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Gli archivi dello sport in Toscana: un patrimonio da salvare

Lo sport nasce subito visibile: foto, giornali, filmati, periodici e programmi tv, accompagnano le discipline e celebrano i campioni. Eppure questa visibilità non esaurisce la memoria dello sport, esiste una memoria ancora “oscura”, quella rappresentata dagli archivi delle società sportive che, così diffuse sul territorio toscano, come su quello nazionale, sono capaci di disegnare il sorgere e l’espandersi nel corso del Novecento di un fenomeno sociale che coinvolge, in modo diretto e indiretto, le nostre vite. La vigilanza messa in opera dalla Soprintendenza Archivistica per la Toscana nei confronti degli archivi dello sport in Toscana dal punto di vista cronologico comprende due fasi, la prima tra la fine degli anni ’50 e la metà degli anni ’80 del Novecento e la seconda apertasi con la metà degli anni Duemila. Dal punto di vista dell’oggetto di vigilanza un unicum è il rapporto costante con una società sportiva, la Mens Sana 1871 di Siena, attivo dalla fine degli anni ’50 del Novecento; legati a contingenze del momento sono stati, invece, i rapporti con altre società sportive.

I primi tentativi di censimento
Un primo tentativo di censimento di archivi dello sport, senza esito di rilievo, fu intrapreso a metà degli anni ’60. Il soprintendente pro tempore di allora, confidando nella collaborazione dei direttori degli archivi di stato di alcune province, chiese informazioni sulla presenza di archivi di società sportive anteriori al Novecento nelle rispettive città. Gli archivi di stato coinvolti furono i seguenti: Grosseto, Lucca, Massa, Pisa, Pistoia. Le risposte inviate indicarono solo per Pisa e per Lucca la nascita di società sportive ante 1900 (nello specifico una a Lucca e tre a Pisa) ma segnalarono la assenza di documentazione d’archivio. Circa venti anni dopo, tra il 1984 e il 1987 la Soprintendenza si attivò nei confronti di alcune società come la Lega Navale Italiana e il Club Alpino, entrambi per la sola provincia di Firenze, la UISP sezione di Prato, i Canottieri Pisa, il Siena Calcio, senza però che fossero emanati singoli provvedimenti di tutela.

Archivio S.S. Mens Sana in Corpore Sano 1871

Archivio S.S. Mens Sana in Corpore Sano 1871

Il “modello” Mens Sana e l’A.C. Fiorentina
La Mens Sana 1871, che aveva ricevuto, nei confronti del proprio archivio, una nuova dichiarazione di “notevole interesse storico”, la n. 380 del 1981, accompagnata da un elenco di consistenza, che sostituiva quelle già precedentemente emesse nel 1959 e nel 1965, permaneva l’unica società la cui dirigenza teneva e – detto per inciso – ancora tiene rapporti aperti con la Soprintendenza Archivistica per migliorare conservazione e fruibilità del proprio archivio.
All’inizio degli anni 2000, nello specifico nell’anno 2002, fu effettuata una visita presso l’A.C. Fiorentina al momento del passaggio di proprietà dovuto al fallimento della precedente gestione ai fini di valutare la tipologia di documenti presenti e ribadire ai curatori la necessità di salvaguardare la conservazione dell’archivio nella sua integrità.

Il censimento del 2010
Si deve alla Regione Toscana, a partire dalla seconda metà degli anni 2000, la volontà di approfondire la conoscenza storica sulla pratica sportiva nel territorio regionale attraverso convegni specifici e il finanziamento, del censimento, pubblicato nel 2010, “delle fonti e degli archivi dello sport toscano” attuato dalla Società Italiana di Storia dello Sport con il coinvolgimento della Soprintendenza Archivistica. Diviso per province e ordinato cronologicamente per data di fondazione, ogni società sportiva che avesse compiuto al momento della pubblicazione almeno cinquanta anni dalla fondazione era presa in considerazione. Grazie al censimento è stato possibile conoscere numero e tipologia delle società sportive toscane ancora in attività e avere informazioni di base sugli archivi societari.

Il convegno Archivi dello sport a Siena
In occasione della giornata di studi Gli archivi dello sport: documenti per la storia di Siena nel Novecento (2 aprile 2014) la Soprintendenza Archivistica ha voluto effettuare un ulteriore censimento, attraverso l’invio di un questionario, sulla tipologia di documentazione archivistica presente negli archivi delle società sportive presenti in provincia di Siena, con l’esclusione di quelle oggetto di apposita comunicazione, usando proprio il suddetto censimento. Sui 27 questionari inviati, sono pervenute quattro risposte, quelle relative a due squadre di calcio: la Sinalunghese di Sinalunga e la Chiantigiana di Gaiole in Chianti, una relativa al gioco del tamburello, la polisportiva Turrita e l’Associazione dei Cronometristi Senesi, che ha sede a Siena.

Logo e foto d'epoca della Massese Calcio (Fonte: Censimento delle fonti dello sport Toscano, provincia di Massa)

Logo e foto d’epoca della Massese Calcio (Fonte: Censimento delle fonti dello sport Toscano, provincia di Massa-Carrara)

La situazione degli archivi dello sport nel 2014
Dalle risposte risalta l’assenza di conservazione di documentazione “antica” che non sia o iconografica o “museale” mentre i più antichi documenti d’archivio “cartacei” risalgono al massimo a venti anni indietro. Per specificare, le società non conservano nel tempo documentazione contabile o amministrativa in senso lato, compresi i carteggi dei dirigenti e i tesserini degli associati, ma quasi esclusivamente trofei e fotografie. Nessuna società è dotata di un locale dedicato ad archivio o a museo, possiede solo un armadio posto in sala riunioni o in sala di presidenza che ha funzione di contenitore di archivio e tanto meno è presente una persona che ha incarichi di conservatore/archivista. Il fatto che solo quattro società abbiano risposto all’indagine mostra anche la mancanza di interesse o di consapevolezza nei confronti della trasmissione della testimonianze della propria attività nel tempo.

Percorsi per il futuro: un patrimonio da salvare
Pur dallo scarso numero di archivi censiti è possibile, dare una idea di come possa essere composto un archivio di società sportiva nel 2014: presenza di trofei, raccolte di fotografie, presumibilmente non ordinate, assenza di documentazione cartacea “antica” ossia antecedente alla metà degli anni ’90 del Novecento. Di fronte a un risultato non incoraggiante ma non inaspettato, due possibili strade possono, allora, essere individuate per garantire la trasmissione della memoria dello sport a livello locale: il deposito dei documenti più antichi delle società sportive presso gli archivi comunali competenti per territorio, accogliendo una nuova serie di archivi dello sport come archivi aggregati; incontri con i presidenti di società provincia per provincia – organizzati in collaborazione con enti o istituzioni – al fine di chiarire ai responsabili la necessità e l’importanza di conservare la propria memoria ordinatamente oltre il ricordo “visibile” del trofeo o della foto, evitando scarti periodici e arbitrari giustificati solo con una “cronica mancanza di spazio” delle sedi.

 




Antiche villeggiature, la grande scoperta della Val di Bisenzio

Le Antiche villeggiature, un articolato progetto regionale di ricerca e memoria partecipata, condotto dalla Fondazione CDSE (Centro di documentazione storico etnografica) in Val di Bisenzio, ha portato alla luce un suggestivo racconto collettivo che ha come sfondo gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi del Novecento e vede protagonisti, tra gli alti, Amelia e Joe Rosselli con i loro figli, Aldo, Carlo e Nello. La pubblicazione Antiche Villeggiature: Val di Bisenzio e Montepiano tra Ottocento e Novecento è curata da Annalisa Marchi, Alessia Cecconi, Luisa Ciardi e Cinzia Bartolozzi che hanno condotto una ricerca accurata e minuziosa.

Vacanze e vacanzieri della fine dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento vengono raccontati per la prima volta in una pubblicazione, stracolma di curiosità, luoghi, personaggi e fascinose foto d’antan (sono addirittura 254). Con dovizia di particolari vengono alla luce gli aspetti della svolta turistica che vede protagonisti gli Appennini, da Prato fino a Bologna.

La solida e curiosa borghesia della Belle Epoque – fiorentina ma non solo – elegge Montepiano a buen retiro estivo mentre la sezione del Club Alpino italiano contribuisce a promuovere la Vallata con iniziative, escursioni e pubblicazioni.

Incontriamo Amelia e Joe Rosselli, scrittori come Renato Fucini e poi musicisti, professionisti e industriali. Dall’Inghilterra, dalla Germania e dagli Stati Uniti, alla ricerca di esperienze originali, arrivano turisti dai gusti raffinati. Tutto verrà raccontato tra luglio e agosto attraverso un ricco calendario di iniziative pubbliche, presentazioni e spettacoli teatrali nei Comuni di Vernio, Cantagallo e Vaiano. Due le mostre documentarie e fotografiche in programma (a Migliana e all’Archivio di Stato di Prato).

Sorprendenti i legami tra l’ebraica e cosmopolita famiglia Rosselli (trasferitasi a Livorno da Roma nel Settecento) e Montepiano. Amelia Pincherle (è la zia di Alberto Moravia) e il marito Joe Rosselli scoprono Montepiano nel luglio 1896: Aldo, il loro primo figlio, ha soltanto un anno. Negli anni a venire trascorreranno qui molti periodi di vacanza e montepianine saranno le balie di Carlo e Nello Rosselli: Maria Morganti e Virginia Mazzetti. “Sai che qui in paese tutti si ricordano di voi quando eravate a Montepiano? C’è il padrone della mia pensione che si rammenta con molto affetto di voi, i Nathan…”, scrive da Montepiano Nello Rosselli alla madre Amelia nel 1919.

L’aria buona e la tranquillità che poteva offrire la villeggiatura a Montepiano era stata scelta proprio pensando al piccolo Aldo, nato nel luglio 1895 a Vienna, dove Amelia e Joe si stabilirono appena sposati. A Montepiano trascorreranno le loro vacanze per diversi anni sia i Rosselli che i Nathan. La madre di Joe, Henrietta Nathan era inglese e sorella di quell’Ernesto Nathan famoso per essere stato, prima l’erede testamentario di Mazzini, e poi per essere eletto, a inizio Novecento, sindaco di Roma con il blocco popolare. A Londra, dove Mazzini sopravvisse grazie agli aiuti delle famiglie Nathan-Rosselli, il padre di Joe, Sabatino Rosselli, aveva aperto un ufficio di cambio nella City. “Stando al corpus delle numerose lettere rinvenute presso il Fondo Rosselli (conservato all’Archivio di Stato di Firenze) Amelia inizia a frequentare Montepiano qualche anno prima di trasferirsi a Firenze.- si legge nel volume –  Le trame di intimità e le note di costume che affiorano nelle lettere aprono finestre luminose e contribuiscono a ricostruire un pezzo della storia della villeggiatura a Montepiano, nonché frammenti privati dell’epopea della famiglia Rosselli”.

La svolta turistica della Vallata e di Montepiano, quest’ultima già famosa a Firenze per il suo straordinario burro, è legata all’affermazione della nuova cultura della villeggiatura di fine Ottocento. Decisivo è il completamento, tra il 1885 e il 1892, della Strada Maestra che finalmente collega San Quirico a Montepiano. Non è davvero un caso che proprio nel 1892, a Montepiano, si registri un boom di 500 turisti.

Sono tre giovani della sezione fiorentina del Club Alpino italiano: Michele Gemmi, Giuseppe Ricci e Luigi Alessandri i promotori della stagione d’oro dell’Alta Valle. A far da pioniere alla svolta turistica è però Emilio Bertini che con la sua instancabile attività fa conoscere e amare la Val di Bisenzio di cui pubblica una guida che resta una pietra miliare del genere. Le iniziative di moltiplicano: nel 1879 la sezione del Cai di Firenze, insieme a quella di Bologna, organizza una doppia traversata Bologna – Prato. “Con l’arrivo dei villeggianti comparvero locande, trattorie e i primi affittacamere e furono pubblicate guide con itinerari e indicazioni – raccontano le autrici – Per i decenni a venire la Val di Bisenzio avrebbe richiamato italiani e stranieri, letterati ed artisti, industriali e scienziati, personaggi che spesso lasciarono nei loro scritti pubblici e privati ricordi e tracce affascinanti della loro villeggiatura. Montepiano, che si arricchì di ville e villini e ospitò anche numerose colonie terapeutiche”.




Emozioni e politica. Alle radici del mito Pietro Gori

La figura di Pietro Gori (1865-1911) ha avuto di recente un nuovo sussulto di notorietà per la controversa scelta della giunta di Portoferraio di modificare la toponomastica cittadina andando ad incidere su uno dei luoghi simbolicamente più forti del mito goriano. Le polemiche accese, le discussioni, le lettere di protesta e i presidi di manifestanti che hanno accompagnato la decisione di cancellare l’intitolazione della piazza nei pressi del municipio all’autore di Addio Lugano Bella testimoniano, al di là dell’episodio di cronaca, forme di sopravvivenza di una memoria popolare verso un uomo politico singolare che nel tempo è stata certificata da seri studi storici e demoantropologici. Morto come tutti gli eroi giovane e bello, l’8 gennaio 1911, Gori fu salutato fra l’Elba, Piombino e Rosignano da uno dei più imponenti funerali mai visti all’epoca, che hanno concorso a rafforzarne l’aurea mitica, e spesso quasi sacrale, che lo ha a lungo circondato.

Capace di suscitare forme di identificazione in grado di sconfinare nella dimensione della vera e propria celebrità politica e della venerazione popolare, ben oltre il perimetro dei militanti libertari, si impose certamente come uno dei più amati leader politici italiani dell’epoca. Se l’esistenza del mito è largamente documentata, meno poco sappiamo però delle ragioni e dei motivi che ne stanno alla base e che ne favorirono la popolarità.

Ritratto di profilo di Pietro Gori, s.d.

Ritratto di profilo di Pietro Gori, s.d.

Pietro Gori è stato un personaggio pirotecnico, ricco di inventiva e di risorse, grazie a un’abilità e a uno stile comunicativi che meritano di essere approfonditi e che si avvalsero dell’ampio ricorso a canali, linguaggi e contesti all’apparenza non strettamente politici (teatro, poesia, musica, letteratura); modello di leadership per tanti propagandisti del proprio movimento, Gori fu il campione di un anarchismo sentimentale a forte tasso emotivo. Artefice di un propria strategia di “andata al popolo”, agì su molteplici piani per alimentare un immaginario dotato di una propria forza persuasiva, con stratagemmi retorici e di altra natura in grado di funzionare soprattutto in relazione al proprio pubblico di riferimento.

Per rendersi credibile ai suoi interlocutori, lui, nato borghese e benestante, sposò un’etica di vita ascetica, profetica e votata al sacrificio, divenendo non a caso noto a tutti col sopranome biblico di Apostolo dell’Anarchia o dell’Ideale, incorporando fino in fondo nell’esperienza quotidiana le virtù anarchiche e proletarie.

In secondo luogo, sul piano retorico si dotò di un discorso frutto di un’abile opera di recupero e di rifunzionalizzazione in chiave libertaria e di criticismo sociale di immaginari e tradizioni discorsive a cui il popolo era già ampiamente socializzato. Dalla religione cristiana al risorgimento democratico-popolare, Gori presentò in maniera disinvolta Gesù Cristo e Garibaldi, i primi perseguitati cristiani o i martiri del 1848 come i primi anarchici della storia. Una disinvoltura che si estese abilmente a tradizioni popolari di segno folklorico come quella del Maggio, le cui antiche feste erano da sempre collegate in molte comunità contadine a immagini e significati di rinascita e rigenerazione; esse furono espressamente ricondotte da Gori alla nuova festività politica del 1 Maggio, di cui a cavallo fra due secoli divenne il principale mediatore e propugnatore italiano, radicandola nel paese attraverso un profluvio di poesie, bozzetti teatrali e canzoni a tema (Primo Maggio, Maggio ribelle, Maggio redentore, Tempesta di maggio, La leggenda del Primo Maggio, Calendimaggio).

Oltre alla capacità di sfruttare temi e figure già largamente diffusi fra le classi subalterne, l’opera di conquista e di risignificazione del mondo popolare lo spinse a investire anche l’ambito dei modi e dei registri della comunicazione. Nella realtà dell’epoca composta in larga parte di analfabeti o semianalfabeti in cui dominava ancora la dimensione dell’oralità e una pratica della lettura fortemente intensiva (come nella tradizione religiosa della ripetizione delle parole evangeliche della Bibbia mandate a memoria), Gori prestò particolare attenzione alle forme e ai generi espressivi della cultura e dell’estetica popolari. E fu così che divenne il fondatore della canzone politica popolare italiana, molto spesso recuperando note e arie tradizionali, nonché prolifico interprete della poesia estemporanea. Ciò a prezzo anche di stridenti contrasti fra retaggi tradizionalisti sul piano formale e un incendiario criticismo socio-politico nei contenuti che gli valsero una nota e colorita accusa di convenzionalismo nei quaderni gramsciani.

Ma il disegno comunicativo ad ampio raggio di Gori non si fermò qui, mostrandosi attento ad ogni particolare, nel quadro di una più generale sensibilità alla costruzione della propria immagine. Il suo proverbiale magnetismo oratorio si alimentava, nella testimonianza di militanti e dirigenti anarchici che ne rimasero affascinati, di una studiata modulazione dei gesti e della voce; un’attenzione derivantegli anche dal lungo tirocinio svolto come avvocato in diverse cause celebri, in un momento in cui i tribunali divennero, fra Otto e Novecento, palestre di oratoria investite da un forte processo di teatralizzazione della professione forense esemplificato dalla figura di Enrico Ferri, fra i maestri di Gori. Un cortocircuito fra aule di giustizia e palcoscenico testimoniato nella vicenda goriana sia dalla scrittura di numerosi bozzetti teatrali ma ancor più dalla loro frequente recitazione in prima persona da parte del loro stesso autore.

Un carisma che si alimentava infine di altri segni esteriori in grado, come si direbbe oggi, di fare moda o tendenza e di amplificarne la leggenda. Un anarchismo “banale”, fatto di pratiche minori, di cui è esempio la scelta di un abbigliamento che creò o diffuse uno stile fortemente identitario. Giocando soprattutto con il colore “sinistro” per antonomasia associato all’anarchismo e da esso fatto provocatoriamente proprio, contribuì a radicarne la simbologia attraverso il cappello nero a falde larghe, l’immancabile sciarpa e il grande fiocco o svolazzo, sempre del medesimo colore, noto anche come «fiocco a la Gori», ricordato da numerosi contemporanei ed eternato con grande evidenza nella sua ritrattistica e persino nei monumenti funebri.

Busto di Pietro Gori nell’atto di parlare, Capoliveri, Piazza Matteotti, 1921

Busto di Pietro Gori nell’atto di parlare, Capoliveri, Piazza Matteotti, 1921

A completarne le performance comunicative concorsero poi supporti o dispositivi poco convenzionali, tesi a creare un’aura di spettacolarità, come il frequente utilizzo della chitarra, che che in una lettera a un amico avrebbe definito uno strumento «inseparabile» e che divenne uno dei simboli del grande tour di propaganda nordamericano del 1896 condito da oltre trecento comizi; o ancora il ricorso, alla “lanterna magica” nelle conferenze, ossia di un ingegnoso macchinario per immagini che aveva il suo maggiore tratto di modernità nell’essere parte di quelle nuove «macchine della visione», diffusesi nel corso dell’Ottocento a partire dalla Francia dove costituirono forme di precinema preparatorie al cinematografo.

Questo quadro riccamente popolato di suggestive immagini, emozioni e colori, in cui una molteplicità di profili e aspetti finivano per intrecciarsi, faceva della sua opera di propaganda un’esperienza capace di sollecitare più sensi e di incidere in più modi sulla sensibilità popolare, tanto da rendere difficile per lo storico farla rivivere appieno attraverso le fonti. Si spiegano però forse così gli episodi di ammirazione collettiva, se non di vero e proprio divismo, descritti da amici e compagni di partito riguardanti donne, uomini e vecchi che dopo le conferenze circondavano in gran folla la vettura di Gori per protendergli i figli e baciargli la mano, o si stendevano sui binari per impedirne la partenza quando in treno raggiungeva qualche lontana località per un improvvisato comizio. Reazioni analoghe a quelle che, al momento dell’arrivo del suo feretro al cimitero di Rosignano, costrinsero l’ufficiale sanitario a cedere alle insistenti preghiere della folla e ai vincoli delle norme sanitarie praticando un’apertura sulla parte di zinco della bara per consentire a tutti di «vedere, salutare, baciare» un’ultima volta la salma dell’Apostolo dell’anarchia.

*Marco Manfredi, dottore di ricerca, è attualmente docente a contratto in Storia contemporanea presso l’Università di Pisa e collaboratore dell’Istituto della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Livorno. Si è occupato di storia italiana del primo Ottocento, pubblicando saggi e articoli su protagonisti e vicende della Restaurazione e del Risorgimento; negli ultimi anni si è avvicinato agli studi di storia dell’anarchismo italiano. Fra le sue pubblicazioni più recenti su quest’ultimo tema: Italian Anarchism and Popular Culture: history of a Close Relationship, in I. Favretto, X. Itcaina (eds.), Protest, Popular Culture and Tradition in Modern and Contemporary Western Europe (Palgrave Macmillan, 2016), Il neutralismo anarchico, in F. Cammarano (a cura di), Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia (Le Monnier, 2015)




L’internamento dei reduci antifascisti italiani di Spagna nei campi francesi (1939-1941)

La storia dell’internamento degli antifascisti italiani reduci dalla guerra di Spagna nei campi nel Sud della Francia è stata ingiustamente trascurata sia dalla memorialistica sia dalla storiografia italiana. Dal punto di vista delle memorie, probabilmente, ha influito il fatto che i cupi e monotoni anni di prigionia francese risultano, per i combattenti stessi, compressi e schiacciati tra l’esaltante vicenda spagnola e la successiva lotta resistenziale. Dal punto di vista storiografico, invece, il significativo vuoto si ricollega direttamente con il ritardo della storiografia francese che, complice forse la propria cattiva coscienza, ha iniziato a occuparsi della questione dell’internamento soltanto di recente, da quando sembra aver trovato il modo di inquadrare il fenomeno nel discorso pubblico della Francia democratica[1]. In Italia, a oggi, assenti completamente le traduzioni, l’unico a essersi occupato in modo approfondito dell’argomento è Pietro Ramella che, oltre alla curatela del volume di memorie di Riccardo Formica, in cui si descrive l’arrivo al campo di Saint Cyprien del gruppo di italiani guidato dal comandante Morandi, ha pubblicato nel 2003 un volume intitolato proprio La Retirada e nel 2012 un nuovo studio sul tema[2]. Si tratta di un testo che, però, fa riferimento prevalentemente a materiale edito e non apre alcuno spiraglio interpretativo per quanto riguarda la specificità italiana nella vicenda e che, del resto, non ha avuto, nonostante la novità del tema, né un’accoglienza particolarmente calorosa né una grande visibilità.

Foto André Alis

La Retirada ©André Alis

L’argomento, affrontato dal recentissimo Quaderno Isgrec Storie di indesiderabili e di confini[3], è insomma pressoché sconosciuto o ignorato agli storici nostrani e questo nonostante l’ampia mole di documentazione reperibile presso gli archivi francesi centrali e periferici in merito all’esperienza dei reduci di Spagna e, nello specifico, degli italiani nei campi. In particolare, negli Archives Départementales des Pyrénées Orientales a Perpignan (ADPO) per la documentazione pertinente ai campi cosiddetti “della spiaggia”, dove i volontari sono radunati nei primi mesi del 1939, e nell’Archive Départementale de l’Ariège a Foix (ADEA) in cui è conservato l’archivio del campo disciplinare del Vernet, in cui sono imprigionati i sospetti e i cosiddetti estremisti politici nelle fasi successive. Dell’esperienza dei campi rimane anche un’abbondante produzione documentaria di parte comunista, a cui alcuni storici hanno potuto avere accesso durante il troppo breve periodo di disponibilità alla consultazione, negli anni passati, degli archivi del Comintern raccolti a Parigi. Recentissimamente, la digitalizzazione dei documenti sovietici, presso il sito del Russian State Archive of Social-Political History (RAGSPI), ha aperto nuove frontiere in termini di accessibilità ai documenti sulla Spagna e sulle vicende successive dei membri delle Brigate internazionali.

David Seymour, La Retirada. Le Perthus, à la frontière franco-espagnole, février 1939 © Musée national de l'histoire et des cultures de l'immigration

David Seymour, La Retirada. Le Perthus, à la frontière franco-espagnole, février 1939 © Musée national de l’histoire et des cultures de l’immigration

I campi di internamento del Sud della Francia, in ogni caso, rappresentano un oggetto di studio particolarmente interessante proprio per quanto riguarda l’Italia perché moltissimi furono gli italiani che vi transitarono. Basti pensare che a Saint Cyprien, uno dei cosiddetti campi della spiaggia, gli italiani furono la terza nazionalità rappresentata fra gli internazionali, mentre a Gurs, quindi in uno dei campi dell’interno sorti in una seconda fase di stabilizzazione, furono probabilmente la seconda nazionalità presente. Il trattamento riservato loro fu in alcuni casi estremamente duro e non può essere compreso se non tenendo conto del più ampio arrivo di rifugiati spagnoli che si verificò tra la fine del gennaio e l’inizio del febbraio 1939 e che passò alla storia con il nome di Retirada. Fu un evento eccezionale per i tempi: in pochissimi giorni, a partire dal 29 gennaio, transitarono dai valichi franco-catalani circa 470.000 persone[4], un consistente e concentrato movimento di popolazione che prima di allora non si era mai registrato in un lasso di tempo così breve, un esodo impressionante che in sostanza non aveva precedenti nella storia europea.

Proprio su tale eccezionalità, del resto, si è basato negli anni il vasto impianto autoassolutorio francese costruitosi intorno a questi temi, mentre solo recentemente gli storici hanno riproposto la questione in termini di responsabilità, analizzando le carenze della politica di accoglienza francese o, secondo alcuni, la vera e propria assenza di una qualsivoglia politica[5]. Di fatto, però, la chiusura del governo d’Oltralpe si inseriva perfettamente nel clima maturato già negli ultimi mesi del 1938, quando termini come “indésirable” e “clandestin” erano diventati sempre più presenti nel dibattito pubblico e il radicale Edouard Daladier, tornato primo ministro, aveva fatto approvare un gran numero di decreti legge in particolare repressivi verso gli immigrati e i rifugiati. Fu proprio nel caso degli ex combattenti spagnoli e dei reduci delle Brigate internazionali, laddove meno potevano pesare gli appelli di carattere umanitario, che si palesò apertamente il focalizzarsi dello Stato francese sulla sicurezza e l’ordine pubblico, concretizzatosi nella chiusura totale della frontiera agli uomini in età di leva e nell’organizzazione allo scopo di un dispositivo militare e poliziesco molto efficiente.

Gli ormai ex volontari internazionali, che dalla smobilitazione erano concentrati in Catalogna, in campi organizzati su base nazionale, rimasero così bloccati in attesa che venisse deciso il loro destino. Solo alla fine del 1938 si avviò una lenta evacuazione: venne via via concesso il transito dei volontari originari dei paesi democratici, accolti e subito reindirizzati “chez eux”, mentre vittime dell’intransigenza crescente della politica francese furono soprattutto coloro che venivano dai paesi fascisti, che rischiavano al rientro di subire persecuzioni politiche. Fra loro gli italiani, per molti dei quali – per esempio per i disertori arrivati direttamente dall’Italia e passati nelle file repubblicane che rischiavano condanne molto pesanti, ma allo stesso tempo non godevano di nessun appoggio da altri paesi – trovare una via di uscita dall’imminente crollo del fronte divenne un dramma vero e proprio.

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Volontari in fuga concentrati nei “campi della spiaggia”

Alla fine, come successe per i civili, anche per i reduci stranieri la situazione precipitò di colpo sotto la pressione degli eventi, con l’ordine francese del 5 febbraio 1939 di lasciar passare tutti gli uomini accalcati presso i valichi di frontiera, compresi i miliziani armati pronti a forzare il passaggio in caso di rifiuto. Dall’altro lato del confine, però, i reduci delle BI non trovarono l’accoglienza che si aspettavano dalla vicina e amica Francia, dal paese che era stato per decenni il rifugio sicuro per i perseguitati politici di mezza Europa. Infatti, avendo il governo francese stabilito che tutti gli uomini in età di leva dovevano restare nel dipartimento di arrivo, cioè quello dei Pirenei orientali, l’unico modo di “accoglierli” era quello di disarmarli e raggrupparli in appezzamenti di terreno circondati da filo spinato sulle spiagge del Roussillon. Si tratta dei campi della spiaggia, dove i volontari furono radunati nei primi mesi del 1939, e cioè Argelès, Saint Cyprien e Barcarès.

Qui, in un contesto sempre più emergenziale, situazioni drammatiche sul piano materiale vennero accentuate dallo sconforto morale dei rifugiati, come testimoniato dai racconti anche italiani di quegli eventi, in cui spicca il momento simbolico della consegna delle armi e della bandiera al confine. Avrebbe ricordato Francesco Scotti,

I gendarmi francesi avevano già dato l’ordine di ammassare le armi da una parte. Ogni possibilità di continuare le operazioni anche con azioni di guerriglia era finita. I soldati mi circondarono e mi chiesero perché dovevano deporre le armi. “Entriamo in un paese amico o nemico?” […] Il primo incontro con la Francia libera ci raggelò il sangue più delle nevi delle montagne[6].

principali-campi-francesiL’arrivo in Francia si imprimeva così nelle memorie individuali, sia dei civili sia dei militari, come un evento ad alto coefficiente traumatico: l’idea di società nella quale si era creduto, e per la quale molti avevano combattuto, andava in frantumi e attraversare quel confine significava sancire una sconfitta tanto individuale e personale quanto collettiva e comunitaria. Lo spirito del Fronte popolare non c’era più e le proteste non ebbero, a quell’epoca, una base politica sufficientemente ampia né furono particolarmente durature; così, senza la forza della pressione popolare, a prevalere furono le congiunture e la volontà politica del governo conservatore. Iniziava per gli antifascisti il durissimo momento dei campi di internamento, che divennero, anche dal punto di vista spaziale, la prova tangibile delle spaccature createsi all’interno della società francese tra il 1938 e il 1948, in quelli che la storiografia ha recentemente definito il periodo degli “anni neri”, caratterizzati dall’esclusione dal tessuto sociale nazionale di coloro che erano considerati un peso dal punto di vista economico o un pericolo per la sicurezza interna.

Un nuovo capitolo biografico che sembrava aprirsi tra gli auspici più foschi, tra il freddo, il vento, la sabbia e le recinzioni delle spiagge francesi. Affacciati sul litorale, circondati da terreni acquitrinosi infestati da mosche e battuti dalla tramontana, i primi campi del Roussillon erano, in effetti, quasi completamente sprovvisti d’installazioni, semplici terreni sabbiosi delimitati dal filo spinato. A Saint Cyprien, per esempio, non era previsto alcun riparo, alcuna struttura, tranne un monumentale arco all’entrata del campo e saranno poi gli internati stessi a costruire i primi baraccamenti. Aldo Morandi, riguardo al suo arrivo durante la notte dell’8 febbraio, avrebbe scritto:

su un arco fatto di pali e assi di legno, una scritta “Saint Cyprien”. È l’entrata del campo ma non riesco a distinguere baracche o alloggiamenti, forse per l’oscurità […]. Avvolto nell’impermeabile, con il sacco da montagna sotto la testa come cuscino, ho tentato di dormire sulla sabbia umida e mi sento tutto intirizzito. […] Si è fatto giorno. Non vedo alcuna baracca, il campo d’internamento non esiste, è una nuda distesa di sabbia sul mare circondata da tre lati da filo spinato[7].

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Entrata del Campo di Vernet

Nonostante lo sconforto iniziale, però, la ripresa di una capillare organizzazione politica si ebbe proprio nei campi. In particolare in quelli dell’interno, sorti nelle fasi successive per ovviare al sovraffollamento delle strutture vicine alla frontiera, in seguito a un tentativo di riorganizzazione da parte del governo francese, resosi conto che non avrebbe potuto disfarsi molto rapidamente degli internati. In primis nel campo di Gurs, sui Pirenei orientali, dove gli internazionali vennero ricongiunti nel maggio 1939 e dove i 900 internati italiani si collocavano al secondo posto fra le nazionalità, e quindi in quello di Vernet, nella prefettura di Foix, che, in seguito all’applicazione della legislazione anticomunista francese varata nel settembre 1939, divenne un campo disciplinare, definito “a carattere repressivo”, dove inviare gli stranieri sospetti, gli estremisti o gli individui pericolosi per l’ordine pubblico o per l’interesse nazionale, e quindi gli ex volontari delle Brigate internazionali. Proprio l’altissima concentrazione di ben noti antifascisti fece via via del Vernet uno dei centri francesi ed europei della Resistenza al nazifascismo. Di fatto, l’internamento di un gran numero di dirigenti comunisti europei e di una buona parte dei dirigenti delle Brigate Internazionali lo trasformarono in uno dei principali centri dopo Mosca, dove particolarmente rilevante era la presenza di tedeschi, italiani e polacchi.

Nel microcosmo dei campi i reduci provenienti dalla Spagna videro via via riconsolidarsi quella solidarietà internazionale, nata in Spagna, che farà delle resistenze europee un momento di sintesi di aspirazioni e impegno militare e civile per antifascisti di diversa provenienza, nazionale e politica. In questi luoghi, dove gli italiani rimasero in media due anni (dal febbraio 1939, quando la Francia si vede costretta ad “accoglierli” nei primi reticolati sulle spiagge del Roussillon, fino alla primavera del 1941 quando l’Italia cominciò a pretenderne il rimpatrio), si svolsero vicende e fatti che influirono profondamente sulla costruzione in divenire delle identità dei futuri combattenti, ma che ancora di più determinarono il ricostruirsi, dopo la Spagna, dei networks cruciali nella successiva lotta europea al nazifascismo.

Foix

Registro del campo di Vernet (©Isgrec)

Qui maturarono anche le competenze apprese sul campo di battaglia spagnolo, quella preparazione politica, tattica e militare che fece dei reduci italiani di Spagna, come ha ben evidenziato Paolo Spriano, “la punta di diamante” dei quadri dirigenti della lotta partigiana in Italia[8]. Nei campi, infatti, nonostante le condizioni di vita spesso durissime, la vicenda degli antifascisti italiani si declinò in un costante sforzo collettivo per la preparazione della futura lotta, percepita come ineluttabile e necessaria. Si andava dal concreto addestramento militare, come per esempio nel caso dell’empolese Pietro Lari, «esperto in tattica dei colpi di mano e di fabbricazione di esplosivo», che a Gurs aveva passato giornate intere ad addestrare i suoi compagni di prigionia alla fabbricazione delle bombe a mano[9], alla più generale preparazione culturale e politico-organizzativa dei militanti, derivata dai corsi e dal lavoro culturale svolto fra il filo spinato; tenendo conto anche, semplicemente, del quotidiano processo di condivisione di esperienze e insegnamenti tattici e strategici.

Insegnamenti che saranno messi a frutto dopo il rientro in Italia, per i più direttamente dal campo del Vernet (ultima tappa nell’itinerario dei campi), a seguito delle procedure di rimpatrio forzato avviate dalla Francia nel febbraio 1941 o volontariamente, a seguito della richiesta del Partito comunista italiano di fornire personale politico e militare per combattere. Una scelta, quella di tornare, che veniva messa in cantiere già dal 1941, ma che nella maggior parte dei casi si concretizzò solo fra il 1942 e il 1943: di conseguenza, molti antifascisti si ritrovarono a introdurre in Italia anche le tecniche e la metodologia d’azione tipiche del maquis francese.

Proprio in Francia, del resto, molti italiani scelsero di rimanere a combattere, dando in alcuni casi un contributo determinante alla costruzione dei gruppi locali. Già alcune evasioni dai campi, in effetti, erano state organizzate dalla nascente rete clandestina del maquis, la cui composizione era, prevalentemente, francese, ma in cui cominciavano a entrare fuorusciti italiani, spagnoli e “internazionali” reduci dalla Spagna. Nati come vere e proprie centrali d’evasione e di assistenza ai clandestini – in cui, di fronte alla crisi dei partiti dell’antifascismo e di associazioni come la Lidu, a rafforzarsi erano i legami di solidarietà personali – questi gruppi diedero via via inizio a una resistenza capillare, composta da una diffusa rete di formazioni militari di montagna e cittadine, queste ultime impegnate nell’organizzazione sistematica di sabotaggi e azioni di contrasto nei centri urbani. Basti pensare all’esempio dell’anarchico fiorentino Umberto Marzocchi, che nel 1941 si rifugiò sui Pirenei, nella zona del campo di Vernet, dove, sotto copertura, fu attivo proprio nell’attività di soccorso viveri agli internati e nell’organizzazione delle evasioni dal campo; collegatosi in seguito con la Resistenza francese della regione di Tolosa, partecipò alla liberazione del campo e nell’agosto 1944 entrò a far parte delle Forces Françaises de l’Intérieur (FFI) come vicecomandante di un’imprecisata unità spagnola[10].

Perpignan, Registro del campo di Argeles (©Isgrec)

Quelle degli antifascisti italiani reduci dalla Spagna sono insomma vicende biografiche compresenti in una serie di cornici: locali, nazionali, internazionali. Da un lato, perché il contributo consistente dato da questi uomini prima alla lotta contro Franco e poi contro il nazifascismo è comprensibile solo in virtù della convinzione, che li accomunava, del legame indissolubile fra la sorte della Spagna nel 1936 e quella delle democrazie europee tutte; dall’altro, perché i volontari stranieri furono vittime, loro malgrado, di politiche internazionali che li avrebbero voluti fuori dalla scena politica europea dopo il settembre 1938. Essi rappresentarono la pesante e tangibile eredità di un periodo che la velocità della politica internazionale aveva ormai spazzato via.

In particolare, il limbo nel quale vissero gli italiani e coloro che non poterono rientrare nel paese di origine testimonia quanto la guerra civile spagnola sia stata un conflitto che per essere capito fino in fondo deve essere declinato secondo categorie transnazionali. È quindi fondamentale analizzare le vicissitudini di questi combattenti dietro al filo spinato, seguirne l’iniziale sconforto e poi il risveglio politico fino allo svilupparsi nei campi di una complessa organizzazione clandestina, capire per esempio come fra gli italiani fosse gestita la difficile convivenza fra le diverse anime dell’antifascismo. Risolvere queste domande permette allora di colmare un significativo vuoto di conoscenze sugli anni decisivi che fanno da trait d’union fra la guerra di Spagna e la Seconda guerra mondiale, ma anche di porre dei punti fermi da cui ripartire per un’indagine sull’apporto dei reduci delle Brigate internazionali alla lotta contro il nazifascismo, indagine che ancora manca come evoluzione della storiografia sulla guerra civile spagnola.

Collettivo “El Cubri”, grafiva dfel disco “Cantata del exilio - ¿Cuándo volveremos a Sevilla?" Prima ed. Parigi 1976

Collettivo “El Cubri”, grafica del disco “Cantata del exilio – ¿Cuándo volveremos a Sevilla?” Prima ed. Parigi 1976

 

Note:

[1] Un’evoluzione esemplificata dal brillante lavoro di ricerca e divulgazione condotto sul sistema dei campi francesi da Denis Peschanski, con il suo volume La France des camps pubblicato da Gallimard nel 2002; una corposa opera di analisi in cui nulla si tace delle colpe della Francia di Vichy, la cui ampia diffusione è stata resa possibile da un clima culturale disposto finalmente ad affrontare quella memoria (D. Peschanski, La France des camps. L’internement 1938-1946, Gallimard, Parigi 2002).

[2] P. Ramella (a cura di), Morandi, Aldo. In nome della libertà: diario della guerra di Spagna 1936-1939, Mursia, Milano 2002; Id., La retirada: l’odissea di 500.000 repubblicani spagnoli esuli dopo la guerra civile, 1939-1945, Lampi di stampa, Milano 2003; Id., Dalla Despedida alla Resistenza. Il ritorno dei volontari antifascisti dalla guerra di Spagna e la loro partecipazione alla lotta di Liberazione europea, Aracne, Roma 2012.

[3] E. Acciai, I. Cansella, Storie di indesiderabili e di confini. I reduci antifascisti di Spagna nei campi francesi (1939-1941), Isgrec Quaderni 05, Effigi, Arcidosso 2017.

[4] Sulle stime governative fornite all’epoca e sul problema della loro attendibilità e completezza cfr. l’interessante punto della situazione presentato in G. Tuban (a cura di), Février 1939. La Retirada dans l’objectif de Manuel Moros, Mare nostrum, Perpignan 2008.

[5] Il dibattito in merito a questo tema è ricostruito accuratamente dal testo di J. Rubio, La politique française d’accueil: les camps d’internements, in P. Milza e D. Peschanski (a cura di), Exils et migration. Italiens et espagnols en France 1938-1946, L’Harmattan, Parigi 1994.

[6] D. Lajolo, Il “voltagabbana”, BUR, Milano 2005, pp. 163-164.

[7] Ramella (a cura di), Morandi Aldo. In nome della libertà, cit., pp. 221-222.

[8] P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. IV. La fine del fascismo. Dalla riscossa operaia alla lotta armata, Einaudi, Torino 1973.

[9] Archivio INMSLI, Fondo AICVAS, b. 23, f. 24. Anello Poma, Come vissero gli ex combattenti delle Brigate internazionali nei campi di concentramento francesi, s/d..

[10] I. Cansella, F. Cecchetti, Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola, Isgrec Quaderni 02, Effigi, Arcidosso, 2012.




L’operaio che guidò la Regione Toscana

Gianfranco Bartolini, classe 1927, nasce a Fiesole il 17 gennaio e proprio questa terra, dove abiterà fino alla sua scomparsa nell’ottobre del 1992 segna in modo indelebile la sua attività, politica e istituzionale. Autodidatta (ha la quinta elementare), figlio della sua generazione, dove il mestiere si imparava “a bottega”, all’età di otto anni inizia a lavorare come fabbro presso il negozio del padre Domenico in via Matteotti a Fiesole.

A quattordici era già operaio allo stabilimento delle Officine Galileo dove l’impegno politico e antifascista, certamente attinto in ambito familiare – il padre era stato consigliere comunale socialista prima dell’avvento al potere del fascismo – comincia a farsi largo nell’indole di un ragazzo che, già dalla giovanissima età, mostrava convinzioni culturali e impegno civile. Più volte ricordato come uomo ‘del fare’, Bartolini sussume pienamente quel clima di militanza collettiva, di impegno civile e municipale che caratterizza gli anni successivi al dopoguerra, avendo già partecipato come partigiano alla lotta di liberazione nel 1944. Proprio la Resistenza rappresenta un capitolo molto importante per la sua vita e per la sua città natale, Fiesole. Durante la terribile esperienza del passaggio del fronte nell’estate del 1944, anche quest’ultima fu infatti gravata – in particolare nel mese di agosto – dal peso e dalla violenza dell’occupazione nazista, culminante nel noto eccidio dei tre carabinieri. In questa fase i Bartolini svolsero un ruolo molto importante. Mentre il padre di Gianfranco si impegnò a lungo per aiutare la popolazione locale a sopravvivere nella situazione di emergenza, il figlio – al tempo diciassettenne – fu protagonista di alcune azioni di guerra con la “Banda partigiana di Fiesole” (poi diventata SAP di Fiesole) dipendente dal CLN cittadino fino alla liberazione avvenuta il 1° settembre.[1]

Le Officine Galileo segnano un altro momento fondamentale della sua vita. Dopo aver rivestito il ruolo di Segretario nella Commissione interna della grande fabbrica fiorentina, venne infatti chiamato alla segreteria della Camera Confederale del Lavoro di Firenze negli anni ’60 del XX secolo, diventandone segretario nel 1965. Dirà di lui Giorgio Napolitano che proprio il suo impegno come dirigente sindacale, la sua militanza politica, l’esperienza del lavoro in fabbrica sono state le prove superate con serietà, impegno e sobrietà che gli hanno permesso di diventare un autentico uomo di governo.

Solo 6 anni più tardi, nel 1971, ebbe l’incarico di segretario regionale della Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), entrando nel Direttivo nazionale della CGIL e della Federazione nazionale CGIL-CISL-UIL.

Ma il legame con le radici rimase sempre inalterato e l’impegno politico lo vide entrare nell’amministrazione comunale di Fiesole giovanissimo. Già nel 1951, all’età di 24 anni, capolista del Partito comunista, riportò 215 voti di preferenza a fronte dei 644 voti ottenuti da Luigi Casini, rappresentante del Partito socialista e figura emblematica dell’antifascismo fiesolano. Alle elezioni amministrative successive (nel 1954, quando lo stesso Casini conseguirà 341 voti e Gianfranco 510) viene rieletto e riconfermato Assessore ruolo che manterrà fino al 1964.

Il suo sguardo attento di Assessore al bilancio non mancava di osservare i limiti oggettivi della cittadina collinare e il difficile rapporto con il capoluogo di Regione; è nel commentare il bilancio del 1964 che ebbe a dire:

Fiesole è oggi sempre più pressata dai bisogni che sono bisogni propri di una città moderna, una città che adesso è un po’ la periferia di Firenze […] È un problema che investe un po’ tutti i Comuni limitrofi, ma specialmente Fiesole ne risente in misura maggiore per cui il suo bilancio va sempre più in deficit. [Noi] non siamo certo in grado, oggi, di poter assicurare a Fiesole questi servizi che dovrebbero essere, io penso, in dotazione ad una città moderna, e forse non lo saremo mai […]. Fiesole ha un po’ il carattere di “Città – dormitorio”, infatti il Capoluogo ha avuto un certo sviluppo edilizio costituito da una serie di villette per il ceto medio, mentre nelle frazioni si è visto uno sviluppo per l’edilizia popolare per operai, ecc. …[2]

D’altro canto l’economia era la sua “fissazione”, non solo per retaggio sindacale, ma anche per la convinzione che il modello toscano dei distretti fosse un successo e che quindi intrecciare impresa, infrastrutture, attrezzature del territorio, mondo dell’università e della ricerca fosse il perno sul quale progettare il futuro. Bartolini aveva la percezione, e ciò emerge spesso nei suoi discorsi, che i meccanismi di globalizzazione in atto stiano portando l’industri italiana, il sistema produttivo, l’economia in generale verso il declino.

Sarà il 1975 a segnare la sua piena maturità politica, quando già Consigliere provinciale a Firenze, venne eletto con la seconda legislatura al Consiglio della Regione Toscana: nella lista del Pci e nella circoscrizione di Firenze, riportò 9.488 preferenza e divenne Vicepresidente della Giunta Regionale (Vicepresidente di Lelio Lagorio e, dal settembre 1978, di Mario Leone) con la responsabilità diretta della programmazione economica e del bilancio.

Alle consultazioni successive, giugno 1980, conquistò 15.489 preferenze e per questo è confermato nei suoi incarichi Vicepresidente e Assessore (sempre a programmazione e bilancio, con Presidente Leone) divenendo – dal 31 maggio 1983 – presidente della Giunta, carica che assume, pur modesto e schivo di carattere, con il fermo impegno di tentare la ricerca di soluzioni di governo e la collaborazione con realtà internazionali facevano perno sull’idea e sulla pratica della programmazione.[3]

Le vicende politiche regionali lo portano, infatti, alla guida di un governo “quasi” monocolore, retto da una scarsa maggioranza che godeva di un’altrettanto scarsa fiducia, soprattutto da parte dei vecchi alleati del Psi, che lo consideravano debole, soprattutto a causa del suo insediamento sociale “limitato alla classe operaia”.[4]

Eppure ci si dovette ricredere e accettare che il temuto monocolore rappresentasse, in realtà, una risorsa volta verso un impegno comune per l’innovazione del sistema produttivo, un confronto diretto con le forze sociali, con l’imprenditoria, con la Chiesa e con le Forze armate. Dall’’85 al ’90, con la fine naturale della terza legislatura, l’alleanza di governo sarà più ampia: una compagine determinata dal rientro dei socialisti e l’avvento dei socialdemocratici; ma per le Regioni saranno anche gli anni più difficili: da una parte il Governo le considera meri uffici decentrati dall’altra il Parlamento legifera  in tutti i campi regionali.

Gianfranco Bartolini affronta la sfida da riformista e regionalista convinto. Del resto, già nel 1984, come Presidente di turno della Conferenza dei Presidenti delle Regioni, aveva consegnato al Presidente della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, Aldo Bozzi, la proposta della Camera delle Regioni. Un Governo Regionale in fieri e in via di stabilizzazione, uno sviluppo delle autonomie locali, un’idea – insomma – regionalista e autonomista della quale Bartolini si fa portavoce e promotore in grado di accettare e gestire le sfide della modernità, facendo perno sull’idea e sulla pratica della programmazione:

Bartolini si cimenta in particolare modo con un’idea di programmazione “concordata e contratta”, e lo fa con modernità e apertura; batte e ribatte su esigenze cruciali di innovazione; non si chiude in vecchie visioni statalistiche ma sostiene “nuovi rapporti tra pubblico e privato”, difende “una sorta di gemellaggi tra la Regione e le imprese”, suggerisce “intese che si propongano di suscitare investimenti e occupazione, di dare risposta ai problemi dello sviluppo tecnologico, di affrontare quelli dell’ambiente e delle infrastrutture”.[5]

Rimarrà in carica per l’intera durata della quarta legislatura del governo toscano, fino al 1990, mantenendo ininterrottamente la delega per le politiche della programmazione e i rapporti con il Parlamento, il Governo e Comunità Europea. Come era nella sua natura, o forse come gli aveva insegnato l’esperienza, negli anni in cui si pone a guida della Regione Toscana non perse occasione per intrecciare rapporti di varia natura: il dialogo e il confronto si sviluppava verso ogni espressione della società toscana partendo dalla cittadinanza, passando per il mondo dell’industria e dell’imprenditoria, rivolgendosi all’associazionismo e alle cariche vescovili, fino alle più alte sfere istituzionali. Questa fitta rete di relazioni rispecchiava la sua naturale tendenza alla concretezza nell’agire locale, legandosi, d’altra parte, a un’interpretazione dei fatti globale e internazionale. Non a caso poi, all’inizio del 1989, di fronte alla Commissione parlamentare per le questioni regionali, traccia un importante bilancio del regionalismo italiano esordendo proprio con la dimensione europea di questo movimento[6].

Gianfranco Bartolini esprime un riformismo forte. Ancorato alla fermezza dei valori, alla fine degli anni ’80 già intravedeva un’era di crisi politica, l’assenza di grandi propositi di rinnovamento dovuta, forse in parte, anche alla paralisi delle istituzioni marchiate da un centralismo soffocante che alimentava “le diseguaglianze e il divario fra le aree del paese, aprendo varchi pesanti a larghe fasce di illegalità e a fenomeni che reclamavano la centralità della questione morale”. La libertà, affermava, non può tradursi nelle ingiustizie e nelle inefficienze che vanno mortificando l’intera società e piegando la democrazia agli interessi dei più forti.[7]

Non solo sull’economia tout-court si basava però la sua azione di governo: la difesa del suolo,[8] il regionalismo, l’autonomia statuaria, le “aree vaste” come risposta alla crisi della società toscana. Su quest’ultimo tema, affrontato per la prima volta in maniera organica in occasione del dibattito in Consiglio regionale, avviato dall’approvazione del Programma regionale di sviluppo 1988-1990, Bartolini svilupperà un’approfondita analisi sulle difficoltà che il sistema policentrico toscano stava affrontando sul piano economico. Se le strategie interne non sono più in grado di garantire le condizioni necessarie e i livelli di efficienza adeguati per attestarsi sui mercati sarà necessario “individuare nuovi ambiti, all’interno dei quali sia possibile stabilire le condizioni necessarie per annullare le diseconomie esistenti e per rilanciare il policentrismo, che è un valore nella nostra regione, ma ad una scala diversa e meno angusta, se vogliamo stimolarne il rilancio e fargli ritrovare il dinamismo del passato”. [9]

Gianfranco Bartolini muore a Firenze il 10 ottobre 1992.

Elena Gonnelli, archivista, direttrice della sezione Montecatini Terme-Monsummano dell’Istituto storico lucchese, collaboratrice dell’Istituti storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea per il quale ha curato l’inventario del fondo G. Bartolini  e la mostra “Gianfranco Bartolini: il sindacalista, l’amministratore, il Presidente”.

Note:

[1] I. Tognarini in La Toscana e il Riformismo: una riflessione a 15 anni dalla scomparsa di Gianfranco Bartolini, Associazione Autonomie Locali Legautonomie Toscana, Pisa, 2009, p. 22.

[2] G. Bartolini. Il governo regionale cit., pp. 13-15.

[3] Archivio Comunale di Fiesole, Delibere del Consiglio Comunale, Serie I, n. 44, 25/03/1964

[4] P. Ranfagni, Il coraggio della sfide, in Gianfranco Bartolini. Un uomo del popolo alla guida della Regione, a cura di P. Ranfagni, Direzione generale della Presidenza Giunta Regione Toscana, Firenze, 2014, pp. 20-24.

[5] G. Napolitano, Presentazione in G. Bartolini. Il governo regionale, a cura di M. Badii, F. Gigli, P. Ranfagni, Edizioni della Giunta Regionale, Firenze,1995, p. 14.

[6] Archivio Gianfranco Bartolini, d’ora in avanti AGB, Scritti e discorsi, b. 10, 33.14, 1989.

[7] I. Tognarini in La Toscana e il Riformismo, cit., pp. 19-28.

[8] Bartolini stigmatizzerà più di una volta la mancanza di una normativa nazionale per la difesa del suolo, lamentando in generale l’assenza dello Stato su queste tematiche, facendo particolare riferimento all’alluvione del 1966 di Firenze e la Toscana. Cfr. AGB, Scritti e discorsi, b. 8, 30.33 e 30.36, 1986.

[9] AGB, Scritti e discorsi, b. 9, 32.15, 1988. Sul concetto di “area vasta” (compresa la Firenze-Prato-Pistoia) e su quello, conseguente, della Città-metropolitana Bartolini tornò molte volte, anticipando il varo della legge 142/90.




“Hanno sparato a Togliatti!”

I fatti

14 luglio – Non appena, a Abbadia S. Salvatore, paese minerario sul Monte Amiata, si seppe dalla radio dell’attentato contro il segretario del Pci, Palmiro Togliatti, ferito a colpi di pistola all’uscita della Camera dei Deputati, si crearono assembramenti di persone. Alle 14.00, quando finì il turno dei minatori, si formò spontanea una prima manifestazione durante la quale si verificarono alcune aggressioni verbali e fisiche ai danni di ex fascisti. Seguirono un’assemblea e un comizio del segretario di zona del Pci, Domenico Cini, che addossò al governo la responsabilità politica e morale dell’accaduto. Al termine partì un corteo di varie migliaia di persone. Gli esponenti dei partiti di centro e di destra che ebbero la disavventura di trovarsi lungo il percorso furono aggrediti. Colpi di pietra mandarono in frantumi i vetri delle finestre di alcune delle loro abitazioni. Cinque di esse vennero invase e danneggiate. Gruppi di dimostranti devastarono le sedi della Dc e delle Acli, presidiarono l’ufficio postale e impedirono a chiunque di usare il telegrafo, tanto che il brigadiere dei carabinieri, per chiedere rinforzi, dovette fare ricorso al telefono della società Seat-Valdarno, ma soprattutto occuparono l’edificio di una cabina telefonica, nodo importante nel sistema nazionale delle telecomunicazioni,
Quando arrivò in paese un camion di poliziotti e di carabinieri proveniente da Chiusi, una folla ostile lo circondò. I militari furono costretti a chiudersi in caserma. L’automezzo fu messo fuori uso: gomme sgonfiate, candele asportate. Poco dopo giunse un altro camion, inviato da Siena. In questo caso gli agenti si diressero alla cabina telefonica e si asserragliarono nella sala macchine, ponendo di fatto fine all’occupazione dei dimostranti. Ma nella notte vennero tagliati due cavi, quello della Seat-Valdarno e quello fra la caserma e la cabina telefonica.

Palmiro Togliatti in ospedale dopo l'attentato

Palmiro Togliatti in ospedale dopo l’attentato

15 luglio – La mattina del 15 luglio gli accessi al paese furono messi sotto controllo da blocchi stradali fatti con tronchi e pietre. Un folto presidio venne istituito intorno alla cabina telefonica. In pratica i due contingenti di forze dell’ordine, quello nella caserma e quello nell’edificio della cabina, erano separati e senza contatti. A quel momento la situazione sembrava relativamente tranquilla. Il sindaco Gualtiero Ciani, pur condividendo in pieno i motivi della protesta, si adoperò per stemperare alcune delle situazioni di maggiore tensione. E d’altra parte i manifestanti avevano la sensazione che il paese fosse sotto il loro controllo.
Verso le 16.00 un autocarro della polizia, con a bordo sette uomini si fermò al posto di blocco eretto nei pressi dell’ospedale, su quella che era la principale via di accesso al paese. Trasportava viveri per i poliziotti e i carabinieri giunti il giorno prima, ma, agli occhi di chi vigilava il posto di blocco, si trattava comunque di uomini armati che si sarebbero aggiunti agli altri. Due agenti che scesero dal camion per rimuovere gli ostacoli furono circondati, sequestrati e portati nel bosco, in località Terrabianca. Dopo alcune ore sarebbero stati rilasciati. La tensione divenne estrema. Il camion non retrocedeva, i manifestanti neppure. Scoppiò una bomba a mano. Seguì una fitta sparatoria da entrambe le parti. La guardia Battista Carloni fu colpita al collo in modo molto grave. Morì il giorno successivo. Altri poliziotti furono feriti più lievemente. Il maresciallo, Virgilio Ranieri, che comandava il reparto, portò i feriti nel vicino ospedale. Poi tentò di raggiungere la centrale telefonica. Alcuni manifestanti lo circondarono e gli intimarono di non proseguire. Evidentemente non tornò indietro. Fu aggredito e accoltellato a morte.

16 luglio – Il 16 luglio arrivarono a Abbadia San Salvatore il parlamentare del Pci, Torquato Baglioni, e il segretario provinciale dell’Anpi, Fortunato Avanzati, che era stato comandante della Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini, per incontrare i dirigenti comunisti locali. Le direttive del partito che invitavano a far rientrare la protesta erano ormai giunte, chiare e inequivocabili, ponendo fine ad ogni incertezza. Fu deciso, insieme al sindaco, alla commissione interna della miniera, alle sezioni comunista e socialista dell’Anpi, di redigere un manifesto in cui si invitava la popolazione a riprendere il lavoro. Così avvenne, come in tutta Italia.
Nel pomeriggio le forze di polizia e l’esercito occuparono militarmente il paese, iniziando perquisizioni a tappeto e arresti di massa, seguiti spesso da pesanti percosse. Anche il sindaco venne incarcerato. Alcuni di coloro che avevano preso parte attiva allo sciopero e alla protesta cercarono rifugio nei boschi della montagna e solo dopo qualche giorno furono convinte a costituirsi.

Opuscolo del Pci sui fatti del luglio 1948 e sulla repressione che ne seguì

Opuscolo del Pci sui fatti del luglio 1948 e sulla repressione che ne seguì

La lettura
Per comprendere ciò che accadde ad Abbadia S. Salvatore
si è fatto ricorso giustamente alla ricostruzione del contesto storico e socioeconomico, si è parlato della durezza del lavoro in miniera, dei tanti disoccupati, della forte tradizione partigiana, del radicamento del Pci e, andando indietro nel tempo, del retaggio di improvvise esplosioni di violenza come durante i drammatici scontri dell’agosto 1920 fra socialisti e clericali, nonché di un ribellismo atavico delle popolazioni amiatine che, nell’Ottocento, avrebbe trovato la sua espressione nel movimento religioso di David Lazzaretti, il profeta dell’Amiata, a cui fece riferimento lo stesso Togliatti nel discorso pronunciato durante la sua visita nel 1949.
Tutti questi fattori possono effettivamente aver concorso a rendere la situazione più incandescente che altrove, ma non certo a determinare una sorta di diversità politica, se non addirittura antropologica, da cui sarebbe scaturita la perdita di vite umane.
Tenendo sullo sfondo episodi simili che si verificarono in varie parti dell’Italia del centro e del settentrione e rimanendo alla provincia di Siena, bisogna, infatti, ricordare che devastazione di sedi della Dc, posti di blocco e altre iniziative tese ad assumere il controllo del territorio si verificarono in varie zone – a Siena, il 15 luglio, ci fu una sparatoria in via Montanini nei pressi della sezione democristiana – in un clima di allarme preinsurrezionale innescato dalle rivoltellate contro Togliatti, ma predisposto da quella cortina di ferro che, dalla rottura dell’unità antifascista del 1947, era calata a dividere gli italiani in ogni parte della penisola. Una cortina che se non aveva impedito il miracolo laico della firma della Costituzione, alimentava tuttavia profonde lacerazioni organizzate anche in contrapposti gruppi semiclandestini armati. Pronti a ricorrere alle armi, gli uni se il Pci avesse conquistato il governo con le elezioni o con altri mezzi, gli altri se si fossero presentate derive parafasciste. E l’attentato a Togliatti sembrava proprio l’inizio di una di quelle.
L’innesco dei fatti di Abbadia S, Salvatore fu dunque dovuto, almeno in parte, al caso e cioè alla presenza di quella centrale telefonica di importanza strategica. Per la sua difesa vennero inviate forze di polizia – tre camion fra il pomeriggio del 14 e quello del 15 – con l’ordine di superare ogni ostacolo, mentre altrove carabinieri e poliziotti furono lasciati sulla difensiva. Per fermare l’ultimo camion – ad Abbadia la situazione è tranquilla, la controlliamo noi, gridò inutilmente una donna al posto di blocco – si verificò la sparatoria in cui fu colpita a morte di Giovan Battista Carloni e che innescò l’aggressione al maresciallo Ranieri Virgilio.
La repressione invece fu, quella sì, davvero speciale. Dura in tutta la provincia di Siena, durissima sulla montagna, venne attuata non con il criterio della ricerca delle responsabilità individuali, bensì con il metodo della selezione politica, del rastrellamento di massa, della bastonatura indiscriminata, per rispondere con una operazione di antiguerriglia in grande stile a una guerriglia appena abbozzata, per quanto con conseguenze tragiche. Ed ebbe una sanguinosa appendice: la morte del capolega Severino Meiattini, ucciso il 18 luglio dalla polizia all’interno della sede della Federterra a Siena, durante il corteo funebre di Carloni e Virgilio, con le modalità tipiche della provocazione e della vendetta.
Un’ultima notazione sulla morte di Virgilio. La questione merita una rilettura degli atti processuali. Non risulterebbero tuttavia sevizie e torture, come pure si affermò. Emerge, questo sì, che dopo l’aggressione e le coltellate il maresciallo fu lasciato per strada senza soccorso perché i manifestanti non trovarono la pietà e il coraggio di trasportarlo in ospedale, mentre i suoi commilitoni, asserragliati in caserma e nella centrale telefonica, non ne ebbero, o ritennero di non averne la possibilità. O forse neppure seppero quello che gli era accaduto.




Destini di emigrati: Yves Montand

La fama può avere mille volti e mille possono essere i motivi che spingono una persona a tentare di uscire dall’anonimato. Yves Montand (1921-1991) fu senz’altro un artista a cui la fama arrise in più di un’occasione. Il suo talento, il fervore che riversava nelle esibizioni a teatro furono la cifra di un’epoca. Artista eclettico, seppe spendersi al meglio tanto nel mondo del cinema quanto in quello della musica. Fu proprio in quest’ultimo che mosse i suoi primi passi.

Chi lo ricorda di fronte alle migliaia di persone dell’Olympia o dell’Étoile di Parigi, stenterà a credere che tutto possa aver avuto inizio sulle assi sconnesse di un vecchio granaio di Marsiglia. Eppure, nel 1938, appena diciassettenne, Yves Montand fece il suo debutto proprio di fronte a una cinquantina di operai sfiaccati da una lunga giornata di lavoro che, mentre lui si sforzava di conquistarli con brani di Charles Trenet e Maurice Chevalier, masticavano sfacciatamente arachidi e semi di girasole. Fu il primo grande successo.

Del resto lo stesso Montand proveniva dall’ambiente proletario e ne rivendicava orgogliosamente l’appartenenza. Con una particolarità: era uno sradicato. Ivo Livi, così si chiamava veramente, era italiano, figlio di emigrati italiani. Nacque a Monsummano, al tempo provincia di Lucca, oggi Pistoia. Il padre, convinto antifascista, a seguito di una spedizione punitiva che, in una sola notte lo fece cadere sotto il peso dei manganelli e assistere alla distruzione del laboratorio di scope di cui era proprietario, dato alle fiamme per ritorsione, fu costretto a partire per la Francia. Poco dopo anche Ivo, che di quella notte conserverà a lungo i bagliori del fuoco e le grida, lo raggiunse col resto della famiglia. Ma dell’attaccamento all’Italia resterà traccia nel film del regista Giuseppe De Santis Uomini e lupi e in un disco del 1963 interamente composto da brani della musica popolare italiana, tra i quali Bella ciao.

Marsiglia avrebbe dovuto essere la tappa di un lungo viaggio verso l’America. Divenne l’ultimo approdo. Qui i Livi vissero in quartieri squallidi, abitati da povera gente. Ivo, che assunse il suo nome d’arte proprio in omaggio all’origine toscana – quando la madre lo chiamava per cena, gli gridava: “Ivo, monta!”, cioè “sali in casa” – dovette adattarsi a svolgere qualsiasi tipo di mestiere: operaio di un pastificio, saldatore, persino parrucchiere.

Poi l’esibizione nel granaio e da lì l’inizio di una faticosa e brillante carriera. Dall’Alcazar di Marsiglia, il più importante teatro cittadino, ai teatri di Parigi e del mondo. Ci furono nella vita del Montand cantante incontri che indirizzarono il suo percorso artistico. Quello nel luglio 1944 con Édith Piaf, che lo volle ad aprire un suo concerto al Moulin Rouge, inizio di una collaborazione che sarebbe durata tre anni. Per lui la regina della canzone francese avrebbe scritto tre brani: La grande Cité, Mais qu’est-ce que j’ai e Il fait des…

Nel 1946 l’interpretazione di Les feuilles mortes, capolavoro del suo repertorio, tratto da una poesia di Jacques Prévert che sarebbe stata messa in musica per il film Les portes de la nuit (“Mentre Parigi dorme”). E, nello stesso anno, l’inizio del sodalizio col cantautore Francis Lemarque che per Montand scriverà testi indimenticabili come À Paris e Quand un soldat. Quest’ultimo in particolare, uscito nel 1952, in piena guerra d’Indocina, e diventato fin da subito inno all’antimilitarismo, sarà censurato per anni dalle radio francesi e farà di Montand il bersaglio prediletto dei più accaniti nazionalisti.

A rinvigorire le polemiche ci si metterà lo stesso Montand che nel 1956, a seguito della repressione in Ungheria, non rinuncerà a partire per una tournée nei paesi sovietici, più per comprendere le ragioni di un simile gesto che per mero tornaconto personale. Ritornerà deluso e amareggiato, non più disposto a battersi per un comunismo cieco e autoritario.

Infine il ritiro dalle scene nel 1968, salvo un breve ritorno negli anni Ottanta, che segnerà la fine della sua carriera di cantante. Continuerà a fare film, ma non tornerà più ad esibirsi in pubblico, se non per cause benefiche.

I gusti cambiano e pure Montand ne era consapevole quando in un’intervista del 1972 a Danièle Heymann diceva: “Un tempo esistevano compositori che si limitavano a comporre canzoni, senza interpretarle. Oggi, grazie ai congegni elettronici e ai mezzi audiovisivi, chiunque è in grado di cantare, anche chi non ha una voce particolarmente bella o chi si muove in maniera inelegante. […] Mi rendo conto, però, che doveva essere frustrante per un autore vedersi costretto ad affidare sempre le proprie canzoni ad un interprete: forse la nuova situazione è più onesta. Ma i pochi interpreti sopravvissuti non hanno più materiale su cui lavorare. Questo è il motivo fondamentale per cui ho smesso di registrare dischi e di fare spettacoli”.

Massimo Vitulano si è laureato in Lettere presso l’Università di Firenze nel 2015 con una tesi su Roberto Vecchioni. Collaboratore per “Il Tirreno” dal 2009 al 2016, è stato docente presso l’Università dell’età libera di Firenze e attualmente è insegnante di italiano presso l’Istituto tecnico “Marchi” di Pescia.




La “belva della provincia”

Il 18 dicembre 1948, ad oltre tre anni e mezzo dalla fine del secondo conflitto mondiale in Europa, la Sezione speciale della Corte d’assise di Lucca poneva la parola fine al travagliato processo contro Bruno Messori, Camillo Cerboneschi ed Erminio Barsotti, vertici e aguzzini dell’Ufficio politico investigativo della Guardia nazionale repubblicana di Lucca. Accusati di collaborazionismo, spionaggio politico-militare, arresti arbitrari, aver preso parte a rastrellamenti e inflitto a numerosi prigionieri «sevizie particolarmente efferate» – nonché, nel caso della «belva della provincia» Cerboneshi e di Messori, aver cagionato con la propria azione la morte di diversi partigiani e favoreggiatori – gli uomini dell’Upi di Lucca avevano operato in tutta la provincia (e non solo) tra il settembre 1943 e il giugno 1944, per poi seguire nel Nord Italia il trasferimento delle strutture repubblicane in ripiegamento dalla Toscana.

Solo in minima parte conosciuta, anche per l’oggettiva scarsità e in alcuni casi difficoltà di accesso alle fonti, la storia violenta di questo purtroppo efficace strumento repressivo nelle mani della Repubblica sociale italiana merita invece, in un panorama storiografico sempre più attento alla dimensione specifica e ai “molti territori” cui si sarebbe articolata la violenza fascista durante gli anni della guerra civile, un seppur breve approfondimento.

All’indomani delle convulse vicende armistiziali e dell’occupazione tedesca della Penisola, mentre il fascismo lucchese rialzava con fatica la testa, tornava infatti sulla scena l’Ufficio politico investigativo dell’86ª legione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, riorganizzato dal capo manipolo Camillo Cerboneschi. L’ufficiale, perugino di nascita (classe 1908) ma milanese d’adozione, reduce dal fronte montenegrino, era infatti sorpreso l’8 settembre 1943 in Lucchesia durante una breve licenza di convalescenza; impossibilitato a rientrare al proprio reparto, nelle settimane immediatamente successive si poneva a disposizione del locale comando germanico, riuscendo ben presto ad aggregare attorno a sé un piccolo nucleo di collaboratori e informatori avvicinati tra le fila della Milizia stessa, molti dei quali ex-squadristi o a loro volta reduci dal fronte balcanico, tragica “scuola di formazione” per alcuni tra i più violenti protagonisti della guerra civile.

Capace di accattivarsi la fiducia dell’alleato-occupante grazie alla «notevole attività nella collaborazione» e la fattiva opera delatoria, la squadra politica di Cerboneschi poteva quindi condurre nell’autunno del 1943 le prime operazioni sul campo: se da un lato le indagini si concentravano nel rilevare la presenza di prigionieri di guerra alleati evasi dai campi di concentramento, nonché soldati sbandati del Regio Esercito rifugiatisi sulle colline lucchesi – segnalando nel caso l’aiuto prestato dalla popolazione civile – dall’altro i militi riuscivano a fornire le prime informazioni sul nascente movimento resistenziale, denunciando parimenti la collusione e l’azione di sabotaggio di molti carabinieri.

Targa commemorativa apposta all'ingresso della ex-caserma di S.Agostino (Lucca), sede dell'UpiSolo con la crescente organizzazione e strutturazione sul territorio lucchese della Gnr – il cui comando, relativamente alla componente della Milizia, veniva affidato al seniore Bruno Messori – l’Upi poteva però dirsi pienamente operativo, imponendosi rapidamente quale punto di riferimento per il capo della provincia Mario Piazzesi, fautore di una dura politica di contrasto nei confronti dell’antifascismo organizzato. Nel tentativo di estorcere informazioni e confessioni altrimenti difficili da ottenere, a partire dal gennaio del 1944 i locali dell’Ufficio politico investigativo lucchese annessi alla sede del comando della Gnr presso l’ex-convento di Sant’Agostino divenivano quindi sede di efferate sevizie, inflitte con odiosa professionalità durante estenuanti interrogatori. Nei mesi successivi, dalla camera di tortura appositamente allestita, transiteranno infatti diversi favoreggiatori del movimento resistenziale e alcuni esponenti di vertice del Cln lucchese, nonché semplici cittadini accusati di dar rifugio a militari alleati o di essersi espressi sfavorevolmente nei confronti di militi repubblicani, in un crescendo di violenza – riscontrabile non solo a livello locale – coincidente con l’intensificarsi dell’attività partigiana e la conseguente erosione della capacità di controllo del territorio da parte della Repubblica fascista.

Grazie a questi brutali metodi e alle indagini condotte attraverso una fitta rete di informatori locali, l’azione dell’Upi riusciva a raggiungere importanti successi operativi: numerosi saranno infatti gli arresti direttamente imputabili all’azione dei militi dell’Ufficio, tra cui la cattura di Vittorio Monti e di Domenico Randazzo, accusati di far parte del movimento resistenziale e fucilati a Massarosa il 19 aprile 1944, nonché il ferimento a morte del partigiano Roberto Bartolozzi, caduto il successivo 29 giugno.

Con lo sfollamento delle strutture politico-militari fasciste dalla regione a seguito dell’avanzata alleata, l’Upi lucchese raggiungeva l’Emilia Romagna, sciogliendosi pochi giorni più tardi; il Comando generale della Gnr, nel tentativo di non veder dispersa la preziosa “esperienza” accumulata dagli agenti durante i mesi precedenti, ne disponeva quindi il trasferimento in altre squadre politiche attive nelle province settentrionali.

Già nei mesi successivi la liberazione di Lucca, le denunce presentate dalle numerose vittime dell’Upi innescavano il lungo procedimento giudiziario intentato contro gli uomini di Cerboneschi: appesantito da una complessa fase istruttoria e dalla contemporanea apertura, nei confronti dello stesso Cerboneschi, di ulteriori filoni di indagine a Pistoia e Como (sua ultima sede di attività), il processo poteva inaugurarsi solo il 14 dicembre 1948, colpo di coda di una stagione giudiziaria ormai al tramonto. Nei locali oggi occupati dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in provincia di Lucca, Erminio Barsotti – milite accusato delle più atroci torture – sarà l’unico a sedersi al banco degli imputati: a seguito di alcuni decessi e per l’intervenuta amnistia, le posizioni di molti imputati minori erano infatti stralciate, mentre Cerboneschi (evaso nell’aprile del 1946 dalle carceri di Como) e Messori (espatriato in Spagna) risultavano latitanti. Lo stesso Barsotti, condannato a otto anni di reclusione, vedeva interamente condonata la pena inflitta ed era immediatamente scarcerato.

Lorenzo Pera è laureato in scienze storiche presso l’Università di Pisa, ha recentemente pubblicato, presso la casa editrice dell’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia, Squadrismo in grigioverde. I battaglioni squadristi nell’occupazione balcanica (1941-1943), I.S.R.Pt, 2018.