La ricostruzione del PCI a Pistoia e il primo congresso provinciale

All’indomani della liberazione di Pistoia, sul suo territorio, come d’altra parte avveniva nel resto della Toscana, il tessuto e il confronto politico vengono gradualmente a prendere vigore.

Questo confronto politico trovò all’interno del C.P.L.N. il luogo di compensazione e composizione di tutte le prospettive e divergenze. Fino a che non fu ripristinata l’autorità del governo italiano, inoltre, il dibattito non poteva non tenere conto della presenza e dell’autorità del Governo militare alleato.

Gli alleati erano diffidenti verso il partito comunista e contro di esso ingaggiarono una lotta assai decisa. Si temeva che i comunisti disponessero di armi e munizioni e di un piano preciso di guerra basato sulla veloce rimobilitazione dei partigiani contro gli alleati.

Anche a Pistoia, questo atteggiamento era riscontrabile, e sul fuoco delle diffidenze tra Governo militare alleato e PCI gettavano benzina gli avversari politici dei comunisti. Se tale atteggiamento a livello politico veniva, in qualche modo, mascherato, nelle posizioni della Curia territoriale si manifestava, invece, in modo acuto: le organizzazioni cattoliche e molti parroci, infatti, erano in prima linea nel combattere una dura battaglia contro i marxisti materialisti, atei e nemici della religione.

Il partito comunista pistoiese, che durante il ventennio fascista era stato costretto alla clandestinità, con la liberazione della Provincia si pose il problema della riorganizzazione della Federazione su nuove basi.

Il compito non fu molto facile poiché si trattava di creare un Partito Nuovo in una situazione completamente nuova e rispondente alle mutate condizioni storiche, che tenesse conto della diversa posizione della classe operaia di fronte a tutti i problemi della vita nazionale. Pertanto, il partito comunista pistoiese, si dette una struttura organizzativa che, sostanzialmente, costituirà l’intelaiatura portante anche per gli anni a venire. Tale struttura, fin dall’inizio, era articolata in una federazione che comprendeva l’intero territorio della provincia di Pistoia, suddivisa in sezioni che coprivano tutti i rioni cittadini, nonché le frazioni e le località della campagna e della montagna. Le sezioni più grandi erano, a loro volta, suddivise in cellule, le quali potevano avere anche un ambito aziendale.

La prima riunione all’interno della ricostituita federazione pistoiese del PCI si effettuò il 22 novembre 1944 quando, nel corso di una riunione del Comitato Federale, fu deciso di sostituire il segretario Guerrando Olmi, che aveva guidato il partito dal giorno della liberazione, con Luigi Gaiani. Tre giorni dopo fu nominata la segreteria di cui facevano parte oltre a Gaiani, anche Olmi e Niccolai, e il Comitato Federale composto da dieci membri (nove uomini e una donna), i quali, a loro volta, avevano altri incarichi in organismi cittadini (Italo Carobbi era presidente del C.P.L.N., Silvio Bovani era dirigente della CGIL, Edda Gaiani era dirigente dell’Unione Donne Italiane).

Nel gennaio 1945, a Gaiani successe Fulvio Zamponi, anch’egli membro autorevole del C.P.L.N., che diresse i lavori del primo Congresso provinciale del PCI, svoltosi dal 19 al 21 ottobre’45. Questa importante assise fu preceduta dalla prima Conferenza provinciale d’organizzazione effettuatasi il 22 luglio 1945, alla presenza delle sezioni e delle cellule maschili e femminili. Nel corso dei lavori furono messi in luce difetti e deficienze organizzative, tanto che i responsabili dell’organizzazione di tutte le sezioni della provincia riconoscevano impellente la necessità di trasformare i militanti in un insieme organico di attivisti capaci di assumersi il compito di dirigere il paese e risolvere i problemi di carattere nazionale.

Nell’ordine del giorno approvato alla fine del Convegno era stabilito di creare nuove attribuzioni capaci di poter soddisfare le esigenze di un aumentato numero di aderenti e di svolgere così la politica del Partito Comunista di tipo nuovo così da raggiungere una completa partecipazione dei militanti alla vita attiva della nazione.

Terminata questa importante assise, la Federazione di Pistoia concentrò i suoi sforzi nell’organizzazione e nella preparazione del primo Congresso provinciale svoltosi nell’ottobre’45, alla presenza di delegazioni del PSI, della DC, del PRI, del PdA e dei Comunisti Libertari. Vi parteciparono 177 delegati di 37 sezioni in rappresentanza di 16475 iscritti.

L’ordine del giorno prevedeva l’elezione degli organismi dirigenti e dei delegati al V Congresso Nazionale, i rapporti sull’attività del partito a livello nazionale e provinciale.

I lavori congressuali furono aperti da Fulvio Zamponi, segretario della Federazione pistoiese del Partito Comunista, il quale rivolse il seguente saluto ai presenti:

«Il nostro Congresso si apre in un periodo critico della vita italiana davanti a noi abbiamo una massa di rovine, la miseria e la fame batte alle nostre porte mentre residui fascisti e reazionari si oppongono all’ascesa delle forze democratiche […]. Siamo convinti che il ciclo democratico possa completarsi su un terreno pacifico […].

   Abbiamo abbondante buon senso ma soprattutto disponiamo di tutta la forza occorrente per dimostrare, se necessario, ai residui del fascismo di che cosa sia capace il nostro Partito (…).

   Vogliamo dare un nuovo orientamento politico alla Nazione; i problemi della ricostruzione, dell’alimentazione, dell’epurazione sono compiti che il popolo italiano deve affrontare e risolvere […]» (“Il Progresso. Settimanale della Federazione Comunista Pistoiese”, 27.10.1945, p. 1).

La relazione introduttiva fu svolta da Giuseppe Rossi, in rappresentanza della Direzione Nazionale. In apertura, egli inquadrò la situazione generale del PCI.   Nel particolare momento storico, il PCI era impegnato nel reclamare lo svolgimento delle elezioni politiche e amministrative, che sarebbero servite ad uscire da una situazione imbarazzante, per lo più determinata dal concetto della pariteticità in tutte le cariche designate dai CLN. Tuttavia, il PCI era favorevole al mantenimento dei Comitati di Liberazione al fine di dare un impulso alla ricostruzione del paese e all’epurazione. Inoltre, era anche a favore della nazionalizzazione di una parte dell’industria, della riforma agraria e finanziaria.

Riguardo ai rapporti con le altre forze politiche, rilanciò la costruzione di un Partito unico necessaria sia per i comunisti, sia per i socialisti.

Nel corso dei lavori, Zamponi illustrò il complesso dell’attività del partito a livello provinciale. Dopo la Liberazione, le autorità militari avevano più volte ostacolato il processo di riorganizzazione della federazione pistoiese del Partito Comunista e più volte la federazione fu minacciata di scioglimento.

«Tuttavia il partito intervenne per dimostrare agli alleati con quanta sincerità i comunisti vedessero nella loro opera il compito che era anche nelle nostre finalità, e con quanta sincerità noi spingessimo le masse a collaborare con gli alleati nella lotta di liberazione» (Ivi)

Per quanto riguardava la forza organizzata del PCI pistoiese, Zamponi riferiva quanto segue:

«Durante la lotta eravamo circa 500, alla fine del’44 eravamo 4000. Nel febbraio scorso quando fui chiamato a dirigere la Federazione i compagni erano 6080; nel giugno 12029, nell’Agosto 14303, oggi siamo 16475 senza tenere conto delle numerose domande in corso di esame presso la Federazione.  Questo progresso conferma che la politica e l’azione raggiunge le coscienze del popolo […] (Ivi)

Questi dati stavano a significare il gran lavoro organizzativo svolto, ma anche come i comunisti fossero ampiamente radicati nella realtà locale grazie ad un’importante rete di spacci cooperativi, – le cosiddette cooperative del popolo -, che furono uno strumento importante, ma non certamente decisivo, nella battaglia contro il cosiddetto “mercato nero”. Con l’apporto dei socialisti, fu realizzata una rete capillare di circoli – le “case del popolo” -, le quali si riveleranno utili per ospitare le sedi delle sezioni dei due partiti.

Questa gran mole di lavoro fu, tuttavia, giudicata ancora insufficiente da Zamponi, al pari del livello di attività sindacale – la Camera del Lavoro poteva contare su 16000 iscritti di tutte le tendenze politiche -, e della presenza del partito nel mondo femminile e in quello giovanile.

Le risoluzioni conclusive del congresso auspicarono una rapida convocazione della Costituente, un più deciso ruolo del partito nell’opera di denuncia delle forze che ostacolavano il processo di ricostruzione del paese, la creazione di un partito unico dei lavoratori, mentre per ciò che si riferiva alla realizzazione della linea politica da parte della Federazione si valutava che essa stessa avesse fatto il possibile per rendere concreta, nella provincia di Pistoia, la linea politica del partito. Si osservava, inoltre, che il lavoro doveva essere intensificato in tutti i settori, ma in particolar modo nell’ambito sindacale, cooperativistico, in quello della propaganda, del lavoro femminile, delle amministrazioni Provinciali, del problema dei reduci.

Il Congresso si concludeva con la riconferma di Luigi Gaiani a segretario della federazione, in sostituzione di Zamponi, che fu chiamato a ricoprire un altro incarico, e con l’elezione del Comitato Federale composto da: Gaiani Aldo, Niccolai Dino, Romei Emanuele, Valdesi Armando, Carobbi Italo, Filippini Gino, Pasquali Sergio, Bernieri Remo, Marraccini Giuseppe, Romani Lea, Olmi Guerrando, Agnoletti Madda, Biagini Nello, Monti Renè, Vivarelli Giuseppe, Magnini Carino e dei delegati al Congresso Nazionale Zanchi Renata, Palandri Graziano, Bucci Flavio, Vivarelli Sergio, Filoni Zara, Filippini Gino, Monti Renè, Cenci Getullio, Breschi, Tesi Savino, Romei Emanuele, Agnoletti Madda, Paoli Lionello, Bernieri Remo, Bartoli Mario, Jozzelli Walter, Coppini.

Filippo Mazzoni, è vicepresidente dell’Isrpt e membro del comitato di redazione della rivista “Farestoria”. Tra le sue pubblicazioni pù recenti, segnaliamo “Viaggio nella storia sociale dell’Italia repubblicana”, Empoli, Ibiskos, 2019. 

 




L’eccidio del Padule di Fucecchio

Il 23 agosto 1944 alcuni reparti dell’esercito nazista massacrarono indiscriminatamente, con metodi da guerra e di artiglieria pesante, 174 civili, fra cui neonati e anziani, all’interno del Padule di Fucecchio, fra le province di Pistoia e di Firenze, colpendo nei comuni di Monsummano Terme (frazione di Cintolese, la più colpita con 84 residenti uccisi), Larciano (frazione di Castelmartini), Ponte Buggianese (zona di Capannone e Pratogrande), Cerreto Guidi (frazione di Stabbia) e Fucecchio (frazioni di Querce e di Masserella).

Iniziamo con alcune premesse. Durante quella terribile estate l’estremità meridionale del Padule distava appena cinque chilometri dalla linea del fronte sull’Arno, stabilitosi là dal 18 luglio e conservatosi fino alla fine di agosto; a sud del fiume si trovavano gli alleati, a nord i nazifascisti.

Casotto dei Criachi - LarcianoIn quel periodo all’interno del Padule si erano stabiliti numerosi gruppi di sfollati e contadini che tentavano di sfuggire ai quotidiani rastrellamenti tedeschi e alle cannonate alleate, sparate per colpire obiettivi militari ma che finirono per uccidere diversi civili. La fitta vegetazione, non tagliata quell’estate, offriva riparo a uomini e donne; inoltre per la sua posizione, lontano dalle vie principali e dai centri abitati, era esente da possibili bombardamenti e combattimenti.

In Padule era stimata da parte nazista una presenza di partigiani nell’ordine delle 200-300 unità – almeno così hanno testimoniato gli ufficiali nei successivi processi -, ma in realtà l’unica formazione partigiana nelle vicinanze era la “Silvano Fedi” di Ponte Buggianese, comandata da Aristide Benedetti, che poteva contare su circa 30 elementi, attiva in zone limitrofe al Padule. Importanti squadre resistenti si trovavano principalmente sul Montalbano, nelle zone collinari e sull’appennino pistoiese. Alcuni attacchi c’erano stati fra i partigiani di Benedetti e i nazisti, tuttavia senza causare uccisioni di soldati nazisti nella settimana precedente. I tedeschi cercavano di proteggere le vie di fuga, sopravvalutarono la presenza partigiana ed emanarono un comando preciso di far terra bruciata e di liberare tutta la zona, massacrando ogni presenza umana per favorire la ritirata a nord delle truppe che si sarebbero stabilite sulla Linea Gotica.

L’operazione iniziò all’alba e si attenuò prima dell’ora di pranzo; l’area fu delimitata a est dalla strada statale 436 che portava a Monsummano, a sud dalla confluenza fra il canale del Capannone e il canale del Terzo, a ovest dalle Cerbaie e a nord dalla linea che andava dall’Anchione alla capanna Borghese.

Monumento Giardino della Meditazione Stabbia - Cerreto GuidiL’ordine impartito dal colonnello Crasemann fu chiaro: “Vernichten”, ovvero annientare. Fu poi il capitano Joseph Strauch a condurre l’azione sul campo e a istruire i tenenti delle varie unità operative. L’eccidio si consumò “in gronda”, cioè ai bordi del Padule dove era sfollata la maggior parte della popolazione, poiché i reparti nazisti non giunsero mai nel centro di esso, temendo eventuali ma inesistenti attacchi partigiani. Non furono risparmiati bambini, vecchi, donne ma, nonostante le atrocità commesse, furono numerose le persone che riuscirono a salvarsi. Ci fu chi si nascose al centro del Padule, soprattutto gli uomini adulti che avevano paura di un rastrellamento, chi non fu colpito dai proiettili, chi non fu visto in mezzo ai campi, chi fu ferito e curato dai medici o dall’ospedale, chi fu scelto per portare le munizioni e poi lasciato libero.

Fra gli episodi più drammatici e tristi ricordiamo quello di Maria Faustina Arinci, detta Carmela, di 92 anni sorda e cieca, fatta esplodere con una bomba a mano infilata in una tasca del grembiule e quello di Maria Malucchi, la più piccola, trucidata all’età di 4 mesi.

Un aspetto non secondario fu rilevante in quelle ore, ovvero l’aiuto di collaborazionisti italiani: fascisti locali e toscani furono riconosciuti nelle varie località dagli inermi superstiti.

Le vittime vennero trasportate con ogni mezzo, fra cui barroccini e carretti, sepolti in maniera inadeguata in casse costruite in fretta con semplici assi di legno, oppure seppelliti avvolti nelle coperte. In alcuni casi furono gli stessi tedeschi a portare via i caduti con dei camion, scaricandoli e ammassandoli in fosse comuni.

Monumento in ricordo delle vittime a LarcianoLa sera del 23, mentre le famiglie piangevano i propri defunti, i nazisti festeggiavano sia a Ponte Buggianese sia a Larciano e, fra canti e risate, gridavano: “Vittoria, partigiani tutti kaput”, nonostante avessero ucciso quasi esclusivamente civili.

L’eccidio del Padule di Fucecchio fu uno dei casi a livello nazionale in cui si cercò di rendere giustizia ai caduti, attraverso processi che coinvolsero i presunti colpevoli. A Venezia Kesselring, comandante della Wehrmacht in Italia, fu inizialmente condannato alla pena di morte, poi all’ergastolo e infine graziato; Crasemann a Padova prese 12 anni di reclusione mentre Strauch a Firenze 6 anni di carcere: tutti i condannati furono liberati dopo pochi anni e nessuno scontò pienamente la propria pena. Durante il recente processo di Roma sono stati condannati all’ergastolo il capitano Ernst Arthur Pistor, il maresciallo Fritz Jauss e il sergente Johann Robert Riss, mentre il tenente Gherard Deissmann, anch’esso imputato, è morto a cent’anni nel corso del processo.

Matteo Grasso, laureato in storia, svolge attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti della storia contemporanea. Collabora sia con l’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia (ISRPt), gestendone il sito web e facendo parte del consiglio direttivo, sia con l’Associazione Culturale Orizzonti di Lamporecchio che diffonde il mensile Orizzonti. Ha pubblicato alcuni saggi riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale sui Quaderni di Farestoria, periodico quadrimestrale dell’ISRPt. Attualmente svolge un tirocinio per la valorizzazione storico-artistica di una villa medicea a Firenze.




Guerra totale in Vadinievole

«C’era poco da festeggiare nella nostra famiglia»: con queste parole il monsummanese Angiolo Fidi, superstite dell’eccidio del Padule di Fucecchio, ricordava la liberazione dal nazifascismo dopo un anno denso di episodi, iniziato nel settembre 1943 quando le truppe motorizzate tedesche fecero la loro comparsa a Monsummano Terme e conclusosi il 4 settembre 1944.

L’impatto che la guerra totale generò sulla società locale fu devastante sotto gli aspetti militari, politici, culturali, economici, e raggiunse dimensioni che coinvolsero l’intera popolazione civile e l’insieme delle risorse di ogni territorio. Piccoli paesi che conobbero l’esperienza dei bombardamenti alleati, dello sfollamento, dell’arresto degli ebrei, della Resistenza, delle stragi di civili.

La riorganizzazione, dopo l’Armistizio, del potere fascista sotto la neonata Repubblica Sociale Italiana portò a una forma di collaborazione stretta con gli occupanti nazisti. A Monsummano furono riorganizzati i quadri dell’amministrazione e il Commissario Prefettizio Gildo Rubino mantenne il proprio ruolo fino al 21 ottobre quando fu sostituito dal professore Italo Giampieri che rimase in carica fino a inizio luglio 1944.

Numerosi bandi e ordinanze interessarono tutta la provincia, emanati inizialmente dalla Prefettura di Pistoia su ordine del comando germanico e diffusi poi in ogni comune. Tali decreti compromisero la vita della popolazione locale: il coprifuoco dalle 22 alle 5; l’oscuramento notturno delle case; la presentazione obbligatoria per i militari rientrati dopo l’8 settembre; il divieto di aiutare i soldati angloamericani; la consegna forzata di tutte le armi; la proibizione di ascoltare canali radio ostili; la lotta al mercato nero; l’obbligo di eliminare ogni riferimento alla passata monarchia dalle intitolazioni.

Particolarmente drammatica fu la situazione degli sfollati, ammassati in strutture disabitate o ricavate da edifici dismessi, in condizioni sanitarie precarie e spesso privi dei basilari mezzi di sostentamento e di vestiario.

Quotidianamente risuonavano le sirene degli allarmi aerei e gli abitanti solevano proteggersi nella campagna e nei rifugi; la città, non avendo importanti obiettivi industriali o vie di comunicazione, non subì mai un completo bombardamento aereo, fu però cannoneggiata e mitragliata dagli alleati soprattutto nella stagione estiva.

Uno dei capitoli più significativi fu quello dell’arresto e della deportazione degli ebrei, con retate organizzate dai repubblichini in collaborazione con i tedeschi. Gli arresti avvenuti sul suolo italiano fra il 1943 e il 1945 non possono essere considerati delle semplici parentesi all’interno della dimensione occupazionale nazista. Il collaborazionismo fascista giocò un ruolo fondamentale, non ausiliario, dimostrato dalla storiografia nazionale e confermato da numerosi studi locali. Senza l’aiuto di chi conosceva il territorio, mai si sarebbe potuto realizzare il bilancio di arrestati che colpì la penisola italiana. Il caso di Monsummano conferma tali ricostruzioni storiografiche: il 5 novembre 1943 una perlustrazione organizzata da agenti del commissariato di pubblica sicurezza di Montecatini e da carabinieri della stazione di Monsummano, in collaborazione con militari tedeschi e repubblichini locali, condusse al fermo di sei «appartenenti a razza ebraica»: Giulio Melli (74 anni) e sua moglie Giuseppina Coen (74); Elio Melli (39) e sua moglie Vilma Finzi (33); Sergio (10) e Giuliana Melli (3).

Lo stesso giorno furono arrestate altre tre donne ebree: Marianna Calò Guarducci (74), rilasciata il 6 novembre; Evelina Nella Pitigliani (60) e sua sorella Albertina Pitigliani nei Bonaventura (66). Nei giorni seguenti fu catturata Elena Ida Toscano (88), madre delle sorelle Pitigliani, mentre a febbraio fu arrestato Carlo Levi (72), subito deportato. Il carcere di Monsummano svolse un ruolo fondamentale nella detenzione dei nove ebrei arrestati che furono rinchiusi fino al marzo 1944 quando la procura di Pistoia ordinò lo sgombero. Vennero trasferiti nel carcere di Firenze, poi nel campo di smistamento per ebrei di Fossoli, in Emilia-Romagna. Partirono il 5 aprile 1944 con i treni in direzione Auschwitz.

La presenza tedesca in paese fu avvertita anche con la presenza attiva dell’organizzazione Todt, una grande impresa di edificazioni che operò in tutti i paesi occupati dalla Wehrmacht, con sede nello stabilimento termale della Grotta Giusti; reclutavano personale civile in parte aderente e in parte obbligato per edificare baracche, fortini in cemento e gallerie. Proprio qui, da inizio giugno fino al 14 luglio 1944, fu situato il quartier generale di Albert Kesselring, comandante della Wehrmacht in Italia.

Nel corso dell’estate 1944, l’amministrazione italiana perse progressivamente il suo ruolo e le forze tedesche operavano come se la Repubblica Sociale Italiana non esistesse, al punto da interrompere lo scambio di informazioni e la collaborazione. Le stesse autorità italiane agirono in completo sfaldamento, scandito dalla fuga dei dirigenti locali, dei militi repubblichini e dei carabinieri. In quei mesi, con l’avvicinamento del fronte e la fuga nazista verso la Linea Gotica, furono operate le principali stragi di civili compreso l’eccidio del Padule di Fucecchio (174 morti, di cui 84 residenti a Monsummano, il 23 agosto 1944). Furono catturati a Monsummano e uccisi qui o nei comuni limitrofi: Sereno Romani (45 anni), colpevole di aver difeso alcune parenti da un tentativo di stupro; Bruno Baronti (20) e Foscarino Spinelli (20, di Lamporecchio); Brunero Giovannelli (22), colpito durante un rastrellamento mentre tentava di fuggire; Marino Agostini (34), Italo Laserdi (29), Fausto Franceschi (66), Antonio Boninsegni (18), accusati di aver effettuato segnalazioni luminosi.

A Monsummano furono costituite tre formazioni partigiane (Stella Rossa, comunista; Corallo, azionista; Faliero, comunista) che si distinsero principalmente per attività di sabotaggio, di raccolta armi e informazioni. Il 4 settembre 1944 un’azione congiunta delle varie squadre portò all’occupazione della città già abbandonata dai tedeschi, in un’operazione che ricalcava quella dei territori limitrofi: fuga nazista, contatti fra i partigiani e gli alleati, controllo del territorio da parte dei partigiani, arrivo definitivo delle truppe alleate. I rapporti fra la popolazione e le nuove truppe angloamericane di occupazione non furono sempre buoni, anzi ci furono incomprensioni, soprusi e atti intimidatori; persino il comunista Fulvio Zamponi, nominato all’unanimità il 9 settembre primo Sindaco di Monsummano dopo la Liberazione, fu arrestato con l’accusa di essersi rifiutato di dare informazioni «in zona di operazioni militari» dopo l’affissione da parte dei giovani comunisti di un manifesto giudicato come sovversivo che «chiedeva alle donne di non comportarsi con gli alleati come si comportavano con i tedeschi».

Matteo Grasso (Pescia, 1990). Storico, dal 2016 è direttore dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia. È il responsabile dell’attività scientifica dell’Istituto; ha curato e coordinato mostre e progetti, fra cui “Cupe vampe, la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti” e “On the run. Helpers and Allied servicemen in the Pistoia area” svolto in collaborazione con University of Lincoln (United Kingdom). Le sue ricerche, orientate nello studio della Seconda Guerra Mondiale, si sono concretizzate in cinque monografie, fra cui: Dispersi sì, dimenticati mai: il naufragio del Piroscafo Oria. Il caso dei soldati valdinievolini e pistoiesi, Firenze, Edizioni dell’Assemblea, 2019; Tesori in guerra. L’arte di Pistoia tra salvezza e distruzione, Pisa, Pacini editore, 2017.




Mazzino “Aldo” Fedi

Ad ogni modo, è interessante analizzare il motivo per il quale Fedi e i propri compagni avessero deciso di entrare in azione proprio nel corso di una manifestazione così partecipata e in vista come una corsa ciclistica. L’obiettivo era quello di sferrare un vero e proprio attacco allo «sport capitalista», definito un «mezzo efficace adottato dalla borghesia di tutti i paesi per distrarre i giovani dalla vita politica, da quello che è il loro interesse vitale (difesa delle conquiste, libertà di riunione), creato con lo scopo di stabilire fra tutti i giovani sparsi per il mondo capitalista un filo che li colleghi al Fascismo». Questo filo, riportava un comunicato dal Fronte unico dei giovani lavoratori:

è quello dello sport professionale, che in questa località vi è una grande maggioranza di giovani ciclisti italiani i quali hanno aderito alla società ciclistica diretta dal Consolato, agente della repressione fascista, le cui mani sono lorde di sangue proletario. Noi giovani che amiamo lo sport non dobbiamo essere diretti dagli agenti consolari che sono al servizio del capitalismo, per difendere il loro capitale, capitale finanziario, ma dobbiamo formare delle società dirette da noi giovani lavoratori, senza un controllo assiduo da parte del fascismo affamatore e assassino. Scacciare via i dirigenti che tentano con la loro demagogia dello sport di fare di voi giovani carne da macello per la futura guerra che il capitalismo italiano prepara febbrilmente. A questo scopo il Comitato d’azione del Fronte unico giovanile di Toulon fa appello a tutti i giovani sportivi di partecipare alla riunione che si terrà il giorno 19 aprile alla Bourse du travail […] per gettare le basi di creare una società sportiva operaia diretta dai giovani ciclisti. Avanti giovani ciclisti, per la formazione di una società senza dirigenti mussoliniani!

Queste note guardavano da vicino l’organizzazione del Dopolavoro e delle associazioni sportive e culturali, declinando nuove forme di conflittualità negli spazi comunitari e della società civile. Esperienze non certo isolate, eppure indicative del dispiegamento e dell’attività portata avanti dai militanti antifascisti anche durante la clandestinità. Su Fedi intanto si era fatta incombente la minaccia di espulsione dalla Francia. A decreto confermato, riuscì però a spostarsi nuovamente a Tolone e a riprendere da lì il proprio lavoro di proselitismo. Con fare provocatorio, continuò oltretutto a spedire all’indirizzo di Giuliano Giovannelli stralci e ritagli di giornali comunisti; fu lo stesso Giovannelli a consegnare alla polizia una nuova busta contenente un numero “Battaglie Sindacali” (n°. 6, 1934), organo della Confederazione generale del lavoro aderente all’Internazionale sindacale rossa (Profintern), accompagnato da un foglietto vergato a penna e recante un messaggio sibillino: «Sei convinto? Fattela leggere».

Condizionato da un carattere irascibile e poco disposto a compromessi, Fedi finì per entrare in conflitto anche con gli altri militanti. Le sue posizioni sull’anarchismo avevano destato più di qualche perplessità, ma la vera crepa si formò in seguito alle voci – dichiarate fittizie dallo stesso Fedi – che lo accusavano di essersi avvicinato alla causa trotskista: la Centrale del partito comunista lo sollevò quindi dal suo incarico a Lione e lo sostituì con il redattore (indicato come Catena) della rivista antifascista “Vita Operaia”. Consapevoli della sua condizione di assoluta indigenza, gli agenti dell’OVRA – secondo una procedura consolidata – tentarono invano di avvicinarlo per ottenere informazioni su altri sovversivi, cercando di sfruttare eventuali risentimenti. Fedi tuttavia riuscì a far perdere le sue tracce per alcuni mesi, girovagando tra il Varo e la Provenza in cerca di occupazione.

Una nuova segnalazione sul suo conto arrivò nel luglio 1935, quando il ristoratore Gino Lombardi riferì alla polizia di averlo visto consumare pasti per circa un mese nel suo locale (lasciato insoluto un debito di 100 franchi) di Villeurbanne e di saperlo in partenza per Marsiglia. Pochi giorni dopo la polizia intercettò un telegramma diretto a Rhon, nel quale la zia di Fedi, Evelina, dichiarava al nipote di non potergli consegnare l’indirizzo della sorella, probabilmente per timore di fornire troppe informazioni. Tra continui cambi di nome, Fedi venne così arrestato ancora una volta il 24 febbraio 1936 – assieme a Giovanni Tognetti e Gino Lombardi – con l’accusa di «infrazione al decreto di espulsione e […] sospetto di aver commesso […] un furto di gioielli». Scortato in carcere, dichiarò apertamente di «essere antifascista» e di aver commesso il reato: ciò si tradusse in una condanna a cinque mesi di reclusione e a 300 lire di multa per ricettazione, aggravando una posizione personale sempre più compromessa. Il fascicolo del Casellario Politico Centrale manca però di fornire aggiornamenti su ciò che accadde nei mesi successivi, lasciando ipotizzare una nuova fase di latitanza nella Francia governata dal Front populaire.

Il suo nome ricomparve nel febbraio 1937, segnalato tra i venti fuoriusciti che tra il 5 e il 19 gennaio erano partiti dalla Seyne per Marsiglia; lì si ricongiunsero ad una cinquantina di reclutati da Reynier, Six Fours-la Plage e St. Mandrier, pronti a salpare verso la Spagna e combattere nelle file delle Brigate internazionali. Nell’immanenza, i dati e le comunicazioni continuarono ad essere lacunosi e imprecisi: stando alla documentazione raccolta nel fascicolo del Casellario Politico Centrale tra il 1937 e il 1938, Fedi risultava infatti essere rientrato in Francia ed aver abbracciato la causa del Partito socialista italiano. Sappiamo invece con certezza che egli rimase in Spagna fino al 1938. Sarebbe stato lui stesso a confessarlo nel luglio 1940, una volta consegnato alle autorità italiane[1]. In terra iberica, ad Albacete (sotto il comando nominale di André Marty), venne infatti subito inserito nel servizio sanitario del Battaglione Garibaldi quale barelliere e successivamente come motorista. Passò poi alla XII Brigata Garibaldi come artigliere, per finire aggregato alla XV Brigata nordamericana Lincoln (batteria antiaerea) sui fronti del Levante e dell’Estremadura. Come mitragliere prese invece parte ai combattimenti del Guadarrama, Teruel, Caspe, Brunete e Huesca[2], prima che una ferita alla gamba lo costringesse ad un lungo soggiorno nell’ospedale di Murcia e ad uno più breve in quello di Albacete.

Non più idoneo fisicamente e colpito da forti febbri, una volta dimesso fu adibito ai servizi ausiliari: nell’ottobre del 1938 lasciò comunque la Spagna con convoglio sanitario e tornò in Francia, a Parigi. Nella capitale francese, schiacciato da una situazione economica estremamente complessa e trovatosi ai margini dell’attività partitica, decise di scrivere alla sorella Fulvia dopo un lungo silenzio, manifestandole l’intenzione di partire clandestinamente per l’America del Sud:

Ormai per me in Europa non c’è più nulla da sperare perché la conosco palmo per palmo. L’unico paese dove si poteva vivere un po’ meglio era la Francia, ma per me è finita pure in Francia perché sono espulso e non posso più avere la carta d’identità per lavorare e se mi prende la polizia mi arresta per un bel pezzo. Certo la mia intenzione è quella di andarmene nell’America del Sud, ma per andare legalmente occorrono molti soldi che io non posso far fronte a una simile spesa, perché attualmente è molto difficile fare fronte anche alle spese giornaliere, per mangiare, malgrado che io sono sempre stato più sveglio di tanti altri. Quando sono mesi e mesi che non si lavora puoi immaginarti come possiamo vivere. Quindi guardo di lasciare l’Europa clandestinamente se posso, certo non posso dirti che sia oggi o domani.

Il tentativo non andò a buon fine. Arrestato, nel 1939 venne internato a Gurs – dove dal 15 marzo 1939 le autorità francesi avevano deciso di installare un centre d’accueil per i reduci delle Brigate Internazionali e i fuggiaschi che arrivavano dalla Spagna – e a Vernet, realtà in cui si trovò a scontare – dopo essere passato dalle compagnie di lavoro vicino a Calais – le durissime condizioni a cui venivano sottoposti gli «stranieri sospetti e pericolosi». Incorporato nel campo di Moulin de Torpac (253 CTE) e costretto al lavoro coatto a Saint Omer (Pas-de-Calais), riuscì a fuggire e ad evadere in Belgio: qui venne fermato dai nazisti, rinchiuso temporaneamente in carcere a Dunkerque e poi inviato di nuovo – nel 1940 – a Vernet come «capo di una cellula anarchica […] molto intelligente e pericoloso».

La stipulazione dell’armistizio tra Francia e Italia, tuttavia, sancì l’immediata liberazione dei civili italiani internati e la loro rimessa alle autorità militari italiane. Ai prigionieri era teoricamente lasciata la possibilità scegliere se essere o meno riconsegnati, condizione che nell’estate del 1940 spinse una Commissione di Armistizio a visitare i campi per convincere i connazionali a firmare per il ritorno in patria. A luglio, tra pressioni e opere di convincimento, a sottoscrivere il rimpatrio (forse costretto) fu anche Mazzino Fedi che, una volta consegnato alle autorità, venne interrogato e destinato a cinque anni di confino sull’isola di Ventotene «quale elemento politicamente pericoloso». Durante il quarto trimestre del 1941 fu poi spostato ad Ustica, prima di un ultimo trasferimento – dopo Cassibile – nel campo di Renicci d’Anghiari (Arezzo), dove venne liberato il 15 settembre 1943.

Non disponiamo di ulteriori notizie su di lui, se non che dal 1965 si stabilì a Torino con la moglie Vincenzina Bertone. Prese probabilmente parte alla Resistenza, anche se al momento quest’ultima resta solo un’ipotesi. La sua figura emerse comunque come quella di un antifascista «zelante negli incarichi ricevuti», capace di muoversi abilmente nella rete clandestina e di evidenziare l’importanza specifica di individui e organizzazioni che – nella loro eterogeneità – risultarono fondamentali nella costruzione e nel rafforzamento di un sentimento democratico e antifascista.

[1] A confermare la presenza di Mazzino Fedi in Spagna sovvennero anche le confessioni alla polizia politica di Francesco Guido Berard, rilasciata il 9 aprile1940, e di Giuseppe Jacopini (17 ottobre 1941).

[2] Cfr. http://www.antifascistispagna.it/?page_id=758&ricerca=2093.

*Federico Creatini è dottore di ricerca in Storia del lavoro. E’ stato borsista di ricerca presso l’Università di Pisa e l’Istituto Ferruccio Parri. Attualmente è borsista di ricerca presso il Centro di ricerca Maria Eletta Martini-Scuola superiore Sant’Anna.




Lungo l’aspra via dell’idea

A Livorno!
Ancora una tappa. È necessario. Lungo l’aspra via dell’Idea ogni tanto ci fermiamo, raccogliamo le forze, le passiamo in rassegna, ci volgiamo indietro, la guardiamo intorno e davanti, vicino e dietro.
Qualcuno stanco per l’asperità del terreno si ferma e ritorna, gli altri riprendono la marcia in file serrate che si ingrossano sempre di più strada facendo.

Così, il 4 gennaio 1921, «L’Avvenire» salutava il congresso di Livorno, dove, più divisi che mai, i socialisti erano chiamati a votare l’adesione alle 21 condizioni poste per l’ingresso nella Terza Internazionale. Organo della federazione circondariale socialista e dotato di una storia ultratrentennale, il settimanale era allora gestito dalla corrente maggioritaria nel partito: quei “socialisti massimalisti” che, rappresentati dal direttore de «L’Avanti!» Giacinto Menotti Serrati, avevano inizialmente guardato con favore sia al ruolo guida della Russia rivoluzionaria sia alla Terza Internazionale.

Molti erano però i motivi che stavano incrinando gli entusiasmi. La disgregazione dei partiti socialisti francesi e tedeschi suscitava analoghe paure per il partito italiano; decisivi erano stati anche i dubbi sulla possibilità di organizzare una rivoluzione in breve tempo, esibiti dall’occupazione delle fabbriche nel settembre 1920. Soprattutto il mancato appoggio dei massimalisti scavò un fossato profondo tra di loro e le frange più radicali: il gruppo torinese di «Ordine Nuovo» (rappresentato da Gramsci, Terracini e Togliatti), gli “astensionisti” campani di Amedeo Bordiga e l’eterogenea «terza componente» tosco-emiliana.

Se dal panorama nazionale spostiamo lo sguardo su quello pistoiese poco netta fu, a questo proposito, la posizione de «L’Avvenire», impegnato in quanto organo ufficiale del PSI locale a giostrarsi tra le sue litigiose correnti. Confusa era anche la situazione politica locale: nel 1919 la giunta clerico-moderata di Arrigo Tesi era stata commissariata per irregolarità nella gestione dei magazzini comunali e venne destituita. Tra il maggio e giugno  1919 erano stati organizzati numerosi scioperi tra i lavoratori dell’industria; il 4 luglio, durante la manifestazione contro il caro-vita, un esasperato gruppo di lavoratori assaltò il centrale Emporio Lavarini.

Come il direttivo nazionale, anche quello del PSI locale era discorde sulla linea da adottare. Buona parte della rivista – gestita allora da Pietro Querci – e del gruppo dirigente pistoiese era legata ai serratiani. A Capostrada forti erano i bordighiani, mentre in montagna il punto di riferimento era Savonarola Signori, sindacalista di simpatie ordinoviste e sindaco di San Marcello tra 1921 e 1922. Roccaforte dei riformisti era invece la Camera del Lavoro, presieduta da Alberto Argentieri.

Se l’editoriale A Livorno!, auspicava sì una scissione, ma a destra, i comunisti erano infatti favorevoli a creare un partito autonomo. Tra questi figurava l’autore de I comunisti al congresso di Livorno (pubblicato il 15 gennaio 1921), ON-DA:

Credo – scriveva infatti – che la frazione comunista, già a [sic] Partito Politico vibrante di vita e di fede, a Livorno debba iniziare la sua battaglia, non nell’orbita del passato, ma lontano da questo per un principio di purezza e di vitalità.

Ugualmente orientata verso la scissione a sinistra era la corrente riformista. Nel suo editoriale Da Genova a Livorno (pubblicato il 22 gennaio) V., nel ricordare le precedenti scissioni (quella degli anarco-sindacalisti, negli anni ’90; dei sindacalisti rivoluzionari, nel 1904; della minoranza favorevole all’intervento nella guerra italo-turca, nel 1912), bollava quella futura «una dolorosa ineluttabilità».

L’esito del congresso minò il complesso equilibrio del PSI pistoiese. La mancata adesione alla Terza Internazionale – che li rigettava a favore del PCd’I – contrastava con gli entusiasmi per la Rivoluzione russa e la convinzione di essere il partito più radicale dell’Europa occidentale. Con la scissione acquistavano un peso maggiore i riformisti e la CGL. Per di più, entro pochi mesi dal congresso, gli iscritti alle singole federazioni dovevano decidere se restare nel PSI o migrare nel PCd’I: scarsa era quindi la consapevolezza di quali strutture sarebbero rimaste ai socialisti.

Questo disorientamento ben emerse nel primo editoriale sull’argomento il 19 febbraio 1921. «Il Congresso della Terza Internazionale»,

non potrà nulla addebitare al nostro Partito Socialista Italiano, il più puro, il più intransigente partito socialista del mondo e finirà col conservarci nei ranghi, perché tenemmo e terremo il nostro posto con onore.

Fu questa una convinzione che venne ribadita anche nei mesi successivi, quando il voto del 10 marzo tra gli associati pistoiesi sancì il passaggio della sede e del settimanale al Pcd’I. Mentre con il numero 19 marzo «L’Avvenire» diventava l’“Organo della Federazione circondariale comunista”, gli esuli socialisti confluivano ne «L’Avvenire socialista», che ancora il 12 marzo ribadiva la vicinanza tra socialisti e comunisti:

I proletari che amano la causa rivoluzionaria non possono voler la divisione del Proletariato, sia pure nel solo campo politico. L’unione fa la forza!

Una condivisione messa fortemente in dubbio dall’altro elemento della diade. «Il partito socialista» chiosavano infatti i comunisti sul primo numero de «L’Avvenire»

prima e durante la guerra non à [sic] dimostrato chiaramente di possedere qualità rivoluzionarie […]. Il dopoguerra à [sic] poi lumeggiato tutta l’impotenza rivoluzionaria di questo partito […]. Ed allora come si fa a chiamare ancora rivoluzionario questo partito socialista?

 




“Agire, Agire, Agire!”

Davanti alla scelta di entrare nel conflitto mondiale, i socialisti pistoiesi risentirono delle divisioni del PSI nazionale. La linea ufficiale era di neutralità assoluta, ma le correnti erano in disaccordo, fronteggiandosi su «L’Avvenire», organo locale del partito. I riformisti, maggioritari in città, adottarono un orientamento attendista. I massimalisti, forti nelle zone bracciantili e nelle industrie della montagna, erano fermamente neutralisti. Le sezioni pistoiesi risentirono dell’ambigua linea di condotta della dirigenza nazionale, mettendo al primo posto la salvaguardia dell’unità del partito. Al di là di organizzare conferenze contro la guerra per mobilitare i ceti popolari, il partito non seppe farsi guida delle spontanee agitazioni antibelliciste. Solo nell’area di Lamporecchio, per merito del sindaco Idalberto Targioni, le manifestazioni ebbero caratteri più organizzati, ma si esaurirono con l’intervento (maggio 1915).

Dopo l’ingresso in guerra, le fratture si acuirono. Alcuni importanti esponenti, come il riformista Amulio Cipulat (direttore de «L’Avvenire») e Targioni, lasciarono il PSI e si “convertirono” all’interventismo. Questi abbandoni provocarono un’emorragia di iscritti, che indebolì soprattutto i riformisti. I massimalisti – tra i quali emerse una frangia di sinistra animata da giovani militanti, che rivendicava una linea rivoluzionaria – guadagnarono posizioni nel partito e nel giornale, che divenne assai critico con la giunta comunale. Intanto, a partire dal 1916 si acuirono le tensioni sociali, con scioperi dei lavoratori e proteste delle donne delle campagne contro la guerra. Nei moti, i socialisti locali mantennero però un ruolo passivo. Il partito era stato minato dalle defezioni, dalla coscrizione obbligatoria e dagli arresti. La dirigenza era poi divisa sul da farsi. I riformisti non appoggiavano le proteste e favorivano la collaborazione con l’amministrazione. L’ala intransigente intendeva supportare le agitazioni popolari e operaie. I massimalisti ebbero la meglio nel convegno collegiale del luglio ’17 e votarono di seguire il modello bolscevico, spogliandosi «di tutte quante le ideologie borghesi e anteporre alla patria l’internazionale proletaria». Nondimeno, la stretta repressiva successiva a Caporetto frenò le pretese rivoluzionarie. «L’Avvenire» interruppe le pubblicazioni per le divisioni della redazione.

Concluso il conflitto, il PSI pistoiese ebbe una crescita considerevole. Nonostante il peso acquisito, nei moti popolari contro il caroviveri e negli scioperi del 1919, i dirigenti, in linea con la segreteria nazionale e d’accordo con i rappresentanti della Confederazione Generale del Lavoro, non tradussero in pratica il motto “Fare come in Russia”, mantenendo le proteste nella legalità. Per «L’Avvenire», dove era forte la componente riformista, i tumulti erano il male del proletariato perché «peggiorano la sua condizione, allontanano il giorno della sua completa emancipazione […] suo compito è quello di prendere il timone della cosa pubblica». La base locale, ormai radicalizzata, chiedeva però una svolta rivoluzionaria e guardò alla frangia comunista, strutturatasi attorno al gruppo dei giovani militanti estremisti. Dopo le elezioni nazionali del novembre 1919, vinte dal PSI nel circondario di Pistoia (49 %), i comunisti presero il sopravvento nella sezione cittadina e su «L’Avvenire», come prova la scelta dei redattori di inserire nella testata il motto di «Ordine Nuovo», la rivista di Antonio Gramsci: «Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi perché avremo bisogno di tutta la nostra forza». Nell’agosto 1920, anche la Camera del Lavoro passò sotto il loro controllo. Proprio per l’influenza dei comunisti, le proteste del ’20 assunsero caratteri anticapitalisti. Culmine delle agitazioni furono le occupazioni delle fabbriche nell’agosto-settembre, che nel pistoiese interessarono le officine metallurgiche, come la San Giorgio, e gli stabilimenti più piccoli. Gli scioperanti locali speravano nell’insurrezione, ma l’accordo tra sindacati, governo e industriali pose fine alle occupazioni ed esaurì la spinta rivoluzionaria.

Nonostante il fallimento delle proteste, il PSI vinse le elezioni amministrative dell’autunno, strappando ai moderati vari Comuni del circondario e il capoluogo, dove fu eletto l’avvocato Bartolomeo Leati. Le fratture interne al partito divennero, però, insanabili. Il congresso nazionale di Livorno, previsto per il gennaio 1921, appariva una resa dei conti tra i riformisti di Turati, i massimalisti di Serrati e i “comunisti puri” di Bordiga. Quest’ultimi erano maggioritari nel pistoiese ed richiesero la direzione nazionale, su «L’Avvenire», ad espellere i riformisti e ad avere una linea politica più vicina alla III Internazionale. Ugo Trinci invitò a mettere da parte le discussioni e ad «agire, agire, agire!». Intanto, lo squadrismo fascista intensificava le sue violenze.

Nel congresso circondariale del dicembre 1920, la mozione comunista ottenne una maggioranza netta, mentre in gran parte d’Italia prevalse la mozione massimalista. Al Congresso di Livorno (gennaio 1921) si consumò la spaccatura: prevalse la linea di Serrati, ossia tenere dentro i riformisti senza però sciogliere i nodi politici, mentre i comunisti si scissero dando vita al Partito Comunista d’Italia (PCdI). A Pistoia, gran parte della dirigenza, tra cui Trinci, e dei militanti del PSI passarono alla neonata formazione, che controllava anche la Camera del Lavoro – dove sedeva il bordighista Onorato Damen, un giovane poeta locale – e «L’Avvenire». Nel marzo, i resti del PSI pistoiese mandò alle stampe il nuovo organo: «L’Avvenire socialista». Iniziava una contesa politica che indebolì il movimento socialista e operaio, nel momento in cui l’unità era necessaria per opporsi al fascismo. La giunta Leati non resse alla scissione, dimettendosi nel maggio 1921. L’amministrazione comunale, per le divergenze tra comunisti e socialisti, rimase vacante fino all’agosto 1922 quando i fascisti ottennero il commissariamento del Comune.

Francesco Cutolo, perfezionando presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, si è laureato in Scienze storiche all’Università di Firenze con una tesi dal titolo “L’influenza spagnola del 1918-1919: la dimensione globale, il quadro nazionale e un caso locale” , rielaborata e pubblicata nel 2020 per i tipi dell’Isrpt. È consigliere dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Pistoia e membro dell’associazione “Storia e città”. Fa parte delle redazioni delle riviste «Farestoria» e «Storialocale». È stato curatore delle mostre: “La città in guerra. Cittadini e profughi a Pistoia dal 1915 al 1918” (Pistoia, 2017); “Memorie d’autore. I grandi personaggi e la prima guerra mondiale” (Firenze,  2018; Montespertoli, 2019); “Le cicatrici della vittoria. Pistoia e le memorie della Grande Guerra” (Pistoia, 2019).




Itinerari chiniani a Montecatini Terme

Si dice che Montecatini sia l’armonico e straordinario connubio di antico e moderno, identificabili rispettivamente con la parte alta della città, sede dell’antico castello e teatro di numerose battaglie, e con la zona dei bagni termali, a valle, dove prima dei Lorena i benefici delle acque rimanevano relegati ad un’insalubre area stagnante.
Inizialmente l’unica Montecatini era quella sulla collina, fondata intorno all’anno Mille, e bruciata dall’incendio del 1554. Si deve al periodo delle grandi riforme leopoldine (1773) il ritorno alla salubrità della zona sottostante: il Granduca Pietro Leopoldo fece costruire canali di smaltimento delle acque per recuperare il territorio e favorire l’uso delle sorgenti termali, per le quali cominciò, inoltre, un’intensa edificazione di stabilimenti. Nonostante le migliorie pubbliche consentissero una riqualificazione della parte bassa, si dovette però aspettare fino al 1905 per veder nascere il Comune di Bagni di Montecatini, poi Montecatini Terme, che immediatamente assunse nell’estetica cittadina gli inconfondibili tratti della belle epoque. Basterebbe scorrere le fotografie del tempo o una serie di vetuste cartoline per notare tripudi di cappellini piumati su belle signore in posa, davanti ai classici e maestosi edifici termali.

Un indiscusso protagonista di questa ristrutturazione cittadina all’insegna del bello fu Galileo Chini con la sua manifattura ceramica, della quale coordinava la direzione artistica. La storia della fabbrica è ormai nota e, per riassumerla in pillole, non rimane che far riferimento agli innumerevoli successi nazionali e internazionali che, sin dalla fondazione (1896, al tempo Arte della Ceramica) essa accumulava: Torino (1898) Parigi (1900), Pietroburgo, Gand, Bruxelles (1901) e ancora Torino (1902) sono solo alcune delle Esposizioni in cui la Manifattura ricevette le onorificenze più alte.
Nei primi vent’anni di attività, quindi, il successo della produzione chiniana era talmente attestato sul territorio che chiamare tali maestranze per intervenire sui lavori pubblici era sintomo d’indiscusso prestigio. Questo fu probabilmente il pensiero dell’architetto Raffaello Brizzi e dell’ingegner Luigi Righetti, quando proposero in Giunta Comunale l’affidamento della copertura per i velari principali al Chini.

In effetti, i lavori per il Palazzo Comunale di Montecatini impegnarono le Fornaci (che nel frattempo si erano trasferite a Borgo San Lorenzo, cambiando la ragione sociale in Fornaci San Lorenzo Chini & C.) dal 1918 al 1920, quando una serie di vetrate fu eseguita all’interno dell’edificio. In realtà la copertura dei lucernari, affidata alla ditta Quentin, era cominciata almeno due anni prima, come dimostra la serie archivistica Lavori pubblici conservata presso l’Archivio Storico del Comune e recentemente rinvenuta, ma la scabra intelaiatura di ferro e vetro non soddisfaceva gli stilemi estetici ormai pienamente devoluti alle rotondità Liberty. I Chini proposero pertanto nuovi bozzetti per il velario d’ingresso, dove allegre forme tondeggianti si concentravano nel puttino centrale e si alternavano ai vetri colorati e nitidi, alle sagome geometriche di quelli laterali.
Alle opere in vetro si aggiunse un ciclo pittorico (otto pennacchi con soggetti allegorici e dodici lunotti, dove risiedono putti e corbeille fiorite) situato sulla volta dell’imponente scalinata e sempre eseguito per mano di Galileo Chini.

IMG_5861Quest’arte manifatturiera, connotata dalle forti istanze dell’artigianalità di bottega e allo stesso tempo permeata di spirito moderno, aveva già in precedenza lasciato il segno in città: il Padiglione Tamerici, progettato nel 1903 da Giulio Bernardini per la vendita dei Sali, fu decorato da quattro pannelli in grès realizzati dalla Manifattura per Domenico Trentacoste. Modellati con sapiente equilibrio di forza e gentilezza, essi raffigurano i differenti ruoli connessi all’arte dei vasai: Il Fornaciaio, il Molatore, lo Scultore e il Disegnatore; quest’ultimo ha le sembianze di Galileo Chini. Tali bassorilievi erano stati presentati all’Esposizione Italiana di Arti Decorative e Industriali di Torino del 1902, prima di trovare definitivamente posto sulla facciata di questo edificio. All’estero ricerche sul grès avevano prodotto risultati di straordinario interesse (si pensi a ceramisti di grande fama come Auguste Delaherche, in Francia o i fratelli Martin, in Inghilterra) ma in Italia l’uso di questo materiale era del tutto innovativo per la ceramica dell’epoca. Il tipo di grès usato dalla fabbrica fiorentina era grigio e nella maggior parte dei casi presentato con sintetici decori in blu di cobalto: esemplari che sono definiti di ‘grès salato’, perché rivestiti da una pellicola vetrosa trasparente ottenuta dalla combustione del cloruro di sodio. Ciò mette in luce l’alto livello tecnico raggiunto dalla fabbrica, che si pone così in linea con i più progrediti laboratori europei del tempo.
Passeggiando sul gran Viale delle Terme ci troviamo di fronte all’imponente facciata dello Stabilimento Tettuccio, ricco di storia e che rappresenta, oggi, una vera città termale con parchi, caffè, concerto e negozi. Interessanti sono le decorazioni dei vari padiglioni che ne arricchiscono la sontuosità: dalle ceramiche della Galleria delle Bibite di Basilio Cascella, agli affreschi di Giuseppe Moroni nella Sala di Scrittura o di Giulio Bargellini e Maria Biseo nel Salone del Caffè, fino alle decorazioni di Ezio Giovannozzi nella cupola della Tribuna dell’Orchestra, coperta con tegole a squame in maiolica della Manifattura Chini. Si noti, in questo senso, che gli interventi di rivestimento ceramico esterno hanno esiti vicini a quelli di Salsomaggiore: le Terme Berzieri riportano, infatti, elementi di somiglianza e talvolta di assoluta corrispondenza.
Non lontano, sempre all’interno del parco cittadino, si trovano le Terme Tamerici, ristrutturate nel 1910 da Giulio Bernardini e Ugo Giusti. Galileo Chini qui realizzò pannelli, banconi, vetrate e persino i pavimenti della vecchia sala di mescita. L’incarico di ampliare le Terme Tamerici interessò in particolare la decorazione esterna in grès ceramico che s’inserì organicamente nell’architettura neo-medioevale dell’edificio: le teste leonine, i rosoni, gli stemmi policromi e i vari tipi di piastrelle con motivi geometrici e a intreccio sono elementi che in parte saranno ripresi dall’esperienza di Galileo in Siam e in parte riutilizzati per altri lavori.

Montecatini può dunque vantare interventi artistici importanti e qualificati, e non solo per commesse istituzionali. Spesso l’intervento della famiglia Chini è richiesto per lavori di carattere privato: ne è esempio splendido il Grand Hotel & La Pace. Costruito nella seconda metà dell’800 e più volte trasformato, fu radicalmente ristrutturato agli inizi del ʼ900. Nel 1904 fu inaugurato il Salone delle Feste, affrescato da Galileo, autore peraltro anche dei disegni per le vetrate della vecchia hall. Di chiara ispirazione klimtiana e di produzione totalmente autoctona, i vetri della Manifattura Chini ricorrono a schemi decorativi tratti dai moduli artistici della Secessione viennese, con un impianto compositivo che si articola su diversi livelli geometrici, affiancati poi da composizioni floreali dalle evidenti riduzioni formali. La stessa influenza stilistica si ritrova nelle tre splendide e vivaci vetrate di Villa Agatina (V.le Giacomo Puccini, 67), eseguite con grande maestria dalla Manifattura Fornaci di San Lorenzo su disegno di Galileo.

La Belle époque assegnò dunque a Montecatini – città spensierata e modaiola – una precisa collocazione estetica all’interno del gusto Liberty e lo fece avvalendosi, anche concettualmente, ai maestri nel settore. La Manifattura Chini lascia anche su Montecatini un segno indelebile, una traccia che andrebbe rispettata nel solco della tradizione storica e artistica e perpetuata attraverso notevoli opere di valorizzazione come quella permessa dalla sensibilità degli eredi nella conservazione dell’Archivio Storico dell’impresa e della famiglia.

Elena Gonnelli è laureata in Lettere con il prof. Andrea Battistini, ha conseguito una seconda laurea magistrale in Archivistica con Antonio Romiti curando il riordino e l’inventario analitico dell’Archivio della Manifattura Chini di Borgo San Lorenzo. Insegnante di scuola media, lavoro inoltre presso l’Archivio di Stato di Bologna e come collaboratrice esterna per diversi archivi del territorio. Direttore dell’Istituto storico lucchese – Sezione Montecatini Monsummano. Tra le sue pubblicazioni: Il Codice numero 1 dell’Archivio Storico pre unitario di Montecatini: questioni storicoarchivistiche, in «Caffè Storico – Rivista di Studi e cultura della Valdinievole», anno I, n. 1, Luglio 2016, in corso di stampa; L’Arte della Ceramica e il Liberty italiano, in «Il senso della Repubblica. Nel XXI secolo quaderni di storia e filosofia», Heos, anno IX, n. 6, Giugno 2016; L’Archivio della Manifattura Chini: il disegno per Porretta, «Nuéter», anno XLI, n. 82, Dicembre 2015, Porretta Terme; L’Archivio della Manifattura Chini, in «Quaderni di storia e cultura viareggina: Da Firenze a Viareggio. Viaggio nell’arte di Galileo Chini», Istituto Storico Lucchese – Sezione di Viareggio, n. 7, 2016.




Cattolici e comunisti in Valdinievole

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, papa Pio XII individuò nel comunismo il vero nemico della Chiesa Cattolica, anche perché nei Paesi nell’orbita comunista come la Polonia, l’Ungheria e la Jugoslavia, molti importanti prelati vennero arrestati o perseguitati. In Italia, per di più, il fronte popolare che si presentò compatto alle elezioni del 1948 spaventò il Vaticano. In questo contesto, nel 1949, il Papa promulgò un atto che fece storia: la scomunica dei comunisti. Negli anni la situazione di conflitto tra la Chiesa e il mondo comunista visse alti e bassi, fino a quando sul soglio pontificio arrivò Giovanni Paolo II che invece contribuì in modo netto alla caduta della cortina di ferro.

Nel 1958 – dopo la morte di Pio XII e l’elezione del papa di Giovanni XXIII – l’episcopato latino vide essenzialmente una linea di continuità con quanto avvenuto fino a quel momento nella chiesa e nel rapporto con i laici. Papa Giovanni aveva ereditato una chiesa in «stato di assedio»[1] contro il pericolo comunista considerato un sistema politico anti-religioso che, proibendo la libertà di espressione religiosa del singolo, diffondeva un modello incentrato sull’ateismo. Dal 1951 era vescovo della diocesi di Pescia in Valdinievole Dino Luigi Romoli o.p. che il 20 novembre 1959 mandò il suo votum a Roma per la consultazione mondiale voluta da Giovanni XXIII in vista dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II. Il vescovo nel votum non pronunciò una condanna diretta di comunismo, socialismo e materialismo perché per lui i problemi più gravi erano da imputare ai nuovi mezzi di comunicazione di massa che andavano a diffondere uno stato di relativismo morale e edonismo all’interno di una società sempre più secolarizzata e lontana dai modelli evangelici. All’inizio del Concilio Ecumenico Vaticano II rimase l’attesa di una probabile condanna del comunismo nonostante papa Giovanni avesse cercato, con la Gaudet mater ecclesia, di smorzare i toni dell’episcopato latino e del Sant’Uffizio. Dopo le elezioni politiche del 28 e 29 aprile 1963 Romoli, sul giornale della diocesi di Pescia La Voce di Valdinievole, vedeva diffondersi, anche nel suo territorio, la presenza comunista. Per il vescovo l’aumento dei voti comunisti era da imputare prevalentemente alla mancanza di spirito cristiano a cui si poteva rimediare grazie alla preghiera costante che poteva permettere il recupero dei fedeli che si erano allontanati da Dio a causa dei falsi modelli diffusi dal materialismo e dal comunismo.

Dopo il pontificato giovanneo il 21 giugno 1963 veniva eletto papa, Paolo VI. Il 23 giugno 1964, nel primo anniversario dell’elezione di papa Montini, Romoli elogiò i magisteri e le personalità di Paolo VI, Giovanni XXIII e Pio XII, che era stato oggetto di forti critiche proprio in quei giorni. Per il vescovo di Pescia Romoli – riprendendo le parole che Paolo VI aveva pronunciato nel discorso rivolto alle C.E.I. del 15 aprile 1964 – aveva paura che la società umana e la fede fossero costantemente minacciate dalla diffusione del laicismo, del materialismo e del comunismo. L’ostilità nei confronti del comunismo si era accentuato dopo che il drammaturgo tedesco Rolf Hochhulth, con la rappresentazione teatrale Il vicario, aveva accusato Pio XII di aver taciuto di fronte ai crimini commessi dai nazisti nella seconda guerra mondiale. Per il vescovo di Pescia papa Pacelli non avrebbe potuto far niente di più di ciò che aveva fatto perché ciò avrebbe peggiorato e aggravato la situazione dei perseguitati ebrei.

Alla fine degli anni ’60 la crisi dell’Azione cattolica, delle ACLI e il dibattito sulla Legge 898/1970 sul divorzio e il primo Referendum abrogativo della Repubblica del 1974 rappresentò per la Chiesa il simbolo delle difficoltà postconciliari presenti nella risoluzione del difficile rapporto fede-politica. L’approdo delle ACLI al socialismo si poteva collocare dopo le elezioni del maggio 1968. Livio Labor rilevava come il giudizio degli elettori avesse confermato il crescente malumore verso il centro-sinistra.  L’ 8 marzo 1969 Livio Labor, già presidente delle ACLI dal 1961, fondò assieme a Riccardo Lombari l’Associazione di cultura politica (Acpol) che inizialmente vide coinvolti esponenti della corrente di sinistra della DC. Nel 1970 l’Acpol si trasformò in Movimento politico del lavoratori (Mpl) sia per uscire dal «bipartitismo imperfetto» che per superare il monopolio politico della rappresentanza dell’elettorato cattolico. Il Movimento si presentò alle elezioni politiche anticipate del 1972 ma non riuscì ad ottenere una rappresentanza in Parlamento. Dopo le elezioni Labor decise di confluire nella maggioranza del Partito Socialista Italiano collocandosi nella sinistra che faceva capo a Riccardo Lombardi. Nel 1973, dopo le elezioni politiche dell’anno precedente che restituirono la maggioranza del Parlamento al centrosinistra, Romoli, ispirandosi alla definizione del comunismo data da Pio XI nell’enciclica Divini Redemptoris del 1937, insieme ad altri quattordici vescovi italiani ribadì, sia sulla rivista tradizionalista «Relazioni» che sulla rivista «Cristinità» dell’organizzazione di estrema destra “Alleanza Cattolica”, Sempre valida la condanna contro il comunismo ateo con la motivazione che «il comunismo – volendo disperdere l’uomo nella massa anonima e pretendendo di imporre un’umanità senza Dio – è intrinsecamente perverso»[2].

Per concludere il processo di “secolarizzazione” della mentalità e l’inizio della crisi all’interno del sistema dei partiti contribuirono ad accelerare ciò che prima era sotto il controllo del Papa e dei vescovi. I cambiamenti politici e sociali dovevano essere considerati come un effetto della trasformazione dell’Italia.

Michele Pandolfo nasce a Pescia e risiede a Monsummano Terme in provincia di Pistoia. Dopo la maturità informatica conseguita all’Istituto Tecnico Industriale di Pistoia si iscrive all’Università degli Studi di Firenze per studiare storia e conseguire la Laurea Magistrale in Storia del Cristianesimo contemporaneo con una tesi dal titolo: Un vescovo “tridentino” all’epoca del Concilio Vaticano II: Dino Luigi Romoli o.p. Infine, consegue il Master di I livello “PluReS” (Pluralismo Religioso e Sapere Storico) presso la Fondazione per le Scienze Religiose “Giovanni XXIII” di Bologna.

 

[1] G. Turbanti, Il problema del Comunismo al Concilio, in A. Melloni (ed.), Vatican II in Moscow (1959-1965), Leuven, Bibliotheek van de Faculteit Godgeleerdheid, p. 147.

[2] Reginaldo Giuseppe Maria Addazzi (o.p.), Carlo Angeleri, Giulio Barbetta, Luigi Carlo Borromeo, Raffaele Campelli, Cesario D’Amato (O.S.B), Francesco Venanzio Filippini (O.F.M.), Nicola Margiotta, Martino Matronola (O.S.B.), Giovanni Battista Pardini, Giustino Giulio Pastorino (O.F.M.), Vito Roberti, Dino Luigi Romoli (o.p.), Zenone Albino Testa (O.F.M.), Sempre valida la condanna contro il comunismo ateo, in «Relazioni», (1973/1-3). Contro il comunismo. Sempre valida la condanna del comunismo ateo, in «Cristianità», (1973/0).