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Ebrei in Toscana XX-XXI secolo

Ebrei in Toscana XX-XXI secolo è il titolo di una Mostra tutta concentrata sull’età contemporanea. Perché questa scelta? Le ragioni sono molte e di diversa origine. Intanto perché è il periodo più vicino, quello che storicamente ci coinvolge di più. Ma, e non secondariamente, perché sentiamo il bisogno di ampliare sia la possibilità di una conoscenza più articolata cronologicamente che quella di affrontare questo tema per un pubblico non solo specializzato. L’idea è quella di analizzare la storia della comunità ebraica, così importante per la nostra regione e non solo, focalizzando l’attenzione su quegli avvenimenti più direttamente coinvolti, nel bene e nel male, con il nostro presente. Tale necessità si è particolarmente fatta urgente perché a partire dalla Legge sulla Memoria, istituita nel 2000, la vicenda ebraica toscana e nazionale è stata in qualche modo risucchiata e appiattita sulla tematica delle leggi razziali, della persecuzione e della deportazione. Ci sembra giusto ed opportuno uscire da quel periodo e narrare la storia di una minoranza in un quadro più articolato, più complesso di avvenimenti, un quadro capace di ridare evidenza alle caratteristiche sociali, culturali, politiche di questo gruppo. Evidenziare la loro capacità di collocarsi dentro il panorama delle idee non solo nazionali ma anche internazionali, di partecipare al farsi del destino politico e morale del paese.

famiglia Castelli con figli e nipoti1

La famiglia Castelli con figli e nipoti (Fonte: Archivio privato famiglia Castelli)

L’idea progettuale nasce all’interno di un Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea, quello di Livorno, l’ultimo nato nella rete degli istituti regionali. Può darsi che ad un osservatore esterno questa appaia anche come una decisione piena di arroganza. Noi pensiamo di no. Forti della nostra esperienza di gestione, nella città di Livorno, della grande Mostra della Fondazione Gramsci di Roma su: Avanti popolo. Il Pci nella storia d’Italia. Forti dell’esperienza dell’allestimento della Mostra sui manifesti politici: Rosso creativo. Oriano Niccolai 50 anni di manifesti, abbiamo deciso di affrontare una nuova sfida. L’idea che soggiaceva a questa nostra intenzione poi concretizzatesi era che gli Istituti come il nostro sono a pari dignità di altri enti culturali, sia pubblici che privati, soggetti produttori di cultura, e anche di cultura alta.

L’idea però è divenuta realtà concreta perché si è incontrata con la sensibilità della Regione Toscana che ha accolto il nostro progetto e l’ha sostenuto con generosità sia finanziaria che collaborativa, sia da parte della Presidenza, sia da parte dell’Assessorato alla Cultura. Non solo, durante tutto il periodo di realizzazione abbiamo sempre avuto al nostro fianco gli uffici della Cultura della Regione, in particolare, Massimo Cervelli, Claudia De Venuto, Floriana Pagano, Elena Pianea e Michela Toni e l’appoggio morale e intellettuale di una figura fondamentale per le politiche della Memoria, Ugo Caffaz. E dall’inizio abbiamo avuto a fianco le competenze della Scuola Normale Superiore di Pisa.

Il tema della Mostra si è fatto strada in noi anche perché la città di Livorno era ed è una delle sedi più significative della presenza ebraica in Italia e il nostro Istituto, sin dal suo nascere, ha collaborato e collabora con la Comunità ebraica locale. Questa stessa vicinanza amplia il bisogno di raccontare una memoria dentro la cornice vasta della storia novecentesca, dare la possibilità ai cittadini tutti e in particolare ai giovani, di approfondire i motivi che conducono alla tragedia della Shoah ma anche di raccontare come si esce da quella esperienza e come ci si ricostruttura, sia come comunità, che come singoli.  Il momento in cui comincia a prendere forma questa proposta, non era un momento ancora così tragico come quello che stiamo adesso vivendo. Se ne vedevano però tutte le avvisaglie all’orizzonte. Forse tutti ricordano l’uccisione di tre bambini davanti ad una scuola ebraica di Tolosa, nel marzo del 2012.

Eravamo consapevoli poi che il gruppo di lavoro che avremmo messo insieme avrebbe avuto a sostegno una ricca bibliografia frutto di lavori ultradecennali particolarmente vivaci, come quelli promossi dalla stessa regione Toscana sotto la guida di Enzo Collotti, così come tutto il materiale preparatorio per i viaggi della Memoria che la stessa Regione ha realizzato nel corso degli anni. Eravamo cioè sicuri di essere in buona compagnia.

La volontà di raccontare oltre cento anni di storia con un allestimento espositivo viene dal desiderio di utilizzare una modalità d’approccio capace di parlare anche al mondo dei non addetti ai lavori, e soprattutto ai più giovani. L’utilizzazione nel corpo della Mostra di riproduzioni di carte d’archivio, di copertine di libri, di disegni ma soprattutto di un apparato di riproduzioni fotografiche risultato delle donazioni di famiglie e di fondazioni culturali, arricchisce i testi, già di per sé particolarmente densi. Testi che abbiamo scelto di fare bilingui: in italiano e in inglese, in modo da aprirli alla fruizione di un pubblico potenzialmente molto più vasto di quello italiano. Sono testi che si prestano ad una possibilità di letture trasversali, di arricchimenti di senso, di interconnessioni e di suggestioni. Il team di lavoro che si è raggruppato attorno all’Istoreco, formato da specialiste della tematica come Barbara Armani, Ilaria Pavan, Elena Mazzini oltre alla direttrice dell’Istoreco, Catia Sonetti, si è poi arricchito di altri due narratori che hanno elaborato due pannelli specifici: Enrico Acciai, che ha curato quello sullo sfollamento degli ebrei livornesi, e Marta Baiardi, che ha scritto quello sulle memorie della deportazione. Un materiale esteso, coeso, uniformato da alcune scelte di scrittura condivise e rispettate con acribia che hanno, a nostro parere, dato il tono giusto alla Mostra. La traduzione è stata assegnata ad una specialista, la dottoressa Johanna Bishop, che ci ha garantito la qualità del lavoro. Tutti i nostri sforzi sono stati sorretti dalla volontà di far arrivare l’allestimento sui diversi territori regionali e anche esterni alla Toscana. Perché questo nostro piano si concretizzi, si dovrà incontrare con la volontà degli amministratori locali e con la possibilità di reperire altre risorse per i nuovi allestimenti, ma siamo fiduciosi che il desiderio di compartecipare a questa avventura renderà tutto ciò realizzabile. Del resto questa scelta è anche la strada più sicura per una reale e completa valorizzazione dello sforzo compiuto sia in termini finanziari che in termini scientifici.

Il risultato, di cui solo noi siamo responsabili, è anche il frutto della collaborazione con le diverse comunità ebraiche presenti sul territorio, collaborazione che è stata sempre continua e proficua. I loro presidenti, i loro archivisti e bibliotecari sono venuti incontro alle nostre richieste concedendoci materiali d’archivio e fotografici, sia delle Comunità stesse che dei componenti le medesime, in un rapporto di totale e rispettosa autonomia. Non solo. Abbiamo potuto realizzare alcune videointerviste a esponenti del mondo ebraico, che saranno riversate con un montaggio ad hoc in alcuni video che vanno ad arricchire il materiale documentale della Mostra.

Dal punto di vista del percorso seguito, dopo la stesura del progetto, si passa alla sua realizzazione che vede per oltre un anno tutti gli interessati coinvolti impegnarsi nello studio, nella ricerca archivistica e bibliografica, nella raccolta delle fonti iconografiche. Superata questa prima fase, ci siamo dedicati alla stesura vera e propria dei pannelli e poi alla sua realizzazione digitale con le professionalità specifiche dell’Agenzia Frankenstein di Giuseppe Burshtein di Firenze, in particolare con Cristina Andolcetti, Maddalena Ammanati, Stefano Casati, Federico Picardi e Isabella d’Addazio Quest’ultima fase è quella che ci ha permesso in itinere l’anteprima visiva di quello che andavamo facendo. Occorre dire che il controllo dei contenuti non è mai stato piegato alle esigenze della comunicazione anche se questa ha costretto tutti ad una sintesi espressiva, non proprio consueta per delle storiche e storici italiani. Vogliamo dire però che non ci siamo fatti prendere la mano dalla necessità della “leggerezza”, che nel nostro caso rischiava di farci dimenticare il forte sentimento divulgativo che ci animava. Siamo però stati attenti a tutti i suggerimenti degli addetti ai lavori che ci hanno consentito, perlomeno in parte, di superare certe difficoltà dei temi trattati per veicolare i nostri contenuti nel modo più accessibile possibile. Perlomeno questo era il nostro scopo.

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni '30 - Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni ’30 – Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

La Mostra si sviluppa secondo un arco cronologico che va dalla Grande Guerra ai giorni nostri. Presenta anche alcuni pannelli introduttivi, uno sul perché questa Mostra, uno generale sulla presenza ebraica nella regione a partire dal periodo tardo medioevale, e l’altro specifico per l’età liberale, anteprima al secolo XX. Dopo aver analizzato la Grande guerra, la prima vera manifestazione dell’avvenuta emancipazione, ed esserci soffermati sul tema del sionismo, affronta in una sezione di grandi dimensioni, per forza di cose, il ventennio fascista con le colonie e l’impero, analizza sia il fronte degli antifascisti che quello dei sostenitori del regime, le leggi razziali del ’38, la persecuzione del 1943-1945. La Mostra si chiude infine con il secondo dopoguerra, toccando la problematica della ricostruzione dopo il ritorno dai campi, la battaglia per riavere i beni che erano state requisiti, il lento ricollocarsi dentro lo scenario postbellico, i rapporti con Israele. Questa è la sezione per la quale l’apparato storiografico al quale guardare, soprattutto in lingua italiana, è risultato più debole e carente. In ogni sezione analizzata emerge come il gruppo degli ebrei si collochi esattamente alla stessa maniera di tutti gli altri cittadini italiani del momento. Appoggia Mussolini con entusiasmo o perlomeno con un atteggiamento di condiviso conformismo alle opinioni della maggioranza oppure si schiera contro in una opposizione lucida ed eroica con quei pochi che vedono e capiscono prima degli altri il significato del regime e il futuro di guerra e di persecuzione che si intravede all’orizzonte. È possibile comprendere attraverso i nostri testi, e soprattutto con le fotografie a corredo, come fino all’ultimo la consapevolezza di quello che stanno rischiando, la possibilità di perdere i beni e le vite, non sia particolarmente radicata. O forse, accanto a questa sottovalutazione del pericolo, si nasconde l’abitudine plurisecolare a sopravvivere nelle disgrazie, a ridere nel bisogno, ad affrontare con allegria ed ironia le sorti peggiori, carattere che emerge proprio nei frangenti più drammatici. Così si spiega ad esempio la fotografia della famiglia Samaia che mentre sta per uscire dal paesino di Monte Virginio, vicino Roma, il 25 marzo 1944, di nuovo in fuga per trovare salvezza, trova il modo di farsi fotografare e a commento della foto scrive: Via col vento!

Le immagini, a corredo, nell’insieme, racconta più dei testi scritti la “religione” della famiglia che pervade queste comunità. Non viene sprecata nessuna occasione per fotografarsi in gruppo ed il gruppo si sviluppa e si espande attorno alla coppia degli anziani. Particolarmente indicative in questo senso sono le foto a corredo donateci dagli eredi della famiglia Castelli. Ma non sono da meno quelle, più vicine a noi nel tempo, della famiglia Cividalli, Orefice, della famiglia Levi, dei Viterbo o dei Caffaz, della famiglia Samaia, e molte altre ancora. Certo l’amore per la famiglia pervade anche tutti gli altri italiani. Nessuno o quasi ne è escluso. Quello che qui vediamo è la documentazione fotografica dei passaggi importanti: le nozze, le feste di purim, il bar mitzvah per i ragazzi o il bat mitzvah per le ragazze, perché anche se l’adesione alla religione dei padri è, perlomeno fino alle leggi razziali, piuttosto debole, fatta più di consuetudine che di una adesione forte e vissuta con convinzione, importante è attraverso la ripetizioni di ritualità, come la preparazione di alcuni dolci tipici o il pranzo in comune in certi momenti, mantenere la coesione del gruppo. Gruppo nel quale molto spesso vengono inseriti, senza particolare travaglio, anche gli elementi “gentili” assorbiti con i matrimoni misti. Questo come dicevamo sopra fino alle leggi razziali.

Nel secondo dopoguerra, la scoperta della tragedia che si è abbattuta sul popolo ebraico rinsalda le tradizioni, aumenta i viaggi in Israele e la scelta di andare a viverci, riavvicina alla religione dei padri anche chi se ne era distaccato, fino ad arrivare al nostro presente, fatto di piccole e piccolissime comunità orgogliose della propria specificità, molto presenti sul piano culturale e molto attive nel dialogo interreligioso.

La Mostra è arricchita di diversi video in cui scorrono i montaggi tratti da alcune videointerviste realizzate nel corso della preparazione della Mostra. Si vedono donne e uomini ragionare sulla loro appartenenza, sulla storia della loro famiglia, sul loro sentimento religioso, sui conti che hanno fatto come singoli rispetto alla loro maggiore, o minore, o assente, appartenenza alla comunità ebraica.

Naturalmente nella Mostra non c’è affatto tutto quello che si può raccontare su questa minoranza, mancano alcuni pezzi importanti come le vicende, fra l’altro segnate da numerosi episodi di antisemitismo, della minoranza ebraica italiana, quasi tutta di provenienza labronica, in Algeria o in Marocco. Non c’è stata la possibilità di raccontare nessuna storia di genere, anche se attraverso il materiale raccolto, tra cui molte lettere e molti diari inediti, ci siamo fatti un’idea piuttosto articolata delle condizione della donna dentro la comunità ebraica. In qualche modo sicuramente privilegiata perché istruita e capace di saper leggere e scrivere, conoscere una lingua straniera, suonare uno strumento musicale ma assolutamente ostacolata nel suo desiderio di intraprendere libere professioni o attività lavorative vere e proprie. Questo perlomeno fino alla conclusione del secondo conflitto. Come succedeva nelle famiglie non ebree dell’Italia liberale e fascista del secolo scorso. Non abbiamo potuto approfondire il tema dei rapporti con lo Stato italiano sul versante della restituzione dei beni sottratti, né quello dei processi intentati contri fascisti e delatori.

La Mostra poteva chiudersi con l’immagine di una svastica disegnata in anni recenti sulla facciata della sinagoga di Livorno. Abbiamo deciso di no. Non era il caso. Tutto il nostro lavoro ha senso anche perché sottintende il desiderio di un rispetto reciproco nelle riconosciute diversità che all’interno del nostro orizzonte odierno, che non è più quello nazionale, ma perlomeno europeo, vedono di nuovo muri che si ergono, leggi di discriminazione strisciante farsi avanti e ancora rumore di bombe e sangue versato contro istituzioni e luoghi Kasher. Noi pensiamo e percepiamo il nostro lavoro solo come piccolo tassello per un dialogo di pace e ci siamo rifiutati di chiudere con un’immagine senza speranza.

Livorno, 24 ottobre 2016




“Hanno sparato a Togliatti!”

I fatti

14 luglio – Non appena, a Abbadia S. Salvatore, paese minerario sul Monte Amiata, si seppe dalla radio dell’attentato contro il segretario del Pci, Palmiro Togliatti, ferito a colpi di pistola all’uscita della Camera dei Deputati, si crearono assembramenti di persone. Alle 14.00, quando finì il turno dei minatori, si formò spontanea una prima manifestazione durante la quale si verificarono alcune aggressioni verbali e fisiche ai danni di ex fascisti. Seguirono un’assemblea e un comizio del segretario di zona del Pci, Domenico Cini, che addossò al governo la responsabilità politica e morale dell’accaduto. Al termine partì un corteo di varie migliaia di persone. Gli esponenti dei partiti di centro e di destra che ebbero la disavventura di trovarsi lungo il percorso furono aggrediti. Colpi di pietra mandarono in frantumi i vetri delle finestre di alcune delle loro abitazioni. Cinque di esse vennero invase e danneggiate. Gruppi di dimostranti devastarono le sedi della Dc e delle Acli, presidiarono l’ufficio postale e impedirono a chiunque di usare il telegrafo, tanto che il brigadiere dei carabinieri, per chiedere rinforzi, dovette fare ricorso al telefono della società Seat-Valdarno, ma soprattutto occuparono l’edificio di una cabina telefonica, nodo importante nel sistema nazionale delle telecomunicazioni,
Quando arrivò in paese un camion di poliziotti e di carabinieri proveniente da Chiusi, una folla ostile lo circondò. I militari furono costretti a chiudersi in caserma. L’automezzo fu messo fuori uso: gomme sgonfiate, candele asportate. Poco dopo giunse un altro camion, inviato da Siena. In questo caso gli agenti si diressero alla cabina telefonica e si asserragliarono nella sala macchine, ponendo di fatto fine all’occupazione dei dimostranti. Ma nella notte vennero tagliati due cavi, quello della Seat-Valdarno e quello fra la caserma e la cabina telefonica.

Palmiro Togliatti in ospedale dopo l'attentato

Palmiro Togliatti in ospedale dopo l’attentato

15 luglio – La mattina del 15 luglio gli accessi al paese furono messi sotto controllo da blocchi stradali fatti con tronchi e pietre. Un folto presidio venne istituito intorno alla cabina telefonica. In pratica i due contingenti di forze dell’ordine, quello nella caserma e quello nell’edificio della cabina, erano separati e senza contatti. A quel momento la situazione sembrava relativamente tranquilla. Il sindaco Gualtiero Ciani, pur condividendo in pieno i motivi della protesta, si adoperò per stemperare alcune delle situazioni di maggiore tensione. E d’altra parte i manifestanti avevano la sensazione che il paese fosse sotto il loro controllo.
Verso le 16.00 un autocarro della polizia, con a bordo sette uomini si fermò al posto di blocco eretto nei pressi dell’ospedale, su quella che era la principale via di accesso al paese. Trasportava viveri per i poliziotti e i carabinieri giunti il giorno prima, ma, agli occhi di chi vigilava il posto di blocco, si trattava comunque di uomini armati che si sarebbero aggiunti agli altri. Due agenti che scesero dal camion per rimuovere gli ostacoli furono circondati, sequestrati e portati nel bosco, in località Terrabianca. Dopo alcune ore sarebbero stati rilasciati. La tensione divenne estrema. Il camion non retrocedeva, i manifestanti neppure. Scoppiò una bomba a mano. Seguì una fitta sparatoria da entrambe le parti. La guardia Battista Carloni fu colpita al collo in modo molto grave. Morì il giorno successivo. Altri poliziotti furono feriti più lievemente. Il maresciallo, Virgilio Ranieri, che comandava il reparto, portò i feriti nel vicino ospedale. Poi tentò di raggiungere la centrale telefonica. Alcuni manifestanti lo circondarono e gli intimarono di non proseguire. Evidentemente non tornò indietro. Fu aggredito e accoltellato a morte.

16 luglio – Il 16 luglio arrivarono a Abbadia San Salvatore il parlamentare del Pci, Torquato Baglioni, e il segretario provinciale dell’Anpi, Fortunato Avanzati, che era stato comandante della Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini, per incontrare i dirigenti comunisti locali. Le direttive del partito che invitavano a far rientrare la protesta erano ormai giunte, chiare e inequivocabili, ponendo fine ad ogni incertezza. Fu deciso, insieme al sindaco, alla commissione interna della miniera, alle sezioni comunista e socialista dell’Anpi, di redigere un manifesto in cui si invitava la popolazione a riprendere il lavoro. Così avvenne, come in tutta Italia.
Nel pomeriggio le forze di polizia e l’esercito occuparono militarmente il paese, iniziando perquisizioni a tappeto e arresti di massa, seguiti spesso da pesanti percosse. Anche il sindaco venne incarcerato. Alcuni di coloro che avevano preso parte attiva allo sciopero e alla protesta cercarono rifugio nei boschi della montagna e solo dopo qualche giorno furono convinte a costituirsi.

Opuscolo del Pci sui fatti del luglio 1948 e sulla repressione che ne seguì

Opuscolo del Pci sui fatti del luglio 1948 e sulla repressione che ne seguì

La lettura
Per comprendere ciò che accadde ad Abbadia S. Salvatore
si è fatto ricorso giustamente alla ricostruzione del contesto storico e socioeconomico, si è parlato della durezza del lavoro in miniera, dei tanti disoccupati, della forte tradizione partigiana, del radicamento del Pci e, andando indietro nel tempo, del retaggio di improvvise esplosioni di violenza come durante i drammatici scontri dell’agosto 1920 fra socialisti e clericali, nonché di un ribellismo atavico delle popolazioni amiatine che, nell’Ottocento, avrebbe trovato la sua espressione nel movimento religioso di David Lazzaretti, il profeta dell’Amiata, a cui fece riferimento lo stesso Togliatti nel discorso pronunciato durante la sua visita nel 1949.
Tutti questi fattori possono effettivamente aver concorso a rendere la situazione più incandescente che altrove, ma non certo a determinare una sorta di diversità politica, se non addirittura antropologica, da cui sarebbe scaturita la perdita di vite umane.
Tenendo sullo sfondo episodi simili che si verificarono in varie parti dell’Italia del centro e del settentrione e rimanendo alla provincia di Siena, bisogna, infatti, ricordare che devastazione di sedi della Dc, posti di blocco e altre iniziative tese ad assumere il controllo del territorio si verificarono in varie zone – a Siena, il 15 luglio, ci fu una sparatoria in via Montanini nei pressi della sezione democristiana – in un clima di allarme preinsurrezionale innescato dalle rivoltellate contro Togliatti, ma predisposto da quella cortina di ferro che, dalla rottura dell’unità antifascista del 1947, era calata a dividere gli italiani in ogni parte della penisola. Una cortina che se non aveva impedito il miracolo laico della firma della Costituzione, alimentava tuttavia profonde lacerazioni organizzate anche in contrapposti gruppi semiclandestini armati. Pronti a ricorrere alle armi, gli uni se il Pci avesse conquistato il governo con le elezioni o con altri mezzi, gli altri se si fossero presentate derive parafasciste. E l’attentato a Togliatti sembrava proprio l’inizio di una di quelle.
L’innesco dei fatti di Abbadia S, Salvatore fu dunque dovuto, almeno in parte, al caso e cioè alla presenza di quella centrale telefonica di importanza strategica. Per la sua difesa vennero inviate forze di polizia – tre camion fra il pomeriggio del 14 e quello del 15 – con l’ordine di superare ogni ostacolo, mentre altrove carabinieri e poliziotti furono lasciati sulla difensiva. Per fermare l’ultimo camion – ad Abbadia la situazione è tranquilla, la controlliamo noi, gridò inutilmente una donna al posto di blocco – si verificò la sparatoria in cui fu colpita a morte di Giovan Battista Carloni e che innescò l’aggressione al maresciallo Ranieri Virgilio.
La repressione invece fu, quella sì, davvero speciale. Dura in tutta la provincia di Siena, durissima sulla montagna, venne attuata non con il criterio della ricerca delle responsabilità individuali, bensì con il metodo della selezione politica, del rastrellamento di massa, della bastonatura indiscriminata, per rispondere con una operazione di antiguerriglia in grande stile a una guerriglia appena abbozzata, per quanto con conseguenze tragiche. Ed ebbe una sanguinosa appendice: la morte del capolega Severino Meiattini, ucciso il 18 luglio dalla polizia all’interno della sede della Federterra a Siena, durante il corteo funebre di Carloni e Virgilio, con le modalità tipiche della provocazione e della vendetta.
Un’ultima notazione sulla morte di Virgilio. La questione merita una rilettura degli atti processuali. Non risulterebbero tuttavia sevizie e torture, come pure si affermò. Emerge, questo sì, che dopo l’aggressione e le coltellate il maresciallo fu lasciato per strada senza soccorso perché i manifestanti non trovarono la pietà e il coraggio di trasportarlo in ospedale, mentre i suoi commilitoni, asserragliati in caserma e nella centrale telefonica, non ne ebbero, o ritennero di non averne la possibilità. O forse neppure seppero quello che gli era accaduto.




La guerra agli inermi. Storia e giustizia (II)

La seconda parte della storia, strettamente connessa alla prima, riguarda una delle più gravi ingiustizie fatte patire ai cittadini di questo paese nella storia dell’Italia unitaria.

È la storia dell’estesa, prolungata e non rimediata negazione di giustizia[1] nei riguardi delle vittime delle stragi naziste e fasciste di cui si è detto finora. Una negazione estesa, in termini strettamente geografici, poiché quel fenomeno, quell’orrore, non risparmiò nessuna parte d’Italia, nessun genere, nessuna classe anagrafica, nessuna religione, nessuna posizione sociale, nessuna posizione politica antifascista. Nessuno, insomma. Ricordiamolo: almeno 5.750 episodi e 24.112 vittime.

Una negazione prolungata, e ormai irrimediabile, perché iniziata immediatamente dopo la guerra – e addirittura prima, perché spesso nei paesi colpiti, subito dopo la partenza dei tedeschi, arrivavano gli Alleati, che cominciavano subito a fare indagini e chi era sopravvissuto cominciava subito a illudersi che la giustizia sarebbe arrivata. Una negazione andata avanti a questo punto per sempre, perché pochissimi furono i processi e ancora meno i responsabili mandati in carcere – Kappler, Reder, Priebke, Seifert e pochissimi altri – sia nel lungo e infruttuoso dopoguerra, sia nella fase molto più proficua, ma inevitabilmente limitata, dei processi che hanno seguito il rinvenimento, nel 1994, delle carte occultate, su cui si tornerà. Questi processi si sono celebrati soprattutto negli anni 2000 presso le procure militari di La Spezia, Verona e Roma sotto la guida di Marco De Paolis.

Dunque, una negazione non rimediata, se riguardiamo i conti: una ventina di processi – dal dopoguerra a oggi – e alcune decine di condanne – perlopiù non eseguite – per 5.750 episodi (e mancano tutti quelli avvenuti all’estero, fatta eccezione per Cefalonia) e più di 24mila vittime.

In realtà, la storia ci racconta che le carte dell’orrore di cui parliamo, e della mancata giustizia che lo ha riguardato, sarebbero state disponibili fin dall’immediato dopoguerra, e questo per ciò che riguardava sia le indagini degli Alleati, alle quali si accennava, sia quelle dei carabinieri, condotte spesso a ridosso degli eventi. Invece, tutto questo materiale fu volutamente occultato, e quindi non lavorato, in un arco di tempo che va almeno dal 1960 al 1994.

La scusa ufficiale fu quella – nel 1960 – del «lungo tempo trascorso dal fatto» – 15 anni dalla fine della guerra! – senza considerare, tra l’altro, che tale suddetto lungo tempo era attribuibile perlopiù all’inerzia di chi non aveva lavorato in quei 15 anni.

Le ragioni effettive, invece, almeno secondo gran parte della storiografia – ma anche di molti membri della Commissione Parlamentare d’inchiesta che ha indagato sull’occultamento negli anni 2003-2006 – sono invece le seguenti, riassunte molto schematicamente: si occultò – con un provvedimento illegittimo quale quello dell’«archiviazione provvisoria» – perché lavorare le carte sui criminali tedeschi avrebbe significato, da un lato, attirare l’attenzione sui criminali italiani, mai consegnati agli stati esteri che li avevano richiesti (Grecia, Etiopia, Jugoslavia etc.); dall’altro, tali indagini avrebbero potuto “imbarazzare” la Germania occidentale, fido alleato dell’Italia nel mondo diviso in due della guerra fredda. Ragioni di politica interna, dunque – quelle carte avrebbero anche riportato alla ribalta i criminali fascisti, frequentemente destinatari di provvedimenti di amnistia nell’immediato dopoguerra – e ragioni di politica internazionale si diedero il cambio e si supportarono le une con le altre nel produrre una delle più grandi ingiustizie praticate dall’Italia-Stato nei confronti dell’Italia-Nazione.

Quando le carte sono state recuperate dagli archivi (quelli della Procura Generale Militare a Roma) era il 1994 e la guerra fredda era appena finita, l’idea di Europa unita sembrava davvero poter sconfiggere le ansie dei vari passati del continente, e non vi poteva quindi essere un momento migliore per tirare fuori le carte che, si sperava, non avrebbero più potuto nuocere a nessuno. Quelle carte andavano però lavorate, perché quello che raccontavano – crimini di guerra atroci, crimini contro l’umanità – non è passibile di prescrizione secondo la legge italiana. Le aggravanti, infatti, come è facilmente intuibile, c’erano tutte.

In realtà le procure militari si presero un bel po’ di tempo – altro tempo sprecato – per cominciare a fare qualcosa, e solo qualcuna fece qualcosa davvero. A quell’impegno di pochi dobbiamo tuttavia dei risultati importanti, cioè le sentenze e le condanne – cosa che significa innanzitutto discorso pubblico della Nazione dinanzi allo Stato e risposta di quest’ultimo – per alcune delle stragi più atroci che si verificarono in Italia o contro italiani nel 1943-1945: Sant’Anna di Stazzema, Civitella in Val di Chiana, Monte Sole, Padule di Fucecchio, Cefalonia sono solo alcuni dei nomi/luoghi-eventi di questa parte della storia.

Se guardiamo oggi questi risultati, sembra straordinario che sia stato compiuto da pochi anni, certo in modo più che tardivo e parziale, ciò che avrebbe dovuto essere normale nel dopoguerra, cioè la giustizia, la condanna pubblica e documentata del crimine di guerra/crimine contro l’umanità.

In questo caso è stata una fortuna che le due regioni – la Toscana e l’Emilia Romagna – dove si era verificato il più alto numero di stragi con il più alto numero di vittime, negli anni 2000 fossero di competenza della volenterosa e produttiva procura militare di La Spezia, in quegli anni una sorta di “cattedrale” in un deserto di disinteresse, pressappochismo, noncuranza e chissà quali altre cause di inoperosità da parte delle altre procure militari, a partire da quella che nel 1994 aveva rinvenuto le carte durante l’indagine sul boia delle Ardeatine Erich Priebke. E da parte dello Stato, in generale: le indagini e i processi che La Spezia (e poi Verona e Roma, negli anni successivi, con l’arrivo di De Paolis) portò avanti furono una sorta di impresa titanica, con milioni di carte da studiare e produrre, testimoni da rintracciare dopo decenni, luoghi irrimediabilmente trasformati e, soprattutto, una mentalità istituzionale spesso indifferente, quando non apertamente ostile, che si chiedeva apertamente perché lo Stato avrebbe dovuto spendere soldi e tempo alla ricerca di innocui ottantenni bavaresi, alsaziani e così via. Dimenticando, innanzitutto, i doveri di legge, cioè l’imprescrittibilità.

Insomma, allo sdegno dell’opinione pubblica che nel 1994 aveva scoperto le stragi e il loro occultamento, corrispose spesso – di nuovo – la sottovalutazione del problema da parte dello Stato, uno Stato che, invece, avrebbe dovuto, avendo molto da farsi perdonare, fornire almeno i mezzi per provvedere all’eccezionale emergenza giudiziaria affrontata in quegli anni a La Spezia.

A tale mentalità istituzionale – spesso non sconfitta neanche oggi – ha fatto però da contraltare una mentalità collettiva diversa, alimentatasi di decenni di silenzio imposto e oblio forzato, prolungata negazione di giustizia e indifferenza da parte delle istituzioni dinanzi a un dolore che sembrava privato ed era invece un lutto collettivo. Una mentalità di comunità e di condivisione, che, in quegli anni e in quelli successivi, era sempre più in emersione, attenta, pronta a farsi sentire e, finalmente, ad essere ascoltata.

Erano le comunità dei borghi inermi straziati della lapide di Calamandrei, le comunità infrante, le comunità delle generazioni successive nutritesi di memoria divisa, che finalmente trovavano – poche di loro, in realtà, si è detto, in aula – e trovano lo spazio e l’ascolto del discorso pubblico, man mano divenendo incisive, cominciando a formare opinione pubblica.

È per questo che oggi possiamo, su questi temi, fare conversazioni pubbliche che interessano un ambito più ampio di quello degli addetti ai lavori, mettere su progetti di ricerca davvero europei come quello dell’Atlante, o pubblicare una collana di volumi – voluta dalla Regione Toscana e dall’Istituto Nazionale Parri – che raccontano i processi per le stragi naziste come fatti di immediata attualità[2], in quanto essi sono fatti di immediata attualità.

Tutto questo impegno è, però, va detto, un pegno pagato. Difatti, chi studia questi temi da storico o da politologo, chi li lavora come magistrato, carabiniere addetto alle indagini o consulente tecnico, chi li pone al centro dell’agenda politica istituzionale, chi, in generale, dedica buona parte della propria attività professionale (e, spesso, del proprio tempo libero) a questi argomenti, lo fa anche in virtù di un sentimento di doverosa restituzione – da parte dello Stato che in qualche modo, o in qualche forma, si rappresenta – nei confronti delle vittime. Queste ultime non sono, a parere di chi parla, solo coloro che allora persero la vita – gli inermi straziati in quelle migliaia di luoghi d’Italia; sono vittime anche coloro che sopravvissero alla morte di madri, padri, figli, sorelle e fratelli, ritrovandosi condannati a vivere per sempre “in morte” dei loro cari, spesso costretti ad abbandonare le proprie case distrutte, i paesi incendiati, i campi devastati. È ciò che ha scritto Caterina Di Pasquale a proposito di Sant’Anna di Stazzema: «la strage frantumò il paese, il suo modo di vivere, la sua cultura. Colpì la quotidianità, distrusse i punti di riferimento, bloccò il fluire della vita uccidendo intere generazioni e discendenze. Interruppe tutti i legami, quelli di parentela, quelli di vicinato, di amicizia e di amore, gli uomini non avevano più mogli, né figli, né sorelle, né genitori»[3].

Quest’obbligo a vivere in morte di chi non c’era più è stato il frutto di una giustizia negata in forma estesa, prolungata e sostanzialmente, purtroppo, non rimediata. È anche a queste vittime, condannate al silenzio e senza il sostegno, neanche, di una giustizia di transizione, che lo Stato deve una restituzione alla quale le istituzioni che sono oggi in questa sala – la Regione Toscana, l’Istituto della Resistenza – stanno volenterosamente e volontariamente provvedendo, con i fatti, almeno da vent’anni, primi tra tutti in Italia. A loro, dunque, un grazie personale e spero collettivo, e un invito a continuare.

[1] Per una panoramica complessiva sul tema si rimanda al recente volume di Paolo Pezzino e Marco De Paolis, La difficile giustizia. I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-2013, Roma, Viella, 2016.
[2] Si tratta della collana I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia, curata da M. De Paolis e P. Pezzino e con il mio coordinamento editoriale, per le edizioni Viella.
[3] Caterina di Pasquale, Il ricordo dopo l’oblio, Roma, Donzelli, 2010, p. 55.




Riflessioni sulla crisi della mezzadria nel Carmignanese

Un paio di anni fa, lavorando ad una ricerca sul tramonto della mezzadria nella zona di Prato con particolare riguardo alla situazione della Val di Bisenzio, ebbi modo di constatare che ben poco era stato scritto sull’argomento per quanto concerneva il Carmignanese, un territorio dove l’agricoltura ha sempre rivestito (e tuttora riveste) un’importanza rilevante e dove esistevano alcune grandi fattorie, prima fra tutte quella di Capezzana, che contava circa 120 poderi (per farsi un’idea delle sue dimensioni, davvero eccezionali, basti pensare che la Fattoria del Mulinaccio, la più grande della Vallata, che si estendeva su di un’area equivalente all’incirca alla metà del territorio dell’attuale Comune di Vaiano, comprendeva in tutto 36 poderi).

Alcune notizie sull’agricoltura a Carmignano si trovavano in opere che, per quanto interessanti e di gradevole lettura (pensiamo ai volumi di Giuseppe Mauro Bindi e di Arrigo Cecchi), rivestivano più il carattere della memorialistica che quello della ricerca storica.

Altri lavori (per esempio Carmignano. Quotidinanità e istituzioni tra Ottocento e Novecento, di Fabio Panerai) avevano un taglio sociologico, oppure fornivano solo degli spunti – sia pure stimolanti ­– sull’argomento in questione (ci riferiamo al libro di Nadia Barducci e di Paolo Gennai sulla Resistenza nel Carmignanese).

L’unica ricerca specificamente dedicata all’agricoltura nella zona (quella di Silvia Palumbo, intitolata Un’indagine sull’agricoltura nel comune di Carmignano) risaliva al 1988 ed abbracciava un periodo successivo a quello di cui ci occupiamo.

Ciò che mancava era una ricostruzione d’insieme, centrata sui fattori che determinarono la fine della mezzadria, l’abbandono delle campagne e le successive trasformazioni economiche e sociali: nacque così l’idea – subito accolta, con squisita sensibilità culturale, dal Comune di Carmignano – di lavorare ad una pubblicazione su questi temi. Il libro, arricchito da un saggio introduttivo di Fabio Bertini ed intitolato “Levassi di cappello e venir via”. Agricoltura e crisi della mezzadria nel Carmignanese, è uscito nell’aprile di quest’anno per i tipi della casa editrice Polistampa di Firenze.

Le fonti su cui lavorare erano, per fortuna, numerose: fonti archivistiche, fonti a stampa, fonti orali e risorse in Rete.

I principali documenti su cui si basa il saggio sono stati reperiti presso l’Archivio del Comune di Carmignano, presso quello della Camera del lavoro di Prato e fra le carte prodotte dalla Confederterra toscana, custodite a Firenze nella sede della CGIL regionale.

Di centrale importanza sono state le fonti a stampa, in primo luogo il periodico Toscana nuova, che pubblicava di frequente delle corrispondenze da Carmignano a firma di Gennaro Meli, scomparso di recente, segretario della Lega coloni e mezzadri e consigliere comunale del PCI nei primi anni Cinquanta.

Come spesso accade in questo genere di lavori, le fonti orali hanno avuto un ruolo di primo piano: con gratitudine voglio quindi ricordare tutte le persone che, in tempi diversi, hanno saputo fornirmi delle informazioni di grande interesse.

Utili sono state infine le risorse in Rete: pensiamo soprattutto all’Archivio della cultura contadina, consultabile online dal sito del Comune, che raccoglie una serie di interviste condotte da Giovanni Contini Bonacossi negli anni Novanta.

Il titolo del volume (“Levassi di cappello e venir via”), tratto da un componimento poetico in ottava rima del contadino carmignanese Luigi Socci, ci pare che riassuma con grande efficacia la natura del rapporto che intercorreva fra padroni e mezzadri, costretti ad obbedire senza possibilità di replica: come spesso accade il poeta popolare riesce a cogliere con precisione il fulcro dell’argomento di cui si occupa, il nocciolo della questione, ed a renderlo con quell’immediatezza che non a tutti è dato di possedere.

“Levassi di cappello e venir via”, dunque. Cerchiamo allora di ricostruire, in estrema sintesi, le condizioni dei contadini carmignanesi negli anni Cinquanta-Sessanta, gli anni che videro la fine del sistema mezzadrile.

Senza alcun dubbio la loro vita era una vita molto difficile: i mezzadri vivevano in case fatiscenti, senza servizi e – spesso – senza acqua corrente (anche qui c’era chi era costretto a percorrere 1-2 chilometri a piedi per approvvigionarsi di acqua alla sorgente più vicina); dovevano fare con le loro braccia il lavoro che avrebbero dovuto fare le macchine; le opere di miglioramento fondiario non venivano realizzate dai proprietari; il ritardo nella chiusura dei saldi era quasi la regola ed altrettanto poteva dirsi della pratica degli addebiti illegali.

Il dato che, tuttavia, balza agli occhi con maggior evidenza è quello della tenuità del reddito mezzadrile: basti pensare che, come è stato rilevato in precedenti studi, un operaio guadagnava in media all’incirca il triplo di un contadino e che nel Pratese il reddito medio mensile di un mezzadro era superiore solo a quello di un ragazzo addetto all’avvolgitrice di filati, “a far cannelli”, come si dice.

Nessuna meraviglia, dunque, che i contadini volessero abbandonare le campagne. Il discorso valeva soprattutto per i giovani, che fuggivano dai poderi rifiutando una vita senza prospettive, identica a quella dei genitori, per cercare in città un lavoro meno massacrante e più redditizio, maggiori possibilità di socializzazione e di divertimento.

La mezzadria era insomma condannata: ma i padroni volevano davvero salvarla?

In realtà, si può sostenere che essi – assumendo un atteggiamento di rigida chiusura nei confronti delle richieste avanzate dal movimento contadino – contribuissero scientemente all’affossamento dell’istituto mezzadrile, dato che il loro vero obiettivo non era la sua difesa, ma piuttosto la trasformazione in senso capitalistico delle aziende agricole, il passaggio alla conduzione a salariati.

E questo fu proprio ciò che accadde anche a Carmignano: non per nulla in un suo libro di memorie l’agrario Ugo Contini Bonacossi, proprietario della Fattoria di Capezzana, ha scritto che la fine della mezzadria consentì ai proprietari una gestione delle aziende più agile e, con l’abbandono delle colture promiscue, necessarie al sostentamento della famiglia colonica, rese possibile un’utilizzazione più razionale del suolo.

Questa fu la linea che finì col prevalere, anche se c’era la possibilità di politiche alternative – imperniate su una riforma agraria strutturale, che desse ai contadini la terra ed i mezzi per lavorarla – la cui realizzazione fu resa impossibile dalle resistenze degli agrari e delle forze politiche di maggioranza, che costituivano il loro referente al governo ed in Parlamento.




Lavoro, fiori e lambrette.

La festa del lavoro in Italia non rinacque, dopo la seconda guerra mondiale, solo come momento politico e istituzionale, ma assunse significati più ampi e partecipati, diventando la rappresentazione di uno spaccato della società nelle sue diverse epoche. Da giornata di astensione dal lavoro e di mobilitazioni si andò allargando, includendo la socialità ed eventi capaci di “mettere in scena” la stessa “cultura” dei lavoratori, assumendo al suo interno eventi sportivi e ludici come i balli, la musica, la cucina. Una festa popolare dunque, come le sagre e feste di paese, da cui trasse forza e ramificazioni. Agli aspetti prettamente rivendicativi e a quelli politici si andò col tempo affiancando una ritualità, un farsi “tradizione”, attraverso un percorso di adattamento e mutamento che ci ha lasciato in eredità un complesso di consuetudini, come la distribuzione dei garofani rossi, radicate nell’immaginario di larghe fasce sociali.

1946: 1 Maggio a MarescaNel secondo dopoguerra i sindacati furono all’opera per rimettere in campo la celebrazione, abrogata dal fascismo. Con la Repubblica il 1° maggio si prendeva un posto, sancito anche dal carattere di festa nazionale attribuitogli dalle istituzioni.
Nel pistoiese si giunse a una prima messa a punto sistematica del suo svolgimento negli anni successivi alla rottura dell’unità sindacale del 1948. Fu un’opera portata avanti dalla CGIL, a partire dal biennio 1950/51, ed in particolare dal sindacato dell’agricoltura, la Confederterra. Il momento centrale si andò articolando attorno al corteo del capoluogo, Pistoia, senza però tralasciare la diffusione locale, esplicata nelle tante più piccole manifestazioni degli altri centri, che andavano da cortei e comizi veri e propri alle “veglie” nell’aia, politicizzando un’antica tradizione del mondo mezzadrile.

Il corteo di Pistoia, salvo qualche minimo cambiamento di percorso, è da sempre lo stesso, una sfilata per le vie del centro cittadino con l’arrivo finale nella piazza del Duomo. La partenza è sempre stata davanti alla sede della Camera del Lavoro. Fin dagli anni ’50 emerse una sua strutturazione interna, a tutt’oggi immutata. La prima parte del corteo riservata alle rappresentanze istituzionali, con i loro gonfaloni, e alla banda comunale, segnale della piena cittadinanza dentro allo Stato conquistata dal “popolo lavoratore” con la Repubblica, seguita da uno “spezzone” più politico, con gli striscioni contenenti messaggi di stringente attualità, ed a ridosso le rappresentanze dei lavoratori, a partire da quelle delle aziende o fattorie in lotta.
Già in quel decennio si fece strada con forza la pratica di non far sfilare solamente i lavoratori e le lavoratrici, ma anche i simboli del loro lavoro, i trattori per le campagne e gli autobus prodotti nella fabbrica cittadina, la Breda. All’unità dei lavoratori, simboleggiata dall’alleanza tra contadini e operai, i “mezzi meccanici”, come venivano chiamati, aggiungevano altri significati simbolici. Erano cioè una dimostrazione di modernità, utili per attirare i giovani e a mostrare con orgoglio il prodotto della fatica e della professionalità dei lavoratori. Sempre a quegli anni risale l’organizzazione della distribuzione dei garofani rossi da parte delle donne, una presenza mai venuta meno.

1969A partire dalla seconda metà degli anni ’50, e con sempre più forza negli anni ’60, intorno al corteo sorsero una miriade di eventi collaterali, dalla lotteria al torneo sportivo, dalle mostre di pittura alla gara di ballo, con il corollario di cene e feste, nel capoluogo organizzate nel parco di Monteoliveto. La data penetrava in profondità nella società locale, divenendo un riflesso delle trasformazioni dell’Italia e degli italiani, con le loro passioni politiche.
Nelle cronache della festa si ritrovano i segnali della Storia, dall’operaio che in una riunione nel 1968 chiedeva maggior attenzione agli studenti alle diatribe tra i vecchi sindacalisti e i più giovani, che nel 1969 pretendevano di sfilare nel corteo con le loro lambrette “smarmittate”, una nota che può sembrare di costume ma che ci racconta, con una battuta, il cambiamento epocale, sociale e culturale, che affrontava l’Italia in seguito al miracolo economico.
Emergevano nuovi attori e nuovi oggetti. E sempre su questa scia vanno lette le preoccupazioni per le infiltrazioni degli autonomi, se non del terrorismo, ma soprattutto il prepotente ingresso del femminismo in piazza del Duomo nel 1977, quando un gruppo di donne dette fuoco al manichino di una strega, danzando in cerchio, dando vita a reazioni impreviste e inaspettate, come quelle della CISL che si schierò dalla loro parte a differenza del PCI che le contestò.

Manifesto CGIL 1 Maggio 1967 Un’altra costante è stata la sempre presente spinta all’unità dei lavoratori. La ritroviamo nei discorsi preparatori tutti gli anni, unita a un’attenzione a far si che fosse il lavoro, con le sue rivendicazioni, il vero protagonista della giornata, prima e sopra la politica. Da qui le continue attenzioni e cure contro le strumentalizzazioni, da qui una costante e lunga ricerca di una celebrazione unitaria tra le organizzazioni sindacali. Una ricerca che a fine anni ’60 era sempre più pressante, all’alba di una grande stagione di lotte e di riforme, tale da suscitare anche l’intervento delle Istituzioni a suo favore.
L’unità nelle celebrazioni fu raggiunta a piccoli passi e faticosamente, dapprima con l’adesione delle ACLI al corteo della CGIL nel 1970, seguita l’anno dopo da quella della CISL, mentre la UIL ancora se ne teneva fuori, duramente criticata, mentre si cercava di allargare la spinta unitaria anche agli studenti, invitati ufficialmente a prender parte al corteo con una lettera del 1971. Solo tra il 1972 ed il 1973 aderiva anche la UIL, dapprima con alcune categorie e poi con tutta la confederazione. Ma l’unità è sempre stata un risultato da tener stretto, rimesso in discussione nel decennio dopo dalla CISL, che nel 1984, in seguito al decreto di San Valentino, sfilava via nonostante fosse duramente criticata dalla Chiesa locale, che dal 1979 aderiva alla giornata organizzando la santa messa nella cattedrale. Una ferita che fu sanata solo quattro anni più tardi, nel 1988, quando nuovamente il primo maggio tornava ad essere celebrato in maniera unitaria.

Tra gli anni ’80 e ’90 iniziavano i primi interventi di rinnovamento della festa nel solco di quella che ormai era la tradizione. Nel 1989 veniva inserita una festa per i bambini, e molti interventi nelle riunioni preparatorie rimarcavano che i trattori non erano solo folklore ma racconto ed espressione del lavoro, di quel mondo agricolo 30 anni prima ancora così importante e presto dimenticato, mentre altri proponevano una nuova popolarizzazione della festa, con feste, pranzi e balli, pratiche di socialità andate perse nel decennio delle grandi passioni dei ’70. Iniziava timidamente a muovere i suoi passi una nuova forma di diffusione territoriale, accanto a quella sindacale, affidata alle strutture che il movimento dei lavoratori nei decenni aveva costruito sui territorio, a partire dai circoli ARCI, che nel passaggio di secolo radicavano una “nuova” tradizione di feste e pranzi. La socialità di nuovo legata al lavoro, alla politica e alle comunità locali, espressione della vitalità di una giornata che ha sempre travalicato i suoi stessi confini.

Le notizie relative alla storia del 1° maggio nel pistoiese sono state tratte dall’Archivio storico della Camera del Lavoro di Pistoia.




Liturgie laiche e religiose nella Livorno del 1948

Il 7 novembre 1948 a Livorno fu una data molto particolare. Nel medesimo giorno si “fronteggiarono” in città due grandi manifestazioni, l’una cattolica, l’altra comunista. Seguendo un’evidente strategia di contrasto, i vertici ecclesiastici livornesi avevano fatto cadere la solenne chiusura della Peregrinatio Mariae – il pellegrinaggio della Madonna di Montenero che, partito il 20 ottobre, aveva compiuto, come scrisse «Il Tirreno», il suo «viaggio trionfale per tutti i paesi della diocesi» [Un’immensa folla, 4 novembre 1948] – nella data in cui le sinistre celebravano con grande dispiegamento organizzativo l’anniversario della rivoluzione d’Ottobre. I cattolici livornesi avevano del resto ancora nella memoria l’imponente manifestazione dell’anno precedente, 30° anniversario della rivoluzione, celebrato con un grande concorso di popolo per le vie della città e conclusasi al teatro Politeama, alla presenza del presidente dell’Assemblea Costituente Umberto Terracini e del deputato socialista Alberto Cianca [Terracini e Cianca, 10 novembre 1947].

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Ingrao e Togliatti nel 1946

La mattina dl 7 novembre dunque i comunisti sfilarono lungo i quartieri nord della città, quelli popolari e ad alta densità di operai, concludendo il loro corteo nella piazza S. Marco, massimo simbolo risorgimentale di Livorno, teatro della gloriosa resistenza dei livornesi contro la cattolica Austria dell’11 maggio 1849. Quello stesso pomeriggio la processione dei cattolici si snodò sul lungomare e tra i quartieri sud, quelli dei livornesi più benestanti, fino al colle del Santuario di Montenero. Due itinerari separati, come se fosse esistita una ideale cortina di ferro che divideva la città, ma che ebbero come tappa centrale obbligata la sosta al Cantiere navale, simbolo del mondo operaio. Il Cantiere infatti in quel 7 novembre viene “benedetto” due volte: la mattina dal comizio del direttore dell’«Unità» Pietro Ingrao; il pomeriggio dal vescovo di Livorno, Giovanni Piccioni, alla presenza del presidente della Camera Giovanni Gronchi, nell’ambito della cerimonia di chiusura della Peregrinatio. Davanti agli operai Ingrao, come riportò la stampa, aveva parlato degli enormi progressi compiuti «in ogni campo dalla Russia sotto il regime sovietico, ponendoli in contrasto con le terribili crisi che affliggono gli Stati occidentali», definiti potenze «guerrafondaie capitaliste e affamatrici del popolo» (Archivio di Stato di Livorno, Fondo Questura, b. 887) . Il pomeriggio l’immagine della Madonna di Montenero era stata invece benedetta davanti al Cantiere dal vescovo e dal nunzio apostolico dell’Honduras, il livornese Federico Lunardi, dopo che la processione aveva attraversato Borgo Cappuccini, la via nella quale abitava la gran parte degli operai del Cantiere, in cui, annotava «La Gazzetta», quotidiano comunista, era stato «offerto uno spettacolo folgorante di luci e di addobbi considerati i più belli delle varie parrocchie» [Ristori, 1948]. Pochi giorni dopo Gronchi, in una sua nuova visita a Livorno, parlando alle donne livornesi di Azione Cattolica, aveva affermato significativamente che il pellegrinaggio mariano aveva dimostrato come a Livorno il sentimento religioso del popolo fosse «soltanto sopito». «Si è visto – affermava – nella recente “Peregrinatio Mariae” nei quartieri in cui nessuno avrebbe creduto esistesse tanta fede, il popolo degli umili e dei lavoratori rende devoto omaggio alla Madonna. Ora dovete voi entrare nella vita di quella gente, dovete cercare di riportarla sulla via che Cristo ha tracciato per il trionfo del bene e per la salvezza dell’umanità» [Archivio di Stato di Livorno, Fondo Questura, b. 880].

I fatti appena descritti, nei suoi macroscopici simbolismi, ben raccontano come il 1948, anno in cui si addensarono in Italia le più tumultuose contrapposizioni scatenate dalla divisione del mondo in due blocchi contrapposti, significò anche una vera e propria lotta per la supremazia dei rituali identitari. Una contesa che aveva trovato il suo acme per le elezioni politiche del 18 aprile e che assunse le forme di una competizione tra i rispettivi repertori liturgici e iconografici, indirizzata anche verso l’occupazione dei luoghi in cui più forte si avvertiva il simbolismo delle identità concorrenti [Guis0, 2006; Cavazza, 2002; Avagliano, Palmieri, 2018]. Come hanno fatto emergere molti studi negli ultimi anni, questa contrapposizione tra diverse “liturgie” assecondava anche rivalità identitarie meno immediatamente percepibili relative alla memoria della guerra e della Resistenza e ai miti fondativi della Repubblica [Gabusi, Rocchi, 2006; Schwarz, 2010]: le sinistre occupate nel tentativo di fondare una religione civile basata sull’antifascismo, viceversa la Democrazia cristiana, e in qualche misura anche le istituzioni ecclesiastiche, impegnate in un’azione di pacificazione nazionale. Riguardo al caso livornese non sfugge, ad esempio che all’interno delle due settimane di Peregrinatio Mariae si toccasse una data carica di simbolismi come il 4 novembre. Siamo all’interno di quel progetto di «riconquista cattolica dell’italianità» [Gentile, 1997, p. 224] che vide in questi anni impegnate le istituzioni ecclesiastiche e che si connetteva direttamente all’impegno della Dc nell’ottica della pacificazione nazionale. L’intento dichiarato dei governi Dc era di stimolare una rinnovata concordia, che superasse le divisioni di una guerra fratricida. Ecco perché, è stato detto, che in questi anni calò una sorta di «silenzio istituzionale» sul 25 aprile, mentre appunto gli sforzi si concentrarono sulle manifestazioni del 4 novembre in cui si celebrava la fine della prima guerra mondiale. A questo proposito va notato che la festa del 4 novembre fino al 1944 veniva definita «festa della vittoria», mentre dal 1944 al 1949 divenne la «festa dell’unità nazionale» nella quale dunque si puntava a celebrare un patriottismo astorico che trascendesse la dimensione politica, nel tentativo di un recupero dell’armonia nazionale. La Peregrinatio Mariae livornese rientrò pienamente in questa prospettiva e difatti il 4 novembre, nel quadro delle celebrazioni, fu officiata una «Santa Messa in suffragio dei Caduti per la patria» a cui intervennero le rappresentanze delle Forze Armate e le associazioni combattentistiche e a cui partecipò  monsignor Trossi, vicario generale dell’Ordinario Militare [Programma dei festeggiamenti, 31 ottobre 1948]. È da evidenziare come, per l’occasione, il settimanale diocesano trasformasse la Madonna di Montenero nella «Madre della pace». Scrisse il giornale: «La Madonna è la grande Pacificatrice. […] Regina della pace perché la devozione a Lei, che agisce sul profondo dei popoli, rimane forse l’unico punto di contatto tra i due mondi che oggi si contendono il dominio della terra: ed è possibile che la Provvidenza – che guida la storia – si serva della Madre comune per rappacificare i suoi figli» [Angeli, 1948].

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La “Peregrinatio” nella Chiesa di S. Maria del Soccorso a Livorno nel 1948

Anche sul fronte contrapposto è facile riscontrare quanto le cerimonie della liturgia laica si ponessero al servizio di precisi obiettivi politico-identitari. Diversi mesi prima della manifestazione del 7 novembre, nell’estate del 1947, una grande cerimonia funebre, seguita di poco alla rottura di Alcide De Gasperi con le sinistre, si caricò di potenti simbolismi che esularono dal mero episodio di cronaca. Nel luglio 1947 dentro il Cantiere navale di Livorno, un operaio, Alvaro Folena, venne ucciso da una guardia giurata durante un alterco. Il funerale si trasformò così in un’imponente liturgia civile contro il governo con un corteo che attraversò le vie della città e a cui parteciparono, secondo le cronache comuniste, circa 60mila livornesi (in una città che in quel momento contava circa120mila abitanti). «La Gazzetta» chiariva qual era il vero significato da attribuirsi alla celebrazione: l’atto di quel «fascista» – così veniva definita la guardia giurata – altro non era che «una fra le più dolorose conseguenze della scelta dell’on. De Gasperi»: la scelta di aver rotto l’unità antifascista, con l’uscita del Pci dal governo. «Promuovendo la formazione di un governo destinato all’impopolarità – continuava il giornale del Pci – ha suscitato in ogni parte d’Italia un’atmosfera di lotta e di guerra civile dalla quale traggono alimento le forze cripto fasciste o apertamente fasciste per rivelare la loro sostanziale natura antidemocratica» [Comi, 1947]. Appaiono evidenti i caratteri di quella retorica antifascista dell’eroismo partigiano che era funzionale allo sforzo di accreditare la Resistenza come mito fondativo della Repubblica. Così come sono chiari i segni della volontà dei comunisti di stimolare una militanza e una disponibilità continua alla lotta contro i germi perduranti del fascismo. L’articolista della «Gazzetta» aggiungeva infatti che «la proibizione verificatasi in molte città di affiggere manifesti antigovernativi, il divieto della propaganda a mezzo di impianti sonori, e tanti altri piccoli fatti più o meno caratteristici hanno creato in Italia l’impressione, tutt’altro che ingiustificata, di una polizia al servizio di un partito (quello governativo) e di certe classi (quelle rappresentate al governo) anziché del paese». E concludeva: «Si aggiunga che a Livorno di notte si canta impunemente “giovinezza” per le strade e che il titolare della Questura si chiama comm. Pennetta, già distintosi in altra epoca nella stessa città, per aver con fazioso accanimento applicato le leggi razziali, e si avrà un’idea dell’ambiente in cui si è maturato il tristo fatto di sangue avvenuto ieri» [Comi, 1947].

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Furio Diaz con gli ufficiali alleati (Fondo Diaz, Biblioteca Labronica Livorno)

Sotto altri aspetti questa cerimonia funebre mise in chiara evidenza il tentativo da parte comunista di elaborare una liturgia alternativa attingendo ai riti, alle simbologie e agli apparati della tradizione cristiana, rielaborati in chiave laica. È evidente lo sforzo di conferire grande solennità e un carattere simbolico all’evento: la bara di Alvaro Folena venne così avvolta in una enorme bandiera rossa, dietro il feretro sfilarono più di cento bandiere e corone di fiori di partiti e associazioni. Il quotidiano comunista parlava di una «dimostrazione dignitosa, severa, degna di un popolo civile ed elevato»; il cronista aggiungeva enfaticamente di non ricordare «di aver veduta cosa di simile nei lunghi anni di carriera professionale» [Sessantamila persone, 5 luglio 1947]. Nella retorica comunista si intuisce la chiara volontà di restituire l’evento con una carica simbolica che superasse per fasto e livello di partecipazione l’ultimo grande evento funebre di massa celebrato a Livorno: quello del suocero di Mussolini, il conte Costanzo Ciano, officiato alla presenza del duce e di tutte le più alte gerarchie fasciste e cattoliche alla vigilia della guerra. La grande fastosità ricreata per un funerale di un semplice operaio, figlio del popolo, accendeva ancor più il contrasto col rito funebre del nobile gerarca, evidenziando l’urgenza di dare la massima espressione pubblica alla riconquistata sovranità popolare fondata sul mito della Resistenza. Nella descrizione dell’evento si attingeva al vocabolario usato dalla tradizione cattolica: si diceva così che nella camera ardente allestita all’Arena Astra, davanti al Cantiere Orlando, attorno al feretro erano «fiori e paludamenti rossi» e che «una guardia d’onore di lavoratori vegliava la salma», accanto alla quale «fu un continuo, ininterrotto pellegrinaggio». Il funerale civile si trasformò in un evento cui attribuire la più alta solennità possibile: un momento in cui partiti e associazioni del mondo laico e massonico profusero il massimo sforzo nella costruzione di una liturgia laica capace di competere con quella cattolica. È sufficiente osservare come la «Gazzetta» descrisse il corteo funebre.

Precede la bara, avvolta da un drappo rosso e portata a spalla, il gagliardetto del plotone ciclisti della Soc. Volontaria di Soccorso con la scorta. La bara è fiancheggiata da militi della Soc. Volontaria di Soccorso e dal plotone ciclisti e da una squadra d’onore del P.C.I. e della Camera del Lavoro. Ai lati un duplice cordone di ciclisti disciplina il movimento del corteo. Lungo le strade percorse dal silenzioso, grandioso corteo, la folla si assiepa a centinaia, a migliaia. Specialmente agli incroci, ai quadrivi la ressa è imponente.

Dietro la bara che raccogliere il corpo martoriato di Alvaro Folena, i congiunti della vittima, gli amici intimi, i dirigenti e componenti la commissione interna dell’Oto. Vediamo il Prefetto, il Sindaco, il Presidente della Deputazione provinciale, il direttore, de «La Gazzetta», il Questore, il Vice Questore, il Comandante del Porto, il rappresentante del Comando Marina, i rappresentanti della Magistratura, professionisti, industriali, commercianti, i rappresentanti dei vari enti cittadini, le rappresentanze dell’Udi, quelle degli stabilimenti industriali della provincia [Ibid.].

Il giornale non mancava di sottolineare l’assenza al corteo di una rappresentanza della Democrazia cristiana: il fatto, annotava «La Gazzetta» era «stato notato non soltanto dai dirigenti della manifestazione, ma dalla stragrande maggioranza dei cittadini che hanno assistito alla imponente manifestazione di cordoglio e di lutto» [=Un’assenza notata, 5 luglio 1947]. Significativa poi appare la scelta di compiere alcuni gesti simbolici nei luoghi della tradizione massonico-risorgimentale: così nella via intitolata a Garibaldi, le popolane comuniste accolsero il corteo con mazzi di garofani rossi. Il grande fascio di fiori venne posto sul feretro e le donne che lo avevano donato seguirono la bara fino a S. Marco: qui nella piazza XI Maggio che evoca la resistenza risorgimentale il corteo si scioglieva, non prima di aver ascoltato le parole del sindaco comunista Furio Diaz il quale mise in guardia i cittadini rispetto ai «pericoli della mostruosa attività di elementi reazionari, avvisando la necessità di proteggere con ogni sforzo la libertà, la repubblica e la democrazia» [Sessantamila persone, 5 luglio 1947].

 




Le falegnamerie nell’Alta Val d’Elsa del Secondo Dopoguerra

La zona nord del territorio senese uscì duramente provata dal Secondo Conflitto Mondiale: pesanti  bombardamenti raseso quasi a zero la città di Poggibonsi danneggiando gravemente le infrastrutture e buona parte delle attività produttive [1]. Proprio su quelle rovine, tuttavia, nascerà in tempi rapidissimi una vivace economia, per molti aspetti con caratteristiche del tutto nuove a quella prebellica che spesso, almeno nella zona, era in gran parte legata al mondo agricolo circostante.

È ipotizzabile che il vigoroso sviluppo della produzione del mobile in Valdelsa sia avvenuto grazie ad una serie di fattori già presenti che andarono a legarsi alla particolarissima congiuntura storica. Innanzitutto la diffusione di botteghe artigiane dedite alla lavorazione del legno (mobili, infissi e attrezzi prodotti per il comparto agricolo e viti-vinicolo) era piuttosto sviluppata nell’area, ma costituiva una realtà che operava su piccola scala, a causa della modestia delle commesse, e soddisfaceva soltanto la domanda locale. Tale presenza era stata favorita dalla facilità di reperire la materia prima a prezzi modesti (il pregiato legno di castagno proveniente dal Monte Amiata e il legname più scadente ricavato dai boschi delle colline circostanti) e dall’essenzialità degli strumenti di produzione che richiedeva investimenti molto modesti.

Un tale tessuto produttivo dovette, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, misurarsi con il fenomeno dell’abbandono di massa delle campagne che stavolse le strutture sociali ed economiche tradizionali. Per chiarire l’entità dell’esodo si tenga presente il caso della città di Poggibonsi, realtà che,  nel 1951, contava 14.387 abitanti (di cui 2278 lavoravano all’industria contro 3396 del comparto agricoltura e 1185 in altre attività); appena dieci anni dopo vivevano nel borgo valdelsano  18.634 persone di cui 8475 lavoratori (ben 4762 erano nel comparto industriale). Il decennio successivo vide un ulteriore incremento di questa tendenza con il definitivo crollo del settore produttivo agricolo (in cui rimasero soltanto 988 addetti su un totale di 10.137 lavoratori) ed il decollo dell’industria (con 6404 addetti) all’interno della quale il settore del mobile faceva la parte del leone (con circa tremila addetti più quelli dell’indotto): nel 1971 Poggibonsi era ormai divenuta una città di dimensioni rispettabili con 25386 abitanti.

images11L4BY0NL’incremento delle attività produttive e demografico della cittadina valdelsana è unico in tutta il territorio senese: la vicina Colle Val d’Elsa, una volta volano industriale dell’area, pur avendo un rilevante incremento demografico nel Secondo Dopoguerra (dai 12063 abitanti del 1951 si passò ai 14812 del 1971) rimase ben lontana dai numeri di Poggibonsi ed il suo sviluppo industriale rimase legato a filo doppio alle attività preesistenti come quella del vetro, del cristallo e dei relativi indotti[2].

Il successo del settore del legno era legato ad una forte domanda ma anche ai buoni profitti legati a vari fattori come le basse retribuzioni delle maestranze di cui una parte rilevante lavorava per ditte artigiane con meno di undici addetti. Nel 1950 un operaio specializzato guadagnava 63,95 lire all’ora, un operaio qualificato 49,75, un manovale specializzato 43,15 lire e un manovale comune 35,45 lire. La manodopera femminile aveva delle retribuzioni più basse mediamente del 20-25% (la parità salariale uomo-donna verrà raggiunta soltanto nel 1962)[3]; facendo un raffronto con i nostri giorni, tenuto conto della contingenza, è possibile calcore che mediamente un operaio valdelsano del comparto legno guadagnava meno degli attuali 500 euro al mese[4].

La contrattazione con gli imprenditori, a partire dagli anni Cinquanta, fu sempre più agguerrita e ben presto, tra le recriminazioni dei lavoratori fece la sua comparsa la richiesta di operare in ambienti più salubri e con idonei dispositivi di sicurezza. Ancora a metà degli anni Ottanta, quando ormai il settore era in piena ristrutturazione, l’83% delle aziende non aveva locali adatti per separare le parti verniciate sottoposte ad essiccazione dagli ambienti di lavoro; disastroso per lo stesso periodo il dato relativo allo smaltimento degli scarti della verniciatura (ritenuti generalmente tossici e nocivi in base al DPR 915 del 1982) in quanto ben l’86%  avveniva in modo incongruo[5]. Le malattie professionali più comuni tra i lavoratori del comparto erano quelle dell’apparato repiratorio e olfattivo (causate dalle polveri del taglio e dell’incisione del legno e dai vapori delle vernici) nonché uditivo (sordità da rumore), mentre gli infortuni (ben 244 nel 1983![6]) erano nella maggior parte dei casi ferite agli arti superiori causate dalla sega circolare e dal  toupie[7].

Il numero di aziende e di addetti salì in modo costante fino ai primi anni Settanta (rispetto a dieci anni prima si era avuto nella sola Poggibonsi un incremento di addetti alle industrie manifatturiere del 9,7% dato superato soltanto da Monteriggioni – 10,7% –   a cui si avvicinava Colle di Val d’Elsa con l’8,5%)[8], per iniziare poi lentamente a calare in seguito allo shock petrolifero del 1973.

La crisi degli anni Settanta mise a nudo le fragilità del comparto del mobile che subì nel primo trimestre del 1975 un calo della produzione del 10,20%, rispetto al periodo precedente, e del 12,80% rispetto allo stesso periodo del 1974. L’analista Giuseppe Tammaro individuava come ragioni della crisi una serie di fattori esterni come le politiche deflattive del biennio ’66-’67, la fine della domanda internazionale e la contrazione della domanda interna a cui il comparto non aveva saputo rispondere efficacemente per una serie di motivi endogeni; in primo luogo, come unico fattore distintivo del prodotto, era stato conservato il carattere artigianale e questo aveva tenuto alti i prezzi; non erano stati fatti studi di marketing per analizzare i gusti della clientela e per cercare nuovi mercati oltre a quelli tradizionali; inoltre il ricorso sempre più massiccio da parte delle (poche) medie industrie al decentramento per contenere i costi della manodopoera e della produzione aveva causato un abbassamento della qualificazione delle maestranze e nessun rinnovo dei macchinari[9].

Ormai il distretto aveva fatto il suo tempo: nel primo semestre del 1986 le industrie del mobile a Poggibonsi erano 36 e davano lavoro a 800 addetti, gli artigiani 280 con mille addetti; rispetto ai tempi d’oro della metà degli anni Sessanta si erano persi più di mille posti di lavoro senza contare l’indotto. La produzione si contrasse progressivamente a laboratori artigiani che producevano mobili e infissi su misura o piccole manifatture che realizzavano componentistica. Una boccata d’ossigeno al settore, ma solo alle industrie, arrivò a fine anni Ottanta con l’esplosione della camperistica, comparto per il quale un pool di aziende, dopo una serie di studi di mercato, iniziò a produrre mobili componibili per poi mettersi in proprio e creare il distretto del camper della Valdelsa[10].

Riccardo Bardotti è insegnante distaccato presso l’Istituto storico della Resistenza senese e dell’età contemporanea.

[1]ANTICHI COSTANTINO, Poggibonsi, Poggibonsi, Tipografia Artigiana, 1965, p.139.
[2]ISTAT,  Consistenza della popolazione residente e popolazione attiva distinta per settore di attività economica nei comuni della Provincia di Siena, in Toscana e in Italia al 1951, 1961 e 1971.
[3]AMOC, FILLEA a1, paghe in vigore nelle PAS del 01-11-1950.
[4]www.infodata.ilsole24ore.com/2015/04/14/se-potessi-avere-calcola-il-potere-dacquisto-in-lire-ed-euro-con-la-macchina-del-tempo/
[5]CUCINI EMANUELA, Indagine sulle condizioni di lavoro e di salute nelle aziende del legno della Val d’Elsa senese, Tesi di laurea discussa presso l’Università degli Studi di Siena, Facoltà di medicina e Choirurgia, a.a. 1987-88, pp.13-14.
[6]AMOC, Zona Valdelsa, VII b1, Unità Sanitaria Locale Alta Val d’Elsa.
[7]CUCINI E., Idem, p.31.
[8]Elaborazione Ufficio Studi dell’Amministrazione Provinciale di Siena su dati ISTAT realizzata nel 1976.
[9]TAMMARO GIUSEPPE, Alcune considerazioni su settore del mobile in Val d’Elsa, lineamenti per un programma di intervento di formazione professionale, Convegno del 28 maggio 1976 organizzato da CGIL CISL UIL.
[10]AISRSEC, Banca delle Memorie, 2017.




I comunisti e la cultura giovanile durante il miracolo economico

Per tracciare una breve riflessione sul legame tra cultura giovanile e case del popolo nel corso della seconda metà del ‘900, dobbiamo partire dal grande cambiamento economico-sociale di cui fu portatore, in Italia e anche a Pistoia, il cosiddetto miracolo economico. Esso, infatti, fu il vettore che permise la nascita di una cultura giovanile ancora inedita all’epoca, fatta di cinema, TV, musica, riviste e fotoromanzi.

 

Nella provincia di Pistoia, le case del popolo furono uno dei luoghi dove le nuove generazioni entrarono in contatto con questa cultura – così pop, così statunitense. A prima vista potrebbe sembrare una contraddizione (siamo negli anni della guerra fredda), ma il fascino che esercitò sulla popolazione fu tale da non lasciare indifferenti nemmeno i militanti del Pci.

 

Per evidenziare il rapporto che si creò allora tra la cultura giovanile e le case del popolo, prenderò a esempio la casa del popolo di Tobbiana (un paese di circa 1.000 abitanti in provincia di Pistoia, nel comune di Montale), di cui mi sono ampiamente occupata per la mia tesi di laurea.

 

Fondata dai militanti del Pci nel secondo dopoguerra, questa casa del popolo non era mai rimasta indifferente al fascino di quelle “invenzioni” che diverranno poi alcuni dei simboli della civiltà dei consumi, catalizzatrici di sogni e di nuovi stili di vita mai visti prima. Lì era infatti arrivata, nei primi anni ’50, la TV; dopo qualche anno, sarebbe stato il turno del juke-box. Nel 1965, infine, lì nei pressi venne edificata anche una grande sala da ballo (il Dancing la Roccia), per la gioia delle allora nuove generazioni.

 

Quei giovani nati negli anni ’40, non a caso, furono la prima generazione italiana omogenea in termini di lingua, gusti e riferimenti culturali. La TV e gli altri media (riviste, radio, cinema) avevano infatti contribuito fortemente a formarne i gusti: insomma, da Milano a Roma, passando per Tobbiana, i divertimenti e gli idoli di questi ragazzi erano pressoché gli stessi.

 

Allora il Pci non vedeva di buon grado la “permeabilità” di questa generazione alla nuova cultura giovanile, così intrisa di americanismo. Posso citare, a titolo di esempio, un articolo del 1960 de «La Voce» (il settimanale della federazione del Pci di Pistoia), intitolato «Troppi fumetti anche a Pistoia». Rifacendosi all’opuscolo di Maria Antonietta Macciocchi pubblicato nello stesso anno da «Noi Donne», nell’articolo si condannavano «la stampa a fumetti, le riviste di “vicende vissute” romanzi semipornografici, oroscopi, e “piccola posta”, le riviste di “sesso”, i giornali di “cinema”», la musica e il ballo, colpevoli di distrarre i giovani militanti dai loro compiti di lotta politica. Ma, nelle zone dove le strutture del Partito erano più profondamente integrate nella vita della comunità (e questo è il caso di Tobbiana), queste stesse strutture offrivano ai ragazzi degli spazi che avrebbero finito per favorire proprio la formazione e la diffusione dei nuovi interessi culturali.

 

Se dal centro le direttive ufficiali erano quelle di una condanna delle riviste, della musica e del ballo, in periferia i dirigenti delle sezioni del Partito si comportavano in maniera molto più elastica e, in fin dei conti, al di là dei proclami ufficiali, non erano poi così ostacolati dalla stessa dirigenza del Partito. Nel caso della costruzione del Dancing la Roccia, infatti, gli attivisti tobbianesi furono sostenuti dalla Federazione del Pci di Pistoia, senza che dai “piani alti” giungessero proteste di sorta.

 

Per questi adolescenti comunisti, la casa del popolo significava quindi musica, balli e corteggiamenti. Certamente, per i giovani era il divertimento a prevalere sull’impegno politico, al contrario di quanto accadeva per la generazione dei loro genitori. Ma sarebbe sbagliato credere che le “nuove leve” si disinteressassero della dimensione politica: infatti, anche l’organizzazione di eventi a prima vista ricreativi era un modo di fare politica.  C’era infatti chi si offriva volontario come barista o guardarobiere durante le feste al Dancing la Roccia; inoltre, i ragazzi si occupavano anche della distribuzione della stampa di partito e dell’affissione dei manifesti elettorali, scongiurando così le paure della dirigenza. Insomma, pur non rinnegando la loro fede politica “rossa”, i giovani militanti tobbianesi amavano il ballo, le canzonette e le riviste di fotoromanzi: li avevano conosciuti proprio lì, in paese, alla casa del popolo. La casa del popolo di Tobbiana era dunque finita per diventare (analogamente a tante altre realtà simili in provincia) il centro della propagazione della nuova cultura giovanile locale.

Daniela Faralli si è laureata all’Università di Firenze in storia contemporanea, con una tesi sulle case del popolo negli anni ’50 e ’60.