dell’economia agraria della provincia pisana, che all’epoca si estende fino all’alta Maremma e tocca un centro industriale importante come Piombino[28], è legata all’istituzione della mezzadria, mentre il latifondo riguarda più la parte meridionale, quella appunto dell’alta Maremma. La mezzadria fino all’epoca è stata una delle colonne del sistema politico e sociale della Toscana intera e vanto delle classi dirigenti moderate che vedono in essa un ottimo «vaccino» contro il dilagare del socialismo. Nell’immediato dopoguerra questo sistema entra in crisi e il mondo della campagna si sposta decisamente verso sinistra accentuando profonde contraddizioni che esplodono in conflitti di classe di grande importanza[29].

Pisa città rimane all’epoca un’area urbana dove il salto industriale si è fermato e non ha saputo cogliere lo slancio della dinamica nazionale. Gran parte delle manifatture presenti sul territorio sono legate al settore tessile[30] e le uniche grandi realtà industriali della città rimangono la Saint Gobain, per il vetro, e la Richard Ginori per la ceramica. Le classi subalterne sono composte in grandi linee, da un cospicuo settore femminile di lavoranti tessitrici, le cosiddette «fabbrichine», da un ceto operaio qualificato presente nelle industrie vetrarie e ceramiste, da un consistente nucleo di edili e soprattutto da un combattivo e omogeneo gruppo di ferrovieri[31]. Di fronte all’ondata delle lotte rivendicative e all’occupazione delle fabbriche le forze che all’inizio dell’anno hanno dato vita al Fascio d’organizzazione civile si riorganizzano, soprattutto in previsione delle elezioni amministrative dell’autunno, in un blocco eterogeneo liberaldemocratico di cui fanno parte oltre ai liberali, il Partito radicale con in prima persona Alfredo Pozzolini, maestro venerabile, i pensionati, i socialriformisti, i nazionalisti e le associazioni dei combattenti e mutilati.

Qualche mese prima nel frattempo, il 28 aprile 1920 a Pisa, alla presenza dello squadrista fiorentino Abbatemaggio[32], si è costituito il primo Fascio di combattimento. I primi aderenti sono soprattutto studenti, ex militari e liberi professionisti. Segretario è Luigi Malagoli che ben presto entrerà in rapporto con i vertici del movimento fascista, ed in particolare con Umberto Pasella che fa visita alla nuova sezione nel giugno del 1920[33]. Nella provincia i fasci di combattimento nasceranno più tardi fra l’ottobre del 1920 ed il gennaio-febbraio del 1921. La presenza del fiorentino Abbatemaggio testimonia, come poi successivamente sarà confermato, che la diffusione del fascismo in tutta la Toscana è legata in gran parte all’opera organizzatrice del centro di Firenze, che offre ai centri periferici della regione i quadri, i finanziamenti, le armi e le coperture politiche. A Firenze nasce uno dei primi fasci di combattimento della regione con l’aiuto del segretario nazionale Umberto Pasella e nella medesima città si tiene tra il 9 e il 10 ottobre del 1919 la prima adunata nazionale con la partecipazione di Benito Mussolini, Filippo Tommaso Marinetti, il capitano degli arditi Ferruccio Vecchi oltre al già citato segretario[34]. Umberto Pasella è il trad-union tra la sede di Milano e la Toscana grazie ai suoi rapporti di affari e d’interessi generali con gli ambienti economici e le autorità del capoluogo regionale. La figura del segretario sintetizza bene lo stereotipo del primo militante del nascente fascismo: ex segretario della Camera di lavoro di Piombino, è nato ad Orbetello, ex funzionario di altre organizzazioni economiche e sindacali a cavallo del primo decennio del secolo, vive di espedienti vari, il prestigiatore, il commerciante e il «truffatore». Dopo l’esperienza sindacalista, trasferitosi a Firenze per seguire i propri affari, diventa un acceso interventista e durante la guerra si avvicina alle posizioni di Mussolini. Non mancherà, come riferiscono alcune testimonianze di suoi “camerati d’armi”, di lavorare per il contro spionaggio dando informazioni sul movimento sovversivo. Tutta questa attività gli permette di stringere amicizie sia negli ambienti militari, sia nell’alta borghesia fiorentina. Sarà proprio lui, uno dei partecipanti alla fondazione dei Fasci a Milano il 23 marzo 1919, di cui ricoprirà fino al novembre del 1921 la carica di segretario generale, ad introdurre e a portare alla segreteria fiorentina all’inizio del ’21 il massone, interventista e “marchese” Dino Perrone Compagni[35].

06_Pardi_FrancescoCon la fine del 1920 e l’inizio del 1921 quello, che fino ad allora è sembrato un movimento di scarso rilievo e incisività ha un’improvvisa svolta ed è interessante cercare di capire come sia potuto maturare nel particolare clima politico e sociale di allora in Italia. L’occupazione delle fabbriche di settembre ha spaventato non poco le classi medie e i ceti dirigenti dando l’idea che i lavoratori siano capaci di preparare un’insurrezione rivoluzionaria, PSI e CGdL nonostante le proprie incertezze sono viste come i principali responsabili della «bolscevizzazione» del paese. A Pisa come detto sono i liberali e buona parte della massoneria che sostengono con maggiore determinazione, in questo spiazzando il nascente fascio locale, la necessità di un’organizzazione di autodifesa di fronte all’assenza dell’autorità statale nel far rispettare l’ordine e la legge[36]. In previsione della campagna elettorale, come detto, i liberali propongono una coalizione d’ordine guidata dalla loro organizzazione sotto il nome di Fascio liberale democratico che raccoglie l’adesione, oltre che della sezione pisana del Partito liberale, anche quella del Partito radicale, del Gruppo nazionalista, dell’Associazione fra i pensionati e quella più importante dell’Associazione dei combattenti[37]. Scopo principale della nuova coalizione, sostituendo l’aspetto meramente localistico/amministrativo con quello politico della scadenza elettorale, è quello di contrapporre un fronte unico «antibolscevico» alla «torbida marea comunista che avanza», un’alleanza politica di difesa dei «più nobili valori morali che costituiscono l’essenza della nostra civiltà». Esponenti di spicco dell’alleanza sono il professore Giovanni Battista Queirolo, il docente Francesco Pardi, l’industriale Luigi Guidotti e l’agrario Francesco Ruschi[38]. Bersaglio della campagna elettorale del blocco liberale condotta attraverso le pagine del periodico «Rinnovamento» per le amministrative d’autunno non sono solo i socialisti ma soprattutto i popolari e i repubblicani che sono degli antagonisti diretti nel controllo dei ceti medi, artigiani e commerciati, come del mondo contadino. I popolari e i repubblicani vengono attaccati con una campagna virulenta che vuole denunciare i loro cedimenti verso la sinistra[39].

Sul piano nazionale questo primo banco di prova per i liberali, dopo un periodo contrassegnato da forti conflitti sociali e dalla sconfitta elettorale dell’anno precedente, rappresenta un tentativo di riscatto seppur parziale delle forze moderate borghesi e l’esperienza dei «blocchi nazionali anti-bolscevichi» verrà riproposta in molte zone per le elezioni politiche del maggio 1921. Fra la fine di ottobre e l’inizio di novembre si tengono le elezioni per il rinnovo dei consigli comunali e provinciali, il fronte liberale conquista la città di Pisa. I liberali con 48 seggi controllano la maggioranza del consiglio comunale (20 liberali, 5 democratici nazionali, 4 pensionati, 7 combattenti e 12 fra radicali, socialriformisti e democratici indipendenti). Il Partito repubblicano con 12 seggi rappresenta l’opposizione mentre popolari e socialisti rimangono esclusi dal consiglio. La coalizione vincente esprime come sindaco Francesco Pardi, presidente della sezione pisana del PLI. Va detto che queste elezioni sono ampiamente caratterizzate da un astensionismo diffuso, soprattutto tra le classi subalterne, che tocca il 44% per le elezioni comunali in città mentre per le provinciali si attesta intorno al 55,5%. Nelle elezioni per il consiglio provinciale si affermano invece nettamente i socialisti con 23 consiglieri mentre le altre forze politiche conquistano pochi seggi a testa: 4 popolari; 5 repubblicani e 8 liberaldemocratici. Ad accentuare la frattura politica tra la città della Torre e la provincia vi è poi il dato delle elezioni degli altri comuni dove 26 amministrazioni su 42 vanno ai socialisti, 5 ai popolari, 2 ai repubblicani, mentre i liberali riescono a spuntarla oltre che a Pisa in soli altri nove comuni[40].

L’andamento delle elezioni amministrative locali, nonostante l’affermazione dei socialisti in provincia, comporta però una grossa novità nel quadro politico, come già sottolineato in campo storico, e cioè lo spostamento di una parte consistente dell’opinione pubblica di centro e moderata verso destra. L’affacciarsi sulla scena politica del movimento fascista offre alla borghesia cittadina un’alternativa come forza d’ordine e baluardo contro i movimenti sovversivi soprattutto dopo la grande paura del settembre con l’occupazione delle fabbriche[41]. In campo locale, come vedremo più avanti, l’ultima campagna elettorale contribuisce ad avvicinare il fronte liberale con quello fascista nonostante quest’ultimo, per motivi tattici, si sia astenuto dalla partecipazione diretta alle elezioni. Di fatto però il repentino cambiamento del clima politico sancisce l’avviamento di un processo non sempre lineare di fusione di forze che si concretizzerà l’anno successivo con la riorganizzazione del fascio locale e l’ingresso di nuovi elementi e dirigenti.

Nel frattempo il quadro politico nazionale si aggrava: la crisi di Fiume, fra il governo e i legionari guidati da D’Annunzio, ha un’impennata improvvisa che sfocia nel conflitto del Natale del 1920. Giolitti è sotto il fuoco della destra e della sinistra, in particolare la stampa e le associazioni degli industriali e degli agrari lo attaccano per la sua politica considerata troppo cedevole verso le sinistre. In realtà Giolitti non è stato con le mani in mano, da un parte è riuscito ad imbrigliare la dirigenza socialista e a condurre in porto la crisi determinata dalle occupazioni delle fabbriche e dall’altra ha avviato una vasta operazione repressiva contro il movimento anarchico e del sindacalismo d’azione diretta senza suscitare l’opposizione decisa del PSI e della CGdL. Ad ottobre, fra il 17 e il 21, Errico Malatesta, Carlo Frigerio, Armando Borghi, Luigi Fabbri, la redazione del quotidiano anarchico «Umanità nova», i principali esponenti dell’Unione anarchica italiana e dell’Unione sindacale italiana insieme a centinaia di propri iscritti finiscono in carcere con accuse pesantissime. Una delle avanguardie del movimento operaio viene così decapitata in un momento delicatissimo dal punto di vista politico.

Il 5 novembre a Firenze nel contempo si riuniscono in un convegno regionale i fascisti; le uniche realtà presenti oltre al capoluogo regionale e dintorni sono Siena e Pisa[42]. Nella stessa città, un mese più tardi e precisamente il 1° dicembre, è convocato un congresso degli agrari toscani che decreta la costituzione dell’Associazione agraria toscana. L’associazione diviene ben presto una delle principali finanziatrici del movimento di Mussolini e fascisti saranno i suoi principali esponenti. È a questo punto che a dirigere il fascismo toscano entra il marchese Dino Perrrone Compagni che è nominato segretario del fascio fiorentino nel febbraio del 1921 e con lui arrivano i primi consistenti finanziamenti e le prime partite d’armi[43]. Il fascismo pisano trae giovamento da questa serie di novità nei vertici regionali mentre fino ad ora non ha trovato molto spazio in città e nel resto della provincia.

Il fronte «antibolscevico» conquistato il comune ma non la provincia[44] inizia una dura campagna con lo scopo di delegittimare i socialisti dalla guida dell’amministrazione provinciale. Tale iniziativa di fatto porta all’intesa politica fra il Fascio liberale e il Fascio di combattimento che uscito da una crisi di attività, e grazie all’intervento deciso del centro milanese e di quello fiorentino, sostituito il segretario Malagoli con Bruno Santini ex capitano degli alpini[45], pubblica all’inizio del dicembre sul giornale «Il Ponte di Pisa», organo del Fascio liberale, il proprio programma che recita:

1 ‒ Difesa dell’ultima guerra nazionale e valorizzazione della vittoria; 2 ‒ Rappresentanza dei lavoratori nel funzionamento dell’industria; 3 ‒ Affidamento alle organizzazioni proletarie (che ne siano degne moralmente e tecnicamente), della gestione di industrie e servizi pubblici; 4 – Formazione dei Consigli nazionali tecnici del lavoro, eletti dalla collettività professionali di mestieri con poteri legislativi; 5 – Sistemazione tecnica e morale dei grandi servizi pubblici sottratti alle burocrazie di Stato che li manda in rovina. Mentre i “postulati di opposizione” sono: “I fasci non disarmeranno finché non avranno vinto: 1 ‒ Chi diffama la nostra guerra, svaluta la vittoria, esalta i disertori e deride i combattenti; 2 ‒ Chi minaccia la rivoluzione bolscevica, chi è contro la tradizione, la capacità e la reale situazione italiana; 3 ‒ Chi provoca e calunnia i nostri uomini e i nostri organismi; 4 – Chi sfrutta e turlupina le masse dei lavoratori manuali e tecnici; 5 ‒ Chi si agita su un terreno permanente antinazionale […]. Al di sopra delle classi e dei partiti, i Fascisti pongono la Nazione […] Difendono tutte le libertà contro ogni violenza con ogni violenza[46].

 Si aggrega nel nascente fascismo pisano quella parte di gioventù, che individua nella crisi del sistema liberale gran parte dei mali del paese ed è violentemente avversa a coloro, i sovversivi, che negano ogni valore ideale alla guerra combattuta e alla difesa degli interessi nazionali. Comunque nell’autunno del 1920 il fascio pisano non supera ancora il centinaio di iscritti. Altri “ras” fascisti tristemente noti per le loro imprese iniziano il loro apprendistato come Alessandro Carosi, farmacista di Vecchiano, che sarà autore di diversi omicidi e Francesco Adami di Navacchio[47].

L’alleanza stretta fra liberali, combattenti, nazionalisti e fascisti – quest’ultimi comunque, in questo momento, molto critici nei confronti dei propri alleati e non disposti a ruoli subalterni – porta alla prima azione di una certa consistenza proprio contro la «giunta rossa» dell’Amministrazione provinciale. La lotta contro le «amministrazioni rosse» ha già avuto degli epiloghi tragici a Bologna e sicuramente quegli eventi hanno avuto un’influenza nel determinare la decisione da parte dei fascisti locali di bloccare anche a Pisa l’insediamento del Consiglio provinciale. D’altronde per tutto il fronte liberale, conservatore, massonico e nazionalista l’elezione a presidente della Provincia dell’ex «anarchico», ora socialista di sinistra, Ersilio Ambrogi[48] viene vista come un passo verso la «bolscevizzazione» delle amministrazioni locali e va impedita ad ogni costo.

Fatti affluire in città il 4 dicembre, ma l’impresa si ripeterà anche il 14 dicembre, fascisti da altre province, soprattutto da Firenze, si impedisce al Consiglio provinciale di insediarsi e con soddisfazione il «Ponte di Pisa» può salutare la «vittoria» della parte «buona» della nazione[49]. A margine della seconda azione il 14 dicembre, nel pomeriggio, viene attuata un’altra spedizione a Lucca contro un comizio dei socialisti che causa la morte di due sovversivi e il ferimento di numerose persone[50]. Il Consiglio provinciale potrà riunirsi e deliberare l’elezione dei propri organi ai primi del gennaio del 1921 quando le forze socialiste, nonostante la presenza di squadre armate fasciste, riescono a garantire il regolare svolgimento della seduta[51]. L’attività del Consiglio provinciale verrà tuttavia bloccata dal prefetto Achille De Martino, condizionato e complice delle forze moderate e conservatrici, che emanerà un decreto di sospensione come misura di ordine pubblico[52].

L’azione delle squadre fasciste che riescono ad impedire l’insediamento del Consiglio provinciale da un ulteriore impulso alla diffusione dei fasci in provincia che, sempre con l’aiuto del centro fiorentino, iniziano a costituire nuclei in tutte le principali località. Ad esempio, a Lardarello il principe Ginori-Conte si fa promotore con l’aiuto di squadristi fiorentini della costituzione del fascio locale, di cui primo finanziatore sarà lui stesso, composto da impiegati e capo-reparti delle proprie aziende. Sarà poi lo squadrista fiorentino Giuseppe Fanciulli che con i propri uomini devasterà l’intera zona di Volterra, Pomarance e Lardarello, tanto da destare le preoccupazioni delle autorità che cercheranno in un primo momento di limitare la furia distruttrice dello squadrista, senza per altro riuscirvi[53].

Il nuovo anno si aprirà con l’esplodere del conflitto fra le organizzazioni operaie e le squadre dei fascisti, soprattutto nell’Emilia Romagna, subito dopo la conclusione del XX congresso di Livorno del PSI che vede la nascita del Partito comunista d’Italia. Una conseguenza dell’attacco fascista all’amministrazione provinciale guidata dai socialisti e in particolare al suo presidente Ambrogi, che in questo momento ricopre anche l’incarico di sindaco di Cecina, si avrà proprio alla fine di gennaio del 1921. La causa del nuovo conflitto scatenato dai fascisti nasce dalla decisione, presa qualche tempo prima, della giunta comunale di Cecina di rimuovere una lapide con il bollettino della vittoria della guerra del ’15-’18. La spedizione avrà un esito inatteso: all’arrivo nella cittadina i fascisti trovano i socialisti pronti a difendersi e al primo sparo segue una fitta serie di colpi che alla fine lasciano feriti sul campo alcuni fascisti di Livorno di cui uno morirà nei giorni successivi[54]. I carabinieri che partecipano al conflitto, dopo la cessazione della sparatoria, occupano la sezione socialista. Il sindaco Ambrogi verrà arrestato insieme ad altri socialisti e la città sarà messa in stato d’assedio. Il sindaco sarà poi dal prefetto destituito dall’incarico perché come riportano le cronache dei giornali dell’epoca ha «levato dagli uffici del Municipio di Cecina i ritratti dei Sovrani e la targa della Vittoria»[55].

10_Pisa_Manifestazione_fascista_1921Nei medesimi giorni a Firenze si proclama uno sciopero generale contro la violenza degli squadristi che si sono resi responsabili della distruzione della tipografia e della redazione del giornale socialista «La Difesa». E mentre alla Camera si apre un infuocato dibattito sulle imprese del movimento di Mussolini, a Pisa e in tutta la Toscana, la tensione cresce. In città si apre una vertenza fra la giunta del sindaco Pardi e gli spazzini in gran parte libertari e aderenti all’organizzazione sindacale dell’USI. Lo sciopero dura quasi un mese con un crescendo di tensione: gruppi di studenti e fascisti cercano invano di sostituire gli scioperanti e gli spazzini vengono intimiditi con tutti i mezzi[56]. La vertenza si conclude sull’onda degli eventi che scoppiano dopo le drammatiche giornate di Firenze di fine febbraio, con una parziale accettazione da parte della Giunta delle richieste degli operai. La nuova offensiva fascista prende un impulso decisivo soprattutto dopo la battaglia di Firenze. Tra il 28 febbraio e il 1° marzo del 1921, dopo l’ennesima provocazione e un attentato, l’esercito, le guardie regie ed i carabinieri attaccano i quartieri popolari d’Oltrarno. Dopo tre giorni di combattimento in cui vengono utilizzate anche le autoblindo la resistenza popolare cede. Le squadre fasciste entrano nei quartieri protette dall’esercito e si lasciano andare ad efferati delitti. Già nel primo giorno di combattimenti uccidono Spartaco Lavagnini, esponente di spicco del sindacato ferrovieri e dei comunisti locali, e alla fine i morti saranno oltre venti, un centinaio i feriti e oltre cinquecento gli arresti fra i sovversivi. Nei giorni successivi incidenti simili a quelli di Firenze accadono a Empoli (1° marzo), a Siena (4 marzo) dove la Camera del lavoro viene cannoneggiata, San Giovanni Valdarno, Foiano della Chiana, Castelnuovo dei Sabbioni fino ad Arezzo ed oltre[57]. A Firenze, d’altronde i fascisti possono contare, oltre al sostegno delle alte gerarchie militari e buona parte della borghesia cittadina, sull’appoggio di un giornale quotidiano come «La Nazione» che via via definisce le imprese dei “fasci” come «gite» di propaganda, mentre ne riporta freddamente i resoconti in numero dei morti e dei feriti. L’azione dei gruppi sovversivi è invece descritta quasi sempre in termini briganteschi. Anche nella provincia pisana le testate giornalistiche di tendenza conservatrice o liberale si allineano a quelle nazionali. «Il Corrazziere» di Volterra definisce il fascismo «nobile e santa manifestazione di italianità, […] meravigliosa reazione contro i nemici interni venduti alla Russia…» e i sovversivi «epigoni dell’ebreo Lenin»[58]. Anche un giornale cattolico come «Il Messaggero toscano» non riesce a mantenere una posizione equidistante, accecato dal fanatismo antisocialista, definisce sempre le azioni dei sovversivi «agguati» mentre le violenze fasciste a parte le recriminazioni formali sono sempre giustificate come forme di autodifesa.

Le spedizioni ora nascono una dopo l’altra in un susseguirsi convulso. Le squadre fasciste chiamate dai propri simpatizzanti, arrivano nei paesi anche più piccoli della campagna toscana, all’improvviso, generalmente la mattina molto presto: innalzano la bandiera nazionale; con le liste dei proscritti, quasi sempre fornite dalla questura o dal comando dei carabinieri, bastonano, incendiano, uccidono e saccheggiano. Uno di questi squadristi ci ha lasciato un’utile ed esplicativa testimonianza per capire lo stato d’animo dei fascisti galvanizzati dalla vittoria di Firenze:

 12 marzo (1921). Voliamo, è la parola esatta, in soccorso dell’esimo professore bloccato in casa dagli anarchici a Santa Maria a Monte in quel di Pisa. Una telefonata ieri sera dal Fascio, e eccoci in quindici già in viaggio verso Pontedera in questa prima mattina di sole caldo. Siamo allegri e le giornate di Firenze ci hanno resi audaci, ora si può portare sicuri il Fascismo in altre province, ‘che Firenze l’è bell’e che addomesticata’. Come dice Solino. ‘E in dove si va? a S. Lucia?’ No, a S. Maria a Monte, dove ci sono gli anarchici[59].

 A Pisa, come in tutta la Toscana, la risposta popolare non si fa attendere e dopo i fatti di Firenze viene proclamato lo sciopero generale. A Pisa lunedì 28 febbraio i ferrovieri tengono un comizio davanti alla stazione dove parlano Roberto Barsotti, De Filippis e Bechi. Il giorno dopo sale la tensione e le forze dell’ordine faticano molto a tenere a distanza i gruppi dei sovversivi dai fascisti, i quali cercano di attraversare la città con un piccolo corteo che percorre Borgo Stretto, ponte di Mezzo e Lungarno Gambacorti sciogliendosi senza incidenti. Nel pomeriggio scontri tra opposte dazioni scoppiano in piazza dei Miracoli e si propagano in via S. Maria e piazza dei Cavalieri con continue sparatorie che causano il ferimento di due giovani. Il 2 marzo si svolge un grande comizio di protesta nell’ex giardino dell’Arena, vicino alla cooperativa dei ferrovieri. Oltre duemila persone rispondono all’appello delle forze politiche e sociali della sinistra; gli oratori si susseguono, per primo interviene Serrati, di passaggio a Pisa, segue Mingrino, segretario della Camera del lavoro confederale, Pagliai per i ferrovieri e Mariani per gli anarchici. Il comizio decide la prosecuzione dello sciopero fino a quando il Sindacato ferrovieri lo riterrà opportuno. I dimostranti dopo il comizio vengono caricati dalla forza pubblica e gli scontri si allargano al resto della città che ormai vive da tre giorni in un clima da guerra civile. La sera a Porta nuova un nuovo conflitto fra fascisti e sovversivi lascia ferito un altro giovane aderente al fascio di combattimento. Numerosi sono gli arrestati fra i sovversivi, mentre i fascisti partecipano insieme alle forze dell’ordine alla repressione. Per due volte si tenta di prendere d’assalto la Camera del lavoro confederale ma senza risultati. A Pontedera le guardie regie fanno irruzione in un circolo comunista devastandolo e arrestando venti sovversivi.

Negli stessi giorni anche il piano pisano è scosso dal moto di protesta contro la violenza fascista. Il fatto più grave accade nella zona di S. Casciano e S. Prospero dove i popolani che stanno assistendo ad un comizio alla vista della macchina del marchese Serlupi, inviso proprietario terriero nonché fascista, si lanciano in una disperata rincorsa. Secondo la versione dei viaggiatori, l’auto sarebbe stata fermata, il marchese aggredito insieme alla moglie e nel tentativo di difendersi egli avrebbe estratto la rivoltella e sparato a casaccio ferendo gravemente un giovane di sedici anni, Angelo Di Sacco. Serlupi e la moglie visto il «disorientamento» della folla sarebbero poi riusciti così a scappare e raggiungere Pisa. La versione popolare parla invece di colpi di rivoltella sparati dall’auto in corsa contro i proletari che stanno assistendo al comizio. Diffusasi la notizia del fatto, immediatamente nasce una spontanea manifestazione che si dirige verso la casa del marchese a S. Casciano. Ma i dimostranti giunti all’abitazione trovano il figlio del Serlupi e altre persone che sparano sui manifestanti disarmati. Cade ferito a morte Enrico Ciampi, molti altri sono feriti, come i popolani Giuseppe Pecchia, Giuseppe e Olga Betti. Molti dei feriti di questi scontri non si faranno medicare all’ospedale per paura di essere identificati e arrestati. Il sopraggiungere dei carabinieri in aiuto del figlio del marchese farà terminare il conflitto. Il giorno dopo a Navacchio e nelle zone circostanti un manifesto annuncia lo sciopero e sui negozi viene affisso un cartello con la scritta «chiuso per lutto proletario»[60]. A Livorno a metà del mese ci sono furiosi scontri fra fascisti e sovversivi e sempre nella città marinara si svolge il 22 un convegno regionale fascista che commemora i propri caduti ed elabora i propri progetti di assalto alle cittadelle rosse della Toscana che ancora resistono. Il 25 marzo da Pisa parte una squadra di fascisti diretta a Lucca e precisamente a Ponte a Moriano. Scopo della missione è di dar man forte al fascio locale per togliere dalla sede del circolo ricreativo socialista il simbolo dei «Soviet». L’obiettivo viene raggiunto ma gli operai avuta notizia del fatto corrono in paese per affrontare i fascisti che si danno alla fuga. Alcuni di loro però rimangono staccati dal gruppo principale a causa di un guasto dell’autocarro su cui viaggiano e ben presto vengono circondati. Nel tafferuglio che nasce tra gli operai e i fascisti che anno la peggio. Il fascista pisano Tito Menichetti rimane a terra ferito mortalmente[61].Pisa il giorno dopo è listata a lutto, un manifesto fascista invita allo scontro, e lo stesso capitano Santini, ormai leader indiscusso del fascio locale, ai funerali incita pubblicamente alla vendetta. Funerali ai quali partecipa tutta la Pisa conservatrice e nazionalista in un lugubre clima di isterismo collettivo. Il fascio locale affigge sui muri di Pisa un manifesto che recita:

 Cittadini. Si muore per voi. Si muore per salvare la nostra Italia travagliata dalla rovina e dal terrore ove tentano di trascinarla i folli criminali del comunismo e dell’anarchia per ricondurla sulla via della pace e del lavoro. Fasciti! Il corpo sanguinante di un’altra giovane vita si frappone fra noi ed i nostri nemici. Nessuno pianga. Nessuno si pieghi di fronte alla bara. Tutti in piedi! Con la fronte alta giuriamo. Tito Menichetti sarà vendicato! Senza pietà![62]

 09_1921_Carlo_Cammeo_cartolina_commemorativaIl 13 aprile 1921, neanche dopo due settimane dai funerali del fascista Menichetti, Carlo Cammeo, giovane esponente del socialismo locale, viene freddamente assassinato nella scuola dove insegna. Il gruppo di fuoco che porta a termine l’esecuzione è composto da due donne Mary Rosselli-Nissim e Giulia Lupetti ed un uomo Elio Meucci, mentre altri coprono la fuga. È interessante analizzare la composizione del gruppo degli assassini, che saranno tutti assolti dall’accusa di omicidio. Le due donne sono figlie di alti ufficiali del distaccamento militare pisano, in particolare la Lupetti è figlia del Colonnello del 22° Fanteria, ed assumerà l’incarico di segretaria del fascio femminile.

La successiva assoluzione degli esecutori e l’intoccabilità dei mandanti dell’assassinio di Cammeo è testimonianza dell’intreccio che da subito si instaura fra i gruppi di fascisti e buona parte delle autorità militari, della magistratura e delle forze dell’ordine. Questo stretto rapporto è testimoniato anche dal Prefetto che in una missiva al presidente del Consiglio Giolitti scrive:

 In questa città per esempio alcuni ufficiali erano iscritti ufficialmente fascio. Per esse Comando Presidio deve aver provveduto in questi giorni ma anche figlie ufficiali superiori sono fasciste e un gruppo di esse fu causa diretta della uccisione maestro Cammeo. Ritengo in ultimo mio preciso dovere segnalare E.V. che la spinta eccessiva e violenta al movimento fascista in questa regione proviene soprattutto da Firenze, ove con larghezza di mezzi e senza alcuna riserva organizzano anche fuori provincia vere e proprie spedizioni armate che pel modo come sono condotte creano continui luttuosi avvenimenti e mantengono eccitate spingendole agguato violenze intere popolazioni. Certa bassa forza Carabinieri e guardie regie anche in questa provincia desta qualche preoccupazione perché spiritualmente orientate verso i fascisti[63].

 I funerali di Cammeo per partecipazione la popolare sono una ulteriore prova dello strappo netto fra lo Stato e le forze reazionarie da una parte e il  movimento operaio dall’altro[64]. Per due giorni le città di Pisa e Livorno sono bloccate da un altro sciopero generale, mentre altri gravi incidenti con due morti e molti feriti scoppiano nel porto livornese. Con l’assassinio del segretario del PSI locale la città e l’intera provincia si avviano ad una lunga stagione di violenza sistematica che prende le mosse dalla vittoria del Fascio democratico liberale nelle elezioni comunali dell’autunno e che passa attraverso l’assalto fascista al Consiglio provinciale del dicembre del 1920. Ora l’illegalismo e l’assassinio degli avversari politici viene “legittimato”, in questo modo il movimento fascista si conquisterà sul campo il ruolo egemone d’avanguardia rispetto alle altre forze liberali, nazionaliste e massoniche. Si può, in conclusione, concordare con lo storico Fabbri nell’affermare che l’inasprimento della violenza durante la campagna elettorale amministrativa dell’autunno del 1920 giocò un ruolo decisivo nell’ancorare il giovane movimento fascista alla politica dei blocchi nazionali come trampolino di lancio di quella strategia d’attacco che, con la guerra civile nel paese, segnò duramente il successivo biennio sanzionando la sconfitta la sconfitta delle forze democratiche e del movimento operaio (65)

[1] Per la cronaca dell’alluvione cfr. «Il Messaggero toscano», 8 gennaio 1920 e i nn. dei giorni seguenti.

[2] Cfr. «Il Messaggero toscano», 16 gennaio 1920.

[3] Questi i dati raggiunti dagli altri partiti: Unione democratica (monarchici liberali) 31%; Partito popolare italiano 14,9 %, Partito repubblicano 12,4%. A Pisa i monarchici costituzionali avevano retto meglio alla marea socialista confermandosi il primo partito con il 38,1%, mentre i repubblicani si erano attestati al 26,9%, i popolari al 14,5% e i socialisti al 20,5%. In questo caso il voto socialista era stato penalizzato fortemente dalla presenza in città, tra i ceti proletari, di una forte componente anarchica storicamente astensionista.

[4] Il primo numero dell’«Avvenire anarchico» esce il 1° maggio 1910, l’ultimo il 15 dicembre 1922. Per altre informazioni Cfr. L. Bettini, Bibliografia dell’anarchismo, vol. 1, t. 1, Firenze 1972, pp. 233-235.

[5] Sul ruolo del Sindacato ferrovieri italiani nel biennio rosso si veda la preziosa testimonianza di A. Castrucci, Battaglie e vittorie dei ferrovieri italiani. Cenni storici dal 1877 al 1944, Milano 1945. Inoltre, cfr. Castrucci Augusto di M. Antonioli in Dizionario biografico degli anarchici italiani (d’ora in poi DBAI), t. 1, Pisa, BFS, 2003, pp. 346-349.

[6] Sul Biennio Rosso nel pisano si v. la ricerca di S. Cortopassi, Lotte sociali in provincia di Pisa durante il Biennio Rosso: 1919-1920, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Pisa aa. 1972-73. Per un confronto con la situazione nazionale cfr. G. Maione, Il biennio rosso. Autonomia e spontaneità operaia nel 1919-1920, Bologna, Il mulino, 1975.

[7] Per un quadro complessivo di questo periodo si v. F. Fabbri, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande guerra al fascismo (1918-1921), Torino, UTET libreria, 2009, pp. 151-162.

[8] «Il Messaggero toscano», 22-24 gennaio 1920. Sul numero del 22 gennaio appare il documento di costituzione del Fascio di organizzazione civica: «L’assemblea dei cittadini pisani, senza distinzione di partito riunita la sera del 20 gennaio, presa in esame la situazione creata in seguito all’abbandono dei servizi pubblici pi vitali per la nazione, unanime afferma, ora pi che mai, necessaria la salvezza della coscienza nazionale di fronte ai tentativi di sovvertimento incomposto dell’ordine sociale mascherati sotto l’aspetto di rivendicazioni economiche e sfruttamento delle masse lavoratrici ingannate e illuse; denuncia alle classi lavoratrici l’opera di coloro che provocano e alimentano la civile discordia a vantaggio del capitalismo internazionale; afferma non potersi riconoscere nei funzionari dello Stato il diritto allo sciopero che gli stessi socialisti in Germania e i massimalisti in Russia assolutamente negano; considera come un dovere di tutti i cittadini di dare opera a che la continuità della vita nazionale non sia spezzata; riconosce perciò la necessità di una salda organizzazione per gli scopi sopra indicati; dichiara costituito il fascio di organizzazione civile […]. La Commissione provvisoria». Altre notizie sul Fascio di organizzazione civile su «L’Ora nostra», settimanale socialista, 24 gennaio 1920, in particolare l’articolo Lo sciopero e i fasci cittadini!

[9] Cfr. Stato d’assedio e sciopero generale a Pisa, «L’Avvenire anarchico», 30 gennaio 1920.

[10] Cfr. M. Rossi, Livorno in sciopero per la libertà di Malatesta, «Rivista storia dell’anarchismo», luglio-dicembre 2004, pp. 47-55.

[11] Sull’attività dell’agitatore campano in questo periodo si v. P. Finzi, La nota persona. Errico Malatesta dicembre 1919-luglio 1920, 2. ed., Ragusa, La Fiaccola, 2008.

[12] Cfr. M. Antonioli, Armando Borghi e l’Unione Sindacale Italiana, Manduria-Roma, Lacaita, 1990.

[13] Cfr. Radames, Il fronte unico rivoluzionario, a cura dell’Unione anarchica bolognese, 1920.

[14] Cfr. L. Di Lembo, Guerra di classe e lotta umana. L’anarchismo in Italia dal Biennio rosso alla Guerra di Spagna (1949-1939), Pisa, BFS, 2001, pp. 48-53.

[15] Al convegno provinciale degli anarchici che si svolge a Pisa il 10 ottobre del 1920 sono presenti 36 gruppi così suddivisi: Pisa 13 circoli; La Battaglia (S. Giusto), IL Pensiero Libertario, La Comune, Giovanile “L’Anarchico”, Né Dio Né Padrone (P.ta a Mare), Esedra Libertaria (P.ta a Piagge), C. Cafiero, Gli Scamiciati, Luce e Verità, Bruno Filippi, F. Ferrer (La Cella), La Libertà (P.ta a Mare), Umanità Nuova (P.ta Nuova); Piombino, Né Dio Né Padrone e Giovanile “Piero Gori”; Campiglia M., Studi Sociali; Maremma, Giovanile e I Martiri di Chicago; Fornacette, Intesa Anarchica; La Rotta, Pietro Gori; Marina di Pisa, Libertario; Pontedera, Gruppo Anarchico e L’Avvenire; Acciaiolo, Umanità Nova; Montecatini Val di Cecina, Il Pensiero e Spartaco; S. Giuliano, Pietro Gori; Peccioli, L. Molinari; S. Pietro, Umanitˆ Nova; Cascina, Gruppo Anarchico; Cucigliana, Libertario; Riglione, La Demolizione; Vicarello, Alba dei Liberi; Navacchio, Pietro Gori; Collesalvetti, M. Angiolillo; Valle Del Serchio, Giovanile B. Filippi.. Cfr. «L’Avvenire Anarchico», 15 ottobre 1920. Sulla tradizionale presenza nella città del movimento anarchico si v. F. Bertolucci, Anarchismo e lotte sociali a Pisa 1871-1901. Dalla I Internazionale alla Camera del Lavoro, Pisa, Biblioteca F. Serantini, 1988.

[16] Si v. in proposito il n.u. «Le Nostre documentazioni», 23 giugno 1922 suppl. all’«Avvenire anarchico».

[17] Cfr. Siglich Renato di F. Bertolucci, DBAI, t. 2, Pisa, BFS, 2004, pp. 550-552.

[18] «L’Avvenire anarchico», 11 luglio 1919. Il Comitato operaio eletto il 6 luglio durante lo sciopero è così composto: R. Siglich (Souvarine), Di Ciolo e Lumani per gli anarchici, Matteini, Panicucci e Serani per i socialisti, Stizzi, Ruberti, Benedetti e Puntoni per le due Camere del Lavoro e Jacoponi per il sindacato delle Arti Tessili. Il Prefetto dopo l’incontro decreta un abbassamento dei prezzi del 60%.

[19] Cfr. Il cosiddetto sciopero generale a Pisa e il sabotaggio della rivoluzione, «L’Ora nostra», 8 maggio 1920. Su questi fatti ed in particolare sull’invasione della Camera del lavoro sindacale c’è un’interrogazione parlamentare dell’onorevole socialista Modigliani. Cfr. «L’Ora nostra», 7 agosto 1920.

[20] Cfr. A. Marianelli, Eppur si muove! Movimento operaio a Pisa e provincia dall’Unità d’Italia alla dittatura, Pisa, BFS, 2016, pp. 113-125. Cfr., inoltre, Petracchini Primo di F. Bertolucci, DBAI, t. 2, cit, 2004, p. 332. Il primo congresso della Camera del lavoro sindacale si tiene il 12 e 13 giugno del 1920. Il resoconto è pubblicato su «Germinal!», 26 giugno 1920. Il secondo congresso camerale si svolge il 10 aprile 1921 («Germinal!», 1° maggio 1921).

[21] Cfr. I. Cozza, Gli anarchici, le associazioni di ex-combattenti e le leghe proletarie, «Avvenire anarchico», 28 novembre 1919. Nello stesso numero appare la seguente dichiarazione: «Noi anarchici sottoscritti, poiché la Lega Proletaria di Pisa si è data il programma ufficiale, obbligatorio della conquista dei Poteri, dello Stato del PSU, riteniamo incoerente l’ulteriore nostra permanenza nella suddetta Lega, sia perché ciò è una violenza ai nostri sentimenti libertari, antistatali, sia perché è una deviazione dallo lotta diretta rivoluzionaria per la difesa dei nostri interessi, che sono quelli di tutti i proletari e che non trionferanno che col trionfo della Rivoluzione Sociale. Noi non vogliamo servire da sgabello a dei candidati. Firmato Niccolai Pilade, Sivieri Egidio e Bracci Ovidio».

[22] Sulla presenza socialista vedi N. Badaloni, Le prime vicende del socialismo a Pisa 1873-1883, «Movimento operaio», 1955. Cfr. anche L. Savelli, Propaganda e organizzazione socialista a Pisa. La presenza dei docenti e studenti universitari 1892-1900, in «Bollettino storico pisano», 1986. Sui progressi della Camera del lavoro confederale e sulla sua attività si veda il resoconto del secondo congresso riportato da «L’Ora Nostra», 31 luglio 1920. Il movimento comunista pisano con la costituzione del partito nel gennaio del 1921 è composto da poche sezioni, soprattutto dislocate nella provincia. In questo periodo la federazione locale del PCdI è direttamente legata a quella livornese.

[23] Cfr. «L’Ora nostra», 17 luglio 1920.

[24] Sulle agitazioni delle campagne si v. L’Uomo e la Terra. Lotte contadine nelle campagne pisane, Montepulciano, Editori del Grifo, 1992.

[25] Cfr. «L’Eco del popolo», settimanale del PPI, 21 marzo 1920.

[26] Secondo i dati riportati dall’«Eco del Popolo», 18 luglio 1920, la Federazione provinciale pisana mezzadri e piccoli affittuari ha complessivamente 4627 soci. Le sezioni più forti sono quelle di Pontedera, Buti e Peccioli rispettivamente con 2411, 807, 927 iscritti. Su Giovanni Gronchi e il PPI a Pisa si v. U. Spadoni, Giovanni Gronchi nell’Azione Cattalica, nel Partito Popolare, nella Confederazione Italiana dei Lavoratori, v. 1, 1904-1922, Firenze, The Courier, 1992, pp. 129 e sgg.

[27] Cfr. La funzione della mezzadria, «L’Eco del popolo», 28 marzo 1920.

[28] Cfr. P. Bianconi, Il movimento operaio a Piombino, Firenze, La nuova Italia, 1970; v. anche P. Favilli, Capitalismo e classe operaia: Piombino 1861-1918, Roma, Editori riuniti, 1974; I. Tognarini, Fascismo, antifascismo, resistenza in una città operaia, v. I. Piombino dalla guerra al crollo del fascismo (1918-1943), Firenze, CLUSF, 1980.

[29] Sui caratteri generali dell’agricoltura in Toscana vedi: G. Mori, La mezzadria in Toscana alla fine del secolo XIX, «Movimento Operaio», 1955; G. Giorgetti, Contadini e proprietari nell’Italia Moderna, Torino, Einaudi, 1974. Sulla diffusione del socialismo nelle campagne toscane vedi E. Ragionieri, La questione delle leghe e i primi scioperi dei mezzadri, «Movimento operaio» 1955. Sulla specificità della provincia pisana vedi E. Mannari, Agricoltura e classi contadine nella provincia di Pisa tra ’800 e ’900. Primi aspetti di una ricerca, «Ricerche storiche», 1978. Nella provincia di Pisa si registrano nelle campagne rispettivamente 4 astensioni dal lavoro nel 1919 e 5 nel 1920. Gli scioperanti sono undicimila nel 1919 e oltre ventimila nel 1920. Le agitazioni coinvolgono tutte le categorie agricole (braccianti, coloni e obbligati). Cfr. Ministero dell’economia nazionale, I conflitti del lavoro in Italia nel decennio 1914-1923, Roma, Grafia, 1924.

[30] Cfr. C. Ciano, Appunti sulla decadenza dell’industria pisana dei tessuti del cotone, «Bollettino storico pisano», 1970.

[31] Cfr. A. Marianelli, Eppur si muove!…, cit., pp. 27-65.

[32] Gennaro Abbatemaggio, ardito di guerra e fiumano, legato alla malavita napoletana, è allontanato dal Fascio fiorentino verso la fine del 1920 per i suoi atteggiamenti delinquenziali. Cfr. R. Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino 1919-1925, Firenze, Vallecchi, 1972, pp. 118 e 127.

[33]Cfr. M. Canali, Il dissidentismo fascista. Pisa e il caso Santini 1923-1925, Roma, Bonacci, 1983, p.15. Anche P. Nello, Liberalismo, democrazia e fascismo. Il caso di Pisa (1919-1925), Pisa, Giardini, 1995, pp. 13-14.

[34]Cfr. R. Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino, cit., p. 62 e pp. 71-81.

[35] Cfr. Pasella Umberto di A. Roveri in Movimento operaio italiano. Dizionario biografico (d’ora in poi MOIDB) a cura di F. Andreucci e T. Detti, v. 4, Roma 1978, pp. 59-60. Vedi anche R. Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino…, cit., pp. 273-274. Sul rapporto fra Mussolini e Pasella vedi R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, Torino, Einaudi, 1965, in particolare i capitoli XII-XIV. Pasella con la trasformazione del movimento in partito, dopo il congresso di Roma del dicembre del 1921, sarà estromesso dalla segreteria e dimenticato, ricomparirà sulla scena politica, come altri fascisti sansepolcristi, durante la Repubblica Sociale tra il 1943-45.

[36] Cfr. Le elezioni amministrative, «Il Ponte di Pisa», 28-29 agosto 1920. Nello stesso n. si v. inoltre l’art. Per un partito nazionale italiano nel quale si afferma la necessità di una nuova organizzazione politica del fronte moderato e democratico su basi nazionaliste per «far argine alle mene estremiste».

[37] Cfr. «Il Ponte di Pisa», 28 ottobre 1920.

[38] Cfr. «Il Ponte di Pisa», 31 ottobre 1920.

[39] Cfr. «Il Rinnovamento», 2 ottobre 1920 e nn. seguenti.

[40] Cfr. P. Nello, Dal rosso al nero: Pisa e provincia al voto nel primo dopoguerra (1919-1924), «Nuovi studi livornesi», 2016, pp. 97-118.

[41] Cfr. F. Fabbri, Le origini della guerra civile, cit., pp. 294-307.

[42] Cfr. R. Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino…, cit., p. 126.

[43] Ivi, p. 143.

[44] Cfr. «Il Ponte di Pisa», 11 novembre 1920.

[45] Bruno Santini originario di Carrara, non si distingue precedentemente nel campo della politica, si può dire che il fascismo lo tiene a battesimo. Santini come formazione politica culturale si pone nel fascismo con quella corrente che cercherà di rimanere fedele nel tempo al programma sansepolcrista: squadrista della “prima ora”, antiborghese, anticlericale, nazionalista, fedele sostenitore di un indirizzo populista, applicava alla politica il sistema della guerriglia degli arditi di guerra; così Santini opera nel pisano fino a scontrarsi apertamente con la più solida e robusta corrente del fascismo legata agli agrari e all’alta borghesia.

[46] Cfr. «Il Ponte di Pisa», 4/5 dicembre 1920.

[47] Cfr. R. Vanni, La resistenza dalla Maremma alle Apuane, Pisa, Giardini, 1972, pp. 21 e sgg.

[48] Ersilio Ambrogi nasce a Castagneto Carducci il 16 marzo 1883, fin da giovane aderisce alle idee libertarie e sovversive. Prima della guerra milita nel gruppo anarchico “Pietro Gori” del suo paese natale. Laureato in giurisprudenza a Pisa dopo la guerra si iscrive al PSI mantenendo però una posizione di sinistra. Sindaco di Cecina, presidente dell’Amministrazione provinciale è arrestato nel gennaio del 1921 per essersi opposto armi alla mano ai fascisti. Ambrogi viene liberato nel maggio perché eletto deputato comunista nella circoscrizione Livorno-Pisa-Lucca-Massa. Per altre informazioni cfr. F. Bertolucci, Ambrogi Ersilio, DBAI, t. 1, cit., pp. 32-33.

[49] Cfr. «Il Ponte di Pisa», 18/19 dicembre. Vedi l’art. Il Consiglio provinciale non ci sarà…più?

[50] Cfr. «La Nazione», 15 dicembre 1920.

[51] Cfr. «L’Ora nostra», 14 gennaio 1921.

[52] Cfr. «L’Ora nostra», 25 febbraio 1921.

[53] Cfr. M. Canali, Il dissidentismo fascista, cit., pp. 20-21.

[54] Cfr. «L’Ora Nostra», 4 febbraio 1921. V. anche «Il Messaggero toscano», 27 gennaio 1921.

[55] Cfr. «Il Messaggero toscano», 3 febbraio 1921. Fra gli arrestati ci sono gli assessori comunali socialisti Bonsignori, Lorenzi, Romoli, ed il capo-lega dei contadini Bocelli.

[56] Cfr. «Il Messaggero toscano», 16 febbraio 1921. In questo numero è pubblicato un comunicato della Camera del lavoro Sindacale: «Compagni lavoratori e compagne lavoratrici! Alla magnifica compattezza dei compagni Spazzini – scesi in lotta per il riscattare i loro calpestati diritti – l’amministrazione del Comune di Pisa ha risposto col licenziamento in massa di tutti gli scioperanti. Quest’Amministrazione che nega a chi lavora un miglioramento di vita, protestando la mancanza di fondi occorrenti, compie opera di ingaggiamento di crumiri a £ 30 al giorno. Il tentativo per ora  fallito. Il personale fatto venire da Viareggio, appena accortosi di quale infamia si macchiava ha subito abbandonato la città. Compagni e Compagne! Abbiamo sempre detto di non permettere atti di rappresaglia verso chi lotta per una giusta causa. L’amministrazione comunale deve trovarci pronti per una energica risposta. I compagni Spazzini attendono ora dalla vostra solidarietà la loro vittoria. Tutti per uno – Uno per tutti. Tenetevi pronti! Viva la fraterna solidarietà tra sfruttati e sfruttati. La commissione esecutiva». Sulla vertenza degli spazzini v. l’art. Un comizio contro l’Amministrazione comunale fascista, «L’Ora nostra», 25 febbraio 1921.

[57] Cfr. A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, Bari, Laterza, 1976, pp. 177-179. Si v. anche R. Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino…, cit., pp. 177-217.

[58] Cfr. «Il Corrazziere», 8 maggio 1921.

[59] Cfr. M. Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano 1919-1922, Roma, Bonacci, 1980, pp. 123-125.

[60] Cfr. «Il Messaggero toscano», nn. 4 e 5 marzo 1921. V. anche «L’Ora nostra», nn. 4 marzo e 11 marzo 1921. Ai funerali di Enrico Ciampi i primi di una vittima della violenza fascista partecipano gli on. Salvatori, Pucci, Cappellini, Mingrino, Salutini e il sindaco di Cascina il socialista Guelfi oltre che ad una folta presenza di popolani.

[61] Cfr. M. Canali, Il dissidentismo fascista, cit., p. 27. Vedi anche «Il Ponte di Pisa», 3 aprile 1921 l’art. M. Razzi, In memoria del Martire. Il presunto responsabile del delitto Giuseppe Neri, ferroviere originario di Castagneto Carducci viene condannato nel maggio del 1922 a 17 anni e 7 mesi di reclusione. Cfr. «L’Idea fascista», 7 maggio 1922.

[62] Cfr. «Il Messaggero toscano», 27 marzo e 30 marzo 1921. Sull’atteggiamento dei fascisti sul caso Menichetti si v. l’art. su «L’Ora nostra», 1° aprile 1921, Incoscienza di Carlo Cammeo.

[63] Documento citato da M. Canali, Il dissidentismo fascista, cit., p. 97. Il governo compie  un’inchiesta durante il 1921 per verificare le voci che parlano con insistenza degli stretti rapporti che corrono fra carabinieri e fascisti. A Firenze alla scuola per allievi carabinieri si scopre che oltre duecento militari hanno la tessera del fascio o sono in attesa d’iscrizione. Il generale di corpo d’armata Carlo Petitti arriva ad affermare: «Essendo dal regolamento di disciplina militare proibita la partecipazione di ufficiali ad associazioni sovversive e questa dei (fasci) non essendo un’associazione sovversiva bensì patriottica essa non deve considerarsi esclusa da quelle cui i militari possono partecipare». Riportato da R. Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino, cit., pp. 220-221.

[64] Cfr. «L’Ora nostra», 15 aprile 1921. Il manifesto funebre di Cammeo porta la firma della Federazione prov.le socialista, Gruppo comunista, Camera del lavoro confederale, Camera del lavoro sindacale, Sindacati ferrovieri, Lega proletaria e Unione anarchica pisana.

65) Cfr. F. Fabbri, Le origini della guerra civile, cit., pp. 319-325.