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Il Partito comunista italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento

Un legame inscindibile. Non può essere definita altrimenti la connessione storica tra Livorno e il Partito comunista italiano, tutt’oggi percepibile nonostante l’epilogo dettato tra il novembre 1989 e il febbraio 1991 dalla svolta della Bolognina. Uno spazio politico, amministrativo e sociale che la mostra organizzata dall’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Livorno (Il Pci a Livorno. Dal dopoguerra allo scioglimento) ha saputo intelligentemente ricostruire, regalando uno spaccato trasversale di quello che il Pci ha rappresentato per la vita repubblicana della città labronica.

Al lavoro di Catia Sonetti, Erika Schiano e Michela Molitierno sono certamente attribuibili vari meriti, in particolare quello di aver riassunto la correlazione tra la storia del partito e la storia del lavoro nella scelta di installare i pannelli all’interno di appositi container portuali. Estrapolata da un’ipotetica cornice museale, la mostra – itinerante e composta da 350 foto – è stata così capace di accentuare ulteriormente uno spazio di rappresentazione orizzontale, lontano dal verticismo istituzionale e concentrato sulla dimensione di piazza e sulla partecipazione della base militante.

241334402_447766106962840_1613773604018022445_nA ciò si sommano altri due aspetti su cui mi vorrei brevemente soffermare. In primo luogo, la valorizzazione della fotografia come documento storico. Gli scatti inseriti nella mostra, per larga parte inediti e provenienti dal fondo Pci dell’Archivio Istoreco e dagli archivi privati di Antonio Brugnoli e Roberto Leonardi, risultano imprescindibili nel consegnare un’impressione più chiara della popolarità, della militanza e dell’evoluzione politica del partito. E ciò tanto per il loro impatto visivo, quanto per il messaggio da essi veicolato. Come sottolineato nell’introduzione al Catalogo da Catia Sonetti, «guardare queste immagini ci [trasmette]» la «percezione precisa del cambiamento sociale, […] antropologico, che ha vissuto il nostro Paese: dai volti di donne e uomini degli inizi del secondo dopoguerra, magri, severi, con i bambini che si fanno carico […] di manifestare con i loro abiti dismessi […], alle immagini degli ultimi decenni di questa storia, con i volti più sorridenti, […] più patinati, […] più televisivi»[1].

Allo stesso tempo, è possibile osservare i frammenti dei cortei o delle adunate come «eventi fotografici»[2] in grado di mostrare il frutto delle scelte compositive dell’autore e la crescente importanza rivestita sul piano proselitistico dalla componente mediatica. Ciò è particolarmente evidente in una delle sei sezioni che compongono la mostra, quella denominata Vita di Partito[3]: ai meravigliosi manifesti ideati da Oriano Niccolai si sommano una serie di scatti capaci di enfatizzare volutamente aspetti specifici dell’universo comunista, dalla “democraticità” delle sezioni[4] alla presenza femminile nelle attività organizzative, passando per le calche durante i comizi e i flussi di militanti (con una particolare attenzione riservata ai più giovani) diretti verso le Feste de l’Unità.

Il secondo punto concerne invece l’importanza dell’infografica elettorale posta all’inizio della mostra. La ricchezza dei dati esposti (dalle amministrative alle politiche) apre invero ad una duplice possibilità: da un lato, quella di valutare l’impatto dei processi nazionali sul piano locale; dall’altro, il peso giocato sulle percentuali dall’intreccio politico cittadino. A ben vedere, il risultato – tra i picchi dell’immediato secondo dopoguerra e la stabilizzazione sopra al 50% degli anni 1976-1987 – mostra una solidità evidente e un’area di riferimento assai vasta, protesa ad andare ben oltre lo «zoccolo duro della base» e a mettere in evidenza l’egemonia giocata dal partito sul versante sociale, politico e culturale della città. Se questa lente bifocale si riflette sulle foto nelle diverse istanze rivendicative (dalla trasformazione delle tematiche occupazionali alle grandi questioni internazionali) e nell’impatto sempre più tangibile della società dei consumi, dal punto di vista statistico può quindi aiutarci a valutare l’incidenza sul contesto labronico del clima del 1948, della crisi del 1956 o delle conseguenze del 1968-1969, fino alla grande stagione di crescita collocabile attorno alla metà degli anni Settanta. A rifletterlo sono altresì i manifesti elettorali e i volantini propagandistici che si alternano alle istantanee, contribuendo a proiettare sui visitatori anche la portata iconografica delle istanze rivendicative ed elettorali.

Attraverso questa molteplicità di aspetti, pertanto, la mostra Il Pci a Livorno ci fornisce un prezioso strumento di analisi e di riflessione. Esperimento unico sul piano regionale, quello avanzato dalle curatrici è stato un tentativo di andare oltre il centenario del Partito comunista d’Italia, così da collocarne le vicende in una cornice di problematizzazione storiografica distante da eventuali letture politicizzate. Un percorso a cui si è aggiunta anche la pubblicazione del volume Pci in Toscana dalla liberazione allo scioglimento. Racconto per immagini (ETS, Pisa 2021), tracciando il pregevole impegno dell’Istoreco Livorno nel ripercorrere con piglio esegetico la narrazione politica predominante sul piano regionale e la sua declinazione su versanti anche poco esplorati come quello sportivo[5].

In sintesi, l’obiettivo posto alla base del progetto può dirsi perciò pienamente raggiunto. Ovvero, quello di dare voce alle immagini per creare un autentico spazio di riflessione, favorendo un supporto reciproco tra storia e memoria (arricchita dagli appuntamenti organizzati nel corso della mostra)[6] oramai sempre più imprescindibile per ipotizzare risposte concrete e formulare al presente le giuste domande.

[1] C. Sonetti (a cura di), Il Partito comunista a italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento. Catalogo della mostra, Istoreco Livorno, Livorno 2021, p. 8.

[2] Cfr. A. Mignemi, Lo sguardo e l’immagine. La fotografia come documento storico, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

[3] Le altre cinque sono: Lavoro, Battaglie civili, Pace e questione internazionale, Feste de l’Unità e Sport.

[4] Si veda ad esempio la foto a pagina 82 in: C. Sonetti (a cura di), Il Partito comunista a italiano a Livorno, cit.

[5] Tra le altre iniziative riconducibili al centenario, si ricordano la pubblicazione del volume La vicenda non comune di un militante comunista. Bruno Bernini e le sue carte, scritto da Catia Sonetti e da Michela Molitierno, e il convegno Storia generale e percorsi biografici tra stalinismo e antistalinismo, che si terrà online il prossimo 10 dicembre (2021) e conterà sugli interventi di Antonella Salomoni, Alexander Höbel, Patrick Karlsen, Anna Tonelli e Claudio Rabaglino.

[6] Il 23 settembre, in Piazza Saragat, si è tenuto l’appuntamento Feste de l’Unità: il racconto dei protagonisti e osservatori, durante il quale Catia Sonetti e Michela Berti hanno dialogato con Maurizio Paolini e Claudio Seriacopi. Ha fatto poi seguito l’incontro del 30 settembre, Il Porto e il lavoro a Livorno tra passato e futuro, quando al Palazzo del Portuale è stata allestita una tavola rotonda che ha coinvolto Luciano Guerrieri, Enzo Raugei, Gianfranco Simoncini, Catia Sonetti e Fabrizio Zannotti.




Il governatore, il prefetto e il delegato.

Il tema delle sanzioni contro il fascismo è stato ampiamente studiato nel corso dei decenni scorsi, mettendo in risalto soprattutto gli elementi di continuità organica e istituzionale dello Stato italiano, oltre al sostanziale fallimento dei vari provvedimenti di legge adottati, privilegiando uno sguardo dall’alto e di ricostruzione politica degli eventi[1]. Nell’arco degli ultimi anni l’attenzione degli storici si è spostata sull’analisi dei soggetti attivi e passivi di questo passaggio fondamentale per la storia italiana, oltre che sul loro bagaglio culturale e sulle modalità performative del fenomeno, con l’obbiettivo di uscire dalle secche storiografiche della cosiddetta “epurazione” quale il vulnus originale del sistema democratico italiano[2]. Se ci accostiamo ad un caso esemplificativo come quello della provincia di Livorno è piuttosto immediato cogliere le ragioni di questo cambio di rotta nei lavori sul tema, a dimostrazione che la transizione non fu affatto solo, e fin da subito, una «burletta»[3]. Alla luce di tutto ciò prenderò in esame le tre figure che gestirono, con tempi e modi diversi, la defascistizzazione livornese: il tenente colonnello statunitense John F. Laboon, governatore alleato della provincia di Livorno tra l’estate del 1944 e la primavera 1945; il prefetto di carriera Francesco Biagio Miraglia, inviato a Livorno direttamente da Roma nell’agosto del 1944; e il delegato provinciale dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo, l’avvocato ebreo e comunista Ugo Bassano.

Il tenente colonnello Laboon era un ingegnere civile militarizzato all’indomani dell’invasione dell’Italia, col preciso compito di doversi occupare della riorganizzazione logistica e amministrativa delle provincie appena liberate. Le sue presunte capacità nel settore derivavano dal fatto che aveva occupato diversi incarichi di responsabilità manageriale sia all’interno del sistema ferroviario della Pennsylvania sia come dirigente regionale della Work project administration, l’agenzia più importante per l’assistenza ai disoccupati e la rimessa in ordine dell’economia americana nell’ambito del New Deal. Prima di giungere a Livorno era stato brevemente governatore della città di Foggia e della provincia di Pescara, ripristinando in breve tempo le funzionalità del porto della città adriatica. Cattolico particolarmente devoto – dei 6 figli ben 4 abbracciarono la vita religiosa[4] – cercò di ostacolare in tutti i modi i partiti di sinistra orbitanti nel Comitato provinciale di Liberazione Nazionale (Cpln) di Livorno, accusandoli di essere la causa di ogni genere di disordine sociale presente sul territorio di sua competenza[5]. Questo dato è fondamentale da tenere in considerazione poiché il suo arrivo a capo del territorio toscano corrispose ad una netta inversione di tendenza da parte della Commissione Alleata di Controllo (Acc) in materia di defascistizzazione. Secondo gli Alleati, visti i pessimi risultati dei loro tentativi di bonifica dell’amministrazione pubblica nell’Italia meridionale, questo tema doveva essere gestito dal governo cobelligerante italiano, quello di Roma per intendersi, con un supporto esterno da parte degli enti di governo degli Alleati[6]. In prima battuta, quindi, la questione relativa all’allontanamento degli ex fascisti dai posti di lavoro doveva passare dalle mani dei prefetti, figure istituzionali gradualmente reinsediate al vertice delle province dal governo italiano nelle settimane successive alla liberazione dei capoluoghi. Inoltre Laboon si trovò a doversi confrontare con la defascistizzazione livornese all’indomani della pubblicazione del Decreto Legislativo Luogotenenziale (Dll) 27 luglio 1944, n. 159, quello che è stato giustamente definito la «Magna Charta delle sanzioni contro il fascismo»[7]. Per cui, rispettando le indicazioni che ricevettero in agosto i governatori militari alleati delle province italiane liberate, egli fece completo affidamento sul prefetto Miraglia, ammonendolo di iniziare con «urgenza»[8] l’epurazione amministrativa, al fine di tenere a bada l’ordine pubblico[9].

Il prefetto Francesco Biagio Miraglia

Il prefetto Francesco Biagio Miraglia

Miraglia giunse a Livorno nemmeno un mese dopo la liberazione della città, il 12 agosto 1944, toccando con mano il profondo stato di distruzione materiale e morale dell’intero territorio labronico. In un appunto per un collega di poche settimane più tardi espresse tutta la sua rassegnazione per la realtà nella quale era stato catapultato, lui che aveva trascorso quasi tutta la carriera tra gli uffici del Ministero dell’Interno. Miraglia era nato nel 1894 a Castrovillari (Cs), aveva partecipato alla Prima guerra mondiale e si era laureato nel 1919 in giurisprudenza. L’anno dopo era risultato vincitore del concorso per vicecommissari di polizia, salvo transitare quasi subito alla carriera prefettizia. Svolse i primi incarichi da consigliere di prefettura nelle sedi di Voghera, Cosenza e Reggio Calabria. Nel 1927 fu chiamato a lavorare presso il Ministero, dove nel 1941 divenne direttore generale del personale e, nel 1943, ispettore generale. Quest’ultima promozione coincise con la sua nomina a prefetto di 2ª classe, senza avere il tempo per poter esercitare l’incarico a causa della fine del regime fascista e dell’armistizio. Dopo la fuga del re e del governo da Roma, fu tra quei funzionari che rimasero in servizio al Viminale fin quando non venne chiesto loro di prestare giuramento alla Repubblica sociale italiana (Rsi) e prepararsi al trasferimento verso nord. Al suo rifiuto di collaborare con le autorità repubblicane corrispose il collocamento a riposo d’ufficio. In contatto con il fronte resistenziale romano durante tutto l’inverno 1944, la mattina del 4 giugno ricevette l’ordine di tornare subito in servizio e occuparsi della riorganizzazione del Ministero dell’Interno per preparare il ritorno in sede del governo italiano, fino ad allora a Salerno[10]. Miraglia si era dimostrato piuttosto freddo verso il regime fascista, nonostante l’adesione formale e il tesseramento al Partito nazionale fascista (Pnf), perciò l’Acc e lo stesso Ivanoe Bonomi, presidente del Consiglio e ministro degli Interni ad interim, lo selezionarono per andare a dirigere la provincia toscana, una delle più importanti per i piani strategici degli Alleati. Va detto che questa “restaurazione” nei ruoli dirigenziali della periferia non escludeva il fatto che il personale prefettizio fosse messo politicamente sotto esame per escludere la presenza di evidenti compromissioni con l’ex regime di governo. Le regole erano le stesse che valevano per l’epurazione delle altre categorie di funzionari statali, per cui era sufficiente che i prefetti non godessero di benemerenze fasciste, come l’essere stati squadristi o aver partecipato alla Marcia su Roma, e non avessero aderito alla Rsi. Non veniva presa in considerazione l’effettiva partecipazione del dirigente alla vita pubblica del fascismo – che era innegabile dato che costoro avevano ricoperto i maggiori ruoli di responsabilità nel meccanismo dello Stato fascista, come esemplificato dalla biografia di Miraglia – per una ragione sia pratica che politica. Per il governo italiano cobelligerante i prefetti rappresentavano l’ossatura dello Stato unitario, perciò, soprattutto nelle condizioni in cui versava l’Italia liberata dell’estate 1944, la loro presenza era considerata come l’unica in grado di garantire la sopravvivenza della nazione[11]. Il 5 settembre, in seguito all’invito del governatore Laboon di occuparsi dell’epurazione, il prefetto firmò una circolare diretta a tutti gli enti locali per informarli sul contenuto del Dll 27 luglio 1944 n. 159, e, in particolare, su che cosa fosse stato previsto per l’allontanamento di alcune categorie di ex fascisti dalle pubbliche amministrazioni, come gli squadristi o i collaborazionisti. Ciò che emerge dai carteggi tra Miraglia e i singoli enti per approvare, o rigettare, le sospensioni – che furono oltre 80 solo nel primo mese di entrata in vigore del Dll, raddoppiando alla fine dell’inverno successivo – risulta che il prefetto considerasse la questione epurativa come estremamente chiara. Secondo lui, ma ritengo che si possa giustamente estendere questa considerazione a molti funzionari pubblici che esercitarono ruoli di responsabilità in quel determinato frangente storico, dal momento che esistevano delle norme nazionali che regolavano un tema così delicato come quello delle sanzioni agli ex possessori di titoli onorifici del regime, l’unica scelta possibile per coloro che erano chiamati a gestire il complesso processo di defascistizzazione era applicare le regole così come erano scritte[12].

Ovviamente, il lavoro di Miraglia era solo preliminare, visto che non si trattava di entrare nel merito dei singoli casi, giudicarli e comminare una pena. Per questo passaggio, sempre sulla scorta del Dll 27 luglio 1944, n. 159 era stato creato l’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo con le sue ramificazioni provinciali, le delegazioni provinciali. A capo di quella livornese venne posto l’avvocato ebreo e comunista Ugo Bassano, già consigliere giuridico del Cpln ed elemento di collegamento con il governo militare alleato (Amg) diretto da Laboon. Il suo profilo biografico è piuttosto illuminante della sua personalità: proveniente da una famiglia dell’antica borghesia ebraica livornese, si era laureato in giurisprudenza nel 1931, iniziando da subito ad a fare l’avvocato. Nel 1938, in seguito all’emanazione delle leggi razziali, fu privato della possibilità di esercitare in proprio, venendo assunto da un altro avvocato ebreo livornese, Giuseppe Lumbroso, che si era convertito al cattolicesimo nel 1936 ed aveva ottenuto la “discriminazione” per poter continuare con la professione. Questo lavoro semiclandestino si adattava male ad una mente brillante come la sua, perciò accettò una borsa di studio per trasferirsi a Washington ed approfondire così gli studi in legge. Lo scoppio della Seconda guerra mondiale gli precluse la strada dell’espatrio, costringendolo a rimanere a Livorno fino alla primavera del 1943. In questo periodo, grazie ad un incontro casuale con Lanciotto Gherardi – futuro commissario politico livornese –, si avvicinò al Partito comunista italiano (Pci), rimanendo comunque appartato anche dopo l’8 settembre per la sua appartenenza religiosa. Non prese parte attiva alla lotta clandestina e si trovò a vagare senza meta per la Toscana durante i mesi dell’occupazione nazifascista[13]. In base a quello che ho precedentemente detto del rapporto tra Laboon e il Cpln è naturale chiedersi come mai una figura come quella di Bassano venne scelta per gestire fattivamente la defascistizzazione livornese. A mio avviso per due ragione: la prima di ordine politico, e riguarda i mesi della prima crisi del governo Bonomi, con l’uscita dal governo di socialisti e azionisti e la tenuta dei comunisti[14]; l’altra, di tipo pratico, riguarda il fatto che Bassano si dimostrò particolarmente affidabile e degno di fiducia agli occhi di Laboon e Miraglia nei sui compiti precedenti di collegamento tra l’Amg, la prefettura e il Cpln[15]. La nomina ufficiale di Bassano a delegato provinciale dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo avvenne il 19 dicembre, e fu accompagnata da una lettera da parte dell’Alto commissariato aggiunto per l’epurazione, il comunista Mauro Scoccimarro, che gli intimò di «iniziare immediatamente […] un’oculata istruttoria ai fini del giudizio di epurazione»[16] per tutte le pubbliche amministrazioni della provincia. Il suo compito, così come definì lui stesso alcune settimane più tardi in un’intervista per il neonato quotidiano livornese «Il Tirreno», era quello di «un Pubblico Ministero che prende le sue decisioni, ma non fa parte del Tribunale»[17]. I giudizi finali, infatti, sarebbero spettati ad un’apposita commissione presieduta da un magistrato togato, coadiuvato da un membro scelto dalla delegazione e uno di nomina prefettizia. Oltre ad occuparsi delle sole sanzioni amministrative, Bassano, in virtù delle revisioni alla legislazione sulle sanzioni contro il fascismo, seppe gestire anche le sanzioni di tipo fiscale, le cosiddette indagini sugli “illeciti arricchimenti”, e quelle di tipo penale, vale a dire le indagini sui “crimini fascisti”, rendendo la delegazione provinciale la vera e unica macchina della defascistizzazione della periferia livornese[18].

Ugo Bassano

Ugo Bassano

Questa breve analisi su tre delle figure principali della defascistizzazione livornese, vale a dire il primo governatore alleato della provincia, il prefetto e il delegato dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo permette, a mio parere, di cogliere alcuni dati fondamentali. In primo luogo, l’importanza delle biografie di coloro che gestirono fattivamente il passaggio dal fascismo alla democrazia all’indomani della Liberazione in periferia, oltre ai loro legami personali e ai differenti rapporti di forza, e appartenenza, politica. Secondariamente, la complessità di un fenomeno in continuo divenire e che si dovette confrontare con la relativa “fascistizzazione” dei territori, le ferite dello squadrismo (1919-1922) e della guerra civile (1943-1945). Tutto ciò dimostra quanto sia importante non limitarsi a giudicare la transizione solo sulla base degli effetti di precise scelte politiche, come l’amnistia del 22 giugno 1946, bensì cercare di andare oltre alle perplessità verso il «colpo di spugna sui crimini fascisti»[19] e cogliere quelle continue tensioni tra continuità e innovazione, teoria e prassi, centro e periferia, che segnarono l’avvio dell’esperienza repubblicana in Italia[20].

 *Giovanni Brunetti (Cecina, 1997) è laureato magistrale in Storia e Civiltà presso l’Università di Pisa (maggio 2021), dove ha conseguito anche la laurea triennale in Storia (giugno 2019). Attualmente sta frequentando il biennio 2019-2021 della Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Firenze. Dottorando del XXXVII⁰ ciclo di studi (2021-2024) in Scienze archeologiche, storico-artistiche e storiche presso l’Universita degli Studi di Verona.

[1] Cfr. C. Pavone, La continuità dello Stato, in Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, Torino, 1995, pp. 70-159 (ed. or. 1974); M. Flores, L’epurazione, in G. Quazza (a cura di), L’Italia dalla Liberazione alla Repubblica, Feltrinelli, Milano, 1976, pp. 413-467; L. Mercuri, L’epurazione in Italia (1943-1948), L’arciere, Cuneo, 1988; R. P. Domenico, Processo ai fascisti (1943-1948). Storia di un’epurazione che non c’è stata, Rizzoli, Milano, 1996 (ed. or. 1991); H. Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia 1943-1948, il Mulino, Bologna, 1997 (ed. or. 1996); R. Canosa, Storia dell’epurazione in Italia. Le sanzioni contro il fascismo 1943-1948, Baldini&Castoldi, Milano, 1999.

[2] Cfr. G. Focardi e C. Nubola (a cura di), Nei tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italiana repubblicana, il Mulino, Bologna, 2015; C. Nubola, P. Pezzino, T. Rovatti, Giustizia straordinaria tra fascismo e democrazia. I processi presso le Corti d’assise e nei tribunali militari, il Mulino, Bologna, 2019; A. Martini, Dopo Mussolini. I processi ai fascisti e ai collaborazionisti (1944-1953), Viella, Roma, 2019.

[3] A. Galante-Garrone, Il fallimento dell’epurazione: perché?, in R. P. Domenico, Processo ai fascisti, cit., pp. 11-15.

[4] Uno di questi era l’omonimo John F. Laboon, ufficiale sommergibilista durante la Seconda guerra mondiale e cappellano militare nella Guerra del Vietnam. Cfr. R. Gribble, Navy Priest: The Life of Captain Jake Laboon, The Catholic University of America Press, Whashington D.C., 2015.

[5] Sono piuttosto illuminanti in questo senso le relazioni di Laboon presenti in R. Absalom (a cura di), Gli Alleati e la ricostruzione in Toscana (1944-1945), voll. I-II, Olschki, Firenze, 2001, in part. pp. 227-228.

[6] Cfr. N. Gallerano, L’influenza dell’amministrazione militare alleata sulla riorganizzazione dello Stato italiano (1943-1945), in M. Legnani (a cura di), Regioni e Stato dalla Resistenza alla Costituzione, il Mulino, Bologna, 1975, pp. 103-104; D. W. Ellwood, L’alleato nemico. La politica di occupazione degli anglo-americani in Italia 1943-1945, Feltrinelli, Milano, 1977, pp. 240-245; H. Woller, I conti con il fascismo, cit., pp. 217-218.

[7] H. Woller, I conti con il fascismo, cit., p. 193.

[8] ASLi, Prefettura, b. 168 «Epurazione Enti locali (1944-1946)», fasc. 1 «Massime», Lettera di Laboon per il prefetto Miraglia (1° settembre 1944).

[9] Nella primavera 1945, terminata l’esperienza di governatore in Italia, Laboon venne rimpatriato negli Usa dopo un breve incarico in Austria. Tornato alla vita civile si dedicò della gestione del sistema idraulico della contea di Allegheny, in Pennsylvania, pur continuando a mantenere un canale di comunicazione con Livorno grazie alle ripetute donazioni in favore degli enti religiosi assistenziali della provincia. Cfr. John Laboon… Honoray Citizen, «The Pittsburgh Press», May 22, 1955; John F. Laboon, «Pittsburgh Post-Gazette», December 10, 1985.

[10] Cfr. G. Tosatti (a cura di), L’ombra del potere. Biografie di capi di gabinetto e degli uffici legislativi, Icar, giugno 2016, pp. 160-161; G. Miraglia, Riorganizzare lo Stato alla liberazione di Roma (4 giugno 1944). Un documento dell’archivio del prefetto Francesco Miraglia, «Sintesi dialettica per l’identità democratica. Rivista online a carattere scientifico», n. 4, 06/2007 http://www.sintesidialettica.it/index.php (consultato il 26 settembre 2021).

[11] Nel caso della provincia di Firenze, ad esempio, il Comitato toscano di Liberazione Nazionale (Ctln) aveva deliberatamente evitato di nominare un proprio prefetto dopo la liberazione. Questo non certo perché si attendesse una designazione da Roma, bensì perché appariva controproducente ripristinare la figura al vertice di quel governo periferico che si pensava sarebbe stato riformato alla fine della guerra. Era evidente infatti che, se fosse stato scelto anche un prefetto di estrazione politica, e avesse svolto tutte le funzioni tipiche del suo ruolo, si sarebbe data l’opportunità al governo di provvedere, anche in un secondo momento, al ripristino del modello tradizionale di controllo centro-periferia. Cfr. A. Cifelli, L’istituto prefettizio dalla caduta del fascismo all’Assemblea costituente. I Prefetti della Liberazione, Ssai, Roma, 2008, pp. 106-111; M. De Nicolò, L’epurazione “interna”: l’istituto prefettizio, in M. De Nicolò e E. Fimiani (a cura di), Dal fascismo alla Repubblica: quanta continuità? Numeri, questioni, biografie, Viella, Roma, 2019, pp. 21-45.

[12] Come ha ampiamente dimostrato Mariuccia Salvati, il caso di Miraglia non era certamente unico, né un gesto di semplice opportunismo, quanto piuttosto l’esempio dell’appartenenza ad una specifica cultura amministrativa fortemente legalitaria e garantista che, solo inizialmente, era stata anche contrastata dalla rivoluzione fascista. Cfr. M. Salvati, Il regime e gli impiegati. La nazionalizzazione piccolo-borghese nel ventennio fascista, Laterza, Bari-Roma, 1992, pp. 10-12. Vedi anche G. Melis, La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista, il Mulino, Bologna, 2018.

[13] Cfr,. L. Savelli, Il percorso dei Bassano, in M. Luzzati (a cura di), Ebrei di Livorno tra due censimenti (1841-1938). Memoria familiare e identità, Belforte, Livorno, 1990, pp. 77-85.

[14] La spaccatura nel primo esecutivo nazionale del Cln si originò attorno al tema dell’epurazione nella pubblica amministrazione. Da un lato c’erano i socialisti e gli azionisti, che spingevano per una manovra radicale che garantisse l’estirpazione di ogni residuo di fascismo dagli uffici pubblici, dall’altra la moderazione dei liberali e democristiani che, invece, ritenevano già fin troppo energica l’azione del governo italiano con la promulgazione del decreto di luglio. Tra i due contendenti stava il Pci con Togliatti che vedeva in questa crisi la prima concreta possibilità del crollo del fronte ciellenistico. La fine del governo Bonomi non avrebbe significato, per i comunisti, solo la perdita di qualche poltrona, ma di quella legittimità per poter rimanere alla guida del paese e non essere più tacciati come dei fuorilegge. Cfr. R. P. Domenico, Processo ai fascisti, cit., p. 147; H. Woller, I conti con il fascismo, cit. pp. 260-282.

[15] Bassano era laureato e parlava piuttosto bene l’inglese e il francese, così come Furio Diaz, il giovane sindaco comunista del capoluogo dal 1944 al1954. Questi aspetti legati alle personalità dei singoli potrebbero apparire come del tutto secondari rispetto agli importanti ruoli che rivestirono, ma sappiamo da testimonianze coeve come furono fondamentali ai fini di scardinare ogni pregiudizio politico su di loro. Cfr. L. Piazzano, Leghorn decimo porto. Cronaca di un dopoguerra 1944-1947, Debatte, Livorno, 1979, p. 22; G. C. Falco, Le giunte Diaz e la ricostruzione a Livorno, in «Nuovi studi livornesi», vol. XX (2013), pp. 67-130, in part. pp. 68-69.

[16] ASLi, Prefettura, b. 168 «Epurazione Enti locali (1944-1946)», fasc. 1 «Massime», sottofasc. 1 «Delegato provinciale», Lettera di nomina di Bassano (19 dicembre 1944).

[17] R. Miglietta, L’epurazione a Livorno (nostra intervista con l’Avvocato Bassano), «Il Tirreno», 27 febbraio 1945.

[18] Per una trattazione puntuale ed approfondita mi permetto di rimandare al mio lavoro Dio non paga il sabato. La defascistizzazione della provincia di Livorno (1943-1947), tesi di laurea magistrale in Storia e Civiltà, Università di Pisa, rel. Prof. Gianluca Fulvetti, aa. 2019-2020.

[19] M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti. 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Mondadori, Milano, 2006.

[20] Sebbene con una chiave interpretativa diversa e rivolta all’analisi dei processi per i crimini di guerra cfr. L. Baldissara, Sulla categoria di “transizione”, «Italia contemporanea», n. 254, 2009, pp. 61-74.




La mostra “Il Partito comunista italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento”

Una mostra sul Pci a Livorno. Perché siamo nel centenario? Anche. Perché è stato il partito egemone nella città e nella provincia di Livorno fino ed oltre il suo scioglimento? Certamente. Perché è stato uno dei protagonisti della vicenda politica, sociale e culturale del secolo scorso, e non solo nel panorama italiano? Di sicuro.

Ma anche per altre ragioni, intrinseche al ruolo e agli scopi di un Istituto come l’Istoreco.  Al primo posto metterei la conservazione e la cura del patrimonio documentale di un partito politico. Custodia e cura che non potevano però prescindere dalla sensibilità di alcuni dei suoi protagonisti. Mi riferisco in particolare all’ex segretario di federazione dei DS, Marco Ruggeri, che ci affidò l’archivio della Federazione molti anni or sono. Perché le carte che raccontano una storia non vanno solo prodotte, vanno anche conservate e, quando è possibile, anche affidate ad istituti od enti terzi, penso ad istituti come il nostro o agli stessi archivi di Stato provinciali, che le possono valorizzare e che sono capaci di renderle disponibili a tutti per la ricerca e la consultazione. Lo stadio successivo della loro conservazione è svilupparne le potenzialità, digitalizzarle e renderle fruibili al pubblico più vasto tramite la rete. Sono operazioni che richiedono competenze specifiche, passione, e risorse economiche, ma non ultimo anche armadi idonei alla conservazione.

L’Istoreco di Livorno ha fatto una parte di questo cammino grazie all’aiuto di molti, soprattutto della Regione Toscana e della Fondazione Gramsci di Roma, appoggiato in questa operazione dalla sensibilità della Sovrintendenza archivistica della Toscana.

Il centenario ci ha indotto a proporre una Mostra che rappresenta in sintesi una specie di percorso di lettura dentro gli anni che vanno dal 1944 al 1991, cioè dalla Liberazione della città labronica allo scioglimento di quella compagine politica. Il nostro archivio conserva anche carte successive a quel periodo, relative alle successive evoluzioni di quella compagine politica. Ma abbiamo deciso di dedicarci alla componente più omogena del nostro deposito. Quello che viene dopo è un’altra storia.

E così abbiamo deciso di organizzare questa proposta proprio nell’anno dell’anniversario. Poiché il 1921, l’anno della fondazione del Pcd’I, partito fondato fra l’altro, e non è del tutto casuale, proprio nella città di Livorno, questa operazione c’è apparsa ancora più appropriata.

Abbiamo optato per questo mezzo comunicativo che ha dei limiti enormi. Il primo immediatamente evidente a chiunque, è l’impossibilità di proporre un approfondimento, un percorso critico ben sviluppato e appoggiato alla enorme bibliografia esistente, ma che ha pure il vantaggio assolutamente non trascurabile di diventare una narrazione facile da comprendere, emozionante, ma anche ricca di dettagli. Del resto l’Istoreco, in questo anno reso difficile dal Covid ha organizzato significativi momenti seminariali di approfondimento[1], prodotto e pubblicato un volume su una figura di assoluto rilievo, come quella di Bruno Bernini[2], presentato volumi su questa storia.[3] Non solo. Sta organizzando da adesso alla fine dell’anno, altri appuntamenti, diciamo più tradizionali, per riflettere insieme agli addetti ai lavori, su quella vicenda. Appuntamenti nei quali dare la preminenza all’indagine storiografica e alle ultime acquisizioni della ricerca.

Ma la decisione di ricorrere ad una Mostra, cioè ad un mezzo che fosse ricco di immagini, di fotografie di militanti che potessero ancora oggi riconoscersi, di documenti di archivio come volantini e manifesti, legati alla storia del Pci ma anche alla storia di questa città, c’è apparso il mezzo più immediato, quello più suggestivo, ma anche in qualche modo anche quello più democratico, che provasse ad avvicinare tutti, gli esperti ed i giovani estranei a quella vicenda, i vecchi militanti e gli indifferenti, perché quella vicenda prendesse l’aspetto della vita vissuta, prendesse la forma dei volti e dei corpi che occupavano le piazze, che lanciavano slogan, che discutevano nelle sezioni.

Appena ci siamo messi in cammino per la sua realizzazione, realizzazione per la quale abbiamo trovato talvolta anche aiuti insperati, siamo stati avvicinati da due fotografi-militanti o militanti-fotografi (Roberto Leonardi e Antonio Brugnoli) che hanno arricchito la nostra proposta mettendoci a disposizione la loro raccolta iconografica.

Una Mostra, come è ovvio e, come ha scritto anche con senso poetico, l’assessore alla Cultura di Livorno, Simone Lenzi, è anche un’operazione che si caratterizza per leggerezza[4]. Ma sempre seguendo il suo ragionamento, accanto alla leggerezza del linguaggio, si accosta la pesantezza del contenitore, dei containers. Simbolo per eccellenza del lavoro in una città che è stata sempre ancorata al porto e a tutte le attività che si svolgono sulle sue banchine. Non casualmente l’appoggio più significativo l’abbiamo trovato proprio fra i soggetti che vivono e lavorano sul porto. Ma la Mostra non si sarebbe realizzata senza la compartecipazione generosa del Comune di Livorno. Quindi il nostro è il risultato di uno sforzo collettivo, di privato e pubblico, di istituzionale e personale. Tutti insieme, noi che ci abbiamo lavorato, chi ci ha dato un contributo in lavoro e mezzi, chi in denaro, a tutti quei volontari che si sono messi a disposizione per abbassare i costi dell’allestimento, va il nostro più sentito ringraziamento. L’operazione però cosa ci insegna? Che li singoli, i soggetti economici e istituzionali, sono stati disponibili, ad affiancare un’operazione di questo tipo perché hanno compreso che era una operazione culturale, con nessun retro pensiero nostalgico, né tantomeno una laudatio temporis acti, ma una iniziativa che voleva innescare una discussione sul nostro passato e sul nostro presente. Un presente così deficitario dal punto di vista politico, nel quale ognuno di noi, ogni cittadino democratico, avrebbe piacere di ritrovare un filo rosso che capace di proporre un progetto di futuro, un orizzonte di convivenza civile meno violento e più solidale, da tutti i punti di vista. E che dentro questo progetto ci sia uno sguardo e un impegno per ridare piena dignità al mondo del lavoro, quel lavoro così pesantemente attaccato dalla precarietà e dalla insicurezza, spesso incapace anche di riportare a fine turno, la vita, a casa.

E proprio perché questo ragionamento che sottostà in gran parte alla nostra proposta, abbiamo aperto la mostra proprio sul tema del Lavoro scrivendo:

“Non c’è agitazione industriale che non sia accompagnata dalla solidarietà delle organizzazioni di Partito e dall’intervento delle amministrazioni locali, governate da Pci, per una soluzione della vertenza, per il superamento della crisi. Come a dire: la piazza e la mediazione politica. Non sempre, come è ovvio, l’intervento e le agitazioni operaie e sindacali sono sufficienti a superare tutti gli scogli. Spesso le decisioni vengono prese altrove, in luoghi di potere lontani dall’influenza che quella compagine può esercitare.” L’altrove di adesso spesso è in un altro continente o in una Holding senza testa, apparentemente, perlomeno. Nelle nostre immagini sfilano migliaia di partecipanti in difesa dei diritti di chi lavora, dal Cantiere, alla Spica, dal Porto alla Motofides, dal lavoro nelle campagne alla denuncia del doppio lavoro delle donne.

Nella Mostra subito dopo il tema del Lavoro abbiamo messo la sezione sulle Battaglie civili, quelle battaglie che spesso non sono rappresentabili con facilità con una foto o  uno slogan, ma sono quelle nelle quali si sono realizzate le alleanze migliori. Per la riforma agraria, per una sanità pubblica, per il diritto di famiglia o la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Quelle battaglie che hanno reso più civile il nostro Paese, anche quelle dove il Pci non si è trovato in prima linea, pensiamo alla Statuto dei lavoratori che fu approvato con l’astensione dei suoi rappresentanti. Ma pensiamo anche a come in Toscana, a partire da Arezzo, Lucca, Volterra, si è combattuta quella grande battaglia civile per la chiusura dei manicomi o per il trionfo della legge sul divorzio e sull’aborto.

La sezione Vita di Partito, possiamo dire è quella più interna alle vicende di quel grande corpo sociale organizzato che fu il Pci.  Abbiamo scritto:

“Dalle grandi assisi con il ritratto di Stalin e di Togliatti che campeggiano su tutto, alle fotografie degli anni Settanta con le ragazze con i pantaloni a zampa d’elefante, con i volti degli uomini e delle donne meno austeri e più pieni (la fame dell’immediato secondo dopoguerra è solo un ricordo lontano).Le scuole di partito organizzate con poche cerimonie ma con molta partecipazione per una base di militanti e di quadri con un basso livello scolastico ma che dimostra un forte desiderio di conoscenza fino alle immagini più leggere che testimoniano un’idea di partecipazione diversa, l’emergere della dimensione del privato, di un impegno meno totalizzante rispetto a quello degli anni Cinquanta.”

Il mondo cambiava e cambiava anche il Pci dentro quell’Italia che aveva cominciato ad andare di corsa.

La sezione sulle Feste de l’Unità, è a nostro parere, quella più allegra e partecipata. Immagini di uomini e di donne che con orgoglio e caparbietà, rinunciando anche alle ferie, lavorano per costruire gli stands, per riempirli di persone, per proporre una immagine di sé e del partito, che incarnano l’idea di essere una grande forza di massa, partecipata e organizzata. Una vetrina per il mondo che sta intorno, per gli amici e i nemici. É anche la sezione dove emergono con forza, anche se non la sola, alcuni dei bellissimi manifesti disegnati dal grafico della Federazione livornese, Oriano Niccolai.[5] Un grande anche nel panorama nazionale.

La Mostra continua con altre due sezioni: quella sulla Pace e la questione internazionale e quella sullo Sport che chiude il nostro allestimento. Proviamo a soffermarci sulla prima che in questo momento, con le terribili notizie che provengono dall’Afghanistan, è di una attualità sconcertante. Poco dopo la fine del secondo conflitto mondiale, si aprirono altri scenari di guerra: la Corea, la guerra civile in Grecia, l’Indocina, i movimenti di liberazione negli ex paesi coloniali etc etc. Non solo. Gli uomini e le donne usciti salvi dalla guerra temevano più di tutto le armi atomiche. Il ricordo di Hiroshima e Nagasaki era evidentemente ancora vivo nei loro cuori e nelle loro teste per non destare preoccupazione. Ed era un sentimento che si rafforzava nelle file comuniste con un forte sentimento antiamericano. Quando ci fu l’attacco all’Afghanistan da parte dell’allora Unione Sovietica, non ci furono manifestazioni a favore della pace. Era un mondo bipolare e questa storia ce lo racconta anche nella sua dimensione periferica, quella di una provincia italiana del centro Italia. Ci racconta anche una capacità di mobilitarsi accanto ai popoli in lotta per la libertà, dalla Spagna di Franco all’Algeria del dominio francese, dalla Cuba prima di Castro alla lotta dei Viet-cong. Sicuramente spesso erano articolazioni di una posizione troppo filosovietica ma erano anche, e lo si vide a partire dai carri armati a Praga, l’espressione di un percorso autonomo di solidarietà e di convivenza che perlomeno albergava tra le masse, e non solo fra quelle comuniste. Era un sentimento che si esprimeva anche con gesti concreti di solidarietà, con l’impegno dato in prima persona. Un atteggiamento che raccontava la capacità di aprire le porte dell’accoglienza e rifiutava la logica della costruzione dei muri. Un atteggiamento che non considerava l’altro un “diverso”, uno straniero, ma che lo percepiva soltanto come una persona in difficoltà. Di questi tempi con le sirene di quelli che vorrebbero gettare a mare i richiedenti asilo, questa attitudine all’inclusione, ci manca.

La Mostra poi si chiude con una sezione importante ma anche allegra. La sezione dello Sport. Per rendere omaggio alla città più medagliata d’Italia, Livorno, per rendere omaggio alla rete di attività sportive promosse dall’organizzazione giovanile di quel partito, dalla rete dell’Uisp ai Circoli Arci, ai comitati delle gare remiere. Quella rete che promosse dall’interno di una sezione comunista, quella della Venezia, la Coppa di gara remiera intitolata ad Ilio Barontini, ardente antifascista, fuoruscito in Russia e in Francia, combattente di Spagna e molto altro ancora. Perché lo sport non è un modo qualsiasi di riempire il tempo libero e non ha valore per lo sforzo individuale. Lo sport è condivisione di valori, solidarietà praticata sul campo, impegno e disciplina, vita di comunità. È uno strumento ideale per avvicinare i giovani e coinvolgerli in un impegno a tutto campo; è uno strumento per allontanarli dalla strada in una città fortemente colpita dalla guerra e dai bombardamenti prima, e poi per tenerli lontani dalle suggestioni della droga. Non era e non è poco.

[1] Alcuni percorsi di protagoniste nel Pci: Edda Fagni, con Carla Roncaglia, Presidente Istoreco e Alessandra Mancini autrice del volume, Edda Fagni, L’innovazione pedagogica, Edizioni del Boccale, Livorno, 2010.

[2] Michela Molitierno, Catia Sonetti, La vicenda non comune di un militante comunista, Ets, Pisa, 2020.

[3] Il 14 aprile 2021 abbiamo presentato il volume scritto da Mario Lenzi, O miei compagni. Una testimonianza, Comune di Livorno, Livorno, 2013; il 23 marzo 2021, il volume di Mario Tredici, Gli altri e Ilio Barontini, Ets, Pisa, 2017 eil 17 maggio quello su Bruno Bernini

[4] Simone Lenzi, Prefazione del Catalogo su: Il Partito comunista italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento, in corso di pubblicazione.

 [5] Rosso creativo. Oriano Niccolai. 50 anni di manifesti, a cura di Margherita Paoletti e Valentina Sorbi, Debatte, Livorno, 2013.




«Luridi finocchi in guanti gialli»

Il 27 novembre 1928 sarebbe dovuto essere un giorno come tanti per il comm. Guido Farello, un prefetto di vecchia data del Regno. Quando quella mattina si accomodò alla sua scrivania del bel palazzo in cui viveva ormai da un paio di anni, la sua attenzione fu colta da una lettera che emergeva fra le altre. Essa era indirizzata specificatamente a lui, a «S. E. il Prefetto di Livorno», e inizialmente pensò ad un invito per qualche evento di beneficienza. La cosa strana era però che la busta non presentasse segni particolari di riconoscimento, o rimandasse a qualche ente o istituto a lui noto. In prima battuta pensò di lasciarla perdere e dedicarsi esclusivamente al lavoro, poi la curiosità montò e decise di non indugiare oltre[1].

Iniziò a leggere e rimase di pietra. Quella lettera non lo invitava a partecipare a qualche occasione mondana, bensì lo metteva al corrente del comportamento «immondo» di un gruppo di distinti uomini dell’alta borghesia cittadina. Secondo gli scriventi – che si firmarono come degli «anonimi livornesi ben informati» – della lettera questi «luridi finocchi in guanti gialli», benché tutti sapessero cosa stessero facendo, non erano mai stati perseguitati dalle forze dell’ordine.

Farello era stato colto in fallo e temeva che la notizia giungesse rapidamente alle orecchie del pater patriae livornese, il potente ministro Costanzo Ciano. Sapeva che la sua carriera sarebbe potuta terminare da un momento all’altro, e in malo modo, se «ganascia» avesse voluto rivolgergli contro quella brutta storia. Per questo motivo inoltrò la missiva al suo omologo poliziotto, il questore Giovan Battista Masci, affinché si occupasse del caso attraverso indagini «riservate».

Archivio di Stato di Livorno (ASLi), Questura, A1 «Informazioni Personali», b. 59, fasc. 34 «Antonio F. ed altri», Denuncia anonima (26 novembre 1928)

La denuncia anonima del 26 novembre 1928 (Archivio di Stato di Livorno)

Scartabellando tra gli archivi della Questura venne fuori quasi spontaneamente la soluzione più ragionevole per la faccenda, cioè quella adottata dal suo predecessore, il prefetto Angelo Barbieri, nella gestione di un caso simile. Qualche anno prima l’ambiguo rapporto tra un alunno e un insegnante dell’Istituto nautico cittadino venne rimandato ad altri organi di governo – statali e non – aspettando una loro risoluzione. Il docente, infatti, non solo era un tenente di vascello di marina in congedo, ma anche un eroe di guerra pluridecorato al valore militare ed uno squadrista. In quel caso «l’ignoranza del vizio» da parte delle autorità governative aveva trionfato. Avrebbe funzionato anche in questo caso?

Prima di entrare nel merito delle due indagini che voglio presentare è necessario capire quale fosse l’atteggiamento comune verso gli individui identificati omosessuali, «pederasti», «invertiti» o «urningi» o «uranisti»[2].

Lo sviluppo positivista della scienza aveva proposto tante, e diverse, interpretazioni per l’omosessualità. La medicina europea si era mossa fin dalla prima metà dell’Ottocento per individuare le cause, e quindi i rimedi, della «degenerazione» sessuale che sembrava avvolgere in maniera sempre più asfissiante la società occidentale. Il termine venne introdotto proprio per indicare il sentimento di generale decadenza dal sociologo ungherese Max Nordau[3] nel 1892, il quale lo ricondusse alle passioni sfrenate che portavano gli uomini del suo tempo a godere della vita in ogni modo, anche cercando esperienze sessuali insolite. Alla base di quella che ben presto venne diagnosticata come una vera e propria patologia c’era, secondo Nordau, l’incapacità dei suoi contemporanei ad adeguarsi alle innovazioni tecniche, così tante e ottenute in poco tempo.

L’omosessualità venne ben presto classificata come uno degli effetti della malattia descritta dal sociologo magiaro, in quanto forma di piacere egoista che negava la riproduzione della specie umana, quindi la vita. Da peccato di sodomia chiamato in causa dai prelati per spaventare i credenti alla messa, venne ben presto classificato come una forma evidente di psicopatia, perché pareva scontato che l’uomo attratto da un individuo dello stesso sesso fosse affetto da una chiara patologia. Quando però ci si accorse come la medicina non fosse in grado di evidenziare una qualche forma tangibile della malattia, bensì solo una «passione colpevole, ributtante, schifosa finché volete, ma passione»[4], allora gli omosessuali vennero tacciati come i nemici della parte sana delle società e perseguitati, in forme diverse, per ogni nazione.

Da una parte si posero quei paesi, come la Germania, che ritennero necessario inserire il reato di omosessualità nel proprio codice penale, dall’altra quelli che, come l’Italia, considerarono più efficace usare strumenti che non dessero pubblicità al problema. La codificazione di tale reato, infatti, avrebbe significato ammettere l’esistenza di una “questione omosessuale”, e il necessario intervento da parte dello Stato per risolverla. Inoltre, sarebbe stato più semplice creare – come accadde a Berlino nel 1897 – dei comitati per l’abolizione dell’articolo di legge, accrescendo la pubblicità del problema. La strategia dell’occultamento risultò la scelta migliore anche nella revisione del Codice penale italiano nel 1889 e nel 1930, nonostante le pressioni per l’incriminazione degli omosessuali.

Il fascismo fu abile nell’inserirsi dopo poco tempo nei canali della cosiddetta «rispettabilità borghese», proponendosi come l’unico ente in grado di rinvigorire la nazione uscente dalla «Pace mutilata», a cui seguì una vera e propria santificazione della famiglia tradizione. Tutto ciò venne presto destinato per fornire in tempi rapidi «otto milioni di baionette» per le future guerre di conquista del regime, e con ciò si spiegano le ragioni del vasto investimento del fascismo verso la politica demografica.

Un uomo non sposato, oppure senza prole, una donna mascolina o impegnata nel lavoro, vennero presto etichettati agli occhi dell’opinione pubblica come esseri diversi, viziosi e antipatriottici. Costoro, in particolare gli uomini, rifiutandosi di svolgere il compito di pater familias e quindi di procreatori di futuri soldati italiani, dimostravano pubblicamente di essere impotenti e incapaci.

Più o meno velatamente tutte queste caratteristiche contrarie alla norma dovevano rimandare all’idealtipo omosessuale e al suo essere un malato. Diventava necessario “curarlo” solo quando l’individuo patologico si dimostrava conciliante con le autorità e le sue richieste, mentre diventava un problema di ordine sociale e politico quando rifiutava le terapie mediche e dimostrava pubblicamente la propria diversità.

In estrema sintesi possiamo dire che: coloro che si mettevano in mostra andavano fermati perché esempi viventi del caos e della sovversione dei generi, nonché possibili bacilli infettivi per la società; gli altri, invece, nonostante si prestassero a pratiche disdicevoli per la morale comune, ricoprivano comunque un ruolo maschile e sarebbe stato possibile per loro accoppiarsi anche con le donne. Il modello virile fascista respingeva l’omosessualità assumendo un atteggiamento che era in sostanza quello del secolo precedente. Il conformismo alle regole morali di stampo liberale ben si prestava alle necessità del regime, il quale comprese come fosse particolarmente importante gestire il problema dell’omossessuale in maniera discreta e con gli strumenti di controllo originariamente destinati a combattere i suoi veri nemici, quelli politici.

Costanzo_Ciano_iii

Costanzo Ciano

Il caso di omosessualità che fece “scuola” per i poliziotti livornesi fu quello dell’ex comandante Luigi P. Il 29 ottobre 1924 era ricominciato da poche settimane l’anno scolastico al R. Istituto Nautico «Alfredo Cappellini» di Livorno e, come al solito, il suono dell’ultima campanella segnalava la fine della giornata di lavoro per studenti e professori. Mentre tutti stavano uscendo dalla scuola, l’attenzione generale venne catturata da una serie di schiamazzi provenienti da un vicoletto vicino: un ragazzo si stava azzuffando con un insegnante dandogli dell’omosessuale. Il diverbio tra i due creò un certo imbarazzo negli spettatori, anche perché il soggetto offeso non era solo un docente, ma anche un fervente fascista, un eroe di guerra e un ufficiale superiore della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (Mvsn). Esteriormente la questione venne tacciata come l’escandescenza di un alunno poco ligio ai propri doveri scolastici, ma l’accusa apparve troppo circostanziata e lesiva per l’onore dell’insegnante per non essere approfondita dalle autorità competenti. Perciò, la settimana seguente, il prefetto di Livorno, Barbieri, inoltrò al questore Masci la richiesta del preside dell’Istituto di investigare sull’accaduto e sul passato del professore[5].

Le indagini su Luigi P. fecero emergere come l’ex ufficiale di carriera della Regia marina, lodato e temuto per il suo prestigio politico, fosse stato congedato a causa di accuse scottanti e molto simili a quelle che gli aveva rivolto lo studente. Egli, secondo quanto erano riusciti a scoprire gli investigatori, si era ritrovato fuori dalla forza armata dall’oggi al domani a causa di alcuni episodi equivoci con dei marinai. Naturalmente su tutto ciò i vertici militari avevano fatto cadere una pesante coltre di riserbo, che sarebbe dovuta rimanere tale per sempre, in cambio del suo passaggio ad un altro incarico[6].

Proprio in ragione delle sue qualifiche fasciste, nonché dell’appartenenza alla Mvsn, Barbieri ritenne necessario avvertire l’organo direttivo del Partito nazionale fascista (Pnf) cittadino. Il prof. P., infatti, era iscritto al partito dal gennaio 1920 e aveva militato nella squadra d’azione «Mario Asso»[7] fino alla Marcia su Roma, transitando poi nei quadri della Milizia dal momento della sua costituzione. Per tale ragione il questore Masci, nella sua nota per il prefetto del 18 novembre successivo, riassunse gli esiti dell’indagine consigliando al superiore di lasciar perdere il caso ed evitare di doverlo gestire personalmente, in quanto «dell’incidente» se ne stavano occupando «il Direttorio del Fascio e il comando Mvsn». Il prefetto sembrò condividere l’idea del questore, lasciando quindi che venisse archiviata l’inchiesta sul docente.

Ma a distanza di appena tre anni la polizia livornese tornò a doversi occupare del prof. P. Il 14 ottobre 1927 il Ministero della Marina chiese notizie su P. in quanto risultava aver rifiutato l’ordine di trasferimento ad una nuova sede d’insegnamento. Gli Istituti nautici, infatti, fin dal 1917 erano di competenza di quel ministero, compreso il corpo dei docenti. Da quanto emerse nella nuova inchiesta affidata, non a caso, alla squadra politica della Questura di Livorno, il “fattaccio” del 1924 non era stato senza ripercussioni per la vita del professore, essendosi ritrovato radiato dal Pnf con l’accusa di «grave immoralità». Venne fuori però una cosa ancora peggiore agli occhi degli inquirenti, cioè che P. frequentava privatamente alcuni adolescenti per prepararli all’esame di ammissione per l’Accademia navale senza alcuna autorizzazione, abusando del suo grado e delle sue qualifiche fasciste. Di quest’ultima cosa il prefetto Farello – succeduto a Barbieri nel marzo 1925 – pensò non fosse necessario avvertire il Ministero dato che, secondo le stesse indagini, il professore poteva contare su influenti agganci al vertice delle forze armate[8]. Stando alle testimonianze di alcuni informatori sembrava che l’idea del professore fosse quella di abbandonare la scuola pubblica, e creare un convitto a carattere militare per formare i concorrenti per l’accesso agli istituti di formazioni militare.

La notizia dovette creare non poco subbuglio in seno ai vertici cittadini del Pnf, tanto che gli inquirenti assicurarono al federale – era appena asceso alla carica l’avv. Carlo Alberto Cempini Meazzuolli – come senza l’autorizzazione del provveditore agli studi di Firenze tutte le conoscenze per quanto influenti del professore, al centro, erano pressoché inutili.

Come previsto, nel marzo del 1928, giunse al Provveditorato per gli studi per la Toscana la richiesta formale del prof. P. di aprire il suo istituto di formazione. Ciò creò un certo imbarazzo allo stesso provveditore quando venne informato della delicatezza politica del caso, anche perché la domanda appariva del tutto legale e in linea con la legislazione in materia per gli istituti paritari. Il provveditore decise quindi di recarsi personalmente a Livorno il 12 aprile successivo e ricevere direttamente dalla voce del questore le motivazioni da addurre per rigettare la richiesta, notificandole a P. nei giorni seguenti:

Per le speciali condizioni in cui è venuto a trovarsi in Livorno cioè di non appartenere più alla [Mvsn] ed al [Pnf] e di essere stato trasferito, per servizio in seguito ad inchiesta, dal R. Istituto Nautico di Livorno a quello di Piano di Sorrento, non gode in Livorno del prestigio necessario per garantire un funzionamento veramente educativo dell’istituto che intende aprire e dirigere[9].

 Ricollegandoci al caso proposto in apertura di questo intervento – quello che fece sobbalzare Farello nel novembre del 1928 – bisogna segnalare che le accuse anonime si concentrarono immediatamente sulla figura del principale esponente del gruppo, cioè il conte Antonio F. Costui proveniva da una famiglia di recente creazione nobiliare – il nonno, un omonimo mercante di origini umbre, era stato ammesso a far parte della nobiltà toscana nel 1832 –, famiglia molto ricca e proprietaria di una fabbrica di saponi. Assieme a lui erano riportati i nomi di due fratelli, gli avvocati Emo e Tommaso P., anch’essi membri dell’alta borghesia livornese e, rispettivamente, presidente della commissione per le imposte dirette della provincia e vice console del Regno di Spagna. Il quarto personaggio incriminato era un grossista di pelli, Alessandro R.-P., più anziano rispetto agli altri ma proveniente comunque dallo stesso ambiente sociale. Infine venne chiamato in causa anche un giovane perito chimico, Giorgio M., di origini infinitamente più modeste ed impiegato nello stabilimento di proprietà del conte.

La squadra politica della Questura aprì un fascicolo il 7 dicembre successivo e, dopo aver delineato le biografie di tutti i protagonisti citati nella lettera anonima, mise a conoscenza del questore le voci che circolavano già sullo “scandalo”. Dalle informazioni raccolte risultava che tutti fossero effettivamente considerati degli omosessuali all’infuori di Emo P., probabilmente chiamato in causa solo a causa del fratello. Sia quest’ultimo, l’avocato Tommaso P., che il conte F. risultavano frequentatori dell’Hotel Palace, il grandioso albergo cittadino, dove si incontravano regolarmente con esponenti della società più in vista di Livorno. La solerzia degli inquirenti si spinse oltre e ripescò una storia simile ma ormai dimenticata dai più, quella della «Tavola Rotonda di Ardenza». Questo termine, tanto in voga all’inizio del secolo a causa dello scandalo Harden-Eulenburg[10], serviva per designare incontri di omosessuali di una certa caratura sociale e, difatti, coloro che frequentavano questo villino di Ardenza erano tutti personaggi eminenti della società locale dei primi anni del Novecento.

Senza una spiegazione apparante l’indagine sul conte venne messa a tacere per diversi mesi dagli inquirenti, fino al marzo 1929 quando, sempre l’ufficio politico della polizia, inoltrò al questore una nota prodotta da un proprio informatore. Lo scrivente si affrettava subito a smentire l’esistenza di una qualsiasi forma di «associazione» tra gli omossessuali livornesi, non potendo però fare a meno di confermare il comportamento sessuale del conte e dei suoi «amici». Dopo questa ulteriore conferma l’indagine venne chiusa e apparentemente dimenticata da tutti. Gli unici a ricordarsene furono i poliziotti livornesi, che iniziarono a seguire gli spostamenti dei denunciati aprendo dei fascicoli d’indagini per ognuno di loro[11].

Inquirenti e indagati che ho sinteticamente presentato finora, e che si mossero a cavallo tra il 1924 e il 1929, vivevano in una città che risultava tradizionalmente singolare e ricca di paradossi. L’ascesa del fascismo a Livorno non aveva certo mutato questi aspetti ma, piuttosto, era stato il movimento a declinarsi secondo lo stile di vita cittadino.

Riducendo all’osso la complessità, e le ricadute, di questo fenomeno, possiamo dire che i sommovimenti sociali causati dalla guerra e dal dopoguerra spinsero, da una parte, i ceti popolari a schierarsi in maniera compatta per i socialisti, i repubblicani, anarchici e poi comunisti, per un cambiamento effettivo delle condizioni di vita, mentre dall’altra, la borghesia livornese verso quei movimenti che promettevano il mantenimento dell’ordine esistente. Tutti sapevano che la partita si sarebbe giocata all’interno dell’area industriale della città e del porto e dei quartieri a nord dove erano concentrate le presenze popolari.

Una garanzia di successo i fascisti la ottennero con la discesa in campo di un personaggio come Costanzo Ciano, ex eroe di guerra. La sua candidatura alle elezioni politiche del 1921 nelle lista del Blocco nazionale fu sostenuta da numerosi esponenti del mondo militare, i quali non ebbero timori ad esporsi anche durante i suoi comizi. Ciano seppe sdebitarsi con loro una volta eletto alla Camera, sfruttando abilmente questo legame con il ceto dirigente e conservatore del suo collegio. La cosiddetta «Marcia su Livorno» dell’agosto 1922, pur diretta sul campo dal comandante degli squadristi toscani Dino Perrone-Compagni, simboleggiò il trionfo della restaurazione di quella classe di notabili che aveva saputo vedere nel fascismo, e nei suoi rappresentanti locali, un mezzo utile al raggiungimento dei loro obbiettivi.

L'Accademia Navale di Livorno

L’Accademia Navale di Livorno

Ripercorrere in maniera estremamente sommaria gli anni che vanno dalla fine della guerra al 28 ottobre 1922 è fondamentale al fine di contestualizzare e capire i contorti rapporti familiari, o clientelari, che le famiglie notabili di Livorno avevano con il nuovo partito di governo. È importante che sia chiaro, anche per il tema che sto raccontando, come il fascismo livornese, rispetto al modello maggioritario che si diffuse in Toscana così come in Emilia Romagna, non fu un fenomeno agrario o legato ad un’eversione di sinistra, ma piuttosto una chiara rappresentazione di quel sistema di potere che, dopo le elezioni amministrative del 1920, si trovò in profonda difficoltà nell’essere ancora rappresentato dai movimenti politici prebellici. La presenza del porto, di un’industria navale come quella dei cantieri Orlando e di tutto il loro indotto, e di una pluralità di altri stabilimenti industriali, concentrava nella sola città di Livorno un bacino operaio provato dalla crisi del dopoguerra, disponibile a tutto pur di vedersi riconosciuti una serie di diritti in gran parte rosicchiati dal periodo bellico.

Perciò la violenza dei fascisti divenne l’unico elemento, secondo i maggiorenti livornesi, in grado frenare un’ascesa inarrestabile del socialismo massimalista e dentro un panorama nazionale che si caratterizzava per molti elementi simili.

Dalla loro parte avevano anche un asso nella manica da poter giocare, cioè l’Accademia Navale, il prestigioso istituto presente in città dal 1881. Esso rappresentava il più evidente e concreto simbolo dell’ordine e non è un caso, per quello che ci siamo detti finora, che buona parte dei fascisti livornesi della prima ora fossero militari, in particolare ufficiali della Regia marina. È superfluo citare ancora la personalità di Ciano come colui in cui si legano al meglio gli aspetti militari e clientelari del fascismo livornese, spinto a scendere in politica anche dalle adulazioni di Max Bondi, amministratore delegato delle acciaierie di Piombino, nonché finanziatore del fascismo primigenio della provincia[12].

Questo rapido approfondimento sulla fisionomia del fascismo livornese delle origini potrebbe apparire poco attinente rispetto alle indagini al centro di questa ricerca. In realtà esso risulta fondamentale per comprendere al meglio le carte della polizia, facendo attenzione sui vari profili degli indagati. Le famiglie da cui provenivano gli omosessuali vicini al conte F., infatti, condividevano una condizione sociale agiata e in linea con quella dei promotori del fascismo livornese. Nel caso dell’ex comandante P., invece, la qualifica di squadrista e ufficiale della Mvsn non necessita di ulteriori spiegazioni rispetto ai suoi sentimenti politici. Anche per tali ragioni, in entrambi i casi, fu garantito un certo riserbo da parte degli inquirenti durante la fase delle indagini, dimostrando come questo genere di faccende andassero trattate esclusivamente in forma privata con i diretti interessati. Al contrario, qualora le autorità di governo ritenessero necessario creare un “caso”, allora era importante dare pubblicità all’evento ed assicurare a particolari strumenti sussidiari della legge – quello medico, del confino coatto o manicomiale – gli autori degli atti definiti come «contro natura».

Non è un caso che le indagini presentate in questo intervento vadano proprio in una di queste due direzioni – o entrambe se consideriamo che forse l’ex comandante Luigi P. potrebbe essere finito al centro di una macchinazione politica per screditarlo, in quanto esponente dell’area intransigente del fascismo labronico –, esemplificando meglio di ogni formula astratta la capacità che ebbe il fascismo di controllare la società italiana, anche sfruttando elementi culturali preesistenti.

*Giovanni Brunetti (Cecina, 1997) è laureato magistrale in Storia e Civiltà presso l’Università di Pisa (maggio 2021), dove ha conseguito anche la laurea triennale in Storia (giugno 2019). Attualmente sta frequentando il biennio 2019-2021 della Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Firenze.

[1] Archivio di Stato di Livorno (ASLi), Questura, A1 «Informazioni Personali», b. 59, fasc. 34 «Antonio F. ed altri», Denuncia anonima (26 novembre 1928).

[2] Questi ultimi due termini erano molto in voga nella scienza medica positiva e avevano origine dal termine tedesco «urning» per indicare il “terzo sesso” a cui appartenevano le persone omosessuali. Questo neologismo prendeva ispirazione dalla Afrodite Uraniana citata da Platone nel Simposio, e venne coniato nel 1864 dal poeta e letterato Karl Heinrich Ulrichs.

[3] Max Simon Nordau (1849 – 1923) fu tra le altre cose un fervente sostenitore della causa sionista, a fianco del connazionale Theodor Herzl.

[4] P. Mantegazza, Gli amori degli uomini. Saggio di una etnologia dell’amore, 1886, pp. 148-150.

[5] ASLi, Questura, A1 «Informazioni Personali», b. 37, fasc. 8 «Luigi P.», Relazione per il prefetto (17 novembre 1924).

[6] Classe 1890, Luigi P. entrò alla R. Accademia Navale di Livorno a 16 anni, uscendone con i gradi da guardiamarina in tempo utile per partecipare alla guerra Italo-turca del 1911. Promosso al grado superiore partecipò alla Prima guerra mondiale prima a bordo di varie navi di presidio nell’Adriatico, poi come ufficiale d’artiglieria navale destinato a terra. Fu comandante di una delle batterie poste a difesa della laguna di Venezia dopo la battaglia di Caporetto. Venne congedato nel 1921 per mezzo della Legge n. 474 del 26 maggio 1911, per la quale gli ufficiali che non potevano ricoprire il grado superiore per una mancata idoneità dovevano essere posti a riposo. Nonostante la giovane età e il curriculum di tutto rispetto venne escluso dalla promozione appena una settimana prima di essere congedato, a dimostrazione di come il suo destino fosse già segnato. Dal suo Stato di servizio, oltre che dalle indagini dei poliziotti livornesi, risulta infatti come era stato richiamato un paio di volte, e sottoposto a sanzioni disciplinari, per il suo comportamento nella sfera privata. Ministero della Difesa, Dir. Gen. Per. Mil., Doc. Matricolare, «Marina», Stato di servizio, Luigi P. (1906-1956).

[7] La squadra d’azione era intitolata al sottotenente dei bersaglieri di Livorno Mario Asso (1899-1920), morto a Fiume durante l’offensiva del regio esercito italiano per prendere il controllo della città.

[8] Vennero fatti i nomi dei generali Francesco De Pinedo e Italo Balbo per l’Aeronautica, e dell’ammiraglio Franco Nunes per la Marina e di altri alti ufficiali della Mvsn e dell’Esercito.

[9] ASLi, Questura, A1 «Informazioni Personali», b. 54, fasc. 53 «Luigi P.», Decreto di rigetto della richiesta della domanda per l’apertura di un convitto navale (12 aprile 1928). Perso l’incarico di insegnante P. non demorse e pochi anni dopo cercò maggior fortuna nella compravendita di materiale nautico per ufficiali della Regia marina e i marinai di stanza a Livorno. La polizia venne nuovamente messa sulle sue tracce da una denuncia proveniente dall’ammiraglio in capo della zona marittima dell’Alto Tirreno, il quale era stato informato dell’uso improprio che P. faceva del grado militare. Egli, infatti, risultava solito qualificarsi come «comandante», screditando perciò il buon nome della forza armata. ASLi, Questura, A1 «Informazioni Personali», b. 76, fasc. 27 «Luigi P.».

[10] Lo scandalo Harden-Eulenburg fu il più vasto affare relativo all’omosessualità e riguardò l’entourage del kaiser Guglielmo II e parte dello Stato Maggiore dell’esercito tedesco. Da qui proviene il termine «tavola rotonda» – chiaro riferimento al consiglio dei ministri imperiale – che veniva usato per designare un gruppo di omosessuali.

[11] L’avvocato Tommaso P. e il conte F. furono coloro che la polizia controllò più spesso, e difatti sono rimaste maggiori tracce dei loro spostamenti nello stesso fondo dell’Archivio di Stato. L’avvocato P. si trasferì in Spagna nel 1932, sicuramente sfruttando le agevolazioni della carica consolare che aveva a Livorno, mentre il conte viaggiò molto per l’Italia. Le ultime carte su quest’ultimo risalgono al 1939 e sono relative ad una richiesta, sua e della sorella, per il riconoscimento del titolo di «Nobili di Gubbio» da aggiungere al blasone di famiglia. Nella breve biografia che il questore dell’epoca fece per il prefetto ricordò la sua omosessualità, la mancata iscrizione al Pnf e i suoi legami familiari.

[12] Massimo “Max” Bondi (1881 – ignoto) fu uno dei principali esponenti della siderurgia italiana nei primi due decenni del Novecento. Venne eletto in Parlamento nel 1919, facendo coincidere l’avvio della carriera politica con un momento di grave difficoltà per le sue aziende. La crisi delle fonderie di Piombino del biennio 1920-1921, nonché la bancarotta fraudolenta del 1925, lo costrinsero ad una fuga tumultuosa dall’Italia. Cfr. F. Bonelli e M. Barsali, ad vocem, Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, vol. 11, 1969.




Livorno 1921. Ipotesi su una bandiera

Il Telegrafo / La Gazzetta Livornese 1º maggio 1923:

Due bandiere rosse sequestrate dai fascisti.

Dai fascisti dalla Sezione delle Case Popolari sono stati sequestrati nelle case di due ferrovieri due vessilli rossi: uno di seta con frangia nera, appartenente alla Sezione comunista di Livorno e l’altra al gruppo socialista «Spartaco».

Le bandiere sono state consegnate ai dirigenti del Fascio.

  Da questo vecchio articolo potrebbe iniziare una nuova ricerca per ricostruire la vera storia della bandiera della Sezione di Livorno del Partito Comunista d’Italia, attualmente esposta a Livorno presso il Museo della Città, dopo il difficile recupero e restauro compiuto nel 2015, durante cui è andato perduto ciò che restava sui bordi delle frange originarie (nere o dorate).

La sua storia – orale – è abbastanza nota: cucita da compagne livornesi, si sarebbe salvata dalle incursioni fasciste e durante il periodo della clandestinità, dopo essere stata nascosta da Ilio Barontini e da Armando Gigli sino alla Liberazione. Dopo di che sarebbe stata conservata presso le sedi della Federazione del PCI per approdare al Circolo democratico S.Marco-Pontino “Lanciotto Gherardi” con sede in via Garibaldi.

Sempre secondo la memoria tramandata, questa sarebbe stata la prima bandiera della sezione livornese del Partito Comunista d’Italia, risalente alla fondazione nel gennaio 1921 e avrebbe persino sventolato sul Teatro S. Marco.

Telegrafo 1MAGGIO23

Telegrafo 1MAGGIO23

L’articolo del maggio 1923 sembra però contraddire tale datazione. Innanzitutto, va precisato che all’epoca i vessilli delle organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio erano uniche e quindi è da escludersi l’esistenza di due bandiere per la stessa sezione locale del PCdI, come di qualsiasi altro sodalizio sovversivo.

Infatti, il momento dell’inaugurazione era politicamente e simbolicamente importante, tanto che avveniva in forma solenne in occasione di manifestazioni, come il Primo Maggio, o con feste collettive dedicate proprio a tale presentazione, comprendenti significativi discorsi degli esponenti del partito o della lega.

Soltanto l’usura o la perdita accidentale di tale bandiera poteva motivare la fabbricazione e la comparsa in pubblico di una nuova.

L’articolo in questione non lascia quindi molti dubbi sul fatto che il sequestro si riferisce con ogni probabilità alla prima bandiera della sezione comunista livornese.

La successiva consegna della stessa, come trofeo di guerra, alla sede del Fascio in piazza Cavour era poi una “consuetudine” fascista, così come ricordato da Garibaldo Benifei nelle sue memorie che vi aveva veduto: «una sala in cui stavano in bella mostra, come trofei di caccia, le bandiere conquistate ai “rossi” durante le spedizioni, gli agguati, gli scontri».

Almeno parte di tale raccolta venne trasferita a Roma, assieme ad altri cimeli, nel 1932 per la Mostra della Rivoluzione Fascista, ma soltanto alcune bandiere provenienti da Livorno sono state recuperate e si trovano conservate presso l’Archivio Centrale dello Stato; per cui, si può affermare che quella comunista è andata perduta, magari nelle contingenze belliche.

Il dettaglio della frangia nera è inoltre comune a numerose bandiere comuniste – ed anche socialiste – dell’epoca.

La bandiera che è arrivata sino a noi potrebbe dunque, pur essendo del tutto autentica, essere quella che sostituì, in un momento successivo, quella sequestrata dai fascisti.

A rafforzare tale sospetto, ci sono due elementi. La scritta nera nella parte inferiore del campo rosso, con la dicitura Sezione di Livorno, appare in caratteri diversi e meno elaborati, rispetto all’iscrizione superiore – Partito Comunista d’Italia – ricamata in un bellissimo stile Liberty.

Anche in fase di restauro, è stato osservato che la scritta inferiore risulta realizzata in un momento successivo, come per adattare e connotare una bandiera pre-esistente, circostanza questa alquanto improbabile se si fosse trattato della prima bandiera del neonato partito.

In secondo luogo, può essere interessante una considerazione iconografica, in base al confronto con tutte le bandiere comuniste note del periodo; talvolta senza simboli (come quella di Pitelli). Il simbolo centrale della stella con inscritta la falce e martello (peraltro posizionati in senso contrario rispetto all’orientamento tradizionale) risulta del tutto inconsueto, per non dire eccezionale, nel 1921. Come si può constatare pure nelle tessere del Partito, la stella, di derivazione sovietica, entrò infatti nella simbologia comunista soltanto anni dopo – anche perché in Italia era legata ad altri movimenti e contesti culturali – e quindi rafforza la convinzione dell’esistenza di un’altra storia, ancora sommersa e tutta da scrivere.

Un’altra bandiera comunista scomparsa nel vortice della guerra civile è quella della Federazione giovanile di Livorno, con sede in via Solferino devastata nel 1922 dai fascisti, ricordata dal militante Ilio Paperi (“I giovani livornesi affrontano i fascisti sulle piazze”): «anche noi giovani comunisti s’aveva una bandiera bellissima più grande di quella della federazione adulta, e che purtroppo non è stata mai ritrovata».

 




Dalla battaglia contro il riformismo alla lotta contro fascismo e stalinismo: comunisti internazionalisti livornesi.

Presentiamo, in questo come in articoli che seguiranno, alcuni profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921.

Con ciò vogliamo non solo ricordare le basi politiche su cui il Partito Comunista nacque e cioè la rottura col PSI e le sue correnti (i massimalisti di Serrati e Lazzari e i riformisti di Turati, Treves e Modigliani), ma vogliamo offrire anche alcuni elementi di riflessione per non cadere nella vulgata di quella narrazione storica in base alla quale il PCI ha sempre rivendicato una sua continuità con la scissione di Livorno, fondando caso mai la sua specificità sugli svolgimenti politico-ideali seguiti all’assunzione della direzione del Partito da parte di Gramsci con il Congresso di Lione del 1926. Indubbiamente una discontinuità reale e profonda, che in quel congresso vede l’estromissione definitiva di gran parte di quel gruppo dirigente e di non pochi militanti che quel partito avevano fondato e guidato a partire dal 1921, per poi arrivare, tra il 1927 e il 1934 ad un graduale processo di espulsione degli stessi. Credo che sia d’obbligo qui ricordare in primis Amadeo Bordiga (1889-1970), colui che sino ad allora era considerato il leader de facto del partito e che nel PSI aveva raccolto attorno a sé già dal dicembre 1918 i militanti del gruppo napoletano de Il Soviet, contribuendo a fondare la Frazione Comunista Astensionista, vero motore della scissione comunista di Livorno. E come non ricordare Bruno Fortichiari (1892-1981), attorno al quale si era organizzata la sinistra socialista milanese durante il Biennio Rosso, divenuto successivamente responsabile del lavoro illegale del PCd’I (il cosiddetto Ufficio n. I) e dei rapporti con le altre formazioni che combattevano attivamente i fascisti sul campo (come gli anarchici e gli Arditi del Popolo). Esiste poi una seconda narrazione storica relativa alla nascita del PCd’I, ripresa dalla pubblicistica più disparata che vede nella scissione di Livorno una miopia politica manifestata dai comunisti, i quali uscendo dal PSI, avrebbero indebolito il fronte antifascista che si stava con fatica cercando di costruire. Tuttavia è d’uopo ricordare in sede storica che pochi mesi dopo la scissione di Livorno il Psi firmò un Patto di pacificazione con i fascisti (3 agosto 1921), che sicuramente ha indebolito il fronte antifascista nel mentre si andavano formando gli Arditi del Popolo, organizzazione nata per arginare le violenze delle squadre d’azione di Mussolini. Oltre a ciò è necessario dire che il 15 ottobre 1922, a tredici giorni dalla Marcia su Roma, il PSI subì una seconda scissione, questa volta da parte dei riformisti di Turati e Modigliani, che andranno a formare il Partito Socialista Unitario.

Per quel che concerne la storia della Sezione Livornese del Partito Comunista d’Italia, possiamo dire che essa venne fondata il 29 gennaio 1921 da un piccolo ma determinato nucleo di militanti che precedentemente avevano ricoperto dei ruoli dirigenziali all’interno del PSI, in primo luogo quei quattro consiglieri comunali eletti nelle file socialiste nel novembre 1920 che contribuirono a fondare la sezione comunista labronica: Gino Brilli, Ilio Barontini, Giuseppe Lenzi e Pietro Gigli. In particolare significativo è il ruolo politico di Giuseppe Lenzi che fu delegato livornese a Imola, dove si erano riuniti i rappresentanti della Frazione Comunista del PSI.

Alla sezione livornese aderirono immediatamente 255 militanti provenienti in modo quasi esclusivo dalle fila del Partito socialista, in particolare da quanti avevano già aderito alla Frazione Comunista Astensionista e alla Mozione di Imola; nel corso degli anni aderirono poi al PCd’I militanti provenienti dalla corrente cosiddetta terzinternazionalista del PSI (detta terzina, corrente facente capo a livello nazionale a Giacinto Menotti Serrati, già direttore dell’Avanti e a Fabrizio Maffi), come, nella città labronica, Athos Lisa, dirigente della locale Camera del Lavoro, oppure Alberto Mario Albanesi, solo per citare i più noti.

Una parte dei militanti livornesi provennero dall’anarchismo, soprattutto negli anni seguenti alla fondazione del Partito stesso, come ad esempio gli stessi Astarotte Cantini e Fernando Ferrari.  Altro contributo assai importante alla fondazione della sezione livornese del Partito giunse dai militanti della Federazione Giovanile Socialista, che quasi al completo passarono al nuovo PCd’I, con in testa Armando Gigli, Pietro Fontana e Angelo Giacomelli.

La caratteristica dei militanti comunisti di Livorno e provincia fu la sua componente di classe, quasi tutti di estrazione operaia, fatta eccezione per alcuni militanti, i quali copriranno un ruolo dirigenziale di primo piano, al contrario di estrazione borghese: Ilio Barontini, impiegato delle ferrovie, consigliere comunale nonché assessore aggiunto nella giunta socialista del sindaco Mondolfi, proveniente da una famiglia della piccola borghesia industriale (il padre possedeva la nota fabbrica di pipe Barontini); Anna Launaro e il suo compagno Ettore Quaglierini, entrambi figli della classe media labronica, appartenenti al ceto impiegatizio e intellettuale. Tutti costoro entreranno a far parte della componente dei funzionari a tempo pieno del Partito Comunista. A questi nomi va aggiunto quello di Ersilio Ambrogi, avvocato, deputato, sindaco di Cecina, appartenente ad una famiglia della media borghesia professionale di Castagneto Carducci. Tuttavia è necessario ricordare, in sede storica, che Cecina nel 1921 apparteneva alla provincia di Pisa e quindi Ersilio Ambrogi è stato un importante dirigente per la fondazione della sezione pisana del PCd’I. Egli comunque ebbe un ruolo importante durante l’autunno del 1920, insieme col fiorentino di origine svizzera professor Virgilio Verdaro, nella fase preparatoria precongressuale, ovvero nell’aspra campagna politica, svolta anche a Livorno nelle locali sezioni del PSI, a favore della Frazione Comunista e per l’espulsione della corrente riformista, capeggiata nel capoluogo labronico da Giuseppe Emanuele Modigliani. Quest’ultimo rispose di rimando a Ersilio Ambrogi, dicendo che non era il caso che il sindaco di Cecina venisse a Livorno a dettar legge e a cercare di subornare gli animi alla propria tendenza. In quel periodo vennero a Livorno a dar man forte ad Ambrogi anche Egidio Gennari e il fiorentino Filiberto Smorti. Quanto ad estrazione sociale, il resto dei militanti erano in gran parte operai metalmeccanici del Cantiere Navale Orlando o nelle fabbriche metallurgiche del comprensorio livornese; operai specializzati delle piccole e medie imprese site tutte nella zona di Livorno Nord, in particolar modo nel quartiere Torretta, detta la Manchester della Toscana (quindi tornitori, manovali, meccanici, falegnami, marmisti e vetrai); scaricatori portuali impiegati presso il porto di Livorno o lungo il sistema di canali che conducono ad esso (navicellai); marinai civili (fuochisti e mozzi); pescatori; ferrovieri e tranvieri ed infine commessi viaggiatori. Non mancava la componente proletaria agraria, fatta di braccianti e contadini, seppur di gran lunga minoritaria rispetto a quella operaia, concentrata nella zona settentrionale della città, nel quartiere oggi detto Fiorentina (dunque al di fuori della cinta daziaria), non distante da dove sorgevano i Mercati Generali, oppure nel Comune di Collesalvetti, la cui economia all’epoca era essenzialmente agraria. A ciò si aggiungono elementi della piccola borghesia commerciale e dei servizi: negozianti (pescivendoli e alimentari); ambulanti (frutta e verdura, prodotti caseari e vestiario) e infine parrucchieri. Stessa composizione si aveva nelle cittadine e nei paesi della provincia di Livorno, che fino al 1925 comprendeva solo la città di Livorno e l’Isola d’Elba, mentre successivamente dal novembre di quell’anno col Regio Decreto n. 2011/1925 verranno aggiunti il Comune di Collesalvetti, a nord di Livorno in direzione di Pisa, e i Comuni di Rosignano Marittimo, Cecina, Bibbona, Castagneto Carducci, Sassetta, Suvereto, Campiglia Marittima e Piombino a sud. In particolare in quest’ultima città si faceva sentire la presenza comunista all’interno dell’acciaieria.

Per quel che concerne la concentrazione spaziale all’interno della città labronica, la maggior parte dei militanti livornesi proveniva dai due quartieri tra essi confinanti, nonché più sovversivi di Livorno: Pontino e La Venezia, situati nella zona nord-occidentale dell’abitato, a ridosso delle due Fortezze e in prossimità degli scali marittimi. Il primo era essenzialmente un quartiere a carattere operaio, vicinissimo al già nominato quartiere Torretta, ad esso limitrofo. Il secondo era invece uno dei quartieri storici cittadini, ampliato a partire dal ‘600, popolato quasi esclusivamente da famiglie di lavoratori portuali, zona in cui ancora oggi sorge il diroccato Teatro San Marc (dove il PCd’I è formalmente nato) e in cui ancora oggi ha sede la Fratellanza Artigiana, luogo dove spesso si sono tenute riunioni sindacali e “sovversive”.

Sul grado di istruzione dei militanti comunisti livornesi c’è da dire che essa presenta un quadro piuttosto omogeneo, come del resto nella provincia: tutti sono più o meno alfabetizzati, ma non hanno gradi di istruzione oltre la licenza elementare e in molti casi neppure quella. Vi sono tuttavia delle eccezioni; alcuni posseggono la licenza media o meglio il cosiddetto avviamento al lavoro: Barotini, Kutufà, Mannucci, Scotto, Pietro e Armando Gigli. Una militante ha la licenza di scuola media superiore: Anna Launaro, mentre due sono i laureati: Ersilio Ambrogi in Giurisprudenza e Ettore Quaglierini in Scienze Politiche.

Le donne che in quegli anni entrano a far parte del PCd’I sono quattro: Anna Launaro, Alice Giacomelli e Alda Cheli a Livorno e la cecinese Primetta Cipolli.

La prima sede del PCd’I labronico fu collocata in via Santa Fortunata, probabilmente dove oggi ci sono le Scuole medie G. Borsi, nella zona centrale della città, vicino a Piazza della Repubblica e non lontano da piazza Grande dove si trova la Cattedrale. Via Santa Fortunata si trovava in un quartiere popolare, che ospitava quotidianamente il mercato e il Mercato Coperto (come del resto ancora oggi).

I membri del consiglio direttivo della sezione livornese del Partito Comunista d’Italia, in quei primi anni furono: Gino Brilli (che ricoprì il ruolo di primo segretario), Ilio Barontini (segretario nel 1921), Carlo Cantini, Pietro Gigli (anch’egli segretario nel 1922), Giuseppe Lenzi, Carlo Kutufà, Danilo Mannucci, Otello Gragnani, Pietro Gemignani, Angiolo De Murtas, Ugo Lorenzini, Quinto Vanzi ai quali si aggiungeranno Gino Niccolai, Alcide Nocchi, Fortunato Landini, Vasco Jacoponi, mentre nel sindacato assunsero importanti ruoli dirigenti i comunisti Archisio De Carpis e Athos Lisa.

Discorso diverso deve essere fatto per Ettore Quaglierini, il quale per le sue caratteristiche intellettuali già dal marzo 1921 è chiamato dal Centro Politico del Partito a Milano e inviato poi a Mosca dove lavorerà insieme alla compagna Anna Launaro per il Komintern.

In provincia si segnalano come fondatori delle locali sezioni Plinio Trovatelli, piombinese, già presente alla fondazione del PCd’I al San Marco e di lì a poco inviato come delegato al III° Congresso dell’Internazionale Comunista, nonché Macchiavello Macchi, fondatore insieme al fratello Mario della sezione Spartacus a Collesalvetti e assessore nella giunta comunale presieduta dal sindaco comunista Alessandro Panicucci.

I giornali comunisti diffusi a Livorno erano Il Comunista, organo ufficiale del partito; Battaglia Comunista, giornale delle Federazioni di Massa, Lucca, Pisa e Livorno che veniva stampato a Massa e Avanguardia, giornale della gioventù comunista. Esisteva anche un giornale comunista locale, stampato in pochi numeri tra il 1921 e il 1922 chiamato Il Garofano Rosso, di cui purtroppo alcuna copia è oggi reperibile. Con una certa probabilità erano diffusi, anche se in misura minore, Il Soviet di Napoli (sino al 1922), l’Ordine Nuovo di Torino e a partire dal 1924 l’Unità.

Con queste biografie dal carattere non agiografico, vogliamo dunque ricordare che è esistita una schiera di militanti comunisti, che, contro venti e maree avversi, rappresentati in primis dal fascismo e dallo stalinismo, hanno continuato la loro battaglia di comunisti e rivoluzionari in coerenza con la linea politica tracciata a Livorno nel 1921.

TROVATELLI PLINIO

(Piombino (Livorno) 20.1.1886 – Piombino (Livorno) 24.12.1942)

Nato a Piombino, nell’allora provincia di Pisa da Ferdinando e Cristina Grassi, di professione è tornitore. Militante socialista dal 1901 nei ranghi della Federazione Giovanile, si segnala già nel 1906 in quanto scrive su il Martello, foglio operaio diffuso a Livorno e Piombino, dove critica la politica dell’ala riformista del PSI rappresentata a Livorno da Giuseppe Emanuele Modigliani. All’entrata dell’Italia nel Primo Conflitto Mondiale è esonerato dal servizio militare, in quanto svolge il lavoro di tornitore in una fabbrica militarizzata, destinata alla produzione bellica; tuttavia svolge propaganda antimilitarista e disfattista tra gli operai a Piombino e successivamente, nel 1917, a Savona, dove viene trasferito per motivi di lavoro. Nel corso di diverse perquisizioni domiciliari gli vengono sequestrati documenti e altro materiale che comprovavano la sua attività sovversiva. Nel gennaio 1921 è tra i fondatori del Pcd’I a Livorno in quanto è tra i 58 delegati della Frazione Comunista al Congresso Socialista i quali fuoriescono dal Partito Socialista e si recano al Teatro San Marco. Nel maggio del medesimo anno è fermato a Luino (Varese) mentre tenta di espatriare in Svizzera per recarsi nelle Russia Sovietica come delegato del Pcd’I a partecipare, con voto consultivo, al III Congresso dell’Internazionale Comunista. Riesce a varcare la frontiera insieme al comunista istriano Franz Cinseb, ma i due appena giunti in Germania vengono nuovamente arrestati. Nell’aprile 1922 in occasione del Trattato di Rapallo tra Germania e Russia Sovietica, presta sevizio quale guardia rossa presso la delegazione sovietica presieduta dal Commissario del Popolo agli Affari Esteri Georgij V.Cicerin. Nel giugno 1923 emigra in Francia presso il fratello Gino, anch’egli militante comunista, dove lavora sempre come tornitore prima a Tolone e poi a Parigi. Anche in Francia continua a svolgere attività politica per il Partito comunista e per tali motivi nel giugno 1925 è espulso dal paese ed ottiene il visto per l’Unione Sovietica, grazie anche all’interessamento di Robusto Biancani, presidente del Club di Mosca e all’autorizzazione del Comitato centrale del Partito Comunista Francese. Stabilitosi nella capitale sovietica e ottenuta l’autorizzazione a iscriversi al Partito Comunista Sovietico, inizia a lavorare come tornitore presso la fabbrica Gomsa e successivamente per l’Istituto Aereo-idrodinamico Zaghi. In quegli anni si sposa con la con Dar’ja Balandina, cittadina sovietica, dalla quale avrà nel 1930 il figlio Bruno. Alla fine del 1929 è espulso dal Pci e poco dopo dal Partito comunista sovietico in quanto accusato di appartenere all’opposizione bordighista-trotzkista. Nel 1934 trova lavoro presso la Casa cinematografica Mejrabpomfilm, fondata da Willi Muzenburg e diretta da Francesco Misiano, già deputato comunista, tuttavia a causa del clima sempre più pesante dovuto all’inizio delle purghe staliniane nel dicembre del 1936, chiede alle autorità diplomatiche italiane il passaporto per potersi recare in Belgio presso il fratello Alfredo. Costantemente sorvegliato dalla polizia politica staliniana ed essendosi fatto notare insieme ad altri trotzkisti a fare propaganda antistalinista, nella documentazione d’archivio sovietica è descritto nei seguenti termini: “Mantiene un’ideologia trotskista antipartito, distaccato dagli altri compagni, ha legami con Sensi e Cerquetti”. Nell’ottobre 1937 ottiene l’autorizzazione a lasciare l’Urss e anche grazie al “Fondo Matteotti” si stabilisce a Bruxelles, presso il fratello, dove nell’aprile del 1938 viene raggiunto dalla moglie e dal figlio. In Belgio lavora presso la bottega del calzolaio Ovidio Mariani, antifascista italiano ed entra in contatto con antistalinisti italiani lì residenti, in particolare con militanti bordighisti.  Nel luglio 1940, con l’occupazione tedesca del Belgio, chiede alle autorità consolari italiane l’autorizzazione al rientro in Italia e ma la ottiene solo nel luglio di due anni dopo. Si stabilisce quindi nel luglio 1942 a Piombino, città che aveva lasciato nel 1917 e qui muore il 24 dicembre 1942.

FONTI ARCHIVISTICHE: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen.




Fotografie di soldati ebrei durante la Grande Guerra

Non c’è libro di storia che non sottolinei come la Grande Guerra fu una specie di spartiacque nella vicenda ebraica italiana, e non solo in quella. I cittadini italiani di religione ebraica, che da pochi decenni avevano ottenuto la completa emancipazione ed erano diventati in tutto e per tutto uguali agli altri, corsero in gran parte volontari per il fronte.

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Foto 2. Giorgio Cividalli, documento (Fonte: Archivio storico Istoreco di Livorno, fondo fotografico famiglia Cividalli)

Poiché il loro livello di alfabetizzazione era assai più elevato rispetto alla gran massa degli italiani, si trovarono spesso nelle file dei sottufficiali, degli ufficiali superiori ed anche al vertice della struttura militare. Questa constatazione è vera soprattutto per gli ebrei piemontesi che per primi poterono uscire dai ghetti e che, numerosi, si iscrissero alle Reali Accademie per fare la carriera militare. In qualche modo questa scelta costituiva anche un riconoscimento di lealtà nei confronti di Casa Savoia. È altrettanto nota la partecipazione, che possiamo definire “civile”, delle donne ebree alla causa della Grande Guerra. Cercarono e raccolsero fondi per i soldati più disagiati, prepararono sciarpe e calzini da inviare al fronte, parteciparono attivamente alla propaganda interventista, scelsero il ruolo di madrine di guerra. Sostennero in mille modi la causa bellica.[1] E queste considerazioni che si possono estendere anche ad altri gruppi minoritari, fu sicuramente la novità nel panorama della mobilitazione generale.

Del resto gli stessi numeri ci raccontano come la partecipazione fu estesa e diffusa: considerando il fatto che la popolazione ebraica presente nella penisola era, fatto qualche possibile aggiustamento, di 35.000 individui, di questi 5.500 parteciparono al conflitto. Tra costoro, 450 erano toscani.[2]

Quello che invece è perfettamente sovrapponibile con gli altri soldati partiti per il fronte è la loro reazione di fronte allo scenario che si parò loro davanti. Una fonte utile per riconoscere e riflettere su questa omogeneità con tutti gli altri soldati del fronte, sono le fotografie che scattarono una volta giunti nello spazio bellico.

Il confronto si può fare con facilità con il bel libro curato da Marco Ruzzi per l’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Cuneo.[3]

Le fotografie del periodo immediatamente precedente la partenza per il fronte sono spesso foto prese dall’alto, con un atteggiamento che testimonia anche una certa retorica. Come i soldati schierati in ordine perfetto dentro il cortile della Reale Accademia militare di Torino, dentro uno spazio che parla già di guerra, ma in qualche modo è uno spazio asettico, pulito, ordinato. Qualcosa di molto lontano dalla realtà della guerra che ciascuno di loro, volontario o meno, sperimentò in prima persona. (si veda la foto 1)

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Foto 3. Giorgio Cividalli in trincea (Fonte: Archivio storico Istoreco di Livorno, fondo fotografico famiglia Cividalli)

Una volta al fronte i soldati ebrei si comportarono come tutti gli altri. Forse partirono entusiasti, ma presto cominciarono a perdere l’enfasi iniziale perché la guerra si dimostrò molto più dura di quanto ciascuno di loro poteva aver immaginato. Come si rappresentarono, soprattutto per i cari familiari che li attendevano a casa? All’inizio in posa davanti all’obiettivo, con la divisa ordinata e con lo sguardo fiero. Poi lentamente il paesaggio bellico prese il sopravvento. Ma anche lo stesso spazio nel quale erano immersi era così diverso dalle loro case e dalle loro abitudini. Ricordiamoci che la stragrande maggioranza di questa piccola minoranza viveva in città. Era una minoranza urbana sia per abitudini che per nascita. E adesso i giovani maschi presenti al fronte avevano come compagnia le montagne di dolomia, il paesaggio innevato, i cavalli e i mezzi bellici: cannoni, mitragliatrici, postazioni, trincee, costruzioni artificiali fatte dopo aver con ogni evidenza disboscato gli spazi, o case vuote e abbandonate dalla popolazione locale che era stata costretta ad uno sfollamento forzato. (Si vedano le foto 2, 3, 4)

Nonostante tutto ciò le foto che si inviano a casa vogliono mostrare uno scenario positivo, vogliono rincuorare i genitori, le fidanzate, le giovani mogli. Per dare questa impressione di positività si ricorre alle foto con gli amici più stretti, quelli con i quali si condivide tutto, quelli che ci sono accanto quando si rischia la vita.

In uno di questi piccoli fondi fotografici[4] sono presenti alcune foto dello stesso soldato, Giorgio Cividalli[5], quando dopo la guerra, in compagnia di amici e della giovane moglie, ritorna sugli stessi luoghi. Le foto sono scattate davanti alle stesse montagne sulle quali si è combattuto. Chissà forse per rendere meglio l’idea di cosa ha significato per questo fiorentino, borghese, giovane, vivere e lottare a 2.000 metri di altitudine. È un po’ come tornare sul luogo del delitto. (Si veda la foto 5)

Ma nessuno di loro, o perlomeno pochissimi, soprattutto quelli che si erano riconosciuti nel pacifismo di un loro correligionario più famoso e più avvertito, Giuseppe Emanuele Modigliani, smentirono mai quella scelta, che continuarono a rivendicare anche a decenni dalla fine del conflitto. In questo pensiamo pesi molto anche la loro estrazione borghese, poiché per le testimonianze che abbiamo delle classi popolari il discorso è assai più articolato e complicato.

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Foto 4. Giorgio Cividalli in montagna (Fonte: Archivio storico Istoreco di Livorno, fondo fotografico famiglia Cividalli)

E per questa adesione alla vecchia scelta ci soccorrono le immagini in divisa militare, quando oramai la guerra è lontana, foto scattate in uno studio in totale tranquillità, lontanissimi dalle granate e dal freddo, dai pidocchi e dalle malattie che quella guerra sporca, disumana come mai altre prima, aveva fatto loro conoscere.

Pensiamo alla bella foto di Carlo Castelli, farmacista partito per la guerra e combattente della sanità[6] (si veda la foto 6) o quella di Carlo Alberto Viterbo che posa accanto alla giovane sposa in abito da ufficiale della Grande Guerra[7]. E la loro identificazione è evidentemente molto forte considerando anche il fatto che ciascun ebreo si trova, una volta giunto al fronte, a sparare contro probabili correligionari che combattono sull’altro fronte. Ebrei contro ebrei.

Nonostante questo le foto ci raccontano una identificazione pressoché totale con la causa italiana, mai venuta meno. Identificazione del resto condivisa anche dalle donne ebree, quelle donne che si erano mobilitate per dare assistenza e conforto ai soldati partiti per il fronte. Scriveva una di loro, a molti anni di distanza, quando si sentiva abbandonata dallo Stato italiano sotto le bombe, in fuga dalla sua casa, perseguitata e perseguibile proprio perché ebrea:

”Ho amato l’Italia con tutte le forze dell’animo mio. Nell’altra guerra ho fatto quanto era in me per concorrere in qualche modo alla vittoria delle armi italiane: ho passato si può dire la vita negli ospedali, ho lavorato per mandare pacchi ai soldati, la sera fino a mezzanotte. E quando sono venute le terribili giornate di Caporetto ho pianto di dolore e di vergogna.

Avrei dato la vita per salvare l’Italia!”[8]

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Foto 5. Giorgio Cividalli in montagna dopo la guerra (Fonte: Archivio storico Istoreco di Livorno, fondo fotografico famiglia Cividalli)

Eppure Emma De Rossi nei Castelli aveva il primogenito al fronte, Carlo, e sicuramente tremava per la sua sorte. Ma l’adesione all’impresa bellica era stata così forte e partecipata che anche nella tormenta della Seconda guerra e della persecuzione antiebraica, il ricordo rimaneva vivo e veniva rivendicato in nome di una italianità che il fascismo poi aveva calpestato. Perché quella loro partenza entusiasta, spesso anche dalle colonie italiane per combattere contro gli austroungarici, fu poi sconfessata totalmente dallo stato totalitario di Mussolini che in ottemperanza alle sciagurate Leggi razziste del 1938, li espulse da ogni rango dell’esercito italiano[9].

[1] Cfr. la Sezione 01, Gli ebrei toscani e la Grande Guerra 1915-1918, del Catalogo della Mostra Ebrei in Toscana XX-XXI secolo, Ets, Pisa, 2016, pp. 34-35, e 52-53.

[2] Il conteggio è possibile attraverso la lettura analitica del testo di Pierluigi Briganti, Il contributo militare degli ebrei alla Grande Guerra 1915-1918, Silvio Zamorani editore, Torino, 2009.

[3] Cfr. La Grande Guerra. Fotografie dal fronte, note da Cuneo e dalle città “irredente”, a cura di Marco Ruzzi, Primalpe, Cuneo, s.d.

[4] Si tratta si documentazione raccolta dall’Istoreco di Livorno durante la preparazione della Mostra Ebrei in Toscana XX-XXI secolo, archiviata presso l’archivio dell’Istituto stesso.

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Foto 6. Carlo Castelli da ufficiale (Fonte: Archivio storico Istoreco di Livorno, fondo fotografico famiglia Orefice)

[5] Le foto della famiglia Cividalli ci furono donate dalla signora Sara Cividalli figlia del soldato Giorgio di cui ragioniamo in questo testo.

[6] Cfr. il Catalogo della Mostra Ebrei in Toscana XX-XXI secolo, cit., p.33.

[7] Ibidem, p.33.

[8] Emma De Rossi, Pensieri e diario giugno 1943-novembre 1945, in Nei tempi oscuri. Diari di Lea Ottolenghi e Emma De Rossi Castelli. Due donne ebree tra il 1943 e il 1945, Comune di Livorno, Belforte & C. Editori, Livorno, 2000, p.181.

[9] Cfr. Annalisa Capristo e Giorgio Fabre, Il Registro. La cacciata degli ebrei dallo Stato italiano nei protocolli della Corte dei Conti 1938-1943, Il Mulino, Bologna, 2018, pp. 125-129 e Alberto Rovighi, I militari di origine ebraica nel primo secolo di vita dello stato italiano, USSME, Roma, 1999.




La Camera sindacale del Lavoro di Livorno

La storia non può cancellarsi davanti agli storici: così ha scritto Marc Bloch. Infatti, anche se per molto tempo è stata pressoché ignorata dalla storiografia locale, dal 1920 al ’22, a Livorno fu attiva una seconda Camera del Lavoro, aderente all’Unione Sindacale Italiana e punto di riferimento operaio nei conflitti tra capitale e lavoro, prima che il fascismo distruggesse, assieme alle sedi del movimento operaio, anche le conquiste dei lavoratori.

Una prima sezione livornese dell’USI si era costituita dopo la fine della Prima guerra mondiale, «in questa città ove il riformismo ha sempre imperato»: lo riferisce un comunicato pubblicato il 15 dicembre 1918 sul giornale dell’USI, «Guerra di Classe», da cui si apprende del rilevante apporto di alcuni ferrovieri e che, ottimisticamente, venivano prenotate 500 tessere per l’anno seguente.

1920 USI LivornoNel gennaio 1919, si giungeva quindi alla ricostituzione del Fascio operaio “Emancipazione e lavoro” – già attivo prima del conflitto, con sede in via dei Cavalieri – che raccoglieva un certo numero di giovani operai, attorno ad alcuni vecchi militanti, che non si riconoscevano nella Camera confederale del Lavoro, rivendicando l’assoluta autonomia della classe lavoratrice da tutti i partiti politici e dai governi. Nel programma pubblicato su «Guerra di Classe» dell’11 gennaio 1919, si rendeva nota la sua adesione all’USI, «l’unica organizzazione nazionale che sia rimasta incorruttibile e fiera sul terreno della più rigida lotta di classe».

Lo sviluppo della realtà sindacalista veniva favorito dall’inasprirsi della situazione economica e sociale post-bellica e della conseguente radicalizzazione delle lotte operaie, tanto che «a malapena trascorreva anche una sola settimana senza scioperi, ostruzionismi, tumulti, cortei, comizi ed altre forme di azione politica di sinistra». In questo clima, tra febbraio e marzo 1919, «un gruppo di animosi» si attivò per la creazione di una Camera del lavoro alternativa e in antitesi a quella, fondata nel 1886, aderente alla Confederazione Generale del Lavoro (CGdL), con sede in via Vittorio Emanuele 24, nei pressi di piazza Colonnella.

Tale Camera confederale era ormai controllata da una maggioranza socialista riformista, ad eccezione della Federazione dei metallurgici (FIOM) a prevalente indirizzo massimalista, con sempre meno spazio d’iniziativa per le minoranze repubblicana e anarchica, e a promuovere questo primo tentativo sindacalista di scissione erano stati alcuni ferrovieri socialisti, lavoratori repubblicani e, soprattutto, operai e scaricatori anarchici, uniti dall’opposizione verso la condotta, ritenuta inadeguata e perdente, della dirigenza riformista.

Peraltro, a Livorno vi era stata una precedente esperienza di sindacalismo conflittuale nel 1904, durante il periodo in cui il noto agitatore sindacalista Alceste De Ambris si era trovato a Livorno con l’incarico di segretario della Federazione nazionale dei Bottigliai. Fu infatti dopo lo sciopero generale del 19 settembre di quell’anno che comparve il combattivo Gruppo di propaganda sindacalista che raccolse un certo numero di sindacalisti rivoluzionari di matrice socialista-soreliana, fautori dell’azione diretta e dello sciopero generale espropriatore.

Tra il 1905 e il 1906, il principale esponente del socialismo riformista livornese, l’on. Giuseppe Emanuele Modigliani, si preoccupò di osteggiare accanitamente «l’infatuazione direttista» all’interno del Partito socialista, riaffermando la centralità della politica parlamentare. De Ambris rispose alle sue argomentazioni, precisando che l’azione sindacale non escludeva quella parlamentare purchè subordinata ad essa, ricordando che «l’emancipazione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stessi».

Il “sindacalismo puro” nel contesto livornese non aveva però avuto seguito, stretto come era tra la predominanza socialista – sia riformista che massimalista – e la consistente e storica presenza anarchica; anche perché a livello nazionale i sindacalisti rivoluzionari nel 1907 decisero di separarsi dal PSI ma di rimanere nella CGdL.

Infatti, il processo che avrebbe portato all’affermazione dell’USI a Livorno fu possibile soprattutto grazie al consistente apporto degli “anarco-sindacalisti” che, peraltro, fornirono ad essa la quasi totalità dei quadri dirigenti.

Lo scoppio dei moti del caroviveri, nel luglio 1919, che videro l’iniziativa unitaria della Camera del Lavoro, del Partito socialista e dei gruppi anarchici, nonché la susseguente ondata di arresti e denunce, presumibilmente ritardò la costituzione della Camera sindacale; appare comunque significativo che, durante la sommossa popolare, all’Ardenza fu approvata una risoluzione assembleare che ricalcava quella rivendicata dalla forte Camera sindacale di Piombino, Elba e Maremma, aderente all’USI.

Nei mesi seguenti, a Livorno, gli attivisti che facevano riferimento al sindacalismo d’azione diretta – così come la minoranza anarchica all’interno della Camera confederale del Lavoro – ebbero un ruolo decisivo nello sciopero generale indetto per la libertà di Errico Malatesta, arrestato a Tombolo nel febbraio 1920.

Un prima occasione in cui emerse il crescente dissenso nei confronti della linea moderata della Camera confederale del Lavoro fu lo sciopero generale attuato il 6 e il 7 aprile, per protestare contro l’eccidio avvenuto a San Matteo della Decima, frazione di S. Giovanni in Persiceto (Bo), dove le forze dell’ordine avevano ucciso 8 lavoratori ad un comizio indetto dall’USI. In tale frangente, a Livorno, il 6 aprile si erano mobilitati soprattutto anarchici e repubblicani, mentre i dirigenti confederali e socialisti avevano cercato di abbassare la tensione, così come l’on. Modigliani parlando al comizio, mentre l’anarchico Natale Moretti aveva sostenuto lo sciopero generale ad oltranza. L’indomani però la situazione era del tutto sfuggita di mano ai dirigenti riformisti e – come titolò «Il Telegrafo» del 9 aprile – «i socialisti [furono] esautorati dagli anarchici». Una moltitudine di operai e sovversivi, dopo aver fatto irruzione nella Camera del Lavoro ed essersi impadroniti del vessillo di questa, dettero vita ad un corteo non autorizzato che, cantando Bandiera Rossa, giunse sino alla stazione ferroviaria dove fu caricato due volte dalle forze dell’ordine. Erano quindi seguiti scontri da piazza Dante sino a piazza del Cisternone, con un bilancio di alcuni feriti, tra i quali l’anarchico Oreste Gori e Vittorio Colombini, operaio del Catenificio Bassoli.

Ulteriore significativa rottura fu conseguente alla sollevazione cittadina contro la repressione governativa, agli inizi di maggio, quando la direzione della Camera confederale era riuscita – seppure a stento – a far rientrare la sommossa popolare sul piano della protesta civile e contenere l’agitazione anarchica, aprendo così al sindacalismo rivoluzionario nuove possibilità di sviluppo nel contesto sovversivo.

Appare infatti evidente, come osserva Luigi Tommasini, che «i fatti del maggio segnarono una grave frat­tura fra movimento anarchico e Partito socialista, e ebbero ripercussioni evidenti a livello sindacale, dato lo stretto coinvolgimento degli organismi camerali nello svolgimento degli avve­nimenti».

Se la Camera confederale del Lavoro, attraverso il segretario Zaverio Dalberto, stigmatizzò il comportamento dei «facinorosi», da parte loro gli anarchici e i sindacalisti rivoluzionari, subito dopo il Consiglio nazionale dell’USI tenutosi a Firenze, concordarono un’azione comune verso gli aderenti dei «partiti sovversivi» (socialista, repubblicano e anarchico) di serrata critica verso la dirigenza confederale della Camera del Lavoro.

Inoltre, in luglio, in occasione del Congresso della Camera del Lavoro confederale i dirigenti erano stati contestati per la mancata mobilitazione in solidarietà con la rivolta antimilitarista di Ancona del mese precedente. Nel corso della stessa assemblea, rispetto all’annunciata nascita della Camera sindacale, fu approvato all’unanimità un reciso ordine del giorno che riteneva incompatibile l’iscrizione ad entrambe le strutture.

Mentre all’interno della Camera confederale rimaneva un’incalzante minoranza anarchica, il progetto sindacalista portò, come primo passo, alla nascita ufficiale di una sezione livornese dell’USI con alcune decine di lavoratori aderenti. La notizia venne comunicata su «Guerra di Classe» del 17 e del 24 luglio 1920, con il seguente commento: «Era ora! Tutte le ottime illusioni sulla unità proletaria, che molti nostri compagni si facevano, e che in omaggio a queste avevano sempre ostacolato una nostra separazione dai confederalisti, oggi, dopo gli ultimi avvenimenti, sono completamente cadute, e i compagni fiancheggiano con fede ed entusiasmo l’opera nostra».

Nell’ambito dell’intenso lavoro organizzativo intrapreso dalla neonata sezione dell’USI verso alcune categorie (operai, muratori, calzolai, falegnami, lavoranti in crogiuoli…), il 25 luglio, presso le scuole Benci, venne promosso un nuovo partecipato comizio riguardante la vertenza metallurgica – con interventi di Moretti, Attilio Chichizzola e Augusto Consani – che approvò un ordine del giorno a sostegno del contegno dell’USI nei confronti della FIOM «tendente ad una unità d’azione nell’attuale agitazione metallurgica».

Il 27 agosto, mentre nelle fabbriche era in atto l’ostruzionismo operaio, in piazza del Municipio si svolse un comizio sulla vertenza metallurgica con gli interventi di Russardo Capocchi per la FIOM, Sereni per la Camera confederale del Lavoro e Moretti per l’USI, prefigurando la presa di possesso delle industrie.

Gli sviluppi della dura agitazione nazionale dei metallurgici fece però rinviare ancora l’apertura della Camera sindacale a Livorno, vedendo i militanti e dirigenti dell’USI impegnati a partecipare assieme alla FIOM, diretta dal socialista massimalista Capocchi, all’Occupazione delle fabbriche e alla loro difesa.

Dopo che a metà agosto in diverse fabbriche erano stati attuati scioperi bianchi e forme di ostruzionismo, il 2 settembre, alle ore 15, gli operai di undici stabilimenti – ai quali se ne aggiunsero almeno altri cinque – entrarono in sciopero e li occuparono, innalzandovi bandiere sia rosse che nere, e in alcuni di questi, come alla Metallurgica e al Cantiere Navale F.lli Orlando, si continuò a produrre in autogestione.

Se per gli anarco-sindacalisti la pratica autogestionaria, quale forma di lotta prefigurante l’espropriazione dei mezzi di produzione, dimostrava «ai pescicani dell’industria siderurgica e meccanica, che la classe lavoratrice è matura per gestire da sé le fabbriche»; ben diversa era la posizione del Partito socialista, così come risulta da un articolo contro «la gestione diretta delle officine occupate […] nel senso che gli [sic] danno gli anarchici», pubblicato in prima pagina sull’«Avanti!» del 5 settembre e, non casualmente, ripreso l’indomani sul principale quotidiano padronale livornese («Il Telegrafo», 6 settembre 1920).

Al contrario, sin dalla prima settimana, i solidali sindacati dei ferrovieri e dei lavoratori del porto garantirono le forniture di materiali e materie prime alle fabbriche occupate.

Gli stabilimenti furono sgomberati dalle maestranze dopo oltre trenta giorni di resistenza, con risultati inferiori alle aspettative; ma il referendum sul concordato tra FIOM e padronato a Livorno registrò la contrarietà di circa 4.270 operai metalmeccanici, rivendicando il pagamento per intero delle giornate d’occupazione ed esigendo che negli aumenti salariali conquistati non rientrasse l’aumento di L. 2,60 al giorno già ottenuto a maggio, ma anche per la contrarietà all’istituzione della Commissione paritetica che avrebbe dovuto sanzionare presunti atti di indisciplina avvenuti durante l’occupazione.

Il progetto sindacalista riprese quindi impulso, in sintonia con la radicalizzazione dei settori operai più risoluti, dopo l’esito deludente del grande movimento delle occupazioni industriali e il contestato accordo nazionale sottoscritto dalla CGdL. In tal senso, da parte dell’USI livornese, furono intensificati gli incontri con gli operai di alcune fabbriche e le iniziative di propaganda, come il comizio rivolto ai lavoratori dell’edilizia, presso le Case Popolari, tenuto da Eugenio Bini e dal muratore anarchico Filippo Filippetti, referente sindacale del settore edile.

A fine settembre del 1920, in un clima di persistente tensione sociale si giunse quindi all’attivazione della nuova Camera sindacale, che poteva contare, oltre ai lavoratori già aderenti all’USI, su consistenti nuclei operai che, non sentendosi più rappresentati dalla FIOM, stavano aderendo al Sindacato Metallurgico dell’USI.

Nel mese di ottobre del 1920, mentre a Bologna venivano arrestati tutti i componenti del Consiglio generale dell’USI, a Livorno, sulla stampa anarchica locale, si trova riscontro dell’avvenuta apertura della Camera sindacale, con sede in viale Caprera – angolo via delle Lance, nel popolare quartiere “Nuova Venezia”, pur se la prima segnalazione in merito da parte delle autorità di polizia comparve tardivamente, in un rapporto datato 22 novembre.

La Camera sindacale, oltre ad essere luogo di riunione per le diverse categorie, sarebbe stato anche uno spazio di socialità, ospitando anche  feste ed altre iniziative di solidarietà, quasi come una Casa del popolo.

Al 2 dicembre, un’ulteriore nota prefettizia – secondo la quale la Camera sindacale si era costituita nei primi giorni di novembre – indicava in circa 600 gli iscritti, di cui 120 al Cantiere navale Orlando, 100 alla Società Metallurgica Italiana, 100 nelle cooperative sul porto e i restanti suddivisi nelle altre medie e piccole industrie cittadine (Prodotti Chimici, Fabbrica carbone fossile Ruchat, Fabbrica Isolatori, Conduttori Elettrici, Officine meccaniche Vestrini, Oleifici Nazionali, Cementeria, Stabilimento Petrolio, Semoleria…).

Tale rilevazione doveva però essere “arretrata” di qualche mese, oppure limitata al settore industriale, in quanto in un nuovo rapporto, datato 8 dicembre, il prefetto informava il Ministero dell’Interno che l’USI aveva raggiunto i mille iscritti mentre, nello stesso periodo, apparivano in calo quelli alla Camera del lavoro confederale che, pochi mesi prima, aveva dichiarato 15 mila tesserati dei quali circa quattromila della FIOM. Infatti, sull’organo nazionale dell’USI, «Guerra di Classe», del 1° gennaio 1921, veniva riferito che il giornale a Livorno era diffuso settimanalmente in 700 copie e che gli iscritti alla Camera sindacale erano ormai duemila e altre categorie andavano organizzandosi (muratori, ferrovieri, elettricisti, arte bianca, facchini del mercato, calzolai, vestitrici di damigiane, etc.).

La rilevanza numerica del passaggio di iscritti dalla Camera confederale a quella sindacalista è indirettamente confermata dal tono polemico del dirigente della FIOM, Adolfo Minghi, giunto a sostenere, davanti ad un’assemblea di metallurgici, che la Camera sindacale era «dannosa alla classe lavoratrice e di vantaggio alla borghesia», nonché altre accuse che dovette ritrattare. Peraltro, il successo di adesioni alla Camera sindacale livornese appare del tutto in linea con le dinamiche nazionali che vedevano l’USI in rapida crescita con 180.000 iscritti a metà del 1919, 305.000 alla fine dello stesso anno e circa 500.000 nell’autunno del 1920.

Alla Camera del lavoro dell’USI aderivano – riconoscendosi nella sua autonomia classista – lavoratori anarchici di diversa tendenza, senza-partito, repubblicani, socialisti ed anche comunisti, «molti dei quali militavano nella Camera sindacale». Inoltre, la stessa componente comunista della CGdL – legata prima alla frazione “intransigente” di Firenze del Partito socialista e poi al PCdI, con a capo il ferroviere Spartaco Lavagnini – avrebbe optato per privilegiare le intese con i sindacalisti rivoluzionari, in funzione antiriformista, così come avvenne all’inizio del 1921, durante gli scioperi contro i licenziamenti di massa nelle fabbriche livornesi, soprattutto nel settore metalmeccanico, per la “crisi” ritenuta «una bassa manovra egoistica e reazionaria per gettare sul lastrico migliaia di lavoratori».

Su tali posizioni di forte antagonismo, la Camera sindacale si rafforzò, divenendo anche punto di riferimento delle Commissioni interne di fabbrica, mentre lo scontro fra la linea confederale e quella sindacalista si fece sempre più aspro. La Camera del Lavoro della CGdL, infatti, era orientata a contrattare (oggi si direbbe concertare) le modalità di attuazione dei licenziamenti, cercando di mitigarne gli effetti con la richiesta di contributi e sussidi per i disoccupati, nonché suggerendo i criteri – discriminanti per sesso, anzianità e provenienza – con i quali il padronato doveva effettuarli. All’opposto, la Camera del Lavoro sindacale rifiutava recisamente tale contrattazione per regolare i licenziamenti, sostenendo la necessità di una lotta contro quella che riteneva una manovra politica degli industriali per indebolire il movimento operaio e annullarne le recenti conquiste salariali e normative. Su queste posizioni, con impostazione sindacalista rivoluzionaria, lotte importanti furono attuate dagli operai allo Stabilimento Italo Americano Petrolio, alla Società Molini, alla Mattoni Refrattari dell’ing. Mathon, alla Società Conduttori Elettrici e agli Oleifici Nazionali, non senza scontri fisici tra “estremisti” (ossia sindacalisti rivoluzionari, anarchici e comunisti) e confederali.

Nel settembre 1921, durante la vertenza alla Società Metallurgica Italiana contro un taglio salariale del 10%, la Camera sindacale sostenne con forza la lotta degli operai e, durante una partecipata manifestazione, intervenne il dirigente nazionale dell’USI e segretario della Camera sindacale di Sestri Ponente, Antonio Negro, che accusando i riformisti del PSI e della CGdL per i numerosi cedimenti, ricordò come «un anno fa le bandiere rosse sventolavano su tutte le officine: avevamo le armi, eravamo i padroni, e dovevamo restare tali. Ma i dirigenti di allora hanno tradito e bisogna spodestarli, e d’accordo con Lenin occorre fare la rivoluzione». Il 20 ottobre seguente il prefetto ebbe quindi a paventare come «il partito sindacalista, e per esso la Camera del Lavoro sindacale, tende ad impadronirsi del movimento operaio, sostituendosi alla FIOM e qualora vi riuscisse l’ordine pubblico certamente non se ne avvantaggerebbe».

Per contrastare l’ondata di scioperi e insorgenze sociali, oltre al consueto intervento poliziesco (come avvenuto, ad esempio, contro l’occupazione operaia degli Oleifici Nazionali), anche a Livorno il padronato, le gerarchie militari e i settori più reazionari della borghesia locale avevano affidato la «controrivoluzione preventiva» alle squadre fasciste e nazionaliste, per cui la Camera del Lavoro sindacale dovette attivarsi anche su questo fronte, divenendo un punto di riferimento per la difesa proletaria e per l’organizzazione degli Arditi del popolo.

A tragica conferma del ruolo sostenuto dalla Camera sindacale nella battaglia antifascista, vi è la morte sotto il piombo degli squadristi e delle forze dell’ordine di due aderenti all’USI durante l’attacco fascista a Livorno del 2 agosto 1922, costato ben otto vittime. Nella periferia nord, nel corso di uno scontro a fuoco, cadde il già citato Filippetti, ardito del popolo e rappresentante sindacalista per il settore edile; mentre nel quartiere S. Marco rimase ucciso Gisberto (o Gilberto, secondo altre fonti) Catarsi, operaio del Cantiere “Parodi e Del Pino”, facente parte del consiglio direttivo della Camera sindacale e militante del gruppo anarchico “C. Cafiero” di Montenero.

In quelle giornate di reazione, assassinii e distruzioni sistematiche delle sedi sindacali e politiche della sinistra, dopo che la Camera confederale fu devastata una seconda volta, soltanto la Camera sindacale rimase inespugnata, difesa con le armi dai suoi militanti e forte della collocazione nel quartiere sovversivo della “Nuova Venezia”. Imposto lo stato d’assedio alla città, il 10 agosto la Camera sindacale subì una seconda perquisizione, venendo interdetta su ordine dell’autorità militare, dopo essere stata mezza devastata dai carabinieri col pretesto di scovarvi armi ed esplosivi. Per la sua chiusura definitiva i fascisti dovettero però attendere di governare, dopo la Marcia su Roma. Pur senza sede e senza giornale, i sindacalisti dell’Unione ancora in libertà continuarono la propria attività, sempre più illegale, sino al gennaio 1925 quando, a livello nazionale, con un decreto prefettizio l’USI fu formalmente dichiarata fuorilegge, costringendola ad agire all’estero o in clandestinità.

[Il presente testo è un estratto della ricerca: Marco Rossi, L’altra Camera del Lavoro. Livorno 1920 – ’22. L’azione dell’U.S.I. e Augusto Consani, sindacalista rivoluzionario, Gruppo editoriale USI-CIT, Livorno 2020]