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Il Palio e la Liberazione di Siena

Se a Siena c’è un modo per rendere omaggio ad una persona o ad evento è dedicargli un Palio. Fra tutte le dediche, quella più ricorrente, dal 1945 fino a quest’anno, è stata la Liberazione della città dal nazifascismo, avvenuta il 3 luglio 1944 ad opera delle truppe del Corpo di spedizione francese. L’iconografia del drappellone, chiamato comunemente Palio, cioè allo stesso modo della corsa di cavalli di cui è il premio, ha subito notevoli cambiamenti nel corso dei secoli. Ha tuttavia mantenuto una costante. Poiché i Palii si svolgono in onore della Madonna di Provenzano (2 luglio) e della Madonna Assunta (16 agosto), l’immagine della Vergine non può mancare e deve essere raffigurata in alto.

Fatta questa premessa, superflua per i senesi, ma non per tutti gli altri, vediamo la rassegna dei Palii dedicati alla Liberazione.

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Il sindaco Ciampolini con gli Alleati

Il 2 luglio del 1945 si tornò a far correre il Palio dopo un’ interruzione quinquennale causata dagli eventi bellici. Vinse la Lupa con Mughetto e Lorenzo Provvedi detto Renzino. Il drappellone non aveva una dedica, ma il pittore Bruno Marzi, probabilmente anche su consiglio del sindaco Carlo Ciampolini, nominato dal Cln e dalle autorità militari alleate, non poté sottrarsi ad un esplicito riferimento alla nuova stagione politica in cui cavalli e fantini tornavano a percorrere i tre giri di Piazza del Campo. Nella parte bassa del dipinto appare un drago, dalle unghie intrise di sangue e dal corpo cosparso di croci uncinate, che striscia fuori da una delle porte di Siena, trafitto a morte da una lancia con i colori francesi e statunitensi. Al di sopra, nel cielo del campanile del Duomo, sventolano le bandiere delle potenze vincitrici e il tricolore italiano. Da notare la mancanza di riferimenti al fascismo da poco abbattuto, così come alla Resistenza. Assenze che diverranno una costante nell’iconografia successiva, quasi che la dittatura, la Repubblica di Salò e la lotta partigiana contro di esse non fossero esistite.

Il 20 agosto dello stesso anno, sotto una pressione popolare che portarono alla dimissioni della giunta poi rientrate, venne organizzato un Palio straordinario per celebrare la pace. Vinse il Drago con Folco e Gioacchino Calabrò detto Rubacuori. Il pittore Dino Rofi riprese il tema delle bandiere dei vincitori a fare da sfondo e rappresentò una Nike classicheggiante che incede sicura sul globo terrestre recando in mano ramoscelli d’olivo. Come è noto ad ogni senese, mai dedica fu meno azzeccata dal punto di vista della storia paliesca. Alla fine della corsa i contradaioli del Bruco, inveleniti per non aver vinto, si impadronirono a forza di cazzotti del drappellone e lo fecero a pezzi. Poi, per riparazione, ne fecero dipingere una copia a loro spese, che finalmente venne consegnata al Drago.

Il 2 luglio del 1954 la realizzazione del drappellone fu affidata ad Enea Marroni. Vinse l’Onda con Gaudenzia e Giorgio Terzi detto Vittorino. Il pittore offrì una rappresentazione della Liberazione che qualcuno definì disneyana per la sua gioiosità un po’ fumettistica. Un sorridente vessillifero con la Balzana, stemma della città, si affaccia fra i merli del Palazzo Pubblico gettando di sotto la bandiera con la croce uncinata. In secondo piano il solito motivo delle bandiere delle potenze vincitrici, dispiegate dall’allegoria della Libertà che vola fra il Duomo, la basilica di S. Domenico e la Torre del Magia.

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Il drappellone del 2 luglio 1954

Il 2 luglio del 1964 il Palio della Liberazione lo vinse il Drago con Arianna e Giuseppe Vincenzio detto Peppinello. La realizzazione era stata affidata ad un tandem di artisti, Plinio Tammaro ed Ezio Pallai, i quali, forse memori delle critiche ricevute dal drappellone di dieci anni prima, scelsero un’interpretazione drammatica dell’evento. A simboleggiare il sangue e la sofferenza che aveva richiesto, una figura umana vista di spalle, collocata di fronte ad una porta cittadina e ad una barricata, alza le braccia verso l’immagine della Madonna, spezzando così la fitta rete metallica che la imprigiona.

Il 2 luglio del 1974, il pittore del drappellone, Enzo Bianciardi, decise di raffigurare alcuni momenti del Palio, dal corteo storico, alla corsa, all’esultanza dei contradaioli vittoriosi. Proprio quest’esultanza trascolora, in secondo piano, nella gioia dei senesi liberati dagli Alleati, come si comprende dalla data 1944 scritta su di loro. A vincere fu il Valdimontone con Pancho e Ettore Alessandri detto Bazzino.

Nel 1984 non ci fu dedica, probabilmente sotto l’influenza della cultura politica del Psi craxiano che guardava con un certo fastidio alle celebrazioni resistenziali, considerate vuote, ripetitive, lontane dallo spirito di innovazione politica e costituzionale di cui il partito si faceva interprete, e comunque troppo ad appannaggio degli alleati-concorrenti del Pci nel governo della città.

La dedica alla Liberazione tornò il 2 luglio 1994 nel palio vinto dalla Pantera con Uberto e con Massimo Coghe detto Massimino. Il pittore Leo Lionni scelse di nuovo, come tema centrale, la folla festante per la vittoria, assiepata intorno al cavallo vittorioso. La folla si confonde, sullo sfondo, con un’altra che manifesta gioiosamente per la fine della guerra, fra bandiere francesi e uno striscione rosso recante la data 1944.

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Il drappellano del 2 luglio 2014

Nel drappellone del 2 luglio del 2004, vinto dalla Giraffa con Donosu Tou (scosso) e Alberto Ricceri detto Salasso, il pittore Emanuele Luzzati realizzò invece una grande costruzione fantastica , una sorta di totem di animali tratti dagli stemmi delle Contrade e che culmina con l’immagine della Madonna circondata da teste di cavallo. In questo sogno di figure che rimandano al mondo fantastico dell’infanzia, l’unico riferimento alla Liberazione è affidato ad una scritta sull’aureola della Vergine.

Ed infine il Palio del 2 luglio 2014, vinto da Drago con Oppio e con Alberto Ricceri detto Salasso. La pittrice Rosalba Parrini ha rappresentato la Torre del Mangia, inserita da un lato fra teste di cavallo, colte nella concitazione dell’attesa fra i canapi, e dall’altro lato da un lungo nastro rosso che sostiene l’immagine della Madonna. Vicino alla Vergine una colomba, simbolo della riconquistata libertà, vola via da una gabbietta aperta. Il nastro rosso nasce in basso, da una Piazza del Campo in parte coperta dalla mappa della provincia di Siena. Sulla mappa, anch’essa di colore rosso, campeggiano alcune stelle gialle che indicano le zone in cui combatterono le formazioni partigiane. Dopo settanta anni, è il primo riferimento esplicito alla Resistenza e al suo ruolo nella Liberazione che si può leggere in un drappellone.




La liberazione di Grosseto

E’ una Resistenza breve, quella di Grosseto, primo capoluogo di provincia liberato, dopo Roma, il 15 giugno 1944. Tanto breve il tempo della lotta armata, quanto lungo il cammino dell’antifascismo, erede di una tradizione democratica pre-fascista. I fasciscoli dei sovversivi grossetani negli anni del regime documentano i percorsi dell’emigrazione politica, il confino, le presenze nella rete europea dell’antifascismo, tra Brigate internazionali in Spagna e Resistenze.

Il 9 settembre, a Grosseto, la prima riunione, interrotta da un bombardamento alleato, aveva creato le condizioni per la costituzione del Comitato di Liberazione. Ce ne consegna una vivace narrazione Aristeo Banchi, “Ganna”, uno dei protagonisti (1993). La direzione provinciale del Comitato fu di lì a poco trasferita a Casteldelpiano; infatti “la città, stremata dalle  incursioni dell’aviazione americana, era quasi spopolata, la gente sfollata, scarsi gli interlocutori”.  Questo descrive una Resistenza che ha i luoghi caldi nelle zone interne, dove le formazioni partigiane avevano le basi nelle macchie in collina e nei boschi del Monte Amiata. A determinarne i caratteri in questa subarea toscana furono, è ovvio, molti fattori, non ultimi la morfologia della zona e le grandi opzioni strategiche degli eserciti, che “fecero sentire le loro conseguenze sul territorio molto prima che esso diventasse teatro di combattimenti terrestri” (Perona, 2009).

A Grosseto operava la formazione di orientamento comunista intitolata a Vittorio Alunno, caduto nella guerra civile spagnola, a Campillo, il 17 febbraio 1938, nome-simbolo della lunga durata dell’antifascismo locale. Le sue azioni furono circoscritte al “servizio informazioni, sottrazione di armi” per le formazioni collegate al Comando Militare di Grosseto. Unica azione segnalata dalla relazione della banda, il sabotaggio di un ponte sull’Ombrone, nel maggio 1944, fino a quando, gli ultimi giorni, fu necessario proteggere dall’esercito tedesco l’acquedotto e la centrale elettrica, prima di quella che è definita “l’unica, ma epica lotta finale” del 15 giugno.

Grosseto stava sulla linea della “ritirata aggressiva” dell’esercito tedesco. Rapida tra Roma e Grosseto – la V^ armata avanzò di 140 chilometri tra 4 e 16 giugno, più lenta dopo, se “il ritmo dell’avanzata alleata venne rallentato a 30 chilometri nella settimana tra il 16 e il 23 giugno e successivamente a 30 chilometri in tre settimane” (Von Senger, Etterling, 1968). Dalla storia in buona parte già scritta della guerra ai civili ingaggiata dall’alleato occupante, ricaviamo elementi utili a rappresentare la sofferenza di un territorio che ne sperimentò la ferocia.

civili con americani

Popolazione civile e soldati alleati (AUSSME)

Ancora la relazione della Alunno fornisce notizie essenziali sugli ultimi due giorni. La notte tra 14 e 15 Ganna, assunto il comando, “consegna le armi ai patrioti e prende possesso del Comune e degli altri edifici più importanti”. La mattina del 15, SS tedesche provenienti dall’Aurelia Sud si scontrano con i partigiani e lasciano a Grosseto “sei partigiani morti, dodici morti tedeschi e trenta prigionieri” e una  bandiera bianca, orgogliosamente issata  dai grossetani per segnalare agli alleati l’avvenuta liberazione.

Le carte del CLN provinciale documentano l’immediata nascita di istituzioni democratiche con diverse componenti politiche, che non danno conto della preponderanza comunista relativa non a tutto il territorio, ma certo alla composizione del Comando militare. Fonte eccellente per contestualizzare questi accadimenti sono quattro lettere al Duce di Alessandro Pavolini, che si aggiungono alla fonte di parte tedesca, le Militar Kommandantüren, per uno sguardo incrociato sul clima di quei giorni. Nicla Capitini Maccabruni (1985) ne estrae tracce utili a inquadrare la condizione di Grosseto. Il 18 giugno Pavolini così la rappresentava “…estenuata dal mitragliamento, pervasa dal ribellismo bene armato dal nemico e favorito dal terreno con forze fasciste e repubblicane esigue, le uccisioni dei fascisti e dei militi avevano già progressivamente ridotta la zona di nostro effettivo dominio, imponendo il ripiegamento e la concentrazione delle forze. A un dato momento, sotto la spinta di ribelli in parte a carattere militare […] in parte a carattere insurrezionale e comunista, la provincia, capoluogo compreso, è caduta in mano agli avversari, e l’esodo dei fascisti e delle ultime autorità è avvenuto  [il 12 giugno]  fra aggressioni e inseguimenti”. La situazione di Grosseto nel linguaggio dello scrivente è “pessima”, con effetti di “contagio morale” verso le altre province, “lo squagliamento” dei carabinieri, di reparti dell’esercito e persino di parte della GNR, e “un acuirsi della sfiducia germanica”. Nel messaggio al Duce: il tentativo di mascherare con la speranza di una ripresa lo sfascio e la difficile relazione con i tedeschi via via che la linea del fronte arretrava. Uno dei tanti, inutili appelli al centro a soccorrere la periferia, nella cronaca dei mesi della RSI.

Singolarità grossetana fu il pieno riconoscimento del ruolo del CLN da parte dell’AMG, il rispetto di nomine e poteri delle amministrazioni. Immediata la creazione di un organo di stampa del Comitato “Etruria libera”, che riprese in parte il titolo del repubblicano “Etruria nuova”; rapido l’avvio della ricostruzione, sia istituzionale che fisica (altissimo era il numero dei senza-casa), con un impegno forte sul versante delle inchieste sui crimini fascisti e delle pratiche per l’epurazione. Accanto alle rappresentazioni del clima positivo, autentico per molti aspetti, non si possono ignorare le faticose relazioni con il governo e, in capo a pochi anni, l’attacco al Sindaco Lio Lenzi, lo scioglimento, seppure subito rientrato, del consiglio comunale, con decreto prefettizio del 20 aprile 1949 per il rinvenimento nel Palazzo comunale di armi. La legalità costituzionale e democratica, anche se faticosamente, si affermò, ma le macerie della guerra totale e le ferite della guerra civile non passarono in fretta.




12 giugno 1944: la strage di San Leopoldo

La strage di San Leopoldo, località prossima a Marina di Grosseto, è parte dei tragici eventi che accompagnarono la ritirata delle truppe germaniche lungo il litorale tirrenico, dopo la liberazione di Roma. Furono rastrellamenti, rappresaglie e azioni determinate a liberare le vie di comunicazione utili per la ritirata e colpire le formazioni partigiane. L’opera di repressione nella zona costiera fu di competenza del LXXV Corpo d’Armata tedesco. I fatti di Marina di Grosseto furono preceduti dalla strage di Roccalbegna, l’11 giugno, da rastrellamenti nella zona di Castiglione della Pescaia e nella frazione di Buriano, dove i tedeschi intendevano far terra bruciata intorno alla banda “Gruppo Tirli” del “Raggruppamento Monte Amiata”.

Casa sfollati

Casa delle famiglie sfollate a San Leopoldo

La mattina del 12 giugno 1944 un graduato e due militari tedeschi, incaricati di minare e far saltare il ponte sulla Fiumara di San Leopoldo, si recarono presso il casello del genio civile, dove viveva la famiglia del responsabile Fortunato Falzini. Sul posto si trovava anche una famiglia di sfollati, quella dei Lari, mentre a poca distanza vi era il podere dei Botarelli. I tedeschi gli ordinarono l’allontanamento dalla zona, malgrado   un regolare permesso di residenza per il controllo del livello delle acque che gli era stato concesso da un ufficiale tedesco. Difficile capire come la situazione degenerò. Secondo la ricostruzione del prefetto di Grosseto Amato Mati del 14 giugno 1945, i tedeschi aprirono il fuoco e uccisero Falzini e Giuseppe e Livio  Botarelli, padre e figlio. Al rumore degli spari, altri  tentarono la fuga lungo l’argine ma furono ugualmente colpiti: Olga e Giancarlo Lari, madre e figlio, uccisi sul posto, Roma Madioni, deceduta qualche giorno dopo per le ferite. Sopravvisse un altro ferito, Armando Lari, che aveva cercato scampo all’interno di una botola. Nel complesso furono sei le vittime civili. Ma non è questa l’unica versione che ci consegnano le carte. La relazione stilata dal sindaco di Grosseto Lio Lenzi il 22 luglio 1944 descrive un rastrellamento di reparti di SS, arrivate lì per minare il ponte sulla chiusa e poi la visita nella casa di Botarelli, dove l’avrebbero ucciso dopo aver mangiato e bevuto.

Cisterna dove sarebbero state uccise 5 persone da una bomba a mano lanciata dai tedeschi

Le altre cinque vittime sarebbero state uccise da una bomba a mano, gettata nella cisterna sotterranea dove avrebbero cercato rifugio, terrorizzate dalla morte di Botarelli. I morti furono seppelliti nell’argine del fossato di San Giovanni, mentre i feriti furono curati sul posto da un milite della CRI, a Grosseto prima di esser trasferiti. Al di là dell’esatta ricostruzione dei fatti, la presenza di civili sul posto fu probabilmente interpretata dai militari come trasgressione all’ordine di sfollamento della zona per ragioni strategiche. Dall’ottobre 1943, su dirette disposizioni di Hitler, era stata infatti disposta l’evacuazione della popolazione costiera per una profondità di 5 Km nel tratto Livorno-Napoli, per motivi strategico-militari. I civili dovevano lasciare il posto alle forze tedesche, perché fosse approntata la linea di difesa costiera utile a fronteggiare l’eventuale sbarco degli Alleati.

Nel caso di San Leopoldo, nell’unica ricostruzione storica finora pubblicata (Fulvetti, 2009), l’elemento scatenante la violenza potrebbe essere stato l’eccessivo numero di persone riparate presso il casello. Rimase e rimane tuttora ignota l’identità dei militari tedeschi autori della strage. Tra i familiari delle vittime, subito dopo la Liberazione, cominciarono a circolare accuse di complicità nei confronti di alcuni fascisti locali: otto persone, sospettate di aver sollecitato l’eccidio, ma prosciolte in istruttoria per l’impossibilità di avvalorare tali sospetti con elementi concreti.

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Particolare della lapide in memoria delle vittime, collocata nei pressi del pattinodromo di Marina di Grosseto

Se solo da alcuni anni questo frammento di storia è riemerso ed entrato nella memoria collettiva ufficiale, mentre era solo patrimonio di ricordi di singoli, testimoni diretti o indiretti, è certo a causa dell’assenza del percorso della giustizia, esito processuale dell’istruttoria. Quanto alla storiografia, poco o nulla era stato scritto nell’ambito degli importanti studi sulle stragi nazifasciste in Toscana, che ci sono stati consegnati dal gruppo di specialisti dell’Università di Pisa e da quanti furono coinvolti dalla Regione Toscana nell’attuazione di una legge (“Per salvare la memoria delle stragi nazifasciste in Toscana”). Uno straordinario vuoto di fonti scritte ha ostacolato le insistenti ricerche, promosse dall’Istituto storico grossetano e sollecitate anche dal Comune di Grosseto. A lungo nulla è emerso dalle carte del Comitato di Liberazione nazionale, nulla dalla corposa documentazione presente nell’Archivio di Stato su fascismo, guerra e Resistenza. Solo fascicoli personali dei sospettati, frutto della prima istruttoria del CLN grossetano, hanno fatto una prima luce sull’accaduto, lasciando però insoddisfatto il desiderio di giungere a una cronaca certa e a una definitiva interpretazione delle responsabilità, dirette e indirette.

La lapide sul luogo della strage

La lapide in memoria delle vittime sul luogo della strage

Rimane indiscutibile il quadro interpretativo generale: la strategia deliberatamente attuata in applicazione delle direttive dei Comandi tedeschi ha lasciato una scia di sangue anche a San Leopoldo, alla vigilia della Liberazione della città di Grosseto, avvenuta tre giorni dopo, quando ormai le autorità civili e militari fasciste l’avevano abbandonata.

Il progetto nazionale di Atlante delle stragi nazifasciste, ormai in fase conclusiva, rivela qui un sovrappiù di utilità. Si aggiungerà alla restituzione di memoria che si è tradotta da qualche anno in un cippo e nel 71° anniversario della strage, in un pannello che trasformerà finalmente la Chiusa di San Leopoldo in un luogo da inserire tra gli itinerari della memoria.




Firenze davanti alla guerra

Dal 2 agosto 1914 al 24 maggio 1915 le manifestazioni a favore e contro la guerra si distinsero a Firenze per tre elementi: un progressivo intensificarsi della violenza, un continuo ripetersi e una larga diffusione nel tessuto cittadino.

Il fronte interventista era ben radicato tra la borghesia, una parte dell’aristocrazia e una folta schiera di intellettuali e personalità pubbliche. A dicembre il gruppo nazionalista rinunciò addirittura alla campagna elettorale delle elezioni comunali per dedicarsi esclusivamente alla propaganda interventista «per agitare e tener desto con comizi, conferenze, dimostrazioni lo spirito pubblico contro i neutralisti di ogni colore. […]”». Sul fronte opposto il neutralismo si radicò profondamente nelle zone popolari ad alta concentrazione operaia, come San Frediano, Porta alla Croce, S. Lorenzo, S. Spirito.

I loggiati di piazza Vittorio Emanuele (oggi piazza della Repubblica) divennero, secondo “Il Nuovo Giornale”, «la palestra più comoda per le diatribe fra neutralisti e interventisti».

1. Equilibrio_europeo_1914Nonostante l’imposizione salandrina di tenere comizi “privati” con invito in modo da evitare manifestazioni in luoghi pubblici e, dunque, disordini, questi scoppiavano lo stesso all’uscita di  tali ritrovi. Così accadde dopo una conferenza del professor Della Torre sul poeta e pubblicista dalmata Arturo Colautti. I partecipanti, in maggioranza studenti, si recarono in piazza Duomo cantando l’inno di Mameli e inneggiando alla guerra. L’urto con i socialisti «si tradusse in una vera e propria battaglia a colpi di bastone, pugni e calci». Dopo ripetute cariche, disposti i cordoni di truppa, e eseguiti alcuni arresti la situazione tornò lentamente alla normalità [ACS, MI, DGPS, DAGR, A5G, b. 94, f. 212 (Firenze), sf. 1, rapporto del Prefetto Cioja, 1-12-1914].

Talora furono i giornali oggetto di violenze popolari. All’uscita della conferenza dell’ex podestà di Fiume Icilio Baccich nel salone dell’Unione liberale a cui avevano partecipato circa 400 uditori, tra cui molte personalità pubbliche cittadine, alcuni di questi si recarono sotto «La Nazione», la cui redazione fu circondata e presa d’assalto, quasi in un improvviso chiarivari.  L’urto con la polizia e «plotoni di guardie e di carabinieri» si consumò in piazza Vittorio Emanuele, con numerose cariche delle forze dell’ordine e arresti di massa, tra cui quello di Francesco Giunta e Ezio Maria Gray, future personalità di spicco fasciste, e del giornalista del «Nuovo Giornale», Orazio Pedrazzi, che descrisse l’esperienza drammatica dell’arresto e della camera di sicurezza. Alla vista dei fermi, una signora plaudì all’azione della polizia provocando la reazione dell’avvocato Eugenio Coselschi – futuro creatore dei CAUR fascisti – che la accusò di essere tedesca, mentre la folla invase la birreria «Mucke» al suono dell’inno di Mameli causando altre colluttazioni e altri arresti fino a mezzanotte.

A partire dalla primavera gli scontri si fecero sempre più frequenti, spontanei e gravi (anche per la diffusa detenzione delle armi) e si allargarono ad altre parti della città. La commemorazione della partenza dei Mille fu un nuovo pretesto per altri disordini: il 6 maggio gli studenti dell’istituto tecnico Galileo Galilei imposero l’esposizione della bandiera e la sospensione delle lezioni prima nel loro istituto poi in altri.

3. cpc terzaghiIl 17 maggio «La Nazione» scriveva»: «[…] le dimostrazioni patriottiche non si contano più. Ad ogni momento echeggiano in piazza Vittorio Emanuele, che è affollatissima, applausi e grida entusiastiche. Vengono lanciati palloncini con appese bandierine tricolori». In quei giorni il ministro delle Colonie, Martini, annotava sul suo diario: «se non ci sarà la guerra esterna ci sarà la guerra civile» e la stampa si chiedeva: «si va dunque alla guerra contro lo straniero o alla guerra civile?».

Anche gli atti vandalici o offensivi nei confronti di cittadini tedeschi (o presunti tali) o contro tutto ciò che era riconducibile alla Germania e all’Austria vanno letti alla luce di un dissenso verso la guerra, anche trasversale ai due opposti schieramenti: fu danneggiata una farmacia di proprietà di tale Hans Klatzsch (o Klotzsch) [ACS, MI, DGPS, Ufficio riservato 1911-1915 C. 2, b. 83A, consultato in copia presso ISRT, Nota della prefettura di Firenze, 22-8-1914]; alla stazione alcune famiglie di tedeschi furono prese di mira da studenti che fecero una dimostrazione patriottica creando tafferugli bloccati dalle forze dell’ordine; il signor Carlo Strauss fu oggetto di un incidente e tacciato di essere una spia; il console tedesco Oswald fu inseguito da un gruppo di interventisti al grido «Va fuori d’Italia, va fuori straniero!»; alcuni studenti ruppero il vetro dell’ufficio Loyd germanico che esponeva nelle vetrine telegrammi provenienti da Berlino e fotografie di soldati tedeschi [ACS, MI, DGPS, DAGR, A5G, b. 96, f. 212 (Firenze), sf. 10, ins. 1, rapporto del prefetto Cioja, 21-3-1915].

Le autorità pubbliche controllarono in modo ferreo Firenze e la sua provincia, soprattutto i gruppi di socialisti (per esempio Michele Terzaghi o il giornale socialista «La Difesa») e gli anarchici (soprattutto a Empoli e Montelupo), ma la miccia era ormai innescata.

5. gambrinusIl musicista Castelnuovo-Tedesco, cui era stato dato l’incarico di scrivere il canto patriottico Fuori i barbari!, in un suo libro di memorie avrebbe ricordato la sera della vigilia così: «Quando lo suonai quella sera in casa Corcos, suscitò l’entusiasmo generale; Ugo e i Rotigliano mi trascinarono fuori, mi portarono in piazza Vittorio Emanuele; al Caffè Gambrinus, dove ogni sera si adunavano i dimostranti, cacciarono l’innocua orchestrina del caffè che stava suonando, e mi misero lì, sopra un palco, al pianoforte, ad insegnare il canto alla folla! Era il 23 maggio 1915, proprio alla vigilia della dichiarazione di guerra: il giorno dopo l’Italia entrava in guerra a fianco degli Alleati, e poche settimane dopo i soldati cantavano il mio inno marciando verso le trincee».

Camilla Poesio ha conseguito il dottorato di ricerca nel 2009 presso l’Università Ca’ Foscari Venezia. Ha ricevuto due premi per la tesi di dottorato e una segnalazione per il suo secondo libro. È attualmente ricercatrice post dottorato presso l’Università Ca’ Foscari Venezia in cooperazione con la Fritz Thyssen Stiftung fino al 2016. Ha svolto attività di ricerca presso enti di ricerca pubblici e privati sia in Italia sia all’estero (Università Ca’ Foscari, Universität Bielefeld, Frei Universität Berlin, Fondazione Salvatorelli, Deutsches Historisches Institut in Rom). I suoi ambiti di ricerca sono la storia dell’Italia e della Germania del XX secolo in prospettiva comparata e transnazionale, i rapporti fra fascismo italiano e nazismo, i diritti umani, l’uso della violenza, la memoria pubblica e privata. Ha scritto il capitolo su Firenze e Provincia nel volume curato da Fulvio Cammarano, Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia, Le Monnier, Firenze, 2015.




La primavera del 1915 a Livorno

Per tutto l’autunno del 1914 e l’inverno successivo a Livorno non si erano tenute iniziative in piazza sulla guerra. Con la primavera del 1915 le cose cambiarono: furono le prime iniziative interventiste a suscitare un cambio di passo anche nella propaganda neutralista, provocando un gioco di botta e risposta che animò il dibattito cittadino.

A inizio aprile «Il Telegrafo» dava l’annuncio della formazione di un gruppo nazionalista livornese con oltre 100 soci; pochi giorni dopo gli anarchici riempivano l’Ardenza di manifesti contro la guerra. L’11 venne organizzata una dimostrazione pubblica a favore dell’intervento in cui avrebbe dovuto partecipare Peppino Garibaldi, nipote dell’eroe dei due mondi. I socialisti invitarono la «Livorno proletaria» a intervenire in massa per far «sentire e capire da qual parte sia la maggioranza». L’illustre ospite non venne e l’iniziativa si limitò a una riunione privata nella sede dei repubblicani; ciò non evitò che per strada si creassero incidenti tra interventisti e neutralisti, con una larga eco nella stampa locale. Socialisti e anarchici fecero stampare immediatamente volantini contro la guerra raffiguranti le vignette di Scalarini pubblicate sull’«Avanti!»; un tipografo che distribuiva tale materiale (e che probabilmente lo aveva anche prodotto) fu arrestato.

Nel frattempo alcuni dissidi interni agitavano il Partito socialista locale. Il 27 aprile in un’assemblea nella sede centrale «si portò in votazione la proposta di espulsione di quei socialisti ufficiali che avessero manifestato sentimenti interventisti. Tale proposta fu respinta dopo lunga discussione con 47 voti contro 17». Il giorno seguente la Camera del Lavoro, a maggioranza repubblicana, decise di respingere la proposta di sciopero generale in caso di entrata in guerra dell’Italia, lasciando ogni iscritto di decidere secondo coscienza.

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Casa del Soldato a Livorno durante la prima guerra mondiale

A inizio maggio ripresero le iniziative contro la guerra, a partire dal grande comizio del 1º maggio alla pineta di Ardenza, e la dimensione pubblica assunse nuovi connotati: una conferenza tenuta il 9 nella sezione socialista di Borgo S. Jacopo vide l’intervento delle forze dell’ordine per rimuovere dei cartelli contro la guerra esposti fuori del locale. Tuttavia il fronte favorevole all’intervento sembrava aver preso una forza che prima non aveva. La commemorazione cittadina della resistenza all’attacco austriaco del 10 e 11 maggio 1849 assunse connotati interventisti, come sottolinearono i quotidiani locali; il 13 maggio la festa dell’Ascensione fu celebrata dal vescovo alla presenza di «molti soldati, specialmente bersaglieri», con una funzione speciale a favore della pace e della patria, in cui si dava la disponibilità ad appoggiare un eventuale ingresso in guerra.

Le dimissioni di Salandra furono anche per Livorno la vera prova di forza per gli schieramenti in campo. Dopo che le manifestazioni interventiste promosse dagli studenti nel pomeriggio del 14 erano andate deserte, i neutralisti si riunirono per impedire una nuova dimostrazione che si doveva tenere la sera. Furono le forze dell’ordine ad assicurare l’agibilità allo schieramento favorevole alla guerra: le persone arrestate quella sera furono 34.

Il 15 maggio «innumerevoli manifestini, distribuiti con grande larghezza, invitavano i neutralisti a riunirsi [il giorno dopo] alle 10 in piazza Mazzini. […] Data la gravità degli incidenti avvenuti l’altra sera, l’autorità politica aveva preso grandi misure di precauzione. Dentro il Cantiere Orlando era una compagnia di soldati agli ordini di un maggiore. In piazza, una quantità di agenti e di carabinieri»: «furono subito predisposti occorrenti servizi di P.S. per impedire assolutamente [il comizio e il corteo], servizi che raggiunsero lo scopo trattenendo dall’intervenirvi gran parte dei neutralisti». Un centinaio di persone riuscì comunque a radunarsi in piazza Mazzini, mentre alcuni cartelloni colorati venivano innalzati fra i dimostranti. Otto gli arrestati, giudicati per direttissima.

Lo stesso giorno, all’Ardenza, gli anarchici avevano organizzato un comizio con il pisano Virgilio Mazzoni: «all’uscita si tentò di formare un corteo di circa duecento persone che gridando: Abbasso la guerra!, viva il socialismo!, viva la rivoluzione!, si dirigeva in via del Littorale. […] Avvennero varie collutazioni tra le guardie di P.S. e i cittadini: vennero scagliati dei sassi che colpirono tre guardie e un carabiniere». Quattro gli arresti. «Anche a Montenero, sulla piazza del Santuario, venne tenuto un comizio in senso neutralista, dopo il quale avvennero dei disordini non gravi. L’intervento dei carabinieri valse a far ritornare la calma tra i pochi intervenuti».

Questi episodi furono gli ultimi tentativi dei neutralisti livornesi di far sentire la propria voce in piazza di fronte all’imminente ingresso nel conflitto europeo. La decisa e probabilmente inaspettata reazione delle forze dell’ordine, più che il limitato confronto in piazza con gli interventisti, raffreddò gli intenti di socialisti e anarchici, già fiaccati dai dissidi interni. Il 18 maggio una grande manifestazione a favore della guerra si svolse senza alcun incidente; solo in serata, alcuni sassi furono lanciati alle finestre del «Corriere di Livorno», promotore delle dimostrazioni. I comizi neutralisti organizzati presso le sedi socialiste e anarchiche per il 20 maggio registrarono infine una partecipazione esigua: anche la voglia di ritrovarsi al chiuso, per discutere di cosa stava succedendo, sembrava essere venuta meno.

[L’articolo è tratto dal saggio dell’autore dedicato a Livorno, in Fulvio Cammarano (a cura di), Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia, Le Monnier, Firenze 2015, pp. 459-469]

*Stefano Gallo è assegnista di ricerca presso l’ISSM-CNR di Napoli. Il suo principale campo di ricerca è la storia delle migrazioni e del lavoro, ma si dedica anche alle vicende della Seconda guerra mondiale e della Resistenza. Collabora con l’Istoreco di Livorno, per il quale sta conducendo una ricerca sulla storia della Resistenza, ed è socio fondatore della SISLav (Società Italiana di Storia del Lavoro), di cui copre attualmente il ruolo di segretario coordinatore.




L’esame di maturità in tempo di guerra

Primavera-estate 1944. Una fanciulla sta preparando gli esami di maturità. Si chiama Maria Mazzei e non ha ancora diciott’anni. Appartiene a un’antica famiglia fiorentina, una famiglia di intellettuali e di studiosi. Maria invece non ha molta voglia di studiare, è vivace, romantica e sognatrice. E come tante ragazze della sua età si confida a un diario, dove il suo stato d’animo oscilla fra lo sgomento per quanto sta accadendo e un’incontenibile gioia di vivere. In sottofondo, sempre, la preoccupazione per l’esame che incombe.
Mentre lei si affanna sui libri il mondo sta andando a ferro e fuoco. La guerra travolge uomini e cose e Maria si rende conto che il suo tempo di bambina è finito.

14 aprile ‘44 Fonterutoli [Il borgo e la villa di Fonterutoli, antica proprietà della famiglia Mazzei, sono situati 5 km a sud di Castellina in Chianti.]
Sono tornata ora da Firenze in macchina perché ieri hanno fatto scendere i passeggeri dalla Sita per i mitragliamenti. Ho finito la scuola. Mi hanno interrogata, sono passata e ora mi accingo a provare a fare l’esame di III liceo.

23 aprile ‘44
Ieri c’è stato un gran passaggio di apparecchi per due ore. Ero in giardino, mamma era in terrazza con la Viola che le insegnava a filare la lana. Ho guardato in su, dal giardino verso casa, in terrazza una vecchina ricurva alzava le braccia “segnando” il cielo con una croce, era la Viola che “contraddiceva gli aeroplani”.

25 aprile ‘44
Mio fratello Lapo, andato a Firenze ieri sera, è stato rispedito da papà a tutto razzo. Ieri alle 5 ½ di mattina hanno perquisito tutta la casa, si sono confusi visto la conformazione di casa nostra e non sono andati né in dispensa né in camera della nonna. Cercavano le armi. Dunque naturalmente niente esame a Firenze, è pericoloso, non rimane che dare gli esami a Siena ma dicono che i professori sono pestiferi. La leggenda racconta che il prof. di Storia fa dire “tutti i Papi all’indietrina” da oggi al Medio Evo.

2 maggio ‘44
Hanno bombardato Firenze. È stato tremendo, il villino Passerini raso al suolo. Patrizia Passerini e la nonna sono morte, Giovannella ferita alle gambe. Il Teatro Comunale è in fiamme, tutta un’epoca della nostra vita felice che è passata. Tutto questo non finirà mai. Ogni giorno ce n’è una nuova! Devo studiare. Potessi passare ora, così alla scuola non ci penserei più!

4 maggio ‘44
Sto studiando Rousseau, devo leggere l’Émile. Fra una settimana a quest’ora avrò già fatto gli esami. Non so proprio come farò, non so niente, possibile in così pochi giorni!

21 maggio ‘44
Sono tornata ieri dal primo gruppo di esami. Greco e latino malissimo. Italiano e storia dell’arte molto bene. Ho dormito alla pensione Ravizza con Nanda Russo. Non ho punta voglia di studiare ancora fino a martedì.

27 maggio ‘44
C’è stato un mitragliamento al Trogolo [Fonte dell’acqua potabile]. Ero in giardino con la signora Foà che mi da ripetizioni di matematica. Eravamo sotto il pergolato alle scalette quando abbiamo visto degli aeroplani arrivare da dietro la Monsanese, in quel momento passavano due camion. “Vai, questi sono fritti” abbiamo detto la signora Foà ed io. Gli aerei giravano e uno è venuto proprio in linea diretta sul Trogolo. Ci siamo schiacciate per terra tra i due muriccioli, si sentiva “ta ta ta” fortissimo e secco secco. Appena finita la prima scarica siamo andate nella “stanza dei fiori”, poi c’è stata un’altra raffica.
I camion erano pieni di sfollati che hanno fatto in tempo a buttarsi giù nei cespugli. Nessun ferito. Pensare che c’erano due donne a prendere l’acqua, diversi bambini e gli uomini a lavorare nei campi. La gente urlava. Io ero piuttosto calma, poi vedendo la signora Foà agitata mi sono agitata anch’io.

4 giugno ‘44
Roma è stata liberata. Dopo Roma ci siamo noi. Allora, o è la tragedia, o la libertà!
Cosa succederà? Cos’è questa vita? Un susseguirsi di avvenimenti vuoti. Gente che si muove, che si accanisce per un capriccio, per egoismo. E io rimango qui muta a sognare. Oddio, sono partita per il fantastico paese dei castelli di Spagna! Anche col più grande temporale questi castelli non cadono, si affievoliscono forse, ma c’è un luogo della nostra mente dove, tra le nuvole, si erigono sempre guglie e torri altissime.

Congedo16 giugno ‘44
Gli alleati sono sbarcati in Francia ma non accenna per niente a finire. Non finirà mai e si sente una grande tristezza e stanchezza. É il tocco, a mezzanotte circa hanno mitragliato, qui alla strada di sopra. E due! Speriamo di passare la notte liscia.

8 giugno ‘44
Siamo tutti molto agitati. Non sappiamo se andare a Firenze o stare qui. Prepariamo bauli e bagagli. Mi sembra la partenza dei Rostov da Mosca [Il riferimento è al romanzo “Guerra e pace” di Lev Tolstoj]. I tedeschi requisiscono tutto. Tutti hanno un viso lungo e sconcertato. Noi tre meno. Io mi diverto, mi pare di leggere un libro di cui non posso leggere l’ultima pagina!

11 giugno ‘44
Siamo sfollati a Monteporcini con tutta Fonterutoli. Non si può uscire. Nei boschi ci sono prigionieri inglesi scappati e ronde tedesche.

13 giugno ‘44
Lapo è andato a Castellina a cavallo, a Malafrasca è stato fermato, gli hanno detto di tornare indietro perché i tedeschi facevano le retate, è tornato a tutto galoppo.

14 giugno ‘44
Sono tornata da Siena dove sono andata per gli esami. Storia e filosofia male, mi hanno chiesto tutto indietro! A matematica, fisica e chimica mi sono ritirata perché non ero abbastanza preparata, specialmente in meccanica e chimica.
Stamani sono andata in giardino come sempre quando lo studio è lontano mille miglia. Ho tagliato i fiori secchi e fatto i vasi in tavola. Dopo essere stata a contatto con la città, coi professori, con i fascisti, si apprezza cento volte di più una bella rosa e un bel cavallo sotto un cielo azzurro.
La cavalla nuova è realmente molto bella, si chiama Maila. Mi sento molto abbacchiata, come un senso di giovinezza che sfugge. Che stupida! Ho una gran voglia di rose, musica, primavera, cavalli. Tutto questo è molto romantico, ma chi è il giovane che non è romantico?

26 giugno ‘44 – Siena
Siamo sfollate la nonna, mamma, Fioretta e io, in casa Piccolomini in via del Capitano.

Congedo23 luglio ‘44
Stamani alle sette sono arrivati i “liberatori”. Eravamo a letto e abbiamo sentito un gran battimano, ci siamo affacciati alle finestre, abbiamo visto quattro carri armati con gli americani, poi i partigiani in borghese con una fascia tricolore al braccio. I senesi hanno tirato fuori le bandiere del Palio. Stanotte si era sentita una gran sparatoria di cannoni e proiettili che fischiavano sulla testa. È passato anche il famoso aeroplano che chiamano la Vedova, che ha ispezionato vicino al Duomo. Le truppe sono quasi tutte francesi e marocchine.

4 luglio ‘44
Le truppe aumentano, ce ne sono di tutti i colori, col turbante bianco, marocchini, negri.

16 luglio ‘44
Ieri finalmente sono venuti da Fonterutoli papà e Lapo. La casa è in buona parte distrutta. Non rimangono che il salotto verde e la cucina. La facciata è cascata e le camere sprofondate. Dall’ingresso si vede il cielo. La chiesa ha subito più o meno la stessa sorte, così la fattoria e le case intorno. Tutto il paese sfollato a Monteporcini è stato nel rifugio per 14 giorni con cannoneggiamento continuo. Ma il tremendo è che tutto è minato, non si può fare un passo. Il Bruni, marito della Leontina, alla Fonte vicino all’orto è uscito un attimo fuori strada e una mina gli ha portato via una gamba. Tullio, Nello e altri uomini sono stati portati via dai tedeschi. La cavalla Maila è stata portata via e Stellino è morto di fame. Lapo voleva cercarlo ma un ufficiale francese gliel’ha impedito per via delle mine.
La linea di resistenza era tra Fonterutoli – Vagliagli – Brolio. È tremenda l’idea di tornare lassù e dover ricostruire. Poter andare lontano, in un paese dove la guerra non esiste, dove tutto è calma e tranquillità. Dimenticare tutto, addormentarsi, svegliarsi e ritrovare tutto come prima.

18 luglio ‘44
Ieri sono venute a trovarmi la Lucia ed Enzina raccontandomi tutte le storie di Fonterutoli.
Ormai questa è una vita che bisogna prendere con coraggio, conservare la propria dignità mantenendosi nelle disgrazie allegri, calmi e sereni in barba a tutti. Solo così si riprendono energie. “Non bisogna rimanere dei pulcini quando ci vogliono delle aquile” (Padre Crawley).

28 luglio ‘44
Sono ancora a Siena in casa Piccolomini. Gira la voce che sia stato trovato vicino a Livorno il corpo di Franco Stucchi. Non è possibile che Franco sia morto, era così poco maturo per la morte! Prima o poi lo vedremo tornate in via Santa Monaca o a Fonterutoli. L’ultima volta che è venuto a Fonte ha detto, riguardo a non so cosa: “Ché, ho scampato anche questa, sono troppo pelle dura!”.
Con questo è finita la vita di bambina beata dalla testa ricciuta, tempo felice e spensierato!

1 agosto ‘44 – Petraglia
Sono qui da Carlo e Giulia, c’è tranquillità per… studiare. Ma naturalmente ne ho pochissima voglia.
11 agosto ’44
È passato Francesco Griccioli – partigiano. Ci ha detto che Giovannella Passerini è morta di setticemia per le ferite del bombardamento.

28 agosto ’44
Lapo è venuto a prendermi. Stasera torno a Fonterutoli. Non ho proprio voglia di studiare. Mercoledì devo andare a Siena per la lezione.

24 settembre ’44 – Fonterutoli
Ieri è tornato Lapo da Firenze. C’è una gran fame, non si trova niente.
Si comincia ad avere notizie degli amici. Anche Diamante deve dare gli esami. Come vorrei che questi giorni fossero passati, ancora due settimane, è un’agonia sempre più lenta ma poi farò zompi fino al soffitto se sarò passata.

9 ottobre ‘44
Stamani ho fatto l’esame. Filosofia benino. Scienze male, il prof. ha scritto col lapis 4, poi lo ha cancellato e ha detto: vedremo. Matematica appena appena la sufficienza. Giovedì ci sarà greco.
Abbiamo avuto finalmente notizie degli zii e cugini. Tutti salvi.

14 ottobre ‘44
Ieri ho finito i miei esami. Fossi passata! Chissà… Ho qualche speranza. Oggi comincio la mia vita di libertà!

18 ottobre ‘44
Ripenso alle persone care che questa guerra si è portata via. Hanno trovato il corpo di Franco fucilato vicino a Volterra [Franco Stucchi Prinetti, partigiano, è stato fucilato dai tedeschi a Castelnuovo Val di Cecina il 14 giugno 1944 insieme al cugino Gianluca Spinola e ai due ex soldati Vittorio Vargiu e Francesco Piredda]. Anche Sandra Settepassi, mia compagna di banco al ginnasio, è morta “proditoriamente uccisa dai tedeschi con altre donne e bambini per una rappresaglia” [Sandra Settepassi è una delle 174 vittime dell’eccidio del Padule di Fucecchio (23 agosto 1944)], così era scritto sul giornale. Giovannella Passerini quando era a Fonterutoli diceva sempre che aveva paura dei bombardamenti e scherzando diceva che se moriva sarebbe venuta a farci visita come fantasma, la sera. Mio cugino Franco Fabbricotti è morto pochi mesi dopo il ritorno dalla prigionia in Germania, per meningite tubercolare.

19 ottobre ‘44
Sono passata, sono matura! Io, non andare più a scuola. Compio diciotto anni tra due mesi. Sono libera! Sono qualcuno! Ma tutto questo si perde nel nulla, nel tran tran dell’universo.




Gli anarchici apuani di fronte alla Grande Guerra

Nelle settimane precedenti allo scoppio del conflitto mondiale i rapporti fra le forze della sinistra avevano assunto nella provincia apuana caratteri di vero e proprio antagonismo. Nel continuo gioco di contrasti e di ricomposizione delle alleanze che attraversava da anni l’organizzazione operaia, il ‘blocco rosso’ aveva infatti conosciuto una spiccata curvatura antisocialista, complici alcuni avvenimenti che avevano finito per alimentare tensioni fra le diverse tendenze fino a ridurne il potenziale sovversivo temuto dalle autorità. I sospetti di un larvato supporto degli anarchici al trionfo repubblicano nel voto comunale di Carrara del luglio 1914 si erano saldati con l’eco di furibonde accuse di parte socialista in occasione dell’elezione a deputato del repubblicano Eugenio Chiesa, impostosi nel novembre del ’13 per poche schede sul leader del PSI massese Francesco Betti. Sommate alla crescente insofferenza verso gli eccessi sindacalisti dell’anarchico Alberto Meschi, che con la Camera del lavoro carrarese era stato fra i protagonisti del congresso fondativo dell’USI del 1912, le polemiche elettorali contribuirono così a determinare nella calda estate del ’14 una dolorosa scissione nel movimento operaio con la creazione a Massa di un nuovo organismo camerale confederale da parte dei socialisti. I contrasti fra gli scissionisti da un lato e gli anarchici e i repubblicani dall’altro, sfociati in diversi casi in scontri anche mortali, non si attenuarono neppure di fronte ai problemi sollevati dall’avvento della guerra, con la prosecuzione fino al termine dell’anno di feroci dispute. Una scia di risentimenti che si saldava con la pesantissima crisi di un settore come quello marmifero che da luglio dovette fare i conti anche con il blocco dei commerci prodotto dal conflitto, capace di mettere in ginocchio l’economia di una realtà dipendente per intero dalle attività estrattive.

Se all’annuncio della dichiarazione di guerra austriaca tali divisioni non impedirono la convocazione a Carrara di un «grande comizio contro la guerra» su basi unitarie in cui il sindaco Eumene Fontana intervenne con il compagno di partito Edgardo Starnuti, il socialista Alberto Malatesta, il sindacalista Tullio Masotti e Meschi, la mobilitazione dei primi giorni costituì comunque un episodio isolato e fino all’anno nuovo seguì  una sostanziale stasi di iniziative pubbliche di segno antinterventista.

Dopo il consolidarsi della dichiarazione governativa di neutralità (3 agosto), la conseguente separazione dal campo dei contrari alla guerra dell’interventismo di sinistra si materializzò localmente nella torsione verso l’intervento dell’intero stato maggiore repubblicano: sulla scia del deputato Chiesa l’amministrazione comunale si associò senza incertezze alla posizione sancita dai vertici del partito. Gli anarchici dal canto loro tardarono a costruire iniziative spiccatamente antinterventiste e apparvero impegnati in maggior misura in azioni contro la gravissima crisi economica o in vertenze aperte dal periodo anteriore al conflitto che impedivano per il momento di far emergere in maniera chiara la tematica antibellica, anche perché ad esse continuavano spesso a partecipare, dietro la comune copertura della CdL carrarese, gli stessi repubblicani. Un’opposizione diretta ispirata ai principi antiautoritari e antimilitarsisti propri della contestazione libertaria alla guerra, pur non del tutto assente, si limitava a qualche sporadica dichiarazione alla stampa militante dei circoli più noti, mancando di momenti di presenza scenica pubblica destinati invece, in una terra proletaria come quella apuana, alla protesta di stampo economico. Anche il foglio della CdL «Il Cavatore», fondato da Meschi nel 1911 come organo camerale, dopo un’editoriale di condanna allo scoppio del conflitto interamente giocato sul filo di un acceso antipatrottismo, tenne verso il tema una linea defilata e quasi disinteressata. Mentre l’impegno di segno neutralista da parte dei socialisti apuani non era venuto mai meno e aveva continuato ad intensificarsi in parallelo con la politica del partito, i ritardi nel processo di affermazione di un’opposizione frontale e propriamente politica al conflitto da parte degli anarchici apuani non hanno risparmiato talora a Meschi sospetti di titubanze e ambiguità, parzialmente accreditati in passato anche dal maggior storico del movimento operaio apuano Lorenzo Gestri; ove si tengano tuttavia in debito conto le posizioni parallelamente assunte a livello nazionale dall’USI e dal suo leader Armando Borghi, il caso di altre realtà camerali sovversive con forti componenti interventiste e le difficoltà del  movimento libertario nei primi drammatici mesi della neutralità italiana, gli atteggiamenti assunti dall’“uomo di pietra” finiscono invero per non essere privi di una loro coerenza, chiaramente riaffermata peraltro anche dall’intensa azione da lui svolta nelle ultime settimane prima dell’ingresso italiano nei combattimenti, in cui spicca fra l’altro un intenso tour accesamente antimilitarista destinato a toccare in aprile molte località della Toscana tirrenica.

Del resto con l’avvio del 1915 lo stesso atteggiamento degli anarchici parve risentire positivamente di quel processo di maggiore definizione della propaganda attiva sul tema del conflitto iniziato in ambito libertario dalla fine dell’anno e culminato nel convegno nazionale pisano contro la guerra del 24 gennaio, che vide una folta partecipazione di gruppi  apuani. In sede di discussione Meschi, illustrata la disperata situazione economica carrarese, si dimostrò fra i più oltranzisti, giungendo a ventilare «la proposta di un moto insurrezionale immediato». A testimoniare il mutato clima, furono avviate manovre preparatorie destinate a sfociare in un’iniziativa della sua CdL che suonerà come un’applicazione decisa degli strumenti d’azione indicati dall’ordine del giorno finale antiguerresco approvato a Pisa in cui si era auspicato fra l’altro l’inizio di agitazioni e movimenti contro gli effetti economici del conflitto quali mezzi utili ad alimentare nel popolo uno spirito rivoluzionario capace di opporsi ai rischi di guerra e di sostenere un eventuale sciopero generale insurrezionale. Dopo che a fine febbraio la CdL approvò un ordine del giorno che, denunciato il peggioramento della crisi, non escludeva gravi agitazioni e per la prima volta, accanto ai soliti attacchi al governo, non risparmiava critiche al comune, il 10 marzo ricorreva allo strumento forte dello sciopero generale, accompagnato da un comizio in piazza Alberica. Anche se la piattaforma prescelta sembrava perpetuare ancora una volta l’ambiguità di precedenti iniziative, enfatizzando più le conseguenze sul tessuto economico locale del conflitto (disoccupazione e caro viveri) che le ragioni di fondo che le producevano e ammettendo ancora una volta la partecipazione del sindaco al pubblico comizio (poi vietato), la giornata si tradusse in una grande protesta antimilitarista di massa; come avrebbe sintetizzato il corrispondente dell’«Avvenire Anarchico» lo sciopero che «doveva essere per la disoccupazione si è cambiato in una imponente manifestazione contro la guerra». Gli slogan della folla, i cartelloni issati e confiscati e i manifesti affissi fin dal mattino non lasciarono dubbi sul significato politico assunto dall’iniziativa, sfociata rapidamente in una clima insurrezionale con urla di «Abbasso la guerra», sassaiole, cariche di soldati a cavallo e comparsa di barricate nelle vie del centro storico; 5 appartenenti alla forza pubblica rimasero feriti causando il conseguente arresto nelle ore successive di alcuni militanti anarchici.

Tale giornata, che finì per divenire il momento di maggiore mobilitazione avvenuto nella provincia apuana nei mesi della neutralità italiana rappresentò uno spartiacque, e con le divisioni lasciate sul campo costituì un momento di chiarificazione politica, con una marcata e non più ricomposta spaccatura, anche da parte anarchica, con i repubblicani. Del resto se l’amministrazione repubblicana si impegnò a condannare con un manifesto il tentativo di assoggettare la protesta ad una discussione «vana e pericolosa», privilegiando un tema che rompeva l’unità e la concordia, con l’intensificarsi, come in gran parte del paese, di una spirale di scontri di piazza sulla questione del conflitto i mutati equilibri divennero ancor più evidenti; così ad esempio militanti libertari parteciparono con i socialisti alla contestazione organizzata contro il parlamentare Chiesa, giunto in città la sera del 17 aprile con l’accusa di essere un «deputato interventista di un Collegio neutralista», e conclusasi a colpi di randello e con una ventina di arresti e diversi feriti. O ancora furono parte attiva nel boicottare il ‘maggio radioso’ degli interventisti carraresi, il cui tentativo di tenere una dimostrazione ufficiale a sostegno dell’ingresso in guerra sotto la statua di Mazzini con l’immancabile caricatura di Giolitti fu impedito e sopraffatta dall’arrivo di circa 450 neutralisti armati di bastone.

E tuttavia la percepibile avversione popolare alla guerra aveva a lungo faticato a trovare un coerente sbocco politico, anche per le divisioni fra libertari e socialisti che, a differenza di altre realtà, resero difficili momenti ufficiali di vera protesta unitaria, per quanto confinati ad un terreno di lotta legalitario quale quello imposto dal PSI e subito dagli anarchici. Pure questo aspetto, oltre alle urgenze quotidiane di una crisi economica gravissima e alla natura essenzialmente sindacale e proletaria del movimento anarchico locale, parve pertanto contribuire ad un neutralismo più sociale che politico, destinato a infondere alla protesta contro la guerra un profilo che finì per intrecciarsi in modi non sempre codificabili con problemi come la disoccupazione ed il carovita.

 

Marco Manfredi ha conseguito nel 2005 il titolo di Dottore di Ricerca presso l’Università di Pisa. Dal 2007 al 2009 è stato borsista postodottorato al Dipartimento di Scienze della Politica dell’Università di Pisa, mentre dall’anno accademico 2009-2010 è stato Professore a contratto di Storia Contemporanea. I suoi interessi di studio riguardano in prevalenza la storia politica e la storia della cultura del primo Ottocento e la storia delle classi subalterne, con particolare attenzione al movimento anarchico. A quest’ultimo riguardo ha vinto nel 2007 la Borsa di ricerca Pier Carlo Masini con il progetto di ricerca Linguaggio, simbologia, rituali. La cultura dei militanti anarchici in età giolittiana, e nel 2006 la Borsa di ricerca Lorenzo Gestri.
Ha scritto il capitolo su Massa Carrara nel volume curato da Cammarosano, Abbasso alla guerra!




Lucca e la Prima guerra mondiale

Nell’anno della neutralità italiana – dal 2 agosto 1914 al 24 maggio 1915 – anche la provincia di Lucca, come il resto d’Italia, fu percorsa da dibattiti e tensioni che coinvolsero, sul tema della guerra, le forze politiche, le correnti culturali, la popolazione.

Nell’occasione si evidenziarono anche le diverse identità di una provincia davvero composita. La “Lucchesia”, la Versilia, la Valle del Serchio, la Garfagnana (che allora però era in provincia di Massa), la Valdinievole (Pescia e Montecatini, che ora sono però in provincia di Pistoia), presentarono infatti le loro realtà a volte comuni, ma spesso anche alquanto difformi, per specificità locali.

Un primo dato comune è che non si ebbero intorno a questa discussione quei picchi di violenza che, soprattutto se andiamo alla conclusione, si presentarono in altre parti d’Italia, sì da configurare, a detta di alcuni storici, situazioni di vero e proprio conflitto civile. Nella nostra provincia sono in evidenza in questo senso solo alcuni limitati episodi, tra cui spicca la violenta manifestazione neutralista che impedì il comizio di Cesare Battisti a Viareggio (31 gennaio 1915), “risolta” comunque con qualche contuso e danni materiali, presenza moderata delle forze dell’ordine e soprattutto senza vittime (che invece si verificarono in situazione simile, un mese dopo, a Reggio Emilia).

Si presenta qui il problema di valutare gli orientamenti dello spirito pubblico sui temi della guerra. Come è noto fin dagli studi di Vigezzi, l’indagine promossa nell’aprile del 1915 dal Governo – e quasi subito ritirata – su quali fossero gli orientamenti dell’opinione pubblica nel caso di intervento dell’Italia in guerra, non annovera la risposta del prefetto di Lucca. Non è comunque difficile ipotizzare una situazione in linea con l’andamento nazionale: il punto di partenza era certamente una diffusa approvazione dell’orientamento neutralista, che ondeggiava dalla esplicita opposizione alla guerra alla speranza che l’Italia potesse rimanerne fuori; le ragioni dell’intervento, che maturarono soprattutto in settori sociali specifici (borghesia urbana, professionisti, studenti) si fecero strada, mentre affioravano voci in tale direzione sull’orientamento della politica governativa e sull’andamento segreto dei lavori diplomatici, creando un senso di progressiva ineluttabilità dell’intervento; e se l’adesione entusiastica non sembrò affatto coinvolgere le maggioranze, si diffuse l’impressione di una accettazione “rassegnata” (come dice Vigezzi) del sacrificio come necessario e, a quel punto, magari anche nobile e doveroso. Ed ecco che, nelle fasi finali, indipendentemente dal permanere ed anzi dall’accentuarsi della contrapposizione e dello scontro, la società civile mise in atto una partecipe mobilitazione a sostegno dello sforzo economico ed umano che anche la provincia di Lucca, come per il resto d’Italia si preparava a sostenere.

 

Queste valutazioni non possono comunque prescindere dal quadro politico che orientava l’opinione pubblica rappresentandone al contempo un termometro attendibile. A questo livello si svolse un dibattito davvero intenso, più articolato e complesso di quanto non si sia soliti rappresentare.

A sinistra, l’“Estrema” (socialisti, repubblicani, sindacalisti, anarchici, sinistra radicale) conobbe la spaccatura di quella unità che aveva avuto il suo momento più significativo nel corso delle agitazioni della “settimana rossa”, che per la verità scossero soprattutto la Versilia e che invece interessarono assai modestamente Lucca.

Il partito socialista fu la roccaforte del neutralismo militante, soprattutto per la battaglia condotta da Luigi Salvatori, sulle piazze versiliesi e sul suo periodico, “Versilia”: voce di un “neutralismo assoluto” che giunse fino alla (inascoltata) richiesta ai vertici nazionali del partito, nei giorni caldi di maggio, di uno sciopero nazionale contro la guerra. Nel resto della provincia, se si segnalò una vivace attività dei socialisti a Pescia, la stessa area socialista non rimase immune da divisioni nel capoluogo, dove si ebbero ampie adesioni alle ragioni dell’intervento, come testimonia la vicenda del principe del foro Francesco Bianchi, già distaccatosi dalla linea del partito ai tempi della guerra di Libia ed ora strenuo fautore dell’interventismo democratico.

La divisione attraversò anche il gruppo sindacalista, con l’“interventismo rivoluzionario” di Alceste De Ambris. A Viareggio questa prospettiva conquistò Lorenzo Viani, che divenne così l’elemento rilevante, per quanto sostanzialmente isolato, della divisione che percorse anche il campo anarchico.

Maggioritaria fu invece la professione interventista dei repubblicani, variamente rappresentati in provincia. In Versilia, la voce più stentorea fu quella di un “non politico”: quella del poeta Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, animatore e guida della cosiddetta “Repubblica di Apua”. In tutta la provincia era questo il settore più intensamente legato all’eroica epopea del volontariato democratico garibaldino, che veniva ora rievocata e rinnovata.

Muovendo la nostra attenzione verso il centro politico, troviamo l’area per lo più connotata come “democratica”: radicale, laica, massone, con aspirazioni di governo, sia a livello, sia a livello locale (con esperienze  specie in Versilia, durature a Pietrasanta e più frammentarie a Viareggio). E’ un settore che subisce nel 1913 il colpo dell’alleanza tra i liberali moderati e i cattolici promossa dal patto Gentiloni, con significativi contraccolpi negativi anche sul piano amministrativo (la sconfitta di Pietrasanta, per esempio); ma che ha anche i suoi punti di forza: a Pescia per esempio nella figura di Ferdinando Martini, ministro delle colonie di Salandra. La posizione sulla guerra di questo settore, laico massone e filofrancese, si viene precisando (con l’eccezione neutralista di Barga) in direzione dell’intervento, dove con maggiore, dove con minore impazienza, dove più, dove meno precocemente.

A destra dei democratici si estende il grande centro liberale, moderato, monarchico, governativo, le cui posizioni riflettono le incertezze, le divisioni e i “tentennamenti” della linea di governo nazionale.

Abbiamo tutta un’area che si ispira a giolittiani di stretta osservanza, quali sono il deputato versiliese  Giovanni Montauti e quello garfagnino Ernesto Artom, che predicano finché possibile la prudenza della via diplomatica. Va anche detto che a questi livelli, l’alleanza inaugurata con i cattolici preme sulla via del neutralismo.

Ma è proprio al cuore della provincia che i liberali si muovono con maggiore libertà incalzando in senso opposto Salandra, sicché a Lucca “l’orologio dell’interventismo” è anticipato rispetto al resto della provincia. E non certo per le pressioni del gruppo nazionalista, nel capoluogo presente con una attività che non ha eguali in provincia, ma con una forza non in grado di incidere al di là delle pubbliche prese di posizione. Forse invece per una certa qual “vocazione” nazionale della classe dirigente lucchese, evidenziatasi per esempio nel maggio 1914, quando l’intera città era scesa in difesa dei suoi studenti, colpiti dalla polizia del prefetto Cotta e dalla magistratura per la loro dimostrazione in favore degli italiani di Trieste.

Rimane da dire dell’altro corno della politica cittadina: quello dei cattolici, di cui va sottolineata in generale l’adesione alle linee del neutralismo dettato da Benedetto XV, rinforzata dalla particolare coerenza del loro leader più prestigioso, sul piano culturale, oltre che politico: appunto Lorenzo Bottini. Sicché, analizzando la parabola di questo neutralismo, si potrà arrivare alla conclusione – solo apparentemente paradossale – che proprio dentro il gruppo dirigente della società lucchese, i liberali più interventisti di tutta la provincia convissero con i cattolici più neutralisti.

Si presentarono, in provincia, tutti i diversi motivi di fondo del neutralismo cattolico: quello filoaustriaco e filotriplicista dell’intransigentismo (forse più rappresentato a Viareggio, a quanto risulta dalla linea dell’“Eco Versiliese”); quello della partecipazione all’interesse nazionale (inalberato contro l’internazionalismo “disfattista” dei socialisti): la pace è nell’interesse nazionale, in nome del quale i cattolici professano a più riprese di essere anche pronti all’eventualità della guerra; e terzo, il neutralismo di principio, quello etico, che parla più direttamente alla popolazione e organizza le mobilitazioni di preghiera per la pace.

Ma – anche qui una distinzione interna – se l’arcivescovo Marchi sospende la mobilitazione dei fedeli attorno a Pasqua, pronto ad invocare sull’esercito italiano la protezione del “dio delle vittorie”, è Bottini l’ultimo ad arrendersi. Lui, che già era stato contrario alla guerra di Libia per motivi di principio (applicando lo stesso principio che da un punto di vista clericale gli aveva fatto condannare la presa di Roma al Papa per rifiutare consenso alla “conquista di Tripoli al Sultano”), con motivazioni tutte politiche arriverà a salutare le dimissioni di Salandra (13-16 maggio): gli abbiamo voluto bene (aveva scritto: siamo disposti a farci guidare da lui come una moglie dal buon marito), ma la sua politica di guerra non la condividevamo. Si dà per vinto solo il 23 maggio: Alea iacta est.