1

Mazzino “Aldo” Fedi

Ad ogni modo, è interessante analizzare il motivo per il quale Fedi e i propri compagni avessero deciso di entrare in azione proprio nel corso di una manifestazione così partecipata e in vista come una corsa ciclistica. L’obiettivo era quello di sferrare un vero e proprio attacco allo «sport capitalista», definito un «mezzo efficace adottato dalla borghesia di tutti i paesi per distrarre i giovani dalla vita politica, da quello che è il loro interesse vitale (difesa delle conquiste, libertà di riunione), creato con lo scopo di stabilire fra tutti i giovani sparsi per il mondo capitalista un filo che li colleghi al Fascismo». Questo filo, riportava un comunicato dal Fronte unico dei giovani lavoratori:

è quello dello sport professionale, che in questa località vi è una grande maggioranza di giovani ciclisti italiani i quali hanno aderito alla società ciclistica diretta dal Consolato, agente della repressione fascista, le cui mani sono lorde di sangue proletario. Noi giovani che amiamo lo sport non dobbiamo essere diretti dagli agenti consolari che sono al servizio del capitalismo, per difendere il loro capitale, capitale finanziario, ma dobbiamo formare delle società dirette da noi giovani lavoratori, senza un controllo assiduo da parte del fascismo affamatore e assassino. Scacciare via i dirigenti che tentano con la loro demagogia dello sport di fare di voi giovani carne da macello per la futura guerra che il capitalismo italiano prepara febbrilmente. A questo scopo il Comitato d’azione del Fronte unico giovanile di Toulon fa appello a tutti i giovani sportivi di partecipare alla riunione che si terrà il giorno 19 aprile alla Bourse du travail […] per gettare le basi di creare una società sportiva operaia diretta dai giovani ciclisti. Avanti giovani ciclisti, per la formazione di una società senza dirigenti mussoliniani!

Queste note guardavano da vicino l’organizzazione del Dopolavoro e delle associazioni sportive e culturali, declinando nuove forme di conflittualità negli spazi comunitari e della società civile. Esperienze non certo isolate, eppure indicative del dispiegamento e dell’attività portata avanti dai militanti antifascisti anche durante la clandestinità. Su Fedi intanto si era fatta incombente la minaccia di espulsione dalla Francia. A decreto confermato, riuscì però a spostarsi nuovamente a Tolone e a riprendere da lì il proprio lavoro di proselitismo. Con fare provocatorio, continuò oltretutto a spedire all’indirizzo di Giuliano Giovannelli stralci e ritagli di giornali comunisti; fu lo stesso Giovannelli a consegnare alla polizia una nuova busta contenente un numero “Battaglie Sindacali” (n°. 6, 1934), organo della Confederazione generale del lavoro aderente all’Internazionale sindacale rossa (Profintern), accompagnato da un foglietto vergato a penna e recante un messaggio sibillino: «Sei convinto? Fattela leggere».

Condizionato da un carattere irascibile e poco disposto a compromessi, Fedi finì per entrare in conflitto anche con gli altri militanti. Le sue posizioni sull’anarchismo avevano destato più di qualche perplessità, ma la vera crepa si formò in seguito alle voci – dichiarate fittizie dallo stesso Fedi – che lo accusavano di essersi avvicinato alla causa trotskista: la Centrale del partito comunista lo sollevò quindi dal suo incarico a Lione e lo sostituì con il redattore (indicato come Catena) della rivista antifascista “Vita Operaia”. Consapevoli della sua condizione di assoluta indigenza, gli agenti dell’OVRA – secondo una procedura consolidata – tentarono invano di avvicinarlo per ottenere informazioni su altri sovversivi, cercando di sfruttare eventuali risentimenti. Fedi tuttavia riuscì a far perdere le sue tracce per alcuni mesi, girovagando tra il Varo e la Provenza in cerca di occupazione.

Una nuova segnalazione sul suo conto arrivò nel luglio 1935, quando il ristoratore Gino Lombardi riferì alla polizia di averlo visto consumare pasti per circa un mese nel suo locale (lasciato insoluto un debito di 100 franchi) di Villeurbanne e di saperlo in partenza per Marsiglia. Pochi giorni dopo la polizia intercettò un telegramma diretto a Rhon, nel quale la zia di Fedi, Evelina, dichiarava al nipote di non potergli consegnare l’indirizzo della sorella, probabilmente per timore di fornire troppe informazioni. Tra continui cambi di nome, Fedi venne così arrestato ancora una volta il 24 febbraio 1936 – assieme a Giovanni Tognetti e Gino Lombardi – con l’accusa di «infrazione al decreto di espulsione e […] sospetto di aver commesso […] un furto di gioielli». Scortato in carcere, dichiarò apertamente di «essere antifascista» e di aver commesso il reato: ciò si tradusse in una condanna a cinque mesi di reclusione e a 300 lire di multa per ricettazione, aggravando una posizione personale sempre più compromessa. Il fascicolo del Casellario Politico Centrale manca però di fornire aggiornamenti su ciò che accadde nei mesi successivi, lasciando ipotizzare una nuova fase di latitanza nella Francia governata dal Front populaire.

Il suo nome ricomparve nel febbraio 1937, segnalato tra i venti fuoriusciti che tra il 5 e il 19 gennaio erano partiti dalla Seyne per Marsiglia; lì si ricongiunsero ad una cinquantina di reclutati da Reynier, Six Fours-la Plage e St. Mandrier, pronti a salpare verso la Spagna e combattere nelle file delle Brigate internazionali. Nell’immanenza, i dati e le comunicazioni continuarono ad essere lacunosi e imprecisi: stando alla documentazione raccolta nel fascicolo del Casellario Politico Centrale tra il 1937 e il 1938, Fedi risultava infatti essere rientrato in Francia ed aver abbracciato la causa del Partito socialista italiano. Sappiamo invece con certezza che egli rimase in Spagna fino al 1938. Sarebbe stato lui stesso a confessarlo nel luglio 1940, una volta consegnato alle autorità italiane[1]. In terra iberica, ad Albacete (sotto il comando nominale di André Marty), venne infatti subito inserito nel servizio sanitario del Battaglione Garibaldi quale barelliere e successivamente come motorista. Passò poi alla XII Brigata Garibaldi come artigliere, per finire aggregato alla XV Brigata nordamericana Lincoln (batteria antiaerea) sui fronti del Levante e dell’Estremadura. Come mitragliere prese invece parte ai combattimenti del Guadarrama, Teruel, Caspe, Brunete e Huesca[2], prima che una ferita alla gamba lo costringesse ad un lungo soggiorno nell’ospedale di Murcia e ad uno più breve in quello di Albacete.

Non più idoneo fisicamente e colpito da forti febbri, una volta dimesso fu adibito ai servizi ausiliari: nell’ottobre del 1938 lasciò comunque la Spagna con convoglio sanitario e tornò in Francia, a Parigi. Nella capitale francese, schiacciato da una situazione economica estremamente complessa e trovatosi ai margini dell’attività partitica, decise di scrivere alla sorella Fulvia dopo un lungo silenzio, manifestandole l’intenzione di partire clandestinamente per l’America del Sud:

Ormai per me in Europa non c’è più nulla da sperare perché la conosco palmo per palmo. L’unico paese dove si poteva vivere un po’ meglio era la Francia, ma per me è finita pure in Francia perché sono espulso e non posso più avere la carta d’identità per lavorare e se mi prende la polizia mi arresta per un bel pezzo. Certo la mia intenzione è quella di andarmene nell’America del Sud, ma per andare legalmente occorrono molti soldi che io non posso far fronte a una simile spesa, perché attualmente è molto difficile fare fronte anche alle spese giornaliere, per mangiare, malgrado che io sono sempre stato più sveglio di tanti altri. Quando sono mesi e mesi che non si lavora puoi immaginarti come possiamo vivere. Quindi guardo di lasciare l’Europa clandestinamente se posso, certo non posso dirti che sia oggi o domani.

Il tentativo non andò a buon fine. Arrestato, nel 1939 venne internato a Gurs – dove dal 15 marzo 1939 le autorità francesi avevano deciso di installare un centre d’accueil per i reduci delle Brigate Internazionali e i fuggiaschi che arrivavano dalla Spagna – e a Vernet, realtà in cui si trovò a scontare – dopo essere passato dalle compagnie di lavoro vicino a Calais – le durissime condizioni a cui venivano sottoposti gli «stranieri sospetti e pericolosi». Incorporato nel campo di Moulin de Torpac (253 CTE) e costretto al lavoro coatto a Saint Omer (Pas-de-Calais), riuscì a fuggire e ad evadere in Belgio: qui venne fermato dai nazisti, rinchiuso temporaneamente in carcere a Dunkerque e poi inviato di nuovo – nel 1940 – a Vernet come «capo di una cellula anarchica […] molto intelligente e pericoloso».

La stipulazione dell’armistizio tra Francia e Italia, tuttavia, sancì l’immediata liberazione dei civili italiani internati e la loro rimessa alle autorità militari italiane. Ai prigionieri era teoricamente lasciata la possibilità scegliere se essere o meno riconsegnati, condizione che nell’estate del 1940 spinse una Commissione di Armistizio a visitare i campi per convincere i connazionali a firmare per il ritorno in patria. A luglio, tra pressioni e opere di convincimento, a sottoscrivere il rimpatrio (forse costretto) fu anche Mazzino Fedi che, una volta consegnato alle autorità, venne interrogato e destinato a cinque anni di confino sull’isola di Ventotene «quale elemento politicamente pericoloso». Durante il quarto trimestre del 1941 fu poi spostato ad Ustica, prima di un ultimo trasferimento – dopo Cassibile – nel campo di Renicci d’Anghiari (Arezzo), dove venne liberato il 15 settembre 1943.

Non disponiamo di ulteriori notizie su di lui, se non che dal 1965 si stabilì a Torino con la moglie Vincenzina Bertone. Prese probabilmente parte alla Resistenza, anche se al momento quest’ultima resta solo un’ipotesi. La sua figura emerse comunque come quella di un antifascista «zelante negli incarichi ricevuti», capace di muoversi abilmente nella rete clandestina e di evidenziare l’importanza specifica di individui e organizzazioni che – nella loro eterogeneità – risultarono fondamentali nella costruzione e nel rafforzamento di un sentimento democratico e antifascista.

[1] A confermare la presenza di Mazzino Fedi in Spagna sovvennero anche le confessioni alla polizia politica di Francesco Guido Berard, rilasciata il 9 aprile1940, e di Giuseppe Jacopini (17 ottobre 1941).

[2] Cfr. http://www.antifascistispagna.it/?page_id=758&ricerca=2093.

*Federico Creatini è dottore di ricerca in Storia del lavoro. E’ stato borsista di ricerca presso l’Università di Pisa e l’Istituto Ferruccio Parri. Attualmente è borsista di ricerca presso il Centro di ricerca Maria Eletta Martini-Scuola superiore Sant’Anna.




Lungo l’aspra via dell’idea

A Livorno!
Ancora una tappa. È necessario. Lungo l’aspra via dell’Idea ogni tanto ci fermiamo, raccogliamo le forze, le passiamo in rassegna, ci volgiamo indietro, la guardiamo intorno e davanti, vicino e dietro.
Qualcuno stanco per l’asperità del terreno si ferma e ritorna, gli altri riprendono la marcia in file serrate che si ingrossano sempre di più strada facendo.

Così, il 4 gennaio 1921, «L’Avvenire» salutava il congresso di Livorno, dove, più divisi che mai, i socialisti erano chiamati a votare l’adesione alle 21 condizioni poste per l’ingresso nella Terza Internazionale. Organo della federazione circondariale socialista e dotato di una storia ultratrentennale, il settimanale era allora gestito dalla corrente maggioritaria nel partito: quei “socialisti massimalisti” che, rappresentati dal direttore de «L’Avanti!» Giacinto Menotti Serrati, avevano inizialmente guardato con favore sia al ruolo guida della Russia rivoluzionaria sia alla Terza Internazionale.

Molti erano però i motivi che stavano incrinando gli entusiasmi. La disgregazione dei partiti socialisti francesi e tedeschi suscitava analoghe paure per il partito italiano; decisivi erano stati anche i dubbi sulla possibilità di organizzare una rivoluzione in breve tempo, esibiti dall’occupazione delle fabbriche nel settembre 1920. Soprattutto il mancato appoggio dei massimalisti scavò un fossato profondo tra di loro e le frange più radicali: il gruppo torinese di «Ordine Nuovo» (rappresentato da Gramsci, Terracini e Togliatti), gli “astensionisti” campani di Amedeo Bordiga e l’eterogenea «terza componente» tosco-emiliana.

Se dal panorama nazionale spostiamo lo sguardo su quello pistoiese poco netta fu, a questo proposito, la posizione de «L’Avvenire», impegnato in quanto organo ufficiale del PSI locale a giostrarsi tra le sue litigiose correnti. Confusa era anche la situazione politica locale: nel 1919 la giunta clerico-moderata di Arrigo Tesi era stata commissariata per irregolarità nella gestione dei magazzini comunali e venne destituita. Tra il maggio e giugno  1919 erano stati organizzati numerosi scioperi tra i lavoratori dell’industria; il 4 luglio, durante la manifestazione contro il caro-vita, un esasperato gruppo di lavoratori assaltò il centrale Emporio Lavarini.

Come il direttivo nazionale, anche quello del PSI locale era discorde sulla linea da adottare. Buona parte della rivista – gestita allora da Pietro Querci – e del gruppo dirigente pistoiese era legata ai serratiani. A Capostrada forti erano i bordighiani, mentre in montagna il punto di riferimento era Savonarola Signori, sindacalista di simpatie ordinoviste e sindaco di San Marcello tra 1921 e 1922. Roccaforte dei riformisti era invece la Camera del Lavoro, presieduta da Alberto Argentieri.

Se l’editoriale A Livorno!, auspicava sì una scissione, ma a destra, i comunisti erano infatti favorevoli a creare un partito autonomo. Tra questi figurava l’autore de I comunisti al congresso di Livorno (pubblicato il 15 gennaio 1921), ON-DA:

Credo – scriveva infatti – che la frazione comunista, già a [sic] Partito Politico vibrante di vita e di fede, a Livorno debba iniziare la sua battaglia, non nell’orbita del passato, ma lontano da questo per un principio di purezza e di vitalità.

Ugualmente orientata verso la scissione a sinistra era la corrente riformista. Nel suo editoriale Da Genova a Livorno (pubblicato il 22 gennaio) V., nel ricordare le precedenti scissioni (quella degli anarco-sindacalisti, negli anni ’90; dei sindacalisti rivoluzionari, nel 1904; della minoranza favorevole all’intervento nella guerra italo-turca, nel 1912), bollava quella futura «una dolorosa ineluttabilità».

L’esito del congresso minò il complesso equilibrio del PSI pistoiese. La mancata adesione alla Terza Internazionale – che li rigettava a favore del PCd’I – contrastava con gli entusiasmi per la Rivoluzione russa e la convinzione di essere il partito più radicale dell’Europa occidentale. Con la scissione acquistavano un peso maggiore i riformisti e la CGL. Per di più, entro pochi mesi dal congresso, gli iscritti alle singole federazioni dovevano decidere se restare nel PSI o migrare nel PCd’I: scarsa era quindi la consapevolezza di quali strutture sarebbero rimaste ai socialisti.

Questo disorientamento ben emerse nel primo editoriale sull’argomento il 19 febbraio 1921. «Il Congresso della Terza Internazionale»,

non potrà nulla addebitare al nostro Partito Socialista Italiano, il più puro, il più intransigente partito socialista del mondo e finirà col conservarci nei ranghi, perché tenemmo e terremo il nostro posto con onore.

Fu questa una convinzione che venne ribadita anche nei mesi successivi, quando il voto del 10 marzo tra gli associati pistoiesi sancì il passaggio della sede e del settimanale al Pcd’I. Mentre con il numero 19 marzo «L’Avvenire» diventava l’“Organo della Federazione circondariale comunista”, gli esuli socialisti confluivano ne «L’Avvenire socialista», che ancora il 12 marzo ribadiva la vicinanza tra socialisti e comunisti:

I proletari che amano la causa rivoluzionaria non possono voler la divisione del Proletariato, sia pure nel solo campo politico. L’unione fa la forza!

Una condivisione messa fortemente in dubbio dall’altro elemento della diade. «Il partito socialista» chiosavano infatti i comunisti sul primo numero de «L’Avvenire»

prima e durante la guerra non à [sic] dimostrato chiaramente di possedere qualità rivoluzionarie […]. Il dopoguerra à [sic] poi lumeggiato tutta l’impotenza rivoluzionaria di questo partito […]. Ed allora come si fa a chiamare ancora rivoluzionario questo partito socialista?

 




“Agire, Agire, Agire!”

Davanti alla scelta di entrare nel conflitto mondiale, i socialisti pistoiesi risentirono delle divisioni del PSI nazionale. La linea ufficiale era di neutralità assoluta, ma le correnti erano in disaccordo, fronteggiandosi su «L’Avvenire», organo locale del partito. I riformisti, maggioritari in città, adottarono un orientamento attendista. I massimalisti, forti nelle zone bracciantili e nelle industrie della montagna, erano fermamente neutralisti. Le sezioni pistoiesi risentirono dell’ambigua linea di condotta della dirigenza nazionale, mettendo al primo posto la salvaguardia dell’unità del partito. Al di là di organizzare conferenze contro la guerra per mobilitare i ceti popolari, il partito non seppe farsi guida delle spontanee agitazioni antibelliciste. Solo nell’area di Lamporecchio, per merito del sindaco Idalberto Targioni, le manifestazioni ebbero caratteri più organizzati, ma si esaurirono con l’intervento (maggio 1915).

Dopo l’ingresso in guerra, le fratture si acuirono. Alcuni importanti esponenti, come il riformista Amulio Cipulat (direttore de «L’Avvenire») e Targioni, lasciarono il PSI e si “convertirono” all’interventismo. Questi abbandoni provocarono un’emorragia di iscritti, che indebolì soprattutto i riformisti. I massimalisti – tra i quali emerse una frangia di sinistra animata da giovani militanti, che rivendicava una linea rivoluzionaria – guadagnarono posizioni nel partito e nel giornale, che divenne assai critico con la giunta comunale. Intanto, a partire dal 1916 si acuirono le tensioni sociali, con scioperi dei lavoratori e proteste delle donne delle campagne contro la guerra. Nei moti, i socialisti locali mantennero però un ruolo passivo. Il partito era stato minato dalle defezioni, dalla coscrizione obbligatoria e dagli arresti. La dirigenza era poi divisa sul da farsi. I riformisti non appoggiavano le proteste e favorivano la collaborazione con l’amministrazione. L’ala intransigente intendeva supportare le agitazioni popolari e operaie. I massimalisti ebbero la meglio nel convegno collegiale del luglio ’17 e votarono di seguire il modello bolscevico, spogliandosi «di tutte quante le ideologie borghesi e anteporre alla patria l’internazionale proletaria». Nondimeno, la stretta repressiva successiva a Caporetto frenò le pretese rivoluzionarie. «L’Avvenire» interruppe le pubblicazioni per le divisioni della redazione.

Concluso il conflitto, il PSI pistoiese ebbe una crescita considerevole. Nonostante il peso acquisito, nei moti popolari contro il caroviveri e negli scioperi del 1919, i dirigenti, in linea con la segreteria nazionale e d’accordo con i rappresentanti della Confederazione Generale del Lavoro, non tradussero in pratica il motto “Fare come in Russia”, mantenendo le proteste nella legalità. Per «L’Avvenire», dove era forte la componente riformista, i tumulti erano il male del proletariato perché «peggiorano la sua condizione, allontanano il giorno della sua completa emancipazione […] suo compito è quello di prendere il timone della cosa pubblica». La base locale, ormai radicalizzata, chiedeva però una svolta rivoluzionaria e guardò alla frangia comunista, strutturatasi attorno al gruppo dei giovani militanti estremisti. Dopo le elezioni nazionali del novembre 1919, vinte dal PSI nel circondario di Pistoia (49 %), i comunisti presero il sopravvento nella sezione cittadina e su «L’Avvenire», come prova la scelta dei redattori di inserire nella testata il motto di «Ordine Nuovo», la rivista di Antonio Gramsci: «Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi perché avremo bisogno di tutta la nostra forza». Nell’agosto 1920, anche la Camera del Lavoro passò sotto il loro controllo. Proprio per l’influenza dei comunisti, le proteste del ’20 assunsero caratteri anticapitalisti. Culmine delle agitazioni furono le occupazioni delle fabbriche nell’agosto-settembre, che nel pistoiese interessarono le officine metallurgiche, come la San Giorgio, e gli stabilimenti più piccoli. Gli scioperanti locali speravano nell’insurrezione, ma l’accordo tra sindacati, governo e industriali pose fine alle occupazioni ed esaurì la spinta rivoluzionaria.

Nonostante il fallimento delle proteste, il PSI vinse le elezioni amministrative dell’autunno, strappando ai moderati vari Comuni del circondario e il capoluogo, dove fu eletto l’avvocato Bartolomeo Leati. Le fratture interne al partito divennero, però, insanabili. Il congresso nazionale di Livorno, previsto per il gennaio 1921, appariva una resa dei conti tra i riformisti di Turati, i massimalisti di Serrati e i “comunisti puri” di Bordiga. Quest’ultimi erano maggioritari nel pistoiese ed richiesero la direzione nazionale, su «L’Avvenire», ad espellere i riformisti e ad avere una linea politica più vicina alla III Internazionale. Ugo Trinci invitò a mettere da parte le discussioni e ad «agire, agire, agire!». Intanto, lo squadrismo fascista intensificava le sue violenze.

Nel congresso circondariale del dicembre 1920, la mozione comunista ottenne una maggioranza netta, mentre in gran parte d’Italia prevalse la mozione massimalista. Al Congresso di Livorno (gennaio 1921) si consumò la spaccatura: prevalse la linea di Serrati, ossia tenere dentro i riformisti senza però sciogliere i nodi politici, mentre i comunisti si scissero dando vita al Partito Comunista d’Italia (PCdI). A Pistoia, gran parte della dirigenza, tra cui Trinci, e dei militanti del PSI passarono alla neonata formazione, che controllava anche la Camera del Lavoro – dove sedeva il bordighista Onorato Damen, un giovane poeta locale – e «L’Avvenire». Nel marzo, i resti del PSI pistoiese mandò alle stampe il nuovo organo: «L’Avvenire socialista». Iniziava una contesa politica che indebolì il movimento socialista e operaio, nel momento in cui l’unità era necessaria per opporsi al fascismo. La giunta Leati non resse alla scissione, dimettendosi nel maggio 1921. L’amministrazione comunale, per le divergenze tra comunisti e socialisti, rimase vacante fino all’agosto 1922 quando i fascisti ottennero il commissariamento del Comune.

Francesco Cutolo, perfezionando presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, si è laureato in Scienze storiche all’Università di Firenze con una tesi dal titolo “L’influenza spagnola del 1918-1919: la dimensione globale, il quadro nazionale e un caso locale” , rielaborata e pubblicata nel 2020 per i tipi dell’Isrpt. È consigliere dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Pistoia e membro dell’associazione “Storia e città”. Fa parte delle redazioni delle riviste «Farestoria» e «Storialocale». È stato curatore delle mostre: “La città in guerra. Cittadini e profughi a Pistoia dal 1915 al 1918” (Pistoia, 2017); “Memorie d’autore. I grandi personaggi e la prima guerra mondiale” (Firenze,  2018; Montespertoli, 2019); “Le cicatrici della vittoria. Pistoia e le memorie della Grande Guerra” (Pistoia, 2019).




Itinerari chiniani a Montecatini Terme

Si dice che Montecatini sia l’armonico e straordinario connubio di antico e moderno, identificabili rispettivamente con la parte alta della città, sede dell’antico castello e teatro di numerose battaglie, e con la zona dei bagni termali, a valle, dove prima dei Lorena i benefici delle acque rimanevano relegati ad un’insalubre area stagnante.
Inizialmente l’unica Montecatini era quella sulla collina, fondata intorno all’anno Mille, e bruciata dall’incendio del 1554. Si deve al periodo delle grandi riforme leopoldine (1773) il ritorno alla salubrità della zona sottostante: il Granduca Pietro Leopoldo fece costruire canali di smaltimento delle acque per recuperare il territorio e favorire l’uso delle sorgenti termali, per le quali cominciò, inoltre, un’intensa edificazione di stabilimenti. Nonostante le migliorie pubbliche consentissero una riqualificazione della parte bassa, si dovette però aspettare fino al 1905 per veder nascere il Comune di Bagni di Montecatini, poi Montecatini Terme, che immediatamente assunse nell’estetica cittadina gli inconfondibili tratti della belle epoque. Basterebbe scorrere le fotografie del tempo o una serie di vetuste cartoline per notare tripudi di cappellini piumati su belle signore in posa, davanti ai classici e maestosi edifici termali.

Un indiscusso protagonista di questa ristrutturazione cittadina all’insegna del bello fu Galileo Chini con la sua manifattura ceramica, della quale coordinava la direzione artistica. La storia della fabbrica è ormai nota e, per riassumerla in pillole, non rimane che far riferimento agli innumerevoli successi nazionali e internazionali che, sin dalla fondazione (1896, al tempo Arte della Ceramica) essa accumulava: Torino (1898) Parigi (1900), Pietroburgo, Gand, Bruxelles (1901) e ancora Torino (1902) sono solo alcune delle Esposizioni in cui la Manifattura ricevette le onorificenze più alte.
Nei primi vent’anni di attività, quindi, il successo della produzione chiniana era talmente attestato sul territorio che chiamare tali maestranze per intervenire sui lavori pubblici era sintomo d’indiscusso prestigio. Questo fu probabilmente il pensiero dell’architetto Raffaello Brizzi e dell’ingegner Luigi Righetti, quando proposero in Giunta Comunale l’affidamento della copertura per i velari principali al Chini.

In effetti, i lavori per il Palazzo Comunale di Montecatini impegnarono le Fornaci (che nel frattempo si erano trasferite a Borgo San Lorenzo, cambiando la ragione sociale in Fornaci San Lorenzo Chini & C.) dal 1918 al 1920, quando una serie di vetrate fu eseguita all’interno dell’edificio. In realtà la copertura dei lucernari, affidata alla ditta Quentin, era cominciata almeno due anni prima, come dimostra la serie archivistica Lavori pubblici conservata presso l’Archivio Storico del Comune e recentemente rinvenuta, ma la scabra intelaiatura di ferro e vetro non soddisfaceva gli stilemi estetici ormai pienamente devoluti alle rotondità Liberty. I Chini proposero pertanto nuovi bozzetti per il velario d’ingresso, dove allegre forme tondeggianti si concentravano nel puttino centrale e si alternavano ai vetri colorati e nitidi, alle sagome geometriche di quelli laterali.
Alle opere in vetro si aggiunse un ciclo pittorico (otto pennacchi con soggetti allegorici e dodici lunotti, dove risiedono putti e corbeille fiorite) situato sulla volta dell’imponente scalinata e sempre eseguito per mano di Galileo Chini.

IMG_5861Quest’arte manifatturiera, connotata dalle forti istanze dell’artigianalità di bottega e allo stesso tempo permeata di spirito moderno, aveva già in precedenza lasciato il segno in città: il Padiglione Tamerici, progettato nel 1903 da Giulio Bernardini per la vendita dei Sali, fu decorato da quattro pannelli in grès realizzati dalla Manifattura per Domenico Trentacoste. Modellati con sapiente equilibrio di forza e gentilezza, essi raffigurano i differenti ruoli connessi all’arte dei vasai: Il Fornaciaio, il Molatore, lo Scultore e il Disegnatore; quest’ultimo ha le sembianze di Galileo Chini. Tali bassorilievi erano stati presentati all’Esposizione Italiana di Arti Decorative e Industriali di Torino del 1902, prima di trovare definitivamente posto sulla facciata di questo edificio. All’estero ricerche sul grès avevano prodotto risultati di straordinario interesse (si pensi a ceramisti di grande fama come Auguste Delaherche, in Francia o i fratelli Martin, in Inghilterra) ma in Italia l’uso di questo materiale era del tutto innovativo per la ceramica dell’epoca. Il tipo di grès usato dalla fabbrica fiorentina era grigio e nella maggior parte dei casi presentato con sintetici decori in blu di cobalto: esemplari che sono definiti di ‘grès salato’, perché rivestiti da una pellicola vetrosa trasparente ottenuta dalla combustione del cloruro di sodio. Ciò mette in luce l’alto livello tecnico raggiunto dalla fabbrica, che si pone così in linea con i più progrediti laboratori europei del tempo.
Passeggiando sul gran Viale delle Terme ci troviamo di fronte all’imponente facciata dello Stabilimento Tettuccio, ricco di storia e che rappresenta, oggi, una vera città termale con parchi, caffè, concerto e negozi. Interessanti sono le decorazioni dei vari padiglioni che ne arricchiscono la sontuosità: dalle ceramiche della Galleria delle Bibite di Basilio Cascella, agli affreschi di Giuseppe Moroni nella Sala di Scrittura o di Giulio Bargellini e Maria Biseo nel Salone del Caffè, fino alle decorazioni di Ezio Giovannozzi nella cupola della Tribuna dell’Orchestra, coperta con tegole a squame in maiolica della Manifattura Chini. Si noti, in questo senso, che gli interventi di rivestimento ceramico esterno hanno esiti vicini a quelli di Salsomaggiore: le Terme Berzieri riportano, infatti, elementi di somiglianza e talvolta di assoluta corrispondenza.
Non lontano, sempre all’interno del parco cittadino, si trovano le Terme Tamerici, ristrutturate nel 1910 da Giulio Bernardini e Ugo Giusti. Galileo Chini qui realizzò pannelli, banconi, vetrate e persino i pavimenti della vecchia sala di mescita. L’incarico di ampliare le Terme Tamerici interessò in particolare la decorazione esterna in grès ceramico che s’inserì organicamente nell’architettura neo-medioevale dell’edificio: le teste leonine, i rosoni, gli stemmi policromi e i vari tipi di piastrelle con motivi geometrici e a intreccio sono elementi che in parte saranno ripresi dall’esperienza di Galileo in Siam e in parte riutilizzati per altri lavori.

Montecatini può dunque vantare interventi artistici importanti e qualificati, e non solo per commesse istituzionali. Spesso l’intervento della famiglia Chini è richiesto per lavori di carattere privato: ne è esempio splendido il Grand Hotel & La Pace. Costruito nella seconda metà dell’800 e più volte trasformato, fu radicalmente ristrutturato agli inizi del ʼ900. Nel 1904 fu inaugurato il Salone delle Feste, affrescato da Galileo, autore peraltro anche dei disegni per le vetrate della vecchia hall. Di chiara ispirazione klimtiana e di produzione totalmente autoctona, i vetri della Manifattura Chini ricorrono a schemi decorativi tratti dai moduli artistici della Secessione viennese, con un impianto compositivo che si articola su diversi livelli geometrici, affiancati poi da composizioni floreali dalle evidenti riduzioni formali. La stessa influenza stilistica si ritrova nelle tre splendide e vivaci vetrate di Villa Agatina (V.le Giacomo Puccini, 67), eseguite con grande maestria dalla Manifattura Fornaci di San Lorenzo su disegno di Galileo.

La Belle époque assegnò dunque a Montecatini – città spensierata e modaiola – una precisa collocazione estetica all’interno del gusto Liberty e lo fece avvalendosi, anche concettualmente, ai maestri nel settore. La Manifattura Chini lascia anche su Montecatini un segno indelebile, una traccia che andrebbe rispettata nel solco della tradizione storica e artistica e perpetuata attraverso notevoli opere di valorizzazione come quella permessa dalla sensibilità degli eredi nella conservazione dell’Archivio Storico dell’impresa e della famiglia.

Elena Gonnelli è laureata in Lettere con il prof. Andrea Battistini, ha conseguito una seconda laurea magistrale in Archivistica con Antonio Romiti curando il riordino e l’inventario analitico dell’Archivio della Manifattura Chini di Borgo San Lorenzo. Insegnante di scuola media, lavoro inoltre presso l’Archivio di Stato di Bologna e come collaboratrice esterna per diversi archivi del territorio. Direttore dell’Istituto storico lucchese – Sezione Montecatini Monsummano. Tra le sue pubblicazioni: Il Codice numero 1 dell’Archivio Storico pre unitario di Montecatini: questioni storicoarchivistiche, in «Caffè Storico – Rivista di Studi e cultura della Valdinievole», anno I, n. 1, Luglio 2016, in corso di stampa; L’Arte della Ceramica e il Liberty italiano, in «Il senso della Repubblica. Nel XXI secolo quaderni di storia e filosofia», Heos, anno IX, n. 6, Giugno 2016; L’Archivio della Manifattura Chini: il disegno per Porretta, «Nuéter», anno XLI, n. 82, Dicembre 2015, Porretta Terme; L’Archivio della Manifattura Chini, in «Quaderni di storia e cultura viareggina: Da Firenze a Viareggio. Viaggio nell’arte di Galileo Chini», Istituto Storico Lucchese – Sezione di Viareggio, n. 7, 2016.




Cattolici e comunisti in Valdinievole

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, papa Pio XII individuò nel comunismo il vero nemico della Chiesa Cattolica, anche perché nei Paesi nell’orbita comunista come la Polonia, l’Ungheria e la Jugoslavia, molti importanti prelati vennero arrestati o perseguitati. In Italia, per di più, il fronte popolare che si presentò compatto alle elezioni del 1948 spaventò il Vaticano. In questo contesto, nel 1949, il Papa promulgò un atto che fece storia: la scomunica dei comunisti. Negli anni la situazione di conflitto tra la Chiesa e il mondo comunista visse alti e bassi, fino a quando sul soglio pontificio arrivò Giovanni Paolo II che invece contribuì in modo netto alla caduta della cortina di ferro.

Nel 1958 – dopo la morte di Pio XII e l’elezione del papa di Giovanni XXIII – l’episcopato latino vide essenzialmente una linea di continuità con quanto avvenuto fino a quel momento nella chiesa e nel rapporto con i laici. Papa Giovanni aveva ereditato una chiesa in «stato di assedio»[1] contro il pericolo comunista considerato un sistema politico anti-religioso che, proibendo la libertà di espressione religiosa del singolo, diffondeva un modello incentrato sull’ateismo. Dal 1951 era vescovo della diocesi di Pescia in Valdinievole Dino Luigi Romoli o.p. che il 20 novembre 1959 mandò il suo votum a Roma per la consultazione mondiale voluta da Giovanni XXIII in vista dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II. Il vescovo nel votum non pronunciò una condanna diretta di comunismo, socialismo e materialismo perché per lui i problemi più gravi erano da imputare ai nuovi mezzi di comunicazione di massa che andavano a diffondere uno stato di relativismo morale e edonismo all’interno di una società sempre più secolarizzata e lontana dai modelli evangelici. All’inizio del Concilio Ecumenico Vaticano II rimase l’attesa di una probabile condanna del comunismo nonostante papa Giovanni avesse cercato, con la Gaudet mater ecclesia, di smorzare i toni dell’episcopato latino e del Sant’Uffizio. Dopo le elezioni politiche del 28 e 29 aprile 1963 Romoli, sul giornale della diocesi di Pescia La Voce di Valdinievole, vedeva diffondersi, anche nel suo territorio, la presenza comunista. Per il vescovo l’aumento dei voti comunisti era da imputare prevalentemente alla mancanza di spirito cristiano a cui si poteva rimediare grazie alla preghiera costante che poteva permettere il recupero dei fedeli che si erano allontanati da Dio a causa dei falsi modelli diffusi dal materialismo e dal comunismo.

Dopo il pontificato giovanneo il 21 giugno 1963 veniva eletto papa, Paolo VI. Il 23 giugno 1964, nel primo anniversario dell’elezione di papa Montini, Romoli elogiò i magisteri e le personalità di Paolo VI, Giovanni XXIII e Pio XII, che era stato oggetto di forti critiche proprio in quei giorni. Per il vescovo di Pescia Romoli – riprendendo le parole che Paolo VI aveva pronunciato nel discorso rivolto alle C.E.I. del 15 aprile 1964 – aveva paura che la società umana e la fede fossero costantemente minacciate dalla diffusione del laicismo, del materialismo e del comunismo. L’ostilità nei confronti del comunismo si era accentuato dopo che il drammaturgo tedesco Rolf Hochhulth, con la rappresentazione teatrale Il vicario, aveva accusato Pio XII di aver taciuto di fronte ai crimini commessi dai nazisti nella seconda guerra mondiale. Per il vescovo di Pescia papa Pacelli non avrebbe potuto far niente di più di ciò che aveva fatto perché ciò avrebbe peggiorato e aggravato la situazione dei perseguitati ebrei.

Alla fine degli anni ’60 la crisi dell’Azione cattolica, delle ACLI e il dibattito sulla Legge 898/1970 sul divorzio e il primo Referendum abrogativo della Repubblica del 1974 rappresentò per la Chiesa il simbolo delle difficoltà postconciliari presenti nella risoluzione del difficile rapporto fede-politica. L’approdo delle ACLI al socialismo si poteva collocare dopo le elezioni del maggio 1968. Livio Labor rilevava come il giudizio degli elettori avesse confermato il crescente malumore verso il centro-sinistra.  L’ 8 marzo 1969 Livio Labor, già presidente delle ACLI dal 1961, fondò assieme a Riccardo Lombari l’Associazione di cultura politica (Acpol) che inizialmente vide coinvolti esponenti della corrente di sinistra della DC. Nel 1970 l’Acpol si trasformò in Movimento politico del lavoratori (Mpl) sia per uscire dal «bipartitismo imperfetto» che per superare il monopolio politico della rappresentanza dell’elettorato cattolico. Il Movimento si presentò alle elezioni politiche anticipate del 1972 ma non riuscì ad ottenere una rappresentanza in Parlamento. Dopo le elezioni Labor decise di confluire nella maggioranza del Partito Socialista Italiano collocandosi nella sinistra che faceva capo a Riccardo Lombardi. Nel 1973, dopo le elezioni politiche dell’anno precedente che restituirono la maggioranza del Parlamento al centrosinistra, Romoli, ispirandosi alla definizione del comunismo data da Pio XI nell’enciclica Divini Redemptoris del 1937, insieme ad altri quattordici vescovi italiani ribadì, sia sulla rivista tradizionalista «Relazioni» che sulla rivista «Cristinità» dell’organizzazione di estrema destra “Alleanza Cattolica”, Sempre valida la condanna contro il comunismo ateo con la motivazione che «il comunismo – volendo disperdere l’uomo nella massa anonima e pretendendo di imporre un’umanità senza Dio – è intrinsecamente perverso»[2].

Per concludere il processo di “secolarizzazione” della mentalità e l’inizio della crisi all’interno del sistema dei partiti contribuirono ad accelerare ciò che prima era sotto il controllo del Papa e dei vescovi. I cambiamenti politici e sociali dovevano essere considerati come un effetto della trasformazione dell’Italia.

Michele Pandolfo nasce a Pescia e risiede a Monsummano Terme in provincia di Pistoia. Dopo la maturità informatica conseguita all’Istituto Tecnico Industriale di Pistoia si iscrive all’Università degli Studi di Firenze per studiare storia e conseguire la Laurea Magistrale in Storia del Cristianesimo contemporaneo con una tesi dal titolo: Un vescovo “tridentino” all’epoca del Concilio Vaticano II: Dino Luigi Romoli o.p. Infine, consegue il Master di I livello “PluReS” (Pluralismo Religioso e Sapere Storico) presso la Fondazione per le Scienze Religiose “Giovanni XXIII” di Bologna.

 

[1] G. Turbanti, Il problema del Comunismo al Concilio, in A. Melloni (ed.), Vatican II in Moscow (1959-1965), Leuven, Bibliotheek van de Faculteit Godgeleerdheid, p. 147.

[2] Reginaldo Giuseppe Maria Addazzi (o.p.), Carlo Angeleri, Giulio Barbetta, Luigi Carlo Borromeo, Raffaele Campelli, Cesario D’Amato (O.S.B), Francesco Venanzio Filippini (O.F.M.), Nicola Margiotta, Martino Matronola (O.S.B.), Giovanni Battista Pardini, Giustino Giulio Pastorino (O.F.M.), Vito Roberti, Dino Luigi Romoli (o.p.), Zenone Albino Testa (O.F.M.), Sempre valida la condanna contro il comunismo ateo, in «Relazioni», (1973/1-3). Contro il comunismo. Sempre valida la condanna del comunismo ateo, in «Cristianità», (1973/0).




Silvano Fedi

Nato a Pistoia il 25 aprile 1920, Silvano Fedi è uno dei personaggi più importanti della Resistenza pistoiese. Coraggioso, carismatico, idealista, antifascista: questi sono i tratti caratteriali che più lo hanno rappresentato.

Di famiglia benestante, fin da giovane ha maturato ideali libertari, in parte grazie alla frequentazione negli anni ’30 del Liceo Classico Forteguerri di Pistoia. In quel periodo, fra i tanti, erano iscritti alla scuola Antonino Caponnetto (in seguito magistrato e guida del pool antimafia), Manrico Ducceschi (comandante dell’XI Zona partigiani, Bronze Star Medal al valor militare da parte degli Alleati), Pier Luigi Bellini delle Stelle (comandante partigiano del distaccamento Puecher della 52ª Brigata Garibaldi che catturò Benito Mussolini a Dongo nell’aprile 1945), Giovanni La Loggia (partigiano, medaglia di bronzo al valor militare), Carlo Giovannelli (antifascista, condannato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato, partigiano). L’educazione ricevuta si dimostrò fondamentale nel creare un gruppo di giovani studenti che amava discutere di morale, religione e politica. Da qui nacque un primo nucleo antifascista, composto da una ventina di aderenti, con l’obiettivo di «scuotere dal torpore gli italiani, limitati nelle opinioni e nella libertà di pensiero», e fornire loro gli strumenti necessari per la costruzione di una nuova coscienza politica.

Nel 1938, anno della promulgazione delle leggi razziali, Silvano fu nominato fiduciario dal gruppo di studenti “Ad Maiora” (espressione latina, letteralmente «verso cose più grandi»), gruppo poi sciolto dai fascisti che vietavano ogni tipo di organizzazione al di fuori dei GUF (Gruppi universitari fascisti) e della GIL (Gioventù Italiana del Littorio). Nell’autunno 1939 concluse gli studi e ottenne il diploma senza poterlo ritirare personalmente perché a ottobre fu arrestato per la prima volta dalla polizia fascista. Fu condannato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato, insieme ad altri tre compagni, a un anno di carcere, per aver costituito un’associazione antinazionale e aver svolto propaganda antinazionale. Liberato grazie a un condono nel febbraio 1940, nonostante la stretta sorveglianza, divenne un punto di riferimento dell’antifascismo clandestino pistoiese arrivando a sostenere ideali di libertà e di parità di diritti basandosi sui suoi modelli libertari e sulla sua preparazione politico-culturale, con frequenti letture che spaziavano da Mazzini a Marx e Bakunin.

Il 1941 e il 1942 sono anni di crescita, di preparazione e di consolidamento per le cellule antifasciste pistoiesi. Con il 25 luglio 1943, Silvano Fedi fu tra i promotori delle manifestazioni e degli scioperi che scoppiarono in città e nelle fabbriche, ponendolo in una posizione di chiaro scontro verso il regime. Venne arrestato una seconda volta, ma fu scarcerato nel giro di poche ore.

L’8 settembre 1943 fu una data spartiacque per la carriera di Silvano e la lotta armata divenne la logica conseguenza di un pensiero politico che si era formato fin dai tempi del liceo. Con alcuni fedelissimi organizzò una propria e autonoma formazione partigiana, poi definita “Squadre Franche Libertarie”, divenendone comandante. Nel dopoguerra furono riconosciuti 79 partigiani (di cui 9 caduti) e 14 patrioti appartenenti alla squadra, che agiva in città e nelle campagne circostanti fino al Montalbano.

Le azioni della formazione “Silvano Fedi” riguardarono la liberazione di detenuti e la raccolta di armi, munizioni, vestiario e viveri, contribuendo ai rifornimenti di altre formazioni partigiane pistoiesi e lucchesi; tuttavia, non mancarono importanti scontri con i fascisti e i tedeschi. Nella memoria collettiva rimangono celebri le consecutive incursioni alla Fortezza di Santa Barbara di Pistoia, presidiata dai fascisti e dai tedeschi, il 17, 18, 20 ottobre 1943, conclusesi favorevolmente con la sottrazione di materiali. Nell’aprile seguente Silvano fu colpito da tifo addominale, malattia che lo costrinse a un periodo di cure prima di riprendere l’attività con l’ennesimo assalto alla Fortezza il 1° giugno 1944. Il 26 dello stesso mese l’attenzione della squadra si spostò al carcere delle Ville Sbertoli e l’azione portò alla liberazione di 54 detenuti politici, tre donne e due ebrei.

Silvano non riuscì a partecipare l’8 settembre alla liberazione di Pistoia. Fu colpito e ucciso, in circostanze mai chiarite, dal fuoco nazifascista il 29 luglio 1944 nei pressi della collina di Vinacciano, quando le truppe alleate avevano ormai raggiunto la Toscana e si erano arrestate al di là del fiume Arno.

Nel dopoguerra, a Silvano Fedi è stata conferita la medaglia d’Argento al Valor Militare e gli sono stati intitolati un istituto scolastico, un’associazione sportivo-culturale, una piscina e un centrale Corso. Nel 2019 sono usciti un film (Pistoia 1944. Una storia partigiana, regia di Gaia Cappelli, sceneggiatura di Matteo Cerchiai) e uno spettacolo teatrale (Una vita per un’idea, La storia di Silvano Fedi a cura di Tommaso De Santis). Nel 2020 il consiglio comunale di Pistoia ha approvato la mozione sul riconoscimento di cittadino illustre a Silvano Fedi.

Matteo Grasso è direttore dell’Istituto Storico della Resistenza dal 2016. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: “Giovanni Fattori. Lettere di un montalese dal lager nazista” (2018) e “Tesori in guerra. L’arte a Pistoia tra salvezza e distruzione” (2017).




Giulia Faldi: un’antifascista nelle carte del Casellario Politico Centrale

Le carte del Casellario Politico Centrale rappresentano una fonte imprescindibile per lo studio delle norme e delle modalità fasciste di sorveglianza politica. Inaugurato in piena età crispina con la circolare 5116 del 25 maggio 1894, l’allora Servizio Schedario nacque come strumento di controllo e di repressione del sovversivismo anarchico e socialista. Un’istituzione coercitiva che, con l’avvento del regime, si avvalse di un inquadramento sempre più rigido e strutturato, passando da mero archivio ad ufficio autonomo sotto le dipendenze della I sezione della Divisione affari generali e riservati della P.S. Come recentemente osservato da Gianluca Fulvetti, fu durante la fase di costruzione dello “stato totalitario” che «questo sistema venne integrato dal fascismo con gli strumenti repressivi previsti dalla sua legislazione eccezionale»1; di conseguenza – riprendendo le parole di Andrea Ventura – ai «rapporti prettamente descrittivi delle prime segnalazioni si aggiunsero delle informative standardizzate e un sistema di controllo periodico capace di abbracciare l’intera vita del sorvegliato e di arrivare […] in ogni angolo del pianeta»2.

Dal punto di vista della ricerca, tuttavia, l’esame della dimensione repressiva costituisce solo una faccia della medaglia. Un’importanza analoga, se non superiore, è relegabile a due campi d’indagine distinti ma convergenti: quello degli antifascismi e quello degli antifascisti. Certo, sarebbe impossibile riassumere in poche righe un dibattito storiografico complesso e di lunga durata. Ciononostante, nel tentativo di ricostruire le molteplici forme di opposizione al regime, è doveroso sottolineare quanto e come una lettura critica dei fascicoli del CPC (che si chiudono con il 1943) possa consegnare agli studiosi importanti indicazioni al riguardo. In questa sede ne evidenzierò due, le più significative al fine di problematizzare la vicenda posta al centro della disamina.

Anzitutto, l’importanza della relazione tra spazio (inteso come spazio di controllo politico) e luogo (inteso come perimetro geografico)3. Negli ultimi anni è stata sottolineata la necessità di un confronto più attento fra la dimensione locale del fascismo e quella del regime a livello nazionale4. Un’indicazione volta a comprendere meglio le vicendevoli influenze tra centro e periferia, analizzando in chiave bilaterale l’eterogeneità delle dinamiche provinciali e le specificità del controllo sociale. Le carte del CPC, da questo punto di vista, assumono le vesti di un duplice osservatorio privilegiato: da un lato, se integrate con i fascicoli delle questure locali o con gli interrogatori, le sentenze e i rapporti provenienti dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato e dai tribunali penali, possono aiutare a scavare nelle continuità e nelle rotture dei fascismi locali5; dall’altro, attraverso le inedite angolature socio-economiche, politiche e conflittuali rinvenibili dalla documentazione, forniscono un mezzo rilevante per esaminare da vicino gli sviluppi territoriali – non sempre omogenei – dell’antifascismo.

Si colloca qui la seconda linea di ricerca, quella relativa agli antifascisti. Un universo complesso nel quale i fascicoli del CPC divengono una bussola in grado di svelare, oltreché il «profilo e la mentalità delle istituzioni e dei dipendenti pubblici preposti alla sorveglianza e alla repressione del dissenso, […] le voci dirette, e dal basso»6  del sovversivismo. Certo, non si può attribuire alle carte una completezza che, in alcuni casi, si smarrì nella fitta rete intrecciata dalle sacche d’opposizione. È comunque possibile cogliervi la trasversalità dell’antifascismo, le differenze tra «antifascismo popolare» e «antifascismo politico», le traiettorie e le forme del fuoriuscitismo antifascista e occupazionale (soprattutto verso la Francia e il Belgio, ma anche verso il Sud America e i richiami della Guerra civile spagnola), fino a ricostruire vicende talvolta lacunose e incomplete, ma in grado di fornire preziosi dettagli sui percorsi di uomini e donne sovente destinati a giocare un ruolo di primo piano anche nella Resistenza e nella costruzione dell’edificio repubblicano7.

Nelle pieghe di un sistema capillare e sterminato, però, a risaltare è soprattutto la latenza (per diversi motivi) di due corpi socio-politici: quello degli antifascisti cattolici e quello delle antifasciste8. Ci concentreremo qui sul secondo aspetto, inerente alle donne marginalizzate dalle attenzioni poliziesche e relegate dal regime al ruolo di «angeli del focolare domestico». Scendendo repentinamente nel contesto pistoiese, nel database del CPC ne troviamo infatti sole 45 su un totale di 1.468 schedati9. Tra queste, c’è Giulia Faldi. Nata a Monsummano10  il 30 luglio 1899 dal padre Giulio e da Guglielma Bartoletti, fin dall’adolescenza si trovò a vivere una realtà animata da forti tensioni conflittuali. Nella cornice di un’area segnata dalla piccola proprietà terriera, dove a poderi parcellizzati e spesso concessi a mezzadria si sommavano fattorie di piccole-medie dimensioni (non di rado di proprietà nobiliare) collocate nella zona tra Tizzana e Monsummano11, prese parte attiva alle manifestazioni organizzate dal movimento socialista bracciantile. A confermalo era un’accurata relazione rilasciata il 28 ottobre 1926 dalla prefettura di Lucca, nella quale la Faldi – attraverso un lessico fortemente ideologizzato – veniva definita una «attiva comunista»:

La predetta è cresciuta in una famiglia di sovversivi. Il padre fu per vari anni acceso socialista e tuttora professa false idee. Il fratello è tuttora un sovversivo irriducibile per cui la Faldi Giulia sin da giovinetta si dette al sovversivismo. Essa organizzò e presiedette comizi e riunioni; benché abbia poca cultura (avendo frequentato solo la scuola elementare) è abbastanza intelligenze e loquace, ed è stata una assidua propagandista specie nelle campagne fra le masse di contadini. In ogni agitazione e manifestazione sovversiva che veniva organizzata in paese essa era sempre presente e fra le persone più accese. Non risulta sia stata mai arrestata o denunciata all’autorità giudiziaria, però è stata più volte richiamata al dovere dai vari comandanti della stazione di Monsummano e da funzionari […] dell’ordine pubblico. Dopo l’avvento del fascismo fu costretta a troncare la sua propaganda sovversiva e a rimanere in casa molto riservata12.

Nelle carte del CPC, tuttavia, non c’è traccia del padre. Si trovano invece pochissime informazioni sul fratello Gino, muratore di undici anni più grande. Esponente di zona e militante «nella parte estremista del partito socialista», egli prese «parte attiva a tutte le manifestazioni sovversive del secondo dopoguerra» quando fu «candidato al Consiglio comunale e provinciale».

Denunciato nel 1921 e poi prosciolto in Camera di consiglio dalle accuse di tentato omicidio, bancarotta fraudolenta e «apologia di reato e di delitto contro i poteri dello Stato per professe idee comuniste», con l’avvento del fascismo fu sottoposto ad un controllo sempre meno stringente, frutto di un «contegno riservato» e di rari richiami13. Un trattamento ben diverso rispetto a quello riservato alla sorella, assieme alla quale – in seguito alla scissione di Livorno del 21 gennaio 1921 – aveva aderito al Partito comunista d’Italia. Il motivo non era da ricercare solo nella febbrile attività politica della Faldi, ma piuttosto in una delle poche circostanze ritenute inderogabili dal regime per sorvegliare una donna: il suo legame affettivo con un antifascista di spicco. Non era un caso che, nonostante i precedenti, la prima segnalazione su Giulia Faldi fosse arrivata solo nel 1923, indicata come «assidua propagandista […] fra le donne» . E non era un caso che il vasto fascicolo a lei riservato riportasse spesso informazioni sul marito: il comunista Fulvio Zamponi14.

 

[continua]

 

Federico Creatini si è laureato all’Università di Pisa nel 2015 e ha conseguito il dottorato in Storia contemporanea presso l’Università di Bergamo nel 2019. Attualmente è borsista post-doc presso l’Università di Pisa, dove svolge anche la funzione di cultore della materia. Ha all’attivo numerosi articoli e contributi; nel 2019 è stata pubblicata la sua prima monografia, «Dalla fabbrica alla città. Conflitto sociale e sindacato alla Cucirini Cantoni Coats di Lucca (1945-1972)», Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca.




Storie lontane, echi vicini

C’è Giovanni Bottai, un ex maresciallo dei Carabinieri che muore, anziano, dopo una breve malattia. C’è una vecchia lettera, ritrovata in fondo a una scatola, da cui si capisce che quest’uomo, durante la guerra in servizio a San Marcello Pistoiese, ha fatto qualcosa di terribile e che poi, in seguito all’amnistia, non ha mai scontato la sua pena. C’è Sara, sua nipote, giovane laureanda in filologia, assai legata al nonno e determinata a conoscere la verità su quegli anni ormai lontani. Questo è il punto di partenza per un romanzo, “Echi lontani” (ed. Portoseguro), scritto a quattro mani da Francesca Banchini e Silvia Mannelli, due insegnanti di lettere di una scuola secondaria di primo grado di Pistoia, di cui si parlerà all’ultimo incontro di “Communitas. Conversazioni di prossima cittadinanza”, organizzato dall’ISRT per mercoledì 3 giugno a partire dalle ore 17:00. Durante la conferenza si parlerà di didattica della storia nella scuola secondaria e verranno illustrate alcune proposte laboratoriali, anche con l’intervento della prof.ssa Giulia Barontini, docente di storia.

I personaggi del romanzo sono frutto della fantasia delle scrittrici, così come l’intreccio degli eventi. La vicenda narrata, però, si fonda su un’attenta ricostruzione storica che le autrici hanno condotto. Durante la Seconda Guerra Mondiale, sulla montagna pistoiese, erano presenti alcune famiglie di origine ebraica. Non esisteva una vera e propria comunità di residenti, si trattava piuttosto di famiglie sfollate da altre città italiane, soprattutto da Livorno, in seguito ai bombardamenti degli Alleati, oppure di persone in fuga da Paesi europei soggetti all’occupazione tedesca, giunte nel territorio montano dopo varie vicissitudini. La condizione di queste persone, ovviamente già precaria e difficile, subì un drastico peggioramento in seguito all’emanazione del Decreto Buffarini Guidi il 30 novembre 1943: si ordinava l’immediato arresto degli ebrei che si fossero trovati sul territorio della Repubblica di Salò nonché il sequestro di tutti i loro beni. Anche per le poche famiglie ebree che in quei mesi erano sfollate a Cutigliano, Prunetta e nelle altre località della montagna pistoiese ciò ebbe conseguenze terribili: molti furono traditi, denunciati, deportati e pochissimi riuscirono a tornare dai campi di concentramento[1].

La storia narrata in “Echi lontani” descrive una di queste vicende, unendo elementi veramente accaduti ad altri ricostruiti con verosimiglianza grazie al lavoro di ricerca che le due autrici hanno condotto. La protagonista, Sara, non si rassegna a credere che suo nonno sia stato davvero un collaborazionista né che abbia mandato a morte persone che si fidavano di lui e, anche se suo padre le consiglia di lasciar perdere quelle vecchie storie perché “chi scava non sa poi cosa trova”, decide comunque di approfondire. Attraverso le azioni della ragazza il lettore si trova immerso in una vera e propria ricerca storica, partendo dai documenti che si possono realmente consultare nei faldoni dell’Archivio di Stato: denunce, testimonianze, verbali, sentenze. I documenti citati nel libro sono infatti stati scritti dalle autrici tenendo come modello gli originali che hanno consultato in Archivio.

Nella narrazione i piani temporali si intrecciano e alle vicende che avvengono nel presente si alternano quelle successe durante la guerra, riviste perlopiù attraverso gli occhi di un personaggio un po’ strano e misterioso che appare, all’inizio quasi in punta di piedi, fra un capitolo e l’altro. E’ un vecchio, vive a Roma, rimane senza identità quasi fino alla fine del libro, ma i suoi ricordi e i suoi pensieri diventano piano piano fondamentali perché il lettore possa capire la verità di quanto accaduto tanti anni prima. Il vecchio cammina tra i monumenti di Roma mentre ripensa alla sua giovinezza, vissuta durante il fascismo: il lettore è quindi anche portato a comprendere cosa volesse dire frequentare la scuola nel Ventennio e come il Duce costruisse il consenso intorno a sé, prima che con la violenza, con il controllo delle menti e delle coscienze, controllo che avveniva anche nelle aule scolastiche. “I tempi in cui vivi non cambiano la persona che sei”, così un’amica di Sara, Alice, la rimprovera dei dubbi che nutre verso il nonno: chi è una persona perbene lo è sempre, indipendentemente dai momenti storici in cui si trova a vivere. Ma è vero? E’ vero sempre? O piuttosto il contesto in cui viviamo e in cui ci formiamo, la scuola, è fondamentale per lasciare un’impronta indelebile nella persona che poi diventeremo?

Sappiamo bene che la grande Storia è fatta da tante, piccole, spesso quasi invisibili, piccole storie; da scelte, intrecci, casualità, decisioni, responsabilità che apparentemente non hanno rilevanza ma che nel loro insieme imprimono il corso agli eventi. Il romanzo, con i suoi numerosi agganci alle vicende veramente accadute, ruota proprio attorno a questa convinzione: tutti siamo responsabili di quel che avviene, tutti abbiamo un ruolo da protagonisti nella storia, anche quando siamo convinti di essere solo degli inconsapevoli e innocenti spettatori. Sono passati più di settant’anni da quegli anni drammatici e violenti e il tempo che scorre porta con sé due rischi, entrambi pericolosi: da un lato la dimenticanza di quanto accaduto e in particolare l’oblio del ruolo attivo che gli italiani hanno avuto nella Shoah e dall’altro la retorica nel rappresentare la Resistenza.

La lettura di “Echi lontani” aiuta a stare lontani da entrambi questi rischi, soprattutto se tale lettura viene inserita in un percorso didattico, certamente possibile con alunni della scuola secondaria di primo e di secondo grado, come le autrici, affiancate dalla prof.ssa Barontini, illustreranno durante l’incontro organizzato dall’ISRT per il 3 giugno, incontro intitolato “La memoria del territorio”. La ricostruzione storica degli anni della guerra, in particolare dei mesi in cui il fronte scivolava verso Nord attraverso gli Appennini, vuole essere accurata, senza risultare didascalica e quindi respingente per i ragazzi; allo stesso modo uno spazio importante è dato al ruolo avuto dagli italiani nelle persecuzioni. D’altro canto la Resistenza non è presentata tanto come un atto eroico, solo ideale, riservato a pochi coraggiosi e quindi lontano dal sentire dei giovani di oggi, ma è descritta per quel che in fondo è stata: la scelta di chi, in un tempo folle, ha dovuto decidere da che parte stare a partire da questioni molto semplici e quotidiane.

La storia di Giovanni Bottai, maresciallo mai esistito di un’Arma dei Carabinieri che in Salvo D’Acquisto ha il simbolo di chi ha saputo scegliere la via giusta, può coinvolgere giovani e meno giovani nella conoscenza delle storie vere, vissute da persone che hanno camminato sulle stesse strade su cui camminiamo noi, che hanno visto le stesse montagne all’orizzonte che guardiamo noi e che hanno compiuto scelte da cui tutti noi proveniamo.

 

[1]Per approfondire l’argomento si vedano, ad esempio, questi contributi: https://www.toscananovecento.it/custom_type/persecuzione-e-deportazione-degli-ebrei-sulla-montagna-pistoiese/ ; https://www.toscananovecento.it/custom_type/la-persecuzione-fascista-contro-gli-ebrei-nel-pistoiese/ ; https://www.toscananovecento.it/custom_type/michele-baruch-behor-da-cutigliano-ad-auschwitz/.