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Bisenzio

Fino a quando, a seguito della smobilitazione dei Lanifici negli anni Cinquanta, l’arrivo dei carbonizzi e delle tintorie non iniziò a inquinare le acque limpide del fiume, il Bisenzio non era solo un corso d’acqua sulle cui sponde erano nate le principali industrie del pratese.

Era il palcoscenico dei divertimenti estivi di tutti i ragazzi che trascorrevano ore nelle pozze d’acqua create dalle pescaie o nei canali delle gore; era una fonte di alimento e guadagno, attraverso la pesca e il duro lavoro dei renaioli; era il luogo dove le donne, chine sui sassi, lavavano panni e indumenti.

Proprio le testimonianze dei ragazzi d’allora, raccolte con cura dal Centro di Documentazione Storica della val di Bisenzio negli ultimi trent’anni, permettono di rievocare con vivacità i mille legami intessuti tra la gente del posto e un corso d’acqua: uno scambio continuo e infinito, dove ogni singola risorsa offerta dal fiume era sfruttata o piegata ai bisogni primari e secondari della comunità.

E sicuramente l’aspetto ludico era tra i bisogni secondari pienamente soddisfatti dal fiume: tutti i ragazzi, dal più piccolo al più grande, sapevano nuotare con sicurezza: prima nelle piccole pozze confortati dagli alti massi che fuoriuscivano dall’acqua, per poi affrontare le varie pescaie che accompagnavano il corso del Bisenzio, mentre nelle gore si facevano gare di nuoto per varie categorie d’età, a eliminazione, perché più che due per volta non si poteva gareggiare per lo stretto margine delle due sponde.

Nella vita sociale prima della Seconda guerra mondiale il Bisenzio era ancora l’ambiente deputato al benessere e alle attività fisiche dei bambini: in epoca fascista, infatti, le principali colonie elioterapiche erano dislocate lungo il fiume, e l’aria fresca del Bisenzio accompagnava i disciplinati bagni di sole e di fiume, i saggi ginnici e i giochi.

Tra fabbrica e fabbrica, tra pescaia e pescaia, il fiume era pulito, trasparente. La buona qualità delle acque permetteva anche la presenza di pesci delle più varie specie -broccioli, lasche, codinelle, barbi, boghe, anguille- da catturare con peculiari specializzazioni: con le mani e le forchette; in apnea frugando tra gli scogli; con l’amo e il tramaglio (una rete alta e lunga); “a rintrono”, facendo uscire storditi i pesci da un anfratto dove era stato scagliato un sasso sopra l’altro; a “frugnolo”, dove, nelle ore notturne, a lume di carburo con un retino piccolo si illuminavano i pesci che rimanevano fermi, o ancora “a corda”, con cordicelle che facevano girare i fusi delle filande presi in filatura. Molti di questi sistemi erano proibiti dalla legge e non passava settimana, nel periodo dalla fine di marzo a ottobre, che non ci fosse qualche inseguimento da parte della Guardia Forestale e dei Carabinieri. Pochissimi avevano la licenza di pesca e quasi tutti rischiavano: alcuni lo vendevano, arrotondando la paga della fabbrica, ma per la maggior parte dei pescatori di frodo il pesce era una delle basi dell’alimentazione. Il ristorante “Il Bongino” presso La Tignamica (Vaiano) si era specializzato nella frittura di pesciolini di Bisenzio e il lunedì -quando a Prato chiudevano i negozi e le attività- molti cittadini si riversavano sulle sponde del fiume a pescare per poi pranzare alla celebre locanda.

4-giovani-donne-a-lavare-panni-e-indumenti-nel-bisenzioAltra fonte di guadagno era costituita dalla rena, creatasi dall’arrotatura della pietra arenaria prodottasi nel fiume durante le piene, scavata e raccolta con fatica dai renaioli nei vari posti di prelievo autorizzati. Nella maggior parte dei casi i renaioli erano anziani che conoscevano bene il fiume e sapevano dove scavare il greto; per arnesi avevano un picco, un badile e una rete metallica inchiodata ad un telaio in legno rettangolare” strumentale alla divisione tra ghiaia e rena, venduta poi ai muratori come collante per la calce e il cemento.

Le rischiose inondazioni del Bisenzio, che più di una volta avevano travolto uomini e animali (come il direttore dello stabilimento Sbraci Godi Noris nel 1932) ed erano state indagate dai più illustri fisici e ingegneri (come Galileo Galilei nel 1631) erano ancora una volta sfruttate a fini economici: oltre alla rena, la piena era attesa per i pezzi di indumenti (rivenduti agli stracciaioli) e le tavole di legno (utilizzate per scaldarsi) che la furia delle acque portava a valle, ripescate con rudimentali ganci attaccati ad aste lunghe anche dieci metri.

Ad utilizzare il fiume principalmente per lavare erano ovviamente le donne, e per alcune “fare la lavandaia in Bisenzio” era un’occupazione professionale. Il lavoro era particolarmente duro: nella Val di Bisenzio quasi tutte le donne erano operaie nelle numerose fabbriche e, uscite dal turno, ad ogni stagione si dirigevano con i panni sporchi sugli argini del fiume, in ginocchio sui sassi. Ambiti ma rari erano i pozzi o le gore che talvolta si trovano lungo i fossi dei vari paesi.

Come un piccolo mare, il Bisenzio tra le due guerre era l’elemento principe nella vita delle varie comunità dislocate lungo il fiume: un ecosistema di relazioni e affetti, di svaghi e preoccupazioni, di lavoro e sostentamento.




A fronte alta davanti al padrone.

Il 7 novembre 2016 abbiamo avuto un interessante colloquio con Gennaro Meli, responsabile della Federterra di Carmignano negli anni Cinquanta-Sessanta. Proponiamo il testo dell’intervista ai lettori di ToscanaNovecento.

Quando e dove sei nato? Che ricordi conservi della tua infanzia?
Sono nato a Carmignano il 31 gennaio 1922, in una famiglia di mezzadri. I miei genitori lavoravano in un podere che era di proprietà di diversi padroni. La Carmignano di quand’ero ragazzo era un paese che si reggeva sull’agricoltura, dove i rapporti interpersonali erano diversi, molto diversi, da come sono oggi. Rammento ancora quando ci si riuniva, per esempio in occasione della vendemmia: c’era quello che cantava di poesia, quello che suonava, ed il clima era festoso, riuscivamo a scordare, per un momento, le difficoltà della vita. Non c’era, allora, l’individualismo che c’è oggi, la solidarietà, anche quella di classe, non era una parola vuota e questo rappresentava un punto di forza per gli organizzatori, per il movimento contadino.

Come ti sei avvicinato al sindacato e quali cariche hai coperto al suo interno?
Tornato dal servizio militare, fui colpito dall’impegno che, tanto a livello locale quanto a livello nazionale, i dirigenti del Partito comunista e della CGIL mettevano per migliorare le condizioni di vita dei contadini. Fu così che decisi di impegnarmi a mia volta, di cercare di dare il mio contributo. Si trattò di una scelta non facile e non priva di conseguenze perché, allora, chi militava attivamente nel sindacato veniva boicottato dai padroni e spesso non riusciva a trovare lavoro: io ho provato questo sulla mia pelle. In seguito sono diventato responsabile della Federmezzadri di Carmignano che, almeno fino alla fine degli anni Cinquanta, gravitava su Firenze più che su Prato. Io avevo rapporti diretti con Vittorio Magni, segretario della Federmezzadri provinciale, e spesso mi recavo in via dei Servi, dove avevano sede il partito e la Camera del lavoro. Ho pubblicato anche diversi articoli sui problemi dei contadini della mia zona sull’Unità e su Toscana nuova.

Puoi dirci qualcosa sulle condizioni dei contadini del Carmignanese negli anni Cinquanta-Sessanta?
Molto dipendeva dal tipo di podere che il mezzadro coltivava: se il podere dava olio, vino, frutta il contadino stava meglio, ma, in generale, si può parlare di condizioni di vita difficili: in tanti dovevano tirare la cinghia. I carichi di lavoro erano pesantissimi, la meccanizzazione insufficiente, le condizioni delle abitazioni pessime. In molte case i servizi igienici mancavano od erano cattivi, non c’era la corrente elettrica, non c’era l’acqua. Dove abitavo io, ad esempio, per procurarsi l’acqua bisognava fare un chilometro a piedi per arrivare ad una sorgente, portandosi dietro le mezzine. Nella fattoria di proprietà della contessa Lepri, nella zona di Artimino, le case dei contadini erano dei veri tuguri. Ricordo che quando andai a parlare con la contessa per chiederle di far eseguire dei lavori di miglioramento, mi voleva denunciare. “Non vedo l’ora – le dissi –, mi denunci, così poi ci facciamo due risate insieme”.

Quali erano le principali rivendicazioni dei mezzadri di Carmignano?
Oltre al miglioramento delle coloniche, le richieste più importanti riguardavano, come altrove, i contributi unificati, l’imponibile di manodopera, la meccanizzazione ed una modifica del riparto dei prodotti che, tenendo conto degli apporti reali, assegnasse al mezzadro una quota superiore al 50%.
Io avevo organizzato in modo capillare la Federterra, creando più gruppi di dieci-quindici contadini, ognuno con un suo capogruppo, per un totale di circa cinquecento mezzadri. Quando si trattava di fare una riunione, portavo l’avviso ai capigruppo e nelle case di campagna. Per parlare con la controparte, si formava una delegazione. I proprietari, spesso, non si presentavano e le trattative si svolgevano coi fattori, che adottavano una tattica dilatoria, sostenendo di dover riferire al padrone perché non potevano prendere determinate decisioni e così via. Con alcuni proprietari ci furono scontri molto duri, in specie col conte Contini Bonacossi, proprietario della Fattoria di Capezzana, la più grande della zona. Il conte aveva incaricato il fattore, un certo Del Giallo, di discutere con noi la questione dell’addebito ai mezzadri dei contributi unificati. I contadini erano stati costretti a firmare un documento in cui accettavano di pagare i contributi. Io però riuscii a convincerli a ritirare la firma. Si costituì poi una delegazione composta di una ventina di mezzadri e si andò da Del Giallo che, con fare altezzoso, rifiutò di riceverci. Io gli risposi a tono ed alla fine la battaglia fu vinta.

Il sindacato cattolico era forte tra i contadini della zona?
La CISL era forte dove c’erano molti coltivatori diretti, ma fra i mezzadri la sua presenza era una presenza minoritaria. Nel Carmignanese il sindacato cattolico era radicato in certe zone di tradizione bianca, moderata, Era questo il caso di Artimino: rammento che una volta io e Vieri Bongini, responsabile del movimento contadino pratese, giunti ad Artimino per un comizio, ci trovammo di fronte alla piazza completamente vuota. Il comizio però andava fatto perché i contadini conoscessero le nostre idee, le nostre proposte: “Non ti preoccupare – dissi a Vieri –, tanto nelle case ci sentono”. E parlammo lo stesso.

Che giudizio dai oggi della mezzadria e come hai vissuto la sua crisi?
L’istituto mezzadrile era un istituto superato perché non riusciva a soddisfare i bisogni della famiglia colonica, perché non garantiva un reddito soddisfacente ai contadini. Questo è sicuro. Però alla fine della mezzadria non è seguito qualcosa di meglio, è seguito il nulla. Occorreva una riforma agraria strutturale, che desse ai contadini la terra ed i mezzi per lavorarla. Ma questo non è mai avvenuto a causa delle resistenze dei proprietari. Come risultato abbiamo avuto lo spopolamento delle campagne, e questo, certamente, è stato un male.




Battista Tettamanti e Teresa Meroni: due vite parallele

Battista Tettamanti e Teresa Meroni, compagni di lotte e nella vita, costituiscono due esempi di un tipo di quadro sindacale largamente diffuso nel periodo a cavallo fra Otto e Novecento. Entrambi di umili origini (il padre di Battista faceva l’ortolano, Teresa era nata in una famiglia di operai), impossibilitati a frequentare studi regolari, trassero dall’esperienza di fabbrica la capacità di riflettere criticamente sulle condizioni di sfruttamento dei lavoratori, trovando nel Partito socialista e nel sindacato dei validi strumenti di formazione, che ne fecero degli organizzatori coraggiosi e concreti.
È grazie agli uomini ed alle donne che, come Battista e Teresa, compirono questo tipo di percorso, affrontando l’ostilità dei padroni e la persecuzione poliziesca, che la classe operaia è passata da “classe in sé” a “classe per sé”, maturando piena coscienza dei propri diritti ed acquisendo la determinazione necessaria per difenderli e per allargarli. È grazie a questo tipo di quadro sindacale che i lavoratori hanno potuto realizzare le conquiste più importanti prima dell’avvento del fascismo. Basta ripercorrere, anche rapidamente, le vite di Battista e di Teresa per rendersene conto.
Nato a Como nel 1879, Tettamanti si iscrisse nel 1896 alla Lega socialista della sua città e – dopo un breve periodo trascorso in Svizzera, dove era stato costretto ad emigrare dalla mancanza di lavoro – si mise subito in luce all’interno del sindacato, diventando nel 1907 segretario della Camera del lavoro comasca e conservando tale carica fino al 1914. Sono rimaste impresse nella memoria collettiva le lotte condotte in quegli anni dagli apparecchiatori, dagli edili (che nel 1908, sotto la sua responsabilità, occuparono i cantieri, anticipando di dodici anni l’esperienza delle occupazione delle fabbriche) e dai contadini della Brianza.
Abbastanza di frequente accadeva che il sindacato inviasse i quadri più sperimentati, formatisi di regola nel triangolo industriale, in zone del Paese dove l’organizzazione era giudicata meno forte. Fu così che nel 1915 Battista si trasferì a Prato per dirigere il movimento cooperativistico della Val di Bisenzio, la Lega laniera di Vaiano ed il settimanale socialista Il lavoro. Sul Lavoro Tettamanti scrisse molti articoli, alcuni dei quali rivelano una notevole capacità di analisi politica (tali sono, ad esempio, i pezzi in cui egli critica la linea dei vertici massimalisti del PSI, oppure quelli in cui, sia pure nel quadro di un’interpretazione abbastanza schematica del fascismo, riesce a cogliere la peculiarità di tale movimento nell’essere la sua base sociale costituita da una massa di piccoli borghesi spostati passati al servizio del capitale).
Durante il “biennio rosso” Battista fu alla testa delle più importanti lotte operaie, a cominciare dal moto del caroviveri del luglio 1919, quando la Valle del Bisenzio assunse l’aspetto di una piccola repubblica sovietica che si estendeva al’incirca da Santa Lucia a Montepiano e che aveva il suo centro a Vaiano. Tettamanti era a capo del Comitato di agitazione che dirigeva il moto: le amministrazioni comunali della Vallata vennero dichiarate decadute e sostituite da “commissari del popolo”, la bandiera rossa innalzata sul balcone del palazzo comunale di Vernio. Una guardia di lavoratori ebbe l’incarico di mantenere l’ordine pubblico. Nelle fattorie e nelle fabbriche furono eseguite requisizioni di generi alimentari e di tessuti che, raccolti presso le sedi sindacali, vennero poi distribuiti alla popolazione col 50% di riduzione sui prezzi correnti.
Passata la bufera del tumulto contro il caroviveri, Prato fu scossa da un imponente sciopero generale degli operai tessili, proclamato nell’ottobre del 1919. Battista fu molto attivo durante tutto il periodo dell’agitazione, e particolarmente significativo, perché indice di un costume davvero superiore, ci sembra il fatto che, pur essendogli state offerte due candidature di sicura riuscita alle politiche del 16 novembre, egli le rifiutasse, ritenendo cosa sconveniente abbandonare i lavoratori in lotta.
Nel gennaio del 1921 – quando, dopo l’occupazione delle fabbriche, i grossi industriali, costretti in un primo tempo a cedere alle richieste degli operai, erano ormai passati al contrattacco finanziando le squadre fasciste, sostenute dall’apparato burocratico e militare dello stato – Tettamanti venne arrestato mentre, alla testa degli edili della ferrovia Direttissima Bologna-Firenze, stava cercando di resistere all’offensiva delle ditte cui il governo aveva appaltato i lavori dopo l’estromissione delle cooperativa operaie.
Scontata la pena di otto mesi inflittagli dal Tribunale di Firenze, venne espulso dalla Toscana con un provvedimento di polizia e si stabilì a Milano, dove fu attivo nell’opposizione clandestina, cosa che gli valse la condanna al confino (trascorso a Favignana, a Lipari ed a Ventotene).
Nel 1924 lasciò il PSI per il Partito comunista d’Italia, nel quale confluì con la frazione terzinternazionalista.
Dopo la caduta del regime Tettamanti partecipò alla Resistenza, tenendosi costantemente in contatto con il Partito comunista e con i partigiani per mezzo di numerose riunioni svoltesi a Como ed a Lecco (dove, nel marzo del 1944, quando un’ondata di scioperi di chiaro significato politico interessò varie località dell’Italia centro-settentrionale, fu tra gli organizzatori della protesta).
Il 26 aprile 1945 Battista riassunse la carica di segretario della Camera del lavoro di Como che tenne fino al 1950, riannodando così, al pari di altri vecchi organizzatori, i fili di un’esperienza avviata in anni lontani.
Successivamente coprì varie cariche di rilievo, restando sulla breccia fino al 1963, quando un collasso cardiaco pose fine ad una vita che può ben dirsi esemplare.
Molti punti di contatto con quella di Tettamanti presenta la biografia di Teresa Meroni.
Nata a Milano nel 1885, Teresa aderì al PSI nel 1905, quando aveva appena vent’anni. Attiva propagandista, si trasferì a Vaiano nel 1915, insieme con Tettamanti, e quando quest’ultimo venne richiamato alle armi lo sostituì al vertice della Lega laniera, di cui divenne segretaria.
In tale veste Teresa fu protagonista di tante vertenze che si svolsero in quel torno di tempo nel Pratese, segnalandosi soprattutto per i suoi sforzi intesi ad organizzare il proletariato femminile. La lucida consapevolezza del fatto che la questione femminile era parte non secondaria di quella sociale, rappresenta l’elemento che più di ogni altro rende interessante la figura della Meroni. Essa si colloca così all’interno di un filone femminista presente nel socialismo italiano (filone che in Anna Kuliscioff ebbe l’esponente di maggior spicco) il cui obiettivo era l’attuazione di un progetto di emancipazione della donna in quanto tale e non solo in quanto operaia.
Un altro elemento che caratterizzò la propaganda della Meroni fu la recisa opposizione alla guerra. A Teresa si deve, con ogni probabilità, un manifesto “alle madri operaie”, pubblicato dal Lavoro il 25 aprile 1915 e sottoscritto da alcune donne vaianesi, che colpisce per la puntuale analisi di classe in esso svolta. Ma a Teresa si deve soprattutto l’organizzazione, nel luglio del 1917, di una memorabile marcia delle donne da Vaiano in direzione di Prato per manifestare, in modo clamoroso, contro il conflitto in corso.
Nel 1918 la Meroni venne internata a Livorno e successivamente a Castelnuovo di Garfagnana, ma anche in quelle località continuò imperterrita a svolgere la sua attività politico-sindacale. Tornò in Val di Bisenzio nel 1919, in tempo per partecipare, con un ruolo da protagonista, al moto del caroviveri.
Costretta a fuggire da Vaiano in seguito all’attacco fascista del 17 aprile 1921, Teresa si trasferì a Milano, prendendo parte attiva all’opposizione clandestina e guadagnandosi una condanna al confino. Nel 1924 aderì al PCd’I.
Rimpatriata nel 1937 per fine periodo, riprese subito l’attività politica antifascista che si saldò con quella da lei svolta successivamente nel periodo resistenziale.
Dopo la guerra si stabilì a Como insieme con Battista e per diversi anni fece parte del comitato centrale della FIOT nazionale. Morì nella città lariana nel 1951.
A questo punto qualcuno potrebbe forse chiedersi perché si sente il bisogno di ricordare oggi personaggi come Tettamanti e la Meroni. A questa domanda credo che si possa fornire una duplice risposta. Innanzitutto va osservato che la ricerca storica non è mai fine a se stessa perché fornisce alla conoscenza degli elementi sempre nuovi, ed è quindi occasione di arricchimento culturale e stimolo alla riflessione critica. Ma in questo caso mi pare di poter dire che essa assume una valenza del tutto particolare, che le conferisce il sapore dell’attualità. L’esempio di Battista e di Teresa è infatti ancor oggi da meditare in quanto essi hanno speso la loro vita battendosi per dei valori fondamentali (quelli della solidarietà, del progresso e dell’uguaglianza) che non hanno affatto perso la loro validità e che vanno anzi recuperati per cercare di ricostruire nel nostro Paese una forza politica autenticamente di sinistra. Questo, a mio avviso, è ciò che dà il senso a questo articolo e che rende l’esempio di Battista e di Teresa tuttora vivo e pieno di significato.




Reagire alla crisi, progettare il futuro.

Anni addietro ebbi modo di intervistare la professoressa Gabi Dei Ottati, collaboratrice del professor Giacomo Becattini, sul problema della nascita del distretto industriale a Prato. L’intervista apparve su Azione sindacale. Periodico della CGIL di Prato nel numero del 1° marzo 1992. Oggi che la struttura socioeconomica della città ha subìto profonde trasformazioni, ci sembra utile riproporre il testo dell’intervista ai lettori di ToscanaNovecento.

 Superata la fase della ricostruzione, il sistema produttivo pratese conobbe un periodo di intenso sviluppo e fu quindi investito, alla fine degli anni Quaranta, da una crisi molto grave che durò, all’incirca, sino al ’52. Quali ne furono le cause?

 A Prato la ricostruzione fu molto rapida: la città venne liberata nel settembre ’44 ed un anno dopo la capacità produttiva dell’industria locale era già tornata ai livelli prebellici. Successivamente, l’elevata domanda di prodotti tessili e le commesse dell’UNRRA favorirono un processo di sviluppo che, fra il ’45 ed il ’48, portò quasi al raddoppio del numero degli addetti. Il gruppo dei lanifici a ciclo completo era ancora l’asse portante del sistema, disponendo di più della metà dei macchinari esistenti nell’area ed occupando circa i 3/5 della manodopera, anche se le aziende impannatrici e terziste si erano moltiplicate nel periodo precedente alla crisi. I lanifici a ciclo integrato producevano essenzialmente per l’esportazione, mentre le ditte più piccole lavoravano soprattutto per il mercato interno. Per conseguenza, in fase di alta congiuntura, questi due modi diversi di organizzare la produzione potevano convivere senza problemi. La crisi colpì dapprima le imprese minori che, verso la fine del ’47, cominciarono a risentire del calo della domanda interna (un fenomeno in parte fisiologico, dopo una fase di forte espansione della domanda stessa, ed in parte attribuibile ai provvedimenti deflazionistici varati dal governo ed alla concorrenza delle aziende del Nord), e si estese poi alle imprese più grandi. Queste ultime collocavano tradizionalmente gran parte della loro produzione in India ed in Sudafrica. Prima della guerra, esse operavano in quei paesi in regime di oligopolio e, applicando la strategia dell’intesa, avevano stretto degli accordi per trarre il massimo vantaggio da tale situazione. Ma la nascita di un’industria tessile locale spinse l’India ed il Sudafrica ad adottare delle misure protezionistiche che ne favorissero la crescita. L’adozione di queste misure ebbe per Prato conseguenze gravissime in quanto si tradusse nella perdita dei suoi principali mercati esteri. Altri mercati (Est europeo e Cina) furono perduti per motivi politici. La crisi fu poi acutizzata dagli oneri fiscali gravanti sulle imprese, dall’esaurirsi delle commesse dell’UNRRA, dal mancato rimborso dei danni di guerra e, soprattutto, dalla svalutazione della sterlina (settembre ’49) che causò ai lanifici maggiori un danno consistente, sia in termini di riduzione dei crediti sia in termini di ordinazioni annullate.

 La risposta degli industriali alla crisi consistette nella smobilitazione delle fabbriche. Perché venne imboccata questa via?

 La crisi pose ai grandi industriali il problema della sottoutilizzazione degli impianti cui essi reagirono prendendo come modello l’impannatore e quindi affidando ad imprese terziste alcune lavorazioni che in precedenza si svolgevano all’interno dei loro stabilimenti. Senza dubbio gli imprenditori percepirono i vantaggi immediati che la smobilitazione assicurava loro (riduzione dei costi, aumento della flessibilità della produzione). Più difficile è stabilire se da parte padronale vi fosse la volontà di attuare un disegno che antivedeva gli elementi positivi di più lungo periodo insiti nella dis-integrazione dei lanifici a ciclo completo. Certo è che allora la cosa fu vista da tutti come un ripiego.

 Quella della smobilitazione era una scelta obbligata?

 Diciamo che, nelle condizioni date, la smobilitazione fu per gli industriali pratesi la scelta più logica, in quanto una parte del sistema produttivo locale era già organizzata sulla base di aziende medio-piccole e nell’area esisteva una vocazione all’imprenditorialità che era congrua ad una ulteriore polverizzazione del sistema stesso. Fu questa trasformazione che, accrescendone la flessibilità, permise poi alle industrie pratesi di rivolgersi a mercati che richiedevano prodotti di qualità migliore.

 Il sindacato avanzò delle proposte concrete per risolvere la crisi? Elaborò al riguardo una strategia realistica o si limitò a polemizzare contro i licenziamenti?

 Il sindacato fece il suo mestiere lottando contro i licenziamenti, ma non seppe elaborare delle proposte originali per uscire dalla crisi. Da questo punto di vista esso palesò senz’altro dei limiti, riconducibili ad una cultura ancora legata a vecchi schemi. Piuttosto va sottolineato che un programma per risolvere la crisi fu approvato dalle categorie economiche cittadine e dal consiglio comunale di Prato. Questo programma (alla cui elaborazione prese inizialmente parte anche la locale Unione industriale, che però ritirò poi la sua adesione) consisteva in una serie di proposte da presentare ai ministeri competenti. L’iniziativa del comune fallì, nel senso che le proposte formulate non vennero accolte dal governo, ma servì a compattare, in nome della difesa degli interessi di tutta la città, le forze sociali, politiche ed economiche in un momento particolarmente grave. L’iniziativa non fu quindi inutile: essa rappresentò, al contrario, un fatto importante per il nascente distretto industriale pratese.

 Che cosa si deve intendere per distretto industriale?

 Molto succintamente, si può definire il distretto industriale, di cui ha parlato per primo Alfred Marshall riferendosi ad alcune zone dell’Inghilterra vittoriana, come una forma di organizzazione economica che (ove ricorrano in una stessa località determinate circostanze, concernenti la tecnologia, la natura della domanda e l’ambiente socio-culturale) permette ad una molteplicità di imprese specializzate di modeste dimensioni di raggiungere un alto grado di flessibilità produttiva, realizzando economie di scala e di varietà a livello di area anziché di singola azienda.

 La smobilitazione fu un fenomeno locale o nazionale? In particolare, essa interessò gli altri centri tessili del Paese?

 In linea generale è certo che, se fenomeni analoghi si verificarono in altre parti del Paese, essi non ebbero la stessa rilevanza che assunsero a Prato. Ciò posto, si può osservare che un distretto industriale molto simile a quello pratese si formò, negli anni Cinquanta, nel Carpigiano, dove esistono numerose piccole aziende che operano nel settore della maglieria.

 Quali sono le ragioni dell’efficienza economica del modello produttivo nato dalla smobilitazione?

 Poiché tale modello è un esempio tipico di distretto industriale marshalliano (DIM), esse sono quelle che garantiscono l’efficienza economica del distretto stesso. Già abbiamo detto che esso consente di godere di economie di scala e di varietà a livello di sistema. E questo si deve alla divisione del lavoro fra tante piccole imprese complementari. A ciò si deve aggiungere un alto tasso di diffusione della professionalità (che nel DIM non è dunque patrimonio di pochi) e la realizzazione di forti economie nei costi di transazione.

 Tale modello è ancora valido oppure si deve pensare a qualcosa di diverso?

 Innanzitutto va detto che, in quanto modello di organizzazione economica, il DIM ha in sé elementi di razionalità riconosciuta che permangono al di là delle specifiche vicende di questo o di quel distretto. Se poi si guarda al caso pratese, il problema consiste nello stabilire se le condizioni che hanno consentito la formazione e la crescita del distretto industriale sussistono ancora. A me non sembra che tali condizioni siano venute meno e quindi la strada da percorrere non è quella di uno stravolgimento dell’attuale modello produttivo (verso cui continuano fra l’altro ad essere orientate le preferenze della maggioranza degli imprenditori locali), ma quella di un suo aggiustamento volto a contenere le diseconomie interne del sistema.




Quando i mezzadri “sognarono” di diventare padroni della più grande fattoria del pratese…

Verso la metà del secolo scorso, contrariamente a quanto si è soliti pensare, l’agricoltura aveva ancora un peso non trascurabile a Prato e nei comuni vicini: le famiglie coloniche erano più di mille (nel Pratese una famiglia colonica era all’epoca formata in media da una diecina di persone: si parla quindi di circa diecimila addetti all’agricoltura) e nella zona esistevano alcune grandi fattorie nelle quali lavorava un consistente numero di mezzadri (le fattorie più importanti erano quelle del Mulinaccio e di Spranger qui in Val di Bisenzio, di Gonfienti e della Rugea nel territorio del comune di Prato, di Capezzana e di Artimino nel territorio del comune di Carmignano e del Parugiano nel territorio del comune di Montemurlo).
Le condizioni dei lavoratori agricoli erano però estremamente critiche. Nella primavera del 1953 La guida, il settimanale della Zona del PCI di Prato, pubblicò un’interessantissima inchiesta, realizzata da Gino Melani, segretario della Confederterra locale, sulle condizioni di vita e di lavoro dei mezzadri nelle campagne pratesi. Essa rivelava che i guadagni giornalieri dei contadini erano bassissimi (spesso insufficienti a far fronte ai bisogni della vita), che le condizioni delle abitazioni erano spaventose (basti pensare che talora nei giorni di pioggia era necessario mettere sui letti ombrelli e catinelle per impedire che l’acqua li bagnasse filtrando dal tetto), che la meccanizzazione era ancora insufficiente (in molti casi le macchine continuavano ad essere le braccia dei contadini), che il prezzo dei concimi chimici era elevatissimo (a causa del monopolio esercitato dalla Montecatini) e via di questo passo.
Stando così le cose, è facile comprendere perché il tratto più caratteristico dell’agricoltura locale fosse la commistione tra fabbrica e campagna: il fatto era che l’alto costo della vita costringeva chi lavorava nei campi ad integrare i proventi derivanti dall’agricoltura con quelli che provenivano da varie prestazioni di lavoro nell’industria (lo squilibrio fra redditi agricoli e redditi industriali, calcolato in termini monetari, arrivava a rapporti medi di 1 a 3,7 per unità di lavoro).
La fabbrica esercitava il suo fascino soprattutto sui giovani, che ambivano ad un lavoro meno massacrante e più redditizio di quello dei contadini, ad una vita più libera, a maggiori possibilità di socializzazione e di divertimento.
La tendenza all’abbandono delle campagne – in assenza di una politica volta a favorire davvero la formazione della piccola proprietà contadina con una seria riforma agraria ed a sostenerla poi adeguatamente sul piano tecnico e finanziario – assunse nel giro di alcuni anni un andamento a valanga, determinando il collasso del secolare istituto della mezzadria. Tutto ciò fu sanzionato sul piano giuridico nel 1964 da una legge che vietò il contratto di mezzadria, trasformandolo in contratto d’affitto.
È in questo quadro che si situa la vicenda della Cooperativa agricola del Mulinaccio, una vicenda complessa, che cercheremo di riassumere in estrema sintesi per tirare poi delle conclusioni.

Alla fine della seconda guerra mondiale, con una storia di più di quattro secoli alle spalle, la fattoria del Mulinaccio era la più grande del Pratese. In quel torno di tempo essa contava ben trentasei poderi per un totale di diverse centinaia di ettari di estensione (all’incirca la metà del territorio dell’attuale comune di Vaiano) e nella sua orbita si muovevano quasi trecento persone (i mezzadri erano più di duecentocinquanta).
Il proprietario, Ferdinando Vaj, era morto nel 1941 e, non avendo figli, aveva lasciato tutti i suoi beni, fattoria compresa, al Cottolengo di Torino o, se il Cottolengo avesse rinunciato, all’Istituto San Niccolò di Prato. Gli eredi designati erano tenuti a creare una casa di riposo. La contessa Caterina Guicciardini, moglie di Ferdinando, figurava nel testamento come usufruttuaria.
La fattoria aveva però seri problemi di ordine finanziario. La guerra aveva infatti causato al Mulinaccio danni gravissimi (a cominciare da quelli, mai rimborsati, arrecati al patrimonio zootecnico dalle razzie dei tedeschi), la fattoria di Luicciana, portata in dote dalla contessa, era in passivo e, nel 1946-47, l’applicazione del “lodo De Gasperi” – il quale prevedeva fra l’altro che i concedenti risarcissero i mezzadri per i danni subìti nel periodo bellico – aveva comportato per l’amministrazione un esborso superiore a due milioni dell’epoca, costringendola ad indebitarsi e rendendo drammatica una situazione già precaria.
La crisi della fattoria precipitò con la morte della contessa Caterina, avvenuta nel 1956. Gli eredi designati (il Cottolengo di Torino e l’Istituto San Niccolò di Prato, come si è detto) rinunciarono all’eredità a causa della condizione fortemente deficitaria dell’azienda e dell’obbligo, cui avrebbero dovuto sottostare, di costruire una casa di riposo. Gli eredi legittimi (cioè i parenti della contessa) fecero altrettanto e l’eredità, non essendo stata assegnata a nessuno, fu dichiarata eredità giacente.
In questo modo al Mulinaccio si produssero le condizioni ideali per l’accesso alla terra da parte dei contadini, alcuni dei quali pensarono di dar vita ad una cooperativa per rilevare la proprietà della fattoria.
Nel 1959 essi ebbero un colloquio col curatore, l’avvocato Manlio Maglioni, del foro di Firenze, il quale disse loro che l’azienda era effettivamente in vendita e che l’amministrazione avrebbe valutato con piacere eventuali proposte avanzate dai mezzadri.
Fidandosi della parola del curatore, i contadini lavorarono di buona lena alla realizzazione del loro progetto: la Cooperativa agricola Mulinaccio venne costituita a Vaiano il 28 aprile 1962 con rogito del notaio Lapo Lapi. I soci fondatori erano dodici. Il mezzadro del podere Il Frullino, Marino Mengoni, fu scelto come presidente.
I mezzadri formularono subito una proposta di acquisto. Essi richiedevano dodici poderi (l’idea di acquistare l’intera fattoria era stata abbandonata in seguito al ripensamento di alcuni coloni), al prezzo di stima di circa trentotto milioni. Erano inoltre interessati all’acquisto della villa, valutata nove milioni.
La proposta di acquisto comportava dunque un esborso di quarantasette milioni di lire. Nel valutarne la fattibilità, bisogna considerare che i contadini non erano tenuti al rispetto dei vincoli che gravavano sugli eredi testamentari (cioè non avevano l’obbligo di costruire la casa di riposo), che il bestiame in conto capitale era già loro per metà e che quasi tutti i potenziali acquirenti risultavano creditori dell’azienda. In complesso non si trattava dunque di un piano irrealistico, anche se il suo successo poteva essere pienamente garantito solo dalla concessione di un finanziamento per l’acquisto da parte dello stato o di un altro ente pubblico.
Nell’autunno del 1962 si ebbe però un colpo di scena: il 27 settembre il curatore (che con ogni verosimiglianza era il terminale di forze e di interessi privati ostili all’acquisto della fattoria da parte dei contadini) convocò all’improvviso la gara d’asta per il 29, ed a stento i rappresentanti della Cooperativa riuscirono ad ottenere dal magistrato competente un rinvio al 30 ottobre.
Nelle settimane che seguirono i mezzadri moltiplicarono gli sforzi per trovare un finanziamento, ma senza successo. Solo il comune di Vaiano, di cui era allora sindaco il comunista Fiorenzo Fiondi, si dimostrò sensibile nei confronti dei contadini: l’8 ottobre il consiglio comunale, rilevata l’importanza che i terreni del Mulinaccio avevano per la collettività (nell’intenzione dell’amministrazione vi dovevano infatti sorgere infrastrutture di primaria importanza, case popolari e così via), deliberò infatti di autorizzare il sindaco a presentare domanda d’acquisto dell’eredità giacente insieme con la Cooperativa, contraendo a tal fine un mutuo passivo.
Con questo voto il Comune di Vaiano si schierò dalla parte dei mezzadri, assumendo dei precisi impegni di carattere finanziario, ma il 9 novembre la giunta provinciale amministrativa ordinò il rinvio della deliberazione comunale perché, a suo parere, in tale atto non erano stati né sufficientemente chiariti i motivi per i quali il comune era interessato all’acquisto né indicati i riferimenti necessari per poter valutare se il comune stesso era in grado di far fronte alla spesa mediante la contrattazione di un mutuo. Il Comune di Vaiano rinunciò ad inoltrare le controdeduzioni entro i sessanta giorni previsti dalla legge, dato che l’asta si sarebbe comunque svolta prima che fosse possibile conoscere l’esito del ricorso.
La Cooperativa era ormai tagliata fuori dai giochi, e non stupisce che essa decidesse di non presentarsi neppure all’asta indetta il 3 dicembre, vinta facilmente dagli industriali pratesi Befani e Franchi che si aggiudicarono la fattoria per duecentonovanta milioni dell’epoca. I nuovi proprietari non erano affatto interessati al rilancio dell’azienda: essi non si recarono nemmeno a conoscere i mezzadri e cominciarono subito a vendere i poderi in maniera indiscriminata. Per la vecchia, gloriosa, fattoria fu la fine.
Gli interessi speculativi prevalsero dunque su quelli dei contadini. In questo senso la vicenda della Cooperativa agricola del Mulinaccio può dirsi una vicenda esemplare: come, sul piano generale, mancò la volontà di realizzare un’organica riforma agraria, così, nel caso specifico, mancò la volontà di ascoltare davvero le ragioni dei mezzadri e di dare loro un aiuto concreto.
La Cooperativa continuò ad esistere come cooperativa di servizi agricoli fino al 2003, quando ne venne decretato lo scioglimento senza nomina di commissario liquidatore.
Quello dei contadini del Mulinaccio si rivelò dunque un sogno. Eppure proprio l’essersi impegnati senza riserve per realizzare quel sogno dà un particolare valore alla loro testimonianza. Nel 1962 i contadini del Mulinaccio erano sì dei vinti, ma appartenevano ad una specie particolarissima di vinti: quelli a cui la storia non darà mai torto.




Probiviri per gli operai pratesi

Il terzo Collegio dei probiviri per le industrie tessili con sede in Prato fu istituito sulla carta nel 1898, ma si costituì realmente soltanto nel 1900: si trattava di un organismo paritetico, cioè formato da un egual numero di rappresentanti degli operai e degli industriali (inizialmente dieci in tutto, poi venti), la cui giurisdizione comprendeva il territorio del comune di Prato (in seguito essa venne estesa anche al territorio dei comuni di Vernio e di Cantagallo, venendo così a coprire l’intera Val di Bisenzio).

L’istituzione del terzo Collegio ebbe luogo all’interno di una fase di espansione dell’economia cittadina, favorita dalla svolta protezionistica del 1887, e di crescita del movimento operaio, quando la città era già stata più volte teatro di scioperi e di agitazioni (il primo sciopero di un certo rilievo si era verificato nel 1891 al Fabbricone).

In un momento in cui la tensione sociale si acuiva, l’istituzione del Collegio dei probiviri fu accolta con un certo favore tanto dai lavoratori quanto dagli industriali (nel 1897 erano sorte la Camera del lavoro e l’Associazione industriale e commerciale dell’arte della lana, anticipazione dell’Unione fra gli industriali pratesi, ed entrambe guardavano con simpatia all’arbitrato come strumento per appianare le controversie di lavoro).

Gli operai vedevano nei collegi un mezzo per contrastare lo strapotere padronale all’interno delle fabbriche, gli imprenditori scorgevano nell’istituto probivirale la possibilità di ridurre la conflittualità sindacale, tramite l’accoglimento di alcune richieste di singoli operai (non degli operai come classe), e, molto probabilmente, accarezzavano anche la speranza di poterlo utilizzare per dividere i lavoratori staccandoli dal sindacato: questa idea era stata esplicitamente formulata da un politico conservatore come Sidney Sonnino nel 1892, nel corso del dibattito parlamentare che aveva portato all’approvazione della legge istitutiva dei collegi, entrata in vigore l’anno successivo.

Di particolare interesse è l’analisi del complesso delle sentenze emanate dal Collegio dei probiviri per le industrie tessili fra il 1902 ed il 1914, cioè in un periodo che viene in pratica a coincidere con l’età giolittiana.

La scelta è motivata dal fatto che l’età giolittiana fu, per così dire, il periodo d’oro dell’istituto probivirale. Giolitti era infatti consapevole che il movimento operaio non poteva essere affrontato soltanto con la repressione, e che la via da seguire era quella del confronto politico col Partito socialista e con le organizzazioni sindacali. Il suo intento era insomma quello di realizzare “un programma di difesa delle istituzioni borghesi fondato su una accentuazione del carattere liberale dello Stato” [Massimo L. Salvadori, Storia dell’età contemporanea dalla Restaurazione all’eurocomunismo, Torino, Loescher, 1976, p. 454]: è evidente che, nell’ambito di tale disegno, anche ai collegi dei probiviri poteva essere attribuito un ruolo non secondario.

L’esperimento giolittiano andò però a cozzare contro la svolta in senso rivoluzionario dei socialisti dopo la guerra di Libia, contro l’agitazione antidemocratica dei nazionalisti e contro l’accresciuto peso dei cattolici nella vita politica. Il suo esaurirsi coincise con la fine della prospettiva riformista che Giolitti aveva incarnato e, quindi, anche dell’esperienza probivirale, che a tale prospettiva era chiaramente legata: le novità normative intervenute durante la grande guerra incisero profondamente sul funzionamento dei collegi, chiudendone definitivamente la stagione.

Nel periodo preso in esame la giuria del terzo Collegio dei probiviri pronunciò 82 sentenze definitive, che posero fine a controversie originate, il più delle volte, dal licenziamento del lavoratore. Nella stragrande maggioranza dei casi (76 su 82 pari al 92,68%) l’attore fu dunque l’operaio. La cosa non deve stupire più di tanto, ove si pensi alla frequenza con cui la parte datoriale ricorreva all’arma del licenziamento ed alle dure condizioni di lavoro che esistevano negli stabilimenti.

Le ditte che più spesso vennero convenute furono il Fabbricone, la Ditta Alceste Cangioli e la Ditta A. e G. di Beniamino Forti, vale a dire le due ditte più importanti della città (il Fabbricone e la «Forti») più una ditta di rilevanti dimensioni (Cangioli): ciò a causa dell’organizzazione del lavoro vigente all’interno delle fabbriche più grandi ed al fatto che in esse la gestione dei rapporti con i dipendenti era più problematica che nelle aziende medio-piccole.

Nel corso della sua attività la giuria del terzo Collegio ebbe modo di fissare alcuni importanti principi, in primo luogo in materia di licenziamenti: con le sue pronunce essa limitò infatti la facoltà del padronato di ricorrere al licenziamento in tronco (ammissibile solo in alcuni casi, chiaramente indicati, mentre in tutti gli altri il licenziamento del lavoratore era possibile solo se veniva pronunciata la formula di rito, dato il preavviso voluto dalla consuetudine e rispettato l’obbligo di motivazione, fermo restando che i motivi addotti dovevano essere poi riconosciuti validi dai probiviri).

Interessanti sono anche altre sentenze, come ad esempio quella che richiamò le singole ditte al rispetto degli impegni assunti verso gli operai dall’organizzazione di parte datoriale a nome di tutti i soci, quella che riconobbe il diritto dei cottimisti a domicilio, molto numerosi nella Prato dell’epoca, di rivolgersi ai probiviri, quella che sancì la prevalenza della consuetudine (in genere favorevole all’operaio) sui regolamenti di fabbrica e così via.

La giurisprudenza probivirale fu invece piuttosto oscillante in ordine al tema, di fondamentale importanza, della salute dei lavoratori: il Collegio, infatti, dopo aver condannato nel 1904 il Fabbricone a risarcire un operaio che era stato costretto a tornare al lavoro quando le sue condizioni fisiche non glielo permettevano, si smentì parzialmente con tre pronunce risalenti al 1908, nelle quali dimostrò scarsa sensibilità verso le ragioni dei lavoratori.

Se si prende in considerazione l’esito delle cause, le pronunce della giuria sembrano abbastanza equilibrate, sia pure con una prevalenza di quelle a favore dei datori di lavoro, che risultarono essere la parte vittoriosa in 45 casi (pari al 54,88%), mentre gli operai ebbero la meglio in 37 casi (pari al 45,12%).

Ma ciò che più importa sottolineare è che la speranza di contenere la lotta di classe attraverso l’istituto dei probiviri si rivelò del tutto infondata: il terzo Collegio operò infatti in una fase storica durante la quale il movimento dei lavoratori conobbe un forte sviluppo ed il numero degli scioperi, tanto a livello nazionale quanto a livello locale, andò aumentando, a riprova del fatto che solo la classe operaia, con le sue lotte (cioè con vertenze collettive e non individuali), può difendere ed allargare i propri diritti.

Dopo la fine della prima guerra mondiale la tensione sociale raggiunse il culmine e la borghesia, deposta ogni illusione conciliativa, non esitò a puntare sul fascismo per conservare i suoi privilegi.




Le aziende “ausiliarie” di Prato e il proficuo rapporto tra Unione Industriale e Croce Rossa

Risulta ormai storicamente provato che la I Guerra Mondiale rappresenti una grande opportunità di sviluppo per il comparto industriale pratese. La produttività, non solamente quella delle ditte tessili, non scende mai sotto i livelli di guardia, anzi, per alcuni comparti strettamente legati alle commesse belliche, si assiste a una vera e propria crescita esponenziale degli ordini e del fatturato. Questo accade nonostante i documenti riportino continue lamentele da parte dei dirigenti del Comitato per la Mobilitazione Industriale (creato ad hoc come emanazione del Ministero della Guerra, per monitorare lo stato di salute delle industrie e il livello della produzione per l’esercito) riguardo la qualità delle stoffe di Prato: si denuncia in generale il fatto che nelle coperte da campo e nel panno grigio-verde destinato alla confezione delle divise, venga inserita una troppo bassa percentuale di lana vergine a fibra lunga, solo il 35-40%, a fronte di ingenti quantità di blousses, lana rigenerata e del famoso “rinforzo” – quelle fibre artificiali a basso costo necessarie per tenere insieme la lana meccanica pratese a fibra corta. Anche in tempo di guerra gli industriali pratesi non mancano di applicare tutte le astuzie del caso per cercare di ottenere un maggior guadagno! Nonostante questa continua lotta tra gli imprenditori e il Comitato, a Prato non manca mai il sostegno economico dello Stato, concretizzato nel costante afflusso di commesse belliche alle aziende della città laniera.

Parallelamente non bisogna sottovalutare le generali condizioni di vita e di lavoro in cui la popolazione italiana viene a trovarsi a partire dal 1915: il richiamo al fronte degli uomini, spesso unica fonte di reddito familiare, e il carovita, generato dall’improvviso aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, mettono a dura prova l’intera popolazione. Se a questo si aggiunge il malcontento per la disomogeneità delle condizioni di lavoro che esisteva fra i vari lanifici pratesi, si può facilmente capire come la situazione nel pratese fosse una vera e propria polveriera pronta ad esplodere.
È da questo sostrato di tensioni che ha origine l’imponente sciopero del 1916 organizzato dai circa 400 operai dal lanificio Forti della Briglia, in Val di Bisenzio. L’agitazione nasce per richiedere la “tariffa unica”, cioè l’adeguamento della paga per il lavoro a cottimo in tessitura su tutto il territorio pratese. Quelli concessi dalla ditta Forti erano forse i salari più bassi di tutto il distretto, ed è per questo che la protesta parte proprio dalla Briglia, allargandosi poi a tutta la città di Prato. La serrata degli industriali è tremenda, i Forti non vogliono cedere, tanto che vengono sospesi i sussidi alle famiglie dei richiamati in guerra e si minaccia lo sfratto delle mestranze coinvolte nello sciopero. Solo dopo mesi di agitazioni, sotto la minaccia sindacale dello sciopero generale, anche l’Unione Industriale si adopera per la ricomposizione del conflitto e gli operai ottengono la tanto agognata tariffa unica, una prima, importantissima vittoria.

forti 1L’eco di questi concitati avvenimenti arriva anche al governo nazionale, che immediatamente, cercando di operare affinché agitazioni del genere non risuccedano, il 10 novembre 1916, con decreto ministeriale, dichiara “fabbriche ausiliarie” le quattro più grandi aziende pratesi: il Fabbricone, il lanificio Forti, la cimatoria Campolmi e il lanificio Cangioli. Essere fabbrica ausiliaria, non implicava solo un cambiamento dal punto di vista produttivo, perché di fatto si è obbligati a lavorare esclusivamente a fini bellici, ma anche e soprattutto una generale militarizzazione delle maestranze, esonerate sì dall’arruolamento, ma obbligate a sostenere determinati ritmi e condizioni lavorative.

 Nel corso della guerra, quasi tutte le ditte che raggiungono le dimensioni di “media impresa”, ottengono lo status di fabbrica ausiliaria: oltre le quattro grandi aziende sopra citate, vengono militarizzati il lanificio Romei, la Calamai Brunetto, il lanificio Cavaciocchi, la Magnolfi, il polverificio Nobel ecc…

 Alla fine del conflitto la città di Prato aveva prodotto coperte da campo e casermaggio e panno grigio-verde per un valore di 177.943,038 lire.

In questo quadro di complessiva prosperità delle aziende pratesi, risulta più facile comprendere l’importanza assunta dall’Unione Industriale nei confronti di tutti i fenomeni di assistenzialismo e beneficenza; anche grazie alle commesse statali, l’associazione degli industriali riesce ad accantonare ingenti somme per il “fondo di beneficenza”; in quest’ottica risulta per loro quasi naturale rivolgersi alla Croce Rossa perché questo fondo sia ben destinato e risulti utile sostegno alle vittime di guerra.

forti 3A Prato, al momento della costruzione degli ospedali militari da parte della Croce Rossa si assiste a una miriade di gesti di solidarietà da parte degli industriali, sia a livello privato, che come Unione: c’è chi offre la propria vettura con autista, come il Cangioli e il Canovai, chi si impegna a fornire quantitativi sempre crescenti di borra (lo scarto lanuginoso della filatura cardata) usata per riempire i materassi delle lettighe, come la fabbrica Forti, chi regala coperte (quasi tutti i lanifici) e chi contribuisce con pane e pasta per i ricoverati, come il pastificio Ciampolini, erede di Antonio Mattei, il famoso “Mattonella”. Da parte sua l’Unione Industriale non è da meno, in quanto finanzia la costruzione dei due ospedali territoriali di Croce Rossa con un investimento iniziale di 10.000 lire e continuerà a contribuire fino al 1918, con un contributo mensile di 3.500 lire al mantenimento dei vari reparti ospedalieri.
Questo proficuo e duraturo rapporto tra Unione Industriale e Croce Rossa in una situazione di emergenza come risulta essere quella bellica, non manca di essere sottolineato con continui e solenni ringraziamenti da parte dell’ente benefico: alla fine del conflitto il Comitato Centrale della CRI farà richiesta del diploma di benemerenza per l’U.I.P., che riceverà la Medaglia d’Argento.

Una vicenda particolare e degna di nota è quella che riguarda il rapporto tra Croce Rossa e il Fabbricone, il lanificio Kössler, Mayer & Klinger, l’unica azienda tessile pratese a capitale austro-tedesco. Come è facilmente intuibile, il Fabbricone, proprio per la natura dei suoi proprietari e per la presenza di quadri e tecnici di nazionalità austriaca e tedesca, è oggetto di una pesante campagna diffamatoria da parte dei nazionalisti pratesi, che ne avrebbero addirittura voluto lo smantellamento. Di fatto, però, i 1200 telai e i 1500 operai impiegati sono una risorsa non trascurabile per il Comitato per la Mobilitazione Industriale, che di fatto ignora queste remore iniziali e dichiara ausiliaria la più grande azienda tessile pratese. Anche la Croce Rossa, probabilmente influenzata dal clima di sospetto cittadino nei confronti di questo “gigante produttivo straniero” si trova in difficoltà a gestire i rapporti con il Fabbricone, che come molte altre ditte pratesi vuole rendersi utile e offrire sostegno all’ente benefico. I dirigenti della fabbrica, oltre a donazioni pecuniarie e di materiale tessile, addirittura offrono alla CRI parte dei loro locali per l’allestimento di ospedali e punti di pronto soccorso; il Comitato della CRI, dopo aver inizialmente accettato la generosa offerta, si vede costretto a rifiutare e compiere un passo indietro, anche in considerazione dell’atteggiamento negativo di una parte importante della società civile pratese, che arrivò a raccogliere centinaia di firme contro detta iniziativa in un documento intitolato “Viva l’Italia! Abbasso l’Austria!”.

Luisa Ciardi si è laureata in storia contemporanea all’Università di Firenze con una tesi sulla storia sociale d’impresa. Ha frequentato il master di archeologia industriale presso l’Università di Padova e attualmente lavora presso la Fondazione CDSE della Valdibisenzio e Montemurlo. Le sue ricerche spaziano dalla storia locale alla storia dell’industria, alla storia della seconda guerra mondiale, con un particolare interesse per la storia orale. è membro dal 2012 di AISO (Associazione Italiana di Storia Orale).

Tra le sue pubblicazioni si ricordano:

Il lanificio Silvaianese. Un’azienda a misura di famiglia e di territorio (1945-1989) , Prato, Pentalinea, 2011.

La Spiga e la Spola: contadini e operai nella Vaiano degli anni ’50, in Alle origini del Comune di Vaiano (1949-1951), Catalogo della mostra, a cura di A. Cecconi, Prato, CDSE della Valdibisenzio, 2011.

I pratesi, contadini, operai, imprenditori. L’etica del lavoro a Prato nel passaggio fra agricoltura e industria, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Il fiuto dei Bardazzi per la lana. La famiglia vaianese e la rete di finanziamento informale alle industrie della Valle, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.




Teresa Meroni e la marcia delle donne

Chi era Teresa Meroni? Quale fu il suo impegno di sindacalista e attivista per la pace durante il periodo della Grande Guerra? Rispondere a queste domande significa approfondire non solo la storia personale che la portò in Val di Bisenzio, ma anche indagare le condizioni socio-economiche che caratterizzavano quel territorio di precoce industrializzazione posto a Nord di Prato.

Legata al lombardo Battista Tettamanti da una “scandalosa” relazione che sarà sancita da matrimonio civile solo nel 1930 (tra l’altro dopo la nascita dell’unico figlio Vladimiro), la Meroni nacque a Milano nel 1885 da una famiglia operaia e subito, da giovanissima, si iscrisse al Partito Socialista da poco nato a Genova. L’attività politica e sindacale che svolse nel comasco accanto a Tettamanti, a cui nel 1915 fu affidata la segreteria della Lega Laniera di Vaiano,  avrebbe posto le premesse alle battaglie condotte successivamente in Val di Bisenzio. La sua vicinanza profonda al mondo contadino e operaio del comasco maturò in lei una forte consapevolezza del fatto che i diritti dei contadini e degli operai sarebbero stati conquistati solo grazie alla rivoluzione (Teresa era una seguace del socialismo rivoluzionario alla Sorel).

Giunta in vallata appena trentenne Teresa Meroni si trovò di fronte a una situazione socio-economica diversa da quella a cui era abituata nel comasco: in Val di Bisenzio le fabbriche tessili erano legate al ciclo della lana “meccanica” o rigenerata e le famiglie contadine seguivano il modello della mezzadria toscana. Erano tempi difficili, ma c’era la speranza di un miglioramento della vita quando si lasciava la campagna per andare a vivere in città. Speranza che andò esaurendosi con l’entrata in guerra dell’Italia, avvenuta il 24 maggio 1915.

All’inizio della Prima Guerra Mondiale Tettamanti fu richiamato alle armi nel 171° battaglione della milizia territoriale e Teresa Meroni si trovò a sostituirlo, assumendo la guida della Lega Laniera di Vaiano. Si trattò di un fatto epocale, perché la Meroni prima di allora non faceva parte nemmeno del Consiglio Direttivo della Lega, come del resto nessun’altra donna. Da allora si distinse per la sua strenua attività di pacifista, tant’è vero che il commissario Luigi Morelli, in una testimonianza del 19 luglio 1917, affermò che la donna per mesi cercò di “catechizzare le donne e i ragazzi, e indurli a fare una dimostrazione contro la guerra”.

In effetti i sospetti del commissario di pubblica sicurezza non erano infondati: il 2 luglio 1917 da Luicciana, piccola frazione di Cantagallo, partì una marcia di quattrocento donne alla volta di Prato. Il gruppo di protesta passò davanti ai principali stabilimenti produttivi di Vernio. Decisero di unirsi alla manifestazione le “fabbrichine” del tappetificio Peyron a Mercatale e anche quelle contadine per lo più provenienti da Gricigliana, che erano entrate in fabbrica per colmare l’assenza degli uomini richiamati al fronte. L’intenzione delle scioperanti era di raggiungere Prato, così da allargare anche alla città laniera la protesta sociale contro una guerra ritenuta ingiusta e per rivendicare condizioni di vita e di lavoro dignitose. La Prefettura decise di intervenire con un reparto di cavalleggeri, ma le donne scelsero di proseguire comunque, nonostante il pericolo delle cariche.

Il corteo, che si ingrossò nei pressi di Coiano, riuscì a superare lo sbarramento dei cavalleggeri nei pressi di San Martino, dove però una decina di donne fu arrestata. La marcia riuscì comunque a raggiungere le carceri, dove furono liberate alcune donne fermate. Una volta giunta in prossimità della stazione ferroviaria, la protesta fu bloccata dalla polizia e il corteo si disperse per le vie del centro. L’agitazione però non si fermò qui: fino al 9 luglio si protrassero episodi e sommosse diffuse dalla Val di Bisenzio sino alle porte di Pistoia, e infine tutto si concluse con l’arresto di 56 persone.

Prato '50 Teresa Meroni parla alle operaie tessiliTeresa Meroni fu ritenuta (a ragione) responsabile delle agitazioni avvenute. Rimase in carcere tre mesi ma, una volta uscita, riprese la sua propaganda politica, soprattutto in favore della conquista dei diritti femminili. Per questo motivo fu allontanata dalla Val di Bisenzio e spedita al confino in Garfagnana, dove sarebbe rimasta fino alla fine della guerra.

La protesta, prettamente di stampo politico, per le autorità fu allarmante per il fatto che a guidarla fosse stata una “rivoluzionaria di professione”, ritenuta pericolosa “per le sue idee socialistiche rivoluzionarie, antimilitaristiche, maniacali”. Come ricordano Annalisa Marchi e Alessandro Cintelli, l’idea mazziniana di donna paragonabile a un “angelo della famiglia” era quanto mai una sbiadita immagine rispetto a quella dipinta dalla vita della Meroni: “dal punto di vista delle autorità di polizia, a ragione Teresa risultava un’agitatrice estremamente pericolosa perché la sua opera di propaganda scardinava i punti fondanti della mentalità del tempo, giustificando nell’immaginario collettivo l’idea che le donne potessero mettersi a capo della rivolta contro la guerra” e pretendere un ruolo che non fosse subalterno come quello che le donne avevano avuto sino a quel momento.

Luisa Ciardi si è laureata in storia contemporanea all’Università di Firenze con una tesi sulla storia sociale d’impresa. Ha frequentato il master di archeologia industriale presso l’Università di Padova e attualmente lavora presso la Fondazione CDSE della Valdibisenzio e Montemurlo. Le sue ricerche spaziano dalla storia locale alla storia dell’industria, alla storia della seconda guerra mondiale, con un particolare interesse per la storia orale. è membro dal 2012 di AISO (Associazione Italiana di Storia Orale).

Tra le sue pubblicazioni si ricordano: 

Il lanificio Silvaianese. Un’azienda a misura di famiglia e di territorio (1945-1989) , Prato, Pentalinea, 2011.

La Spiga e la Spola: contadini e operai nella Vaiano degli anni ’50, in Alle origini del Comune di Vaiano (1949-1951), Catalogo della mostra, a cura di A. Cecconi, Prato, CDSE della Valdibisenzio, 2011.

I pratesi, contadini, operai, imprenditori. L’etica del lavoro a Prato nel passaggio fra agricoltura e industria, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Il fiuto dei Bardazzi per la lana. La famiglia vaianese e la rete di finanziamento informale alle industrie della Valle, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Letizia Magnolfi si è laureata in Scienze Storiche nel 2012, con una laurea magistrale in Storia delle Dottrine Politiche. Ha collaborato con la Fondazione CDSE di Vaiano per la realizzazione della mostra 1944: l’ultimo anno di guerra a Schignano (aprile 2011) e ha recentemente vinto un concorso fotografico intitolato Immaginare…ascoltare, ricreare il lavoro, sempre a cura della Fondazione. Attualmente sta svolgendo un tirocinio di formazione presso la Rete Civica del Comune di Prato.

Tra le sue pubblicazioni:
A  proposito dell’USIA. Il ruolo dei mezzi di comunicazione negli anni ’60 della guerra fredda, Instoria, N. 42, Giugno 2011 (LXXIII)
Dal movimento Demau al femminismo di Oggi. Cosa è rimasto?, Instoria, N.41, Maggio 2011 (LXXII)