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Il vescovo Giovanni Piccioni: la Chiesa livornese tra fascismo e guerra

Giovanni Piccioni esercitò il suo ministero episcopale a Livorno dal 1921 al 1959. Quasi un quarantennio che lo vide al centro della scena in una diocesi tradizionalmente ritenuta tra le più difficili in Italia per i radicati fenomeni di irreligiosità e la presenza di una forte massoneria: un terreno difficile per lo sviluppo delle organizzazioni cattoliche [Bedeschi, 1983]. Alcuni studi hanno evidenziato le inequivocabili manifestazioni di deferenza al regime che caratterizzarono l’attività pubblica del presule durante il ventennio [Litrico, 2002; Mazzoni, 2009]: è indubbio che il vescovo salutasse con favore – specie in un contesto come quello livornese – l’inedita protezione che lo Stato fascista garantì alla religione cattolica, tanto più dopo i Patti lateranensi e la sanzione solenne del ruolo pubblico e ufficiale del cattolicesimo nella società italiana [Ceci, 2013].

Tuttavia a leggere nel suo complesso il messaggio pubblico di Piccioni si svelano i lineamenti di una strategia giocata su due tavoli, coniugando il caloroso appoggio al governo di Mussolini, i buoni rapporti mantenuti col federale di Livorno Umberto Ajello e, soprattutto, con la potente famiglia Ciano, con la frequente esteriorizzazione di una identità separata, discordante con le ambizioni totalitarie del fascismo, e coltivata anche nei confronti riservati col proprio clero e col laicato.

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

Indizi in questo senso punteggiano il suo ministero negli anni del fascismo, caratterizzato dalla particolare fermezza con cui si prodigò a difesa del clero e dell’associazionismo [Zargani, 1997], ed hanno la manifestazione più evidente nell’indizione dei sinodi diocesani del 1927 e 1938 (i primi in assoluto per la diocesi sorta nel 1806), nel secondo dei quali non si nascondevano gli obiettivi – come si legge nella lettera pastorale d’apertura – di una «restaurazione cristiana» del popolo. Va notato poi come immediata fu la reazione di Piccioni alla promulgazione delle leggi razziali: non sul piano pubblico, ma nella convocazione nel dicembre 1938 di un «incontro riservatissimo» a cui furono invitati i massimi dirigenti dell’Azione cattolica e alcuni sacerdoti (tra cui don Roberto Angeli) allo scopo di approntare una rete diocesana che favorisse «la collaborazione con i parroci e con le altre organizzazioni caritative per dare agli ebrei aiuti materiali e morali» [Erminia Cremoni, 1955].

Negli anni di guerra, fino alla destituzione di Mussolini, il presule alternò alle manifestazioni di lealismo patriottico, la vigorosa celebrazione della «missione indefettibile» del pontefice. Da un lato non si mancò di impetrare i «divini favori sull’Italia e sulle Forze Armate» nell’occasione della consacrazione dei soldati al Sacro Cuore di Gesù per la festa della Candelora del 1941 [«Bollettino Diocesano Livornese», n.1, 1941, p. 5], né furono meno solenni i momenti di invocazione alla “pace vittoriosa” come avvenne soprattutto nella imponente funzione del 16 maggio 1943 al santuario di Montenero in cui il vescovo, davanti a quarantamila livornesi, implorò la protezione della «Madre di Misericordia» sulla «nostra cara Patria», affinché potesse «presto intrecciarsi sulle bandiere al lauro dell’eroismo e della vittoria, l’ulivo della pace» [«Bollettino Diocesano Livornese», maggio, giugno, luglio 1943, p. 14]. Dall’altro, dal maggio 1942 al maggio 1943, la diocesi fu impegnata in un denso programma di celebrazioni per ricordare il giubileo episcopale di Pio XII, culminato con la festa di Cristo Re del 1942, nella quale Piccioni rievocò con forza gli obiettivi pacelliani di «ricostruzione della famiglia cristiana».

Dopo il 25 luglio, in linea con l’episcopato toscano, Piccioni mostrò di sposare la linea di pacificazione tracciata dal cardinale di Firenze Elia Dalla Costa pubblicando sul “Bollettino Diocesano” la notificazione del 31 luglio in cui l’arcivescovo di Firenze invitava i fedeli a rispettare le «legittime autorità» e richiamando «clero e popolo a uniformare la loro condotta ai principi che vi sono esposti» [«Bollettino Diocesano Livornese», maggio-giugno-luglio 1943, pp. 30-32]. Ed è significativo che il presule intese ribadire questa linea ancora nel marzo 1944, quando era ormai nota l’ampiezza dell’impegno di tanti cattolici nella Resistenza, dando spazio sull’organo ufficiale della diocesi, alla notificazione sul clero e i partiti pubblicata dal cardinale di Milano Ildefonso Schuster nell’ottobre 1943 con la quale si esprimeva la necessità che la Chiesa si mantenesse «fuori ed al di sopra di tutte le diverse competizioni d’indole politica» e si intimava esplicitamente all’obbedienza «secondo le leggi, alle legittime Autorità stabilite» [«Bollettino Diocesano Livornese», gennaio-marzo 1944, pp. 11-12].

Eppure è in questo contesto – che nel discorso pubblico non pare far emergere una significativa eccezione rispetto al coevo quadro regionale [Bocchini Camaiani, 2009] – che si sviluppò il Movimento cristiano sociale, senza dubbio uno dei gruppi cattolici di resistenza al fascismo più strutturati della Toscana, entrato nel Cln di Livorno già il 9 settembre 1943. Un contesto che appare di ancor più difficile lettura se solo si tenga conto che il gruppo strutturatosi intorno alla Fuci livornese ricevette a pochi giorni dall’armistizio una lettera degli assistenti don Angeli e don Amedeo Tintori che proponeva un invito aperto alla ribellione e affrontava esplicitamente il problema dell’obbedienza all’autorità costituita. Appellandosi al principio del diritto romano per il quale l’unico comando ammesso era quello proveniente dalla legge, si negava con forza ogni legittimità a comandi imposti con «la forza o la violenza o l’astuzia o l’arma di un uomo o di molti uomini» e si riaffermava che l’«unico governo legittimo», al quale era necessario «obbedire in coscienza», era «quello eletto secondo lo Statuto, il quale non è abrogabile se non per volontà concorde – liberamente e chiaramente manifestata – di tutto il popolo italiano» [Angeli, 1975, pp. 184-186].

Non può essere imputato a casualità anche il fatto che tra il clero legato a Piccioni non fu solo la figura di don Angeli ad emergere con un preciso profilo di antifascismo militante negli anni convulsi della guerra. Si è fatto ad esempio notare come tra i sacerdoti che più si impegnarono nella Resistenza nella diocesi di Massa Marittima-Populonia – retta con incarico ad personam dal vescovo di Livorno tra il 1924 e il 1933 – forti erano state le influenze esercitate dal presule livornese, assai diverso nel contegno verso il regime dal più allineato mons. Faustino Baldini che gli successe: è il caso di don Ivo Micheletti, che presiedette il Cln di Piombino, e di don Ivon Martelli, che fu a capo di quello di San Vincenzo, entrambi compagni di studio di don Angeli negli anni ’30 presso il Seminario Gavi di Livorno [Tognarini, 1995, p. 83]. Nel gennaio 1943 Piccioni non si fece scrupolo neanche nell’accogliere nella sua diocesi il lucchese don Antonio Vellutini, il quale era noto per il suo sbandierato antifascismo (tanto da essere inviato per qualche anno in una sorta di “confino” presso Montalto Uffugo in Calabria), e che, non a caso, presiedendo il Cln di Vada, fu assoluto protagonista delle azioni di difesa della popolazione contro l’occupante tedesco nel paese della costa livornese.

Piccioni 002È oltre il messaggio pubblico che, evidentemente, vanno ricercate le ragioni del fiorire in seno alla Chiesa di Piccioni di certi temi e personalità. La disponibilità completa delle carte dell’Archivio diocesano di Livorno potrebbe forse sbrogliare definitivamente certi nodi, tuttavia alcuni punti fermi emergono già con chiarezza. Intanto è il profilo biografico precedente la carriera episcopale di Piccioni a fornire più di una traccia: nella Pistoia di inizio Novecento il presule ebbe trascorsi di prete democratico-cristiano, avendo in  Toniolo e, soprattutto, in Murri i suoi ispiratori; fu tra gli organizzatori della prima Settimana Sociale del 1907 e sedette sui banchi del consiglio comunale di Pistoia dal 1903-1909 come leader dell’opposizione alla giunta socialista; nel primo dopoguerra, nominato vicario della diocesi pistoiese, entrò in rotta di collisione con le prime manifestazioni squadriste del fascismo [Angeli, 1977]. Inseriti in questo percorso non stupiscono né l’influenza che il vescovo esercitò nella formazione del fratello più piccolo Attilio, poi leader di punta della Dc degasperiana [Fanello Marcucci, 2011, pp. 15-21] né il fatto che tramite l’altro fratello Ulisse, questore a Torino, egli si procurasse letture vietate dal regime che poi metteva a disposizione dei suoi seminaristi. Fu così, ad esempio, che al Seminario Gavi si poté leggere nella sua prima stesura in francese del 1936 l’Humanisme Intégral di Jacques Maritain [Noce, 2004, pp. 84-85].

Si sostanzia dunque su questi presupposti il percorso di formazione intellettuale che condusse alcuni giovani sacerdoti della diocesi livornese a manifestare con precocità una matura coscienza politica e democratica. La scelta di Piccioni di nominare don Angeli e don Tintori assistenti ecclesiastici della Fuci nel 1939 appare in questa luce frutto di un progetto ponderato: i due sacerdoti erano inseriti in un circuito di relazioni che annoverava personalità come Guido Calogero, Giorgio La Pira, Igino Giordani e il gruppo che ruotava attorno alla rivista pisana “Il crivello” diretta da don Telio Taddei  e frequentavano già da un triennio le Università pontificie romane: in particolare don Angeli alla Gregoriana era venuto in contatto con un ambiente in cui «si respirava un’aria chiaramente antifascista» [Angeli, 1975a]. È, ad esempio, significativo che il sacerdote facesse derivare l’acquisita consapevolezza di una antitesi tra il cristianesimo e il totalitarismo nazista dalla frequentazione nel 1937 delle lezioni di etica fondamentale del professor Louis Chagnon: come annota don Angeli «non venivano citati, per iscritto, esempi concreti di stati totalitari (salvo gli stati comunisti), ma si indicavano come fautori della “statolatria”, Schelling, Hegel ed altri autori tedeschi. Gli studenti dovevano trarre da sé le conclusioni». Erano argomentazioni alle quali il sacerdote attinse a piene mani per dar forma a quella che lui stesso definì la «resistenza ideologica organizzata» dei cattolici livornesi: in particolare, a partire dal 1941, quegli argomenti vennero utilizzati nell’organizzazione delle lezioni pubbliche tenute presso il Cenacolo di studi sociali di S. Giulia nelle quali vennero pubblicamente criticate le tesi naziste e il concetto fascista dello stato [Merli, 1978]: si trattava di momenti di formazione a cui parteciparono studenti universitari, operai, allievi dell’Accademia Navale che ebbero l’esplicito appoggio del vescovo Piccioni che ne dava notizia sul “Bollettino Diocesano”.

 




La guerra agli inermi. Storia e giustizia (II)

La seconda parte della storia, strettamente connessa alla prima, riguarda una delle più gravi ingiustizie fatte patire ai cittadini di questo paese nella storia dell’Italia unitaria.

È la storia dell’estesa, prolungata e non rimediata negazione di giustizia[1] nei riguardi delle vittime delle stragi naziste e fasciste di cui si è detto finora. Una negazione estesa, in termini strettamente geografici, poiché quel fenomeno, quell’orrore, non risparmiò nessuna parte d’Italia, nessun genere, nessuna classe anagrafica, nessuna religione, nessuna posizione sociale, nessuna posizione politica antifascista. Nessuno, insomma. Ricordiamolo: almeno 5.750 episodi e 24.112 vittime.

Una negazione prolungata, e ormai irrimediabile, perché iniziata immediatamente dopo la guerra – e addirittura prima, perché spesso nei paesi colpiti, subito dopo la partenza dei tedeschi, arrivavano gli Alleati, che cominciavano subito a fare indagini e chi era sopravvissuto cominciava subito a illudersi che la giustizia sarebbe arrivata. Una negazione andata avanti a questo punto per sempre, perché pochissimi furono i processi e ancora meno i responsabili mandati in carcere – Kappler, Reder, Priebke, Seifert e pochissimi altri – sia nel lungo e infruttuoso dopoguerra, sia nella fase molto più proficua, ma inevitabilmente limitata, dei processi che hanno seguito il rinvenimento, nel 1994, delle carte occultate, su cui si tornerà. Questi processi si sono celebrati soprattutto negli anni 2000 presso le procure militari di La Spezia, Verona e Roma sotto la guida di Marco De Paolis.

Dunque, una negazione non rimediata, se riguardiamo i conti: una ventina di processi – dal dopoguerra a oggi – e alcune decine di condanne – perlopiù non eseguite – per 5.750 episodi (e mancano tutti quelli avvenuti all’estero, fatta eccezione per Cefalonia) e più di 24mila vittime.

In realtà, la storia ci racconta che le carte dell’orrore di cui parliamo, e della mancata giustizia che lo ha riguardato, sarebbero state disponibili fin dall’immediato dopoguerra, e questo per ciò che riguardava sia le indagini degli Alleati, alle quali si accennava, sia quelle dei carabinieri, condotte spesso a ridosso degli eventi. Invece, tutto questo materiale fu volutamente occultato, e quindi non lavorato, in un arco di tempo che va almeno dal 1960 al 1994.

La scusa ufficiale fu quella – nel 1960 – del «lungo tempo trascorso dal fatto» – 15 anni dalla fine della guerra! – senza considerare, tra l’altro, che tale suddetto lungo tempo era attribuibile perlopiù all’inerzia di chi non aveva lavorato in quei 15 anni.

Le ragioni effettive, invece, almeno secondo gran parte della storiografia – ma anche di molti membri della Commissione Parlamentare d’inchiesta che ha indagato sull’occultamento negli anni 2003-2006 – sono invece le seguenti, riassunte molto schematicamente: si occultò – con un provvedimento illegittimo quale quello dell’«archiviazione provvisoria» – perché lavorare le carte sui criminali tedeschi avrebbe significato, da un lato, attirare l’attenzione sui criminali italiani, mai consegnati agli stati esteri che li avevano richiesti (Grecia, Etiopia, Jugoslavia etc.); dall’altro, tali indagini avrebbero potuto “imbarazzare” la Germania occidentale, fido alleato dell’Italia nel mondo diviso in due della guerra fredda. Ragioni di politica interna, dunque – quelle carte avrebbero anche riportato alla ribalta i criminali fascisti, frequentemente destinatari di provvedimenti di amnistia nell’immediato dopoguerra – e ragioni di politica internazionale si diedero il cambio e si supportarono le une con le altre nel produrre una delle più grandi ingiustizie praticate dall’Italia-Stato nei confronti dell’Italia-Nazione.

Quando le carte sono state recuperate dagli archivi (quelli della Procura Generale Militare a Roma) era il 1994 e la guerra fredda era appena finita, l’idea di Europa unita sembrava davvero poter sconfiggere le ansie dei vari passati del continente, e non vi poteva quindi essere un momento migliore per tirare fuori le carte che, si sperava, non avrebbero più potuto nuocere a nessuno. Quelle carte andavano però lavorate, perché quello che raccontavano – crimini di guerra atroci, crimini contro l’umanità – non è passibile di prescrizione secondo la legge italiana. Le aggravanti, infatti, come è facilmente intuibile, c’erano tutte.

In realtà le procure militari si presero un bel po’ di tempo – altro tempo sprecato – per cominciare a fare qualcosa, e solo qualcuna fece qualcosa davvero. A quell’impegno di pochi dobbiamo tuttavia dei risultati importanti, cioè le sentenze e le condanne – cosa che significa innanzitutto discorso pubblico della Nazione dinanzi allo Stato e risposta di quest’ultimo – per alcune delle stragi più atroci che si verificarono in Italia o contro italiani nel 1943-1945: Sant’Anna di Stazzema, Civitella in Val di Chiana, Monte Sole, Padule di Fucecchio, Cefalonia sono solo alcuni dei nomi/luoghi-eventi di questa parte della storia.

Se guardiamo oggi questi risultati, sembra straordinario che sia stato compiuto da pochi anni, certo in modo più che tardivo e parziale, ciò che avrebbe dovuto essere normale nel dopoguerra, cioè la giustizia, la condanna pubblica e documentata del crimine di guerra/crimine contro l’umanità.

In questo caso è stata una fortuna che le due regioni – la Toscana e l’Emilia Romagna – dove si era verificato il più alto numero di stragi con il più alto numero di vittime, negli anni 2000 fossero di competenza della volenterosa e produttiva procura militare di La Spezia, in quegli anni una sorta di “cattedrale” in un deserto di disinteresse, pressappochismo, noncuranza e chissà quali altre cause di inoperosità da parte delle altre procure militari, a partire da quella che nel 1994 aveva rinvenuto le carte durante l’indagine sul boia delle Ardeatine Erich Priebke. E da parte dello Stato, in generale: le indagini e i processi che La Spezia (e poi Verona e Roma, negli anni successivi, con l’arrivo di De Paolis) portò avanti furono una sorta di impresa titanica, con milioni di carte da studiare e produrre, testimoni da rintracciare dopo decenni, luoghi irrimediabilmente trasformati e, soprattutto, una mentalità istituzionale spesso indifferente, quando non apertamente ostile, che si chiedeva apertamente perché lo Stato avrebbe dovuto spendere soldi e tempo alla ricerca di innocui ottantenni bavaresi, alsaziani e così via. Dimenticando, innanzitutto, i doveri di legge, cioè l’imprescrittibilità.

Insomma, allo sdegno dell’opinione pubblica che nel 1994 aveva scoperto le stragi e il loro occultamento, corrispose spesso – di nuovo – la sottovalutazione del problema da parte dello Stato, uno Stato che, invece, avrebbe dovuto, avendo molto da farsi perdonare, fornire almeno i mezzi per provvedere all’eccezionale emergenza giudiziaria affrontata in quegli anni a La Spezia.

A tale mentalità istituzionale – spesso non sconfitta neanche oggi – ha fatto però da contraltare una mentalità collettiva diversa, alimentatasi di decenni di silenzio imposto e oblio forzato, prolungata negazione di giustizia e indifferenza da parte delle istituzioni dinanzi a un dolore che sembrava privato ed era invece un lutto collettivo. Una mentalità di comunità e di condivisione, che, in quegli anni e in quelli successivi, era sempre più in emersione, attenta, pronta a farsi sentire e, finalmente, ad essere ascoltata.

Erano le comunità dei borghi inermi straziati della lapide di Calamandrei, le comunità infrante, le comunità delle generazioni successive nutritesi di memoria divisa, che finalmente trovavano – poche di loro, in realtà, si è detto, in aula – e trovano lo spazio e l’ascolto del discorso pubblico, man mano divenendo incisive, cominciando a formare opinione pubblica.

È per questo che oggi possiamo, su questi temi, fare conversazioni pubbliche che interessano un ambito più ampio di quello degli addetti ai lavori, mettere su progetti di ricerca davvero europei come quello dell’Atlante, o pubblicare una collana di volumi – voluta dalla Regione Toscana e dall’Istituto Nazionale Parri – che raccontano i processi per le stragi naziste come fatti di immediata attualità[2], in quanto essi sono fatti di immediata attualità.

Tutto questo impegno è, però, va detto, un pegno pagato. Difatti, chi studia questi temi da storico o da politologo, chi li lavora come magistrato, carabiniere addetto alle indagini o consulente tecnico, chi li pone al centro dell’agenda politica istituzionale, chi, in generale, dedica buona parte della propria attività professionale (e, spesso, del proprio tempo libero) a questi argomenti, lo fa anche in virtù di un sentimento di doverosa restituzione – da parte dello Stato che in qualche modo, o in qualche forma, si rappresenta – nei confronti delle vittime. Queste ultime non sono, a parere di chi parla, solo coloro che allora persero la vita – gli inermi straziati in quelle migliaia di luoghi d’Italia; sono vittime anche coloro che sopravvissero alla morte di madri, padri, figli, sorelle e fratelli, ritrovandosi condannati a vivere per sempre “in morte” dei loro cari, spesso costretti ad abbandonare le proprie case distrutte, i paesi incendiati, i campi devastati. È ciò che ha scritto Caterina Di Pasquale a proposito di Sant’Anna di Stazzema: «la strage frantumò il paese, il suo modo di vivere, la sua cultura. Colpì la quotidianità, distrusse i punti di riferimento, bloccò il fluire della vita uccidendo intere generazioni e discendenze. Interruppe tutti i legami, quelli di parentela, quelli di vicinato, di amicizia e di amore, gli uomini non avevano più mogli, né figli, né sorelle, né genitori»[3].

Quest’obbligo a vivere in morte di chi non c’era più è stato il frutto di una giustizia negata in forma estesa, prolungata e sostanzialmente, purtroppo, non rimediata. È anche a queste vittime, condannate al silenzio e senza il sostegno, neanche, di una giustizia di transizione, che lo Stato deve una restituzione alla quale le istituzioni che sono oggi in questa sala – la Regione Toscana, l’Istituto della Resistenza – stanno volenterosamente e volontariamente provvedendo, con i fatti, almeno da vent’anni, primi tra tutti in Italia. A loro, dunque, un grazie personale e spero collettivo, e un invito a continuare.

[1] Per una panoramica complessiva sul tema si rimanda al recente volume di Paolo Pezzino e Marco De Paolis, La difficile giustizia. I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-2013, Roma, Viella, 2016.
[2] Si tratta della collana I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia, curata da M. De Paolis e P. Pezzino e con il mio coordinamento editoriale, per le edizioni Viella.
[3] Caterina di Pasquale, Il ricordo dopo l’oblio, Roma, Donzelli, 2010, p. 55.




La guerra agli inermi. Storia e giustizia (I)

Nell’iniziare questa lectio magistralis, mi sia permesso innanzitutto di ringraziare, per l’opportunità concessami, l’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea e la Regione Toscana, due istituzioni che, in vario modo ma sulle rotte dello stesso itinerario, stanno accompagnando il mio percorso lavorativo in una professione, quella della storia, che è anche quotidiano, costante e permanente impegno civile.

Sono onorata di essere qui e di tenere questa lezione in occasione del premio Tognarini. Ivano Tognarini è stato tra coloro che, ormai diversi anni fa, mi hanno introdotto nel mondo della ricerca portata avanti dagli Istituti della Resistenza: con lui sostenni infatti il colloquio che mi ammise alla Scuola Superiore di Storia Contemporanea dell’Istituto Nazionale per il Movimento di Liberazione in Italia, permettendomi così di compiere – insieme a numerosi colleghi con i quali la collaborazione prosegue tuttora, come il direttore dell’ISRT, Matteo Mazzoni – un interessantissimo e importantissimo percorso di studio e di lavoro. A quella Scuola e a quell’esperienza avviata in questa città dinanzi al prof. Tognarini, devo la mia professionalità odierna.

Ciò su cui intendo discorrere oggi è una storia divisa in due parti, connesse tra loro a filo doppio e intrecciato, in maniera irrimediabile quanto inestricabile.

La prima parte riguarda la vicenda, che descriverò per linee generali, dei più di 24.000 morti – 24.112 – censiti dall’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, un immenso progetto di ricerca voluto dall’Istituto Nazionale Parri e dall’Anpi, finanziato dal Fondo italo-tedesco per il futuro e divenuto un database disponibile online[1].

Quei più di 24.000 morti – una cifra immensa per l’Europa occidentale, che prima dell’Atlante individuavamo in un ordine inferiore di almeno 10.000 unità – raccontano oggi, con tanti e maggiori dettagli, ciò che perlopiù conoscevamo per grandi linee oppure, in casi rari – o, meglio in spazi geografici più attenti, solo apparentemente perché più coinvolti – seri approfondimenti su punti specifici[2].

È la storia, che sembra una scoperta dell’ultimo ventennio, delle stragi contro gli italiani perpetrate dai reparti tedeschi e da quelli fascisti repubblicani nel periodo compreso tra l’estate del 1943 e la primavera del 1945. È quello che la storiografia ha perlopiù, a lungo e a ragione, chiamato «guerra ai civili»[3] e che oggi più frequentemente si tende a indicare – in un censimento di vittime diversificate – come guerra agli inermi.

Non solo civili, dunque, ma chiunque, compresi i partigiani disarmati, fu ucciso quando avrebbe dovuto essere tutelato dal nemico al quale si era arreso o dal quale era stato sconfitto e catturato. Inermi furono così, al fianco di quelli che noi consideriamo “ovviamente inermi”, come i bambini di Sant’Anna di Stazzema, i contadini di Marzabotto e Civitella, i detenuti politici delle Fosse Ardeatine, i prigionieri di guerra catturati a Cefalonia, i partigiani della Benedicta e di Figlìne di Prato.

Ciò non toglie, tuttavia, che i civili continuino a rappresentare il più alto numero di vittime delle stragi: nell’estate di sangue del 1944, ad esempio, erano civili il 66% delle vittime di Toscana ed Emilia Romagna, le regioni in generale più colpite dal fenomeno complessivo. Il «tributo di morte» dei civili, ha scritto Chiara Dogliotti, è infatti «più di cinque volte superiore a quello del resto del paese»[4].

La categoria di «guerra ai civili» resta valida in moltissimi casi, per moltissimi eccidi, come quelli di tipo “eliminazionista”, tesi cioè all’eliminazione di intere comunità e interi gruppi di prigionieri[5]. Eliminazioniste sono ben 9 delle stragi toscane, tra cui Stia-Vallucciole, Sant’Anna di Stazzema, San Terenzo Monti-Fivizzano e Vinca[6]

In generale, la categoria di «guerra ai civili» è valida per tutta l’Italia centrale dell’estate 1944, periodo in cui si assiste anzi, come scrive Francesco Fusi, a una «marcata escalation della “guerra ai civili”» dimostrata dalle cifre, che raccontano come, in quell’estate, la Toscana ebbe l’89% delle sue vittime complessive[7].

In generale, su 660 episodi avvenuti in Toscana tra il settembre del 1943 e i primi giorni dell’aprile del 1945, e 4.071 vittime, 3.762 furono “civili”, con tutto ciò che questo termine poteva rappresentare: uomini, donne, adulti, anziani, bambini. Più di 243 bambini e 161 ragazzi entro i 17 anni, precisamente.

La categoria di «guerra ai civili», pensata, come si diceva, da Michele Battini e Paolo Pezzino nel 1997, era anche declinazione della categoria di guerra civile e stava a indicare – cito da ciò che scrive Pezzino – «l’atteggiamento dell’esercito tedesco di programmatica violenza contro gli inermi, accusati di essere complici dei partigiani»[8].

Tuttavia, parliamo oggi di «guerra agli inermi» perché consideriamo più nel dettaglio le caratteristiche dei loro carnefici – i responsabili, i cosiddetti perpetratori, nel “più neutro” linguaggio scientifico –, che non furono tutti animati da un puro spirito di sterminio, ma che anzi perlopiù si mossero, cioè fecero quello che fecero, nell’ambito della guerra totale. E consideriamo più nel dettaglio le caratteristiche delle stesse vittime, che oltre a essere civili furono spesso qualcosa in più che oggi si conosce meglio, e che si racconta come parte integrante della ricostruzione scientifica complessiva.

La definizione di «guerra ai civili» conteneva già, quindi, il tema della violenza “contro gli inermi”, pur omologando – come si accorgevano già alla fine del secolo scorso i principali studiosi del tema – situazioni e contesti eccessivamente differenti[9]. La successiva categoria di «guerra agli inermi» è perciò un approfondimento della prima, ed è conseguente alla dilatazione, all’ampliamento della specificità delle vittime, non più assunte esclusivamente nel loro ruolo di “morti”.

Le loro morti sono, infatti, in qualche modo, contestualizzate, descritte, interpretate – cosa che assolutamente non vuol dire giustificate – in base alla “causa” per cui sono avvenute. Ciò significa, in pratica, che le 24.121 vittime individuate (una stima comunque destinata a non essere definitiva) non furono uccise in quanto o solo in quanto civili, ma anche in quanto partigiani o militari disarmati, antifascisti o sostenitori dei partigiani, ebrei, disertori e renitenti alla leva di Salò etc.

Di conseguenza, nelle 5.750 schede dell’Atlante – tanti sono gli episodi di strage censiti[10] – si è ritenuto, scrivono Pezzino e Fulvetti, di attribuire «la qualifica di “civili” solo a coloro che erano stati selezionati a caso, differenziandoli da quelli uccisi per una loro chiara attività di opposizione […], o per aver vestito una qualche divisa […] o un abito religioso, o perché colpiti in quanto ebrei, o ancora per il rifiuto di far parte dell’esercito della Rsi […]»[11].

Sebbene in questo quadro i civili restino in ogni caso la maggior parte dei morti – 12.922 su più di 24.000 –, tale “approfondimento” ha restituito alle vittime la qualifica di cittadini, cosa che fanno anche, se non soprattutto, i nomi e cognomi che ci si è ostinati a ritrovare e riportare. Cittadini, non semplicemente travolti dagli eventi della storia, per quanto questo non risolva minimamente la totale “gratuità” e criminalità della loro morte.

Quella di «guerra agli inermi» è definizione che rimanda direttamente all’oggetto, al destinatario dell’esplicitazione di quella violenza: l’inerme, il senza armi, cosa che ha permesso di includere nel computo anche gli stessi partigiani quando, catturati e disarmati, venivano uccisi – spesso, anzi, barbaramente trucidati – senza che fosse loro garantita la tutela che sarebbe spettata a un nemico riconosciuto come legittimo. Nell’Atlante, tra gli inermi, sono così rientrati i partigiani non caduti in combattimento ma, dopo la cattura, fucilati, mitragliati, impiccati, annegati, arsi vivi, torturati a morte. Sono, dopo i cosiddetti “civili”, la seconda categoria di vittime in ordine di grandezza: 7.241.

Contestualizzare e catalogare le stragi non è un mero esercizio statistico, anzi: è qualcosa che ci permette di andare oltre il dato numerico e di fare della storia, di questa storia, un argomento di decifrazione degli eventi. Ci complica le cose, quindi le rende utili. Ad esempio, ci permette di evitare il discorso, non scientifico né tanto meno rispettoso nei confronti delle vittime, relativo all’«irrazionalità del male»[12] come causa di tutto, alla follia di pochi che causarono danni e dolori irreparabili.

È un discorso, questo, si diceva, irrispettoso e giustificazionista, oltre che scorretto, perché nasconde un dato basilare per la comprensione, e cioè il fatto che tutto quello che accadde, accadde sulla base di un piano preciso, attentamente studiato e preparato[13]. Fu qualcosa di voluto dagli uomini, insomma, non un volere del fato.

La guerra contro gli inermi fu infatti una delle tre guerre, così ben individuate e descritte da Carlo Gentile, che i tedeschi svilupparono in Italia tra 1943 e 1945: la prima fu quella contro gli eserciti alleati, la seconda quella contro i partigiani, la terza quella contro le popolazioni[14]. Quest’ultima fu una guerra che si svolse lungo direttrici nazionali (sud-nord) e non risparmiò alcuna piccola e grande terra d’Italia: 24.112 vittime in 5.750 episodi distribuiti dal sud al nord più profondi.

Fu una guerra che cominciò settimane prima dell’armistizio – la bollente estate del 1943 nella Sicilia dello sbarco alleato, dello sbando militare italiano e della furia degli allora ancora alleati tedeschi – e si concluse dopo la grande insurrezione nazionale, la liberazione del Nord intorno al 25 aprile 1945, con le ultime feroci stragi della ritirata, con centinaia di morti – 1.590 furono i morti “di strage” dopo il 25 aprile – inconsapevoli di quella raggiunta libertà, travolti dalla violenza dell’esercito tedesco, e dei suoi alleati fascisti, in una rotta senza speranza.

Fu una guerra in cui si intrecciarono, accavallarono o convissero decine di “ragioni” per le stragi, “modi” per perpetrarle e tipi di vittime. È quindi una storia che racconta l’estrema varietà delle pratiche di occupazione e controllo dei territori, l’estrema labilità nella sicurezza degli abitanti – si veniva uccisi anche perché non si comprendeva un ordine, o per aver difeso la propria figlia da una violenza sessuale – l’estrema molteplicità delle pratiche repressive.

Non furono solo rappresaglie quelle che condannarono gli inermi a una morte brutale e destinata a non avere giustizia, e non sempre fu immediato il rapporto tra l’attività partigiana e la brutalità nazista e fascista, come si è a lungo pensato, in termini di un’accusatoria esclusiva.

Tale brutalità, anzi, si legò molto spesso – lo dicono i numeri – all’andamento della guerra, all’essere il fronte più o meno vicino: come ha scritto Gentile «la topografia delle stragi […] mostra che il grosso dei crimini più gravi andò a concentrarsi nella zona di combattimento o immediatamente alle sue spalle. […] Qui i crimini non erano necessariamente legati all’attività di gruppi partigiani, che al fronte era relativamente rada»[15].

È indubbio e scientificamente provato che vi sia stato spesso un collegamento tra l’attività resistenziale e quella repressiva nazista e fascista; tuttavia, a lungo, a volte ancora oggi, si è voluto vedere in tale collegamento una “responsabilità”, una “colpa” dell’azione partigiana nello scatenamento della strage, in un discorso che delegittima integralmente la giustezza e la moralità della Resistenza, e che serve – sviluppato com’era soprattutto negli anni in cui per le stragi non c’era giustizia né discorso pubblico ma occultamento – a tacere le colpe della ragione di Stato.

È forse superfluo, ma è comunque bene ribadirlo: le stragi furono una – la più atroce – delle forme di esplicitazione, della messa in pratica, della politica di occupazione nazista e fascista sul territorio, occupazione contro la quale la Resistenza italiana lottò a pieno titolo, al fianco degli eserciti alleati e delle ricostituite formazioni regolari delle forze armate regie. I responsabili delle stragi agirono solitamente sulla scorta del principio della “responsabilità collettiva”, identificando volutamente e strumentalmente partigiani e popolazione. La presenza della Resistenza fu anzi spesso una buona scusa per i tedeschi e i fascisti che, come a Sant’Anna di Stazzema, «non tentarono [neanche] – ha scritto Maurizio Fiorillo – di distinguere tra partigiani, collaboratori e non combattenti, procedendo all’uccisione dei civili […] trovati sul posto»[16]. Del resto, gli inermi erano un nemico molto più semplice da affrontare rispetto ai partigiani armati.

Ci furono, però, le rappresaglie, eccome: furono anzi la seconda “tipologia” di eccidio più praticata dai responsabili delle stragi, seconda solo a quella dei rastrellamenti – la Toscana fu molto colpita da questi ultimi, soprattutto nella loro versione antipartigiana[17]. I rastrellamenti colpirono civili, collaboratori dei partigiani e partigiani stessi, e comportarono bandi di sfollamento, razzie, deportazioni, distruzione di raccolti e uccisione di bestiame. In sintesi, un rastrellamento era la cancellazione, dalle fondamenta, di ogni possibilità di sopravvivenza per le singole comunità del paese; era la distruzione del luogo, spesso definitiva, biologica e materiale, a partire, ovviamente, dagli esseri umani. Era, ovviamente, un durissimo colpo all’esistenza partigiana, che in quel contesto viveva e operava, e che quel contesto sperava e tentava di proteggere.

Ci furono poi – ma ci si sta limitando ad alcune delle categorie – le “stragi di desertificazione e ripulitura”, la terra bruciata, che colpì decine di abitanti di paesini e frazioni del territorio nazionale – comprese, anzi particolarmente coinvolte, le terre toscane – che, anche “solo” per “mere” ragioni di sopravvivenza, non volevano abbandonare la loro casa, la loro poca roba, quel po’ di raccolto, il maiale o la mucca, in zone che i tedeschi ritenevano di importanza militare, e così da sgomberare.

Le persone travolte da questa ulteriore modalità della violenza non furono “solo” uccise, magari facendole saltare in aria con le loro case, ma vennero anche, spesso, fatte prigioniere, torturate, stuprate e poi assassinate. La Toscana fu uno dei luoghi principali dell’Italia centrale in cui, tra la primavera e l’estate del 1944, i tedeschi – e i loro alleati fascisti – scatenarono una gigantesca offensiva contro i partigiani, finendo con il far sovrapporre – come scrive Fulvetti – «zona di guerra e spazio partigiano»[18]. In quel contesto tutto era nemico da abbattere: il partigiano in armi, il soldato alleato, il bambino del girotondo di Sant’Anna di Stazzema.

A tutto questo va aggiunto – è anch’esso un dato sostanziato da numeri provenienti da fonti verificabili – un’infinita quantità di cosiddette “violenze connesse”, quelle che, come si accennava, accompagnavano, immancabili e impietose, la violenza letale: incendi, saccheggi, deportazioni, violenze sessuali, torture.

Ancora, la storia che l’Atlante racconta è, per quanto possibile, la storia dei carnefici, compresi i fascisti, responsabili di «un autonomo stragismo di italiani contro italiani, più politico, più urbano, non legato al sistema degli ordini o alla ritirata quanto al revanchismo contro i “traditori”», scrivono Pezzino e Fulvetti[19].

Questi carnefici, per quella che avrebbe dovuto essere la loro storia, sono i protagonisti della seconda parte di questa lezione.

[1] www.straginazifasciste.it. Il sito è accompagnato da un volume di taglio interpretativo, al quale si farà spesso riferimento, curato da Paolo Pezzino e Gianluca Fulvetti: Zone di guerra, geografie di sangue. Le stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Bologna, Il Mulino, 2016.
[2] Penso, ovviamente, proprio alla Toscana e anche ad alcuni studi dello stesso Ivano Tognarini o da lui curati, come La guerra di liberazione in provincia di Arezzo. 1943-1944. Immagini e documenti, Arezzo, Amministrazione provinciale, 1987; Guerra di sterminio e Resistenza. La Provincia di Arezzo, 1943-44, a cura di I. Tognarini, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1990; I. Tognarini, Kesselring e le stragi nazifasciste. 1944: estate di sangue in Toscana, Roma, Carocci, 2002; L’Appennino del ’44. Eccidi e protagonisti sulla Linea Gotica, a cura di I. Tognarini, Montepulciano,  Le balze, 2005.
[3] A partire dal volume di Michele Battini e Paolo Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Venezia, Marsilio, 1997.
[4] C. Dogliotti, Cronografia. Territori e fasi della politica del massacro, in Zone di guerra, geografie di sangue, cit., p. 107.
[5] Cfr. ciò che scrive Gianluca Fulvetti, in G. Fulvetti-P. Pezzino, L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, Ivi, p. 82.
[6] Cfr. http://www.straginazifasciste.it/?page_id=349.
[7] Francesco Fusi, L’Italia centrale, estate 1944, in Zone di guerra, geografie di sangue, cit., p. 267.
[8] P. Pezzino in G. Fulvetti-P. Pezzino, L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, Ivi, p. 25.
[9] Ivi, p. 26.
[10] È la stima alla data del 18 maggio 2018, ma l’Atlante è in continuo aggiornamento.
[11] G. Fulvetti-P. Pezzino, L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, Ivi, p. 45.
[12] Il richiamo è ancora a P. Pezzino, Ivi, p. 30.
[13] Ibidem.
[14] Carlo Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia, Torino, Einaudi, 2015.
[15] Carlo Gentile, I tedeschi e la guerra ai civili in Italia, in Zone di guerra, geografie di sangue, cit., p. 133.
[16] Maurizio Fiorillo in Chiara Donati-Maurizio Fiorillo, Le stragi sulla linea Gotica, Ivi, p. 311.
[17] G. Fulvetti in G. Fulvetti-P. Pezzino, L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, Ivi, pp. 77-79.
[18] Ivi, p. 69.
[19] Ivi, p. 43.




Riflessioni sulla crisi della mezzadria nel Carmignanese

Un paio di anni fa, lavorando ad una ricerca sul tramonto della mezzadria nella zona di Prato con particolare riguardo alla situazione della Val di Bisenzio, ebbi modo di constatare che ben poco era stato scritto sull’argomento per quanto concerneva il Carmignanese, un territorio dove l’agricoltura ha sempre rivestito (e tuttora riveste) un’importanza rilevante e dove esistevano alcune grandi fattorie, prima fra tutte quella di Capezzana, che contava circa 120 poderi (per farsi un’idea delle sue dimensioni, davvero eccezionali, basti pensare che la Fattoria del Mulinaccio, la più grande della Vallata, che si estendeva su di un’area equivalente all’incirca alla metà del territorio dell’attuale Comune di Vaiano, comprendeva in tutto 36 poderi).

Alcune notizie sull’agricoltura a Carmignano si trovavano in opere che, per quanto interessanti e di gradevole lettura (pensiamo ai volumi di Giuseppe Mauro Bindi e di Arrigo Cecchi), rivestivano più il carattere della memorialistica che quello della ricerca storica.

Altri lavori (per esempio Carmignano. Quotidinanità e istituzioni tra Ottocento e Novecento, di Fabio Panerai) avevano un taglio sociologico, oppure fornivano solo degli spunti – sia pure stimolanti ­– sull’argomento in questione (ci riferiamo al libro di Nadia Barducci e di Paolo Gennai sulla Resistenza nel Carmignanese).

L’unica ricerca specificamente dedicata all’agricoltura nella zona (quella di Silvia Palumbo, intitolata Un’indagine sull’agricoltura nel comune di Carmignano) risaliva al 1988 ed abbracciava un periodo successivo a quello di cui ci occupiamo.

Ciò che mancava era una ricostruzione d’insieme, centrata sui fattori che determinarono la fine della mezzadria, l’abbandono delle campagne e le successive trasformazioni economiche e sociali: nacque così l’idea – subito accolta, con squisita sensibilità culturale, dal Comune di Carmignano – di lavorare ad una pubblicazione su questi temi. Il libro, arricchito da un saggio introduttivo di Fabio Bertini ed intitolato “Levassi di cappello e venir via”. Agricoltura e crisi della mezzadria nel Carmignanese, è uscito nell’aprile di quest’anno per i tipi della casa editrice Polistampa di Firenze.

Le fonti su cui lavorare erano, per fortuna, numerose: fonti archivistiche, fonti a stampa, fonti orali e risorse in Rete.

I principali documenti su cui si basa il saggio sono stati reperiti presso l’Archivio del Comune di Carmignano, presso quello della Camera del lavoro di Prato e fra le carte prodotte dalla Confederterra toscana, custodite a Firenze nella sede della CGIL regionale.

Di centrale importanza sono state le fonti a stampa, in primo luogo il periodico Toscana nuova, che pubblicava di frequente delle corrispondenze da Carmignano a firma di Gennaro Meli, scomparso di recente, segretario della Lega coloni e mezzadri e consigliere comunale del PCI nei primi anni Cinquanta.

Come spesso accade in questo genere di lavori, le fonti orali hanno avuto un ruolo di primo piano: con gratitudine voglio quindi ricordare tutte le persone che, in tempi diversi, hanno saputo fornirmi delle informazioni di grande interesse.

Utili sono state infine le risorse in Rete: pensiamo soprattutto all’Archivio della cultura contadina, consultabile online dal sito del Comune, che raccoglie una serie di interviste condotte da Giovanni Contini Bonacossi negli anni Novanta.

Il titolo del volume (“Levassi di cappello e venir via”), tratto da un componimento poetico in ottava rima del contadino carmignanese Luigi Socci, ci pare che riassuma con grande efficacia la natura del rapporto che intercorreva fra padroni e mezzadri, costretti ad obbedire senza possibilità di replica: come spesso accade il poeta popolare riesce a cogliere con precisione il fulcro dell’argomento di cui si occupa, il nocciolo della questione, ed a renderlo con quell’immediatezza che non a tutti è dato di possedere.

“Levassi di cappello e venir via”, dunque. Cerchiamo allora di ricostruire, in estrema sintesi, le condizioni dei contadini carmignanesi negli anni Cinquanta-Sessanta, gli anni che videro la fine del sistema mezzadrile.

Senza alcun dubbio la loro vita era una vita molto difficile: i mezzadri vivevano in case fatiscenti, senza servizi e – spesso – senza acqua corrente (anche qui c’era chi era costretto a percorrere 1-2 chilometri a piedi per approvvigionarsi di acqua alla sorgente più vicina); dovevano fare con le loro braccia il lavoro che avrebbero dovuto fare le macchine; le opere di miglioramento fondiario non venivano realizzate dai proprietari; il ritardo nella chiusura dei saldi era quasi la regola ed altrettanto poteva dirsi della pratica degli addebiti illegali.

Il dato che, tuttavia, balza agli occhi con maggior evidenza è quello della tenuità del reddito mezzadrile: basti pensare che, come è stato rilevato in precedenti studi, un operaio guadagnava in media all’incirca il triplo di un contadino e che nel Pratese il reddito medio mensile di un mezzadro era superiore solo a quello di un ragazzo addetto all’avvolgitrice di filati, “a far cannelli”, come si dice.

Nessuna meraviglia, dunque, che i contadini volessero abbandonare le campagne. Il discorso valeva soprattutto per i giovani, che fuggivano dai poderi rifiutando una vita senza prospettive, identica a quella dei genitori, per cercare in città un lavoro meno massacrante e più redditizio, maggiori possibilità di socializzazione e di divertimento.

La mezzadria era insomma condannata: ma i padroni volevano davvero salvarla?

In realtà, si può sostenere che essi – assumendo un atteggiamento di rigida chiusura nei confronti delle richieste avanzate dal movimento contadino – contribuissero scientemente all’affossamento dell’istituto mezzadrile, dato che il loro vero obiettivo non era la sua difesa, ma piuttosto la trasformazione in senso capitalistico delle aziende agricole, il passaggio alla conduzione a salariati.

E questo fu proprio ciò che accadde anche a Carmignano: non per nulla in un suo libro di memorie l’agrario Ugo Contini Bonacossi, proprietario della Fattoria di Capezzana, ha scritto che la fine della mezzadria consentì ai proprietari una gestione delle aziende più agile e, con l’abbandono delle colture promiscue, necessarie al sostentamento della famiglia colonica, rese possibile un’utilizzazione più razionale del suolo.

Questa fu la linea che finì col prevalere, anche se c’era la possibilità di politiche alternative – imperniate su una riforma agraria strutturale, che desse ai contadini la terra ed i mezzi per lavorarla – la cui realizzazione fu resa impossibile dalle resistenze degli agrari e delle forze politiche di maggioranza, che costituivano il loro referente al governo ed in Parlamento.




I bombardamenti su Siena (1944)

La storiografia si è a lungo rivolta allo studio delle incursioni aeree sul territorio italiano da un punto di vista prettamente bellico, dedicando quindi grande attenzione alle operazioni militari e tralasciando spesso le conseguenze prodotte sul territorio e sulla popolazione civile. Tuttavia, come ha osservato Nicola Labanca, quella dei bombardamenti aerei non è storia militare ma è storia à part entière della guerra totale: è la storia non solo delle forze armate che la realizzano ma dei governi che ne decidono gli obiettivi come delle società civili che ne sopportano gli effetti.[i] Questo, peraltro, è ancor più vero per un territorio come quello senese, il quale visse in maniera assolutamente singolare l’esperienza della guerra aerea.[ii]

Come in molte altre città d’Italia, anche a Siena l’allestimento delle misure di difesa antiaerea in vista di futuri conflitti ebbe inizio a partire dagli anni Trenta. Nel 1936 si svolsero le prime prove di oscuramento in tutta la provincia senese,[iii] cui seguirono nel maggio del 1940 due giorni di esercitazioni per eventuali attacchi chimici.[iv] La mancanza assoluta di fondi rese tuttavia impossibile affrontare le spese necessarie alla costruzione di rifugi antiaerei, all’istallazione di un impianto di sirene di allarme e persino all’acquisto dell’equipaggiamento per le squadre di primo intervento. Di questi problemi si lamentò più volte l’Ispettore Provinciale di Protezione Anti Aerea, tenente colonnello Giuseppe Crocini, il quale denunciò inoltre la scarsa coscienza antiaerea dimostrata dagli enti e dalle istituzioni cittadine.[v]

A causa di tali carenze, Siena giunse al momento dell’ingresso in guerra dell’Italia, il 10 giugno 1940, totalmente sprovvista di qualsiasi struttura difensiva.

Inizialmente, le autorità affrontarono il problema realizzando alcuni ripari antischegge nei vicoli del centro storico,[vi] mentre i primi grandi ricoveri pubblici, capaci di ospitare alcune migliaia di individui e di resistere perlomeno all’impatto con ordigni da 100 kg,[vii] vennero completati soltanto nel corso del 1943.

Il primo bombardamento subito da Siena il 23 gennaio 1944, in cui persero la vita venticinque persone,[viii] arrivò in maniera del tutto inaspettata, dopo oltre tre anni di guerra durante i quali la città non era mai stata oggetto di attacchi e, proprio per questo, aveva rappresentato un riparo sicuro per chi fuggiva dal conflitto: basti pensare che le strutture ospedaliere senesi arrivarono a contare oltre 6.000 posti letto[ix] e che in tutta la provincia affluirono più di 18.000 sfollati[x], provenienti da ogni parte d’Italia; numeri enormi per il tempo, considerato anche il difficile contesto nel quale queste persone vennero accolte.

La città del Palio subì alla fine un numero piuttosto limitato di bombardamenti – i più rilevanti furono quelli del 23 e 29 gennaio, 8 e 16 febbraio, 11 e 14 aprile – i quali tuttavia causarono più di quaranta morti, assieme alla distruzione della stazione ferroviaria, della Basilica e del Convento dell’Osservanza e di numerose abitazioni private. A queste operazioni più note, si aggiunse inoltre una lunga serie di spezzonamenti e mitragliamenti, di molti dei quali è andata perduta nel tempo la memoria, ma che produssero comunque danni ed alcune vittime. Tra questi vale la pena ricordare lo spezzonamento avvenuto in Piazza San Francesco il 10 giugno 1944, il quale provocò la distruzione di tutte le vetrate della Basilica e l’uccisione di un soldato tedesco, oppure quello che si verificò in Piazza del Duomo e Via dei Pellegrini nella notte tra l’1 ed il 2 luglio 1944, del quale sono ancora visibili i segni sul Battistero e sulle  mura del Museo dell’Opera. Ma l’elenco comprende pure Via Roma e Fieravecchia, spezzonate il 16 maggio 1944, la Barriera di San Lorenzo, Porta Pispini, Via Pantaneto, Via Diacceto, Via San Pietro e molte altre.[xi]

Sebbene la posizione piuttosto defilata e l’assenza di obiettivi di particolare rilevanza militare – con l’unica eccezione della stazione ferroviaria – abbiano posto Siena al riparo da distruzioni particolarmente estese, la città subì comunque gli effetti della guerra aerea su tutto il proprio territorio, non soltanto nelle aree periferiche e di campagna, ma anche all’interno del centro storico, circostanza quest’ultima conosciuta prevalentemente dagli storici locali ed ignorata dai più.

Note:
[i]Labanca Nicola (a cura di). I bombardamenti aerei sull’Italia. Politica, stato e società (1939-1945). Il Mulino; Bologna, 2012, p. 8.
[ii]Questo breve contributo è tratto dalla tesi di laurea dell’autore: La guerra aerea su Siena. Misure difensive, bombardamenti, iniziative diplomatiche. Tesi di Laurea in Scienze Storiche e del Patrimonio Culturale, Università degli Studi di Siena, anno accademico 2016-2017. Per ulteriori informazioni sui bombardamenti aerei nella provincia senese durante il Secondo conflitto mondiale, si vedano Biscarini Claudio. Bombe su Siena. La città e la provincia nel 1944. Del Bucchia; Massarosa, 2008; e Luchini Luca. Siena 1940-1944. Il dramma della guerra e la liberazione. Il Leccio; Monteriggioni, 2008, pp. 93-112.
[iii]Archivio di Stato di Siena [d’ora in poi ASSI], Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 10M, f. 10. 8 settembre 1934 relazione dell’Ispettore Provinciale P.A.A. a Prefetto ed Ufficio dello Stato Maggiore di Firenze.
[iv]Il Telegrafo, 29 Maggio 1940. La perfetta riuscita degli esperimenti di protezione antiaerea.
[v]ASSI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 8M, f. 3. 28 settembre 1937, relazione dell’Ispettore Provinciale di P.A.A. al Comando del Distretto Militare di Siena.
[vi]ASSI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 6M, f. 15. 13 febbraio 1941, lettera dell’Ispettore Provinciale P.A.A. al Ministero dell’Interno, prot. 2445 P.A.
[vii]ASSI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 1M, f. 3. 16 novembre 1942, lettera del Podestà al Presidente del C.P.P.A.A., prot. 13290.
[viii]Questi i nomi delle vittime: Baccheschi Ada; Ridolfi Galeazzo; Carreri Vanda; Carreri Emma; Campolmi Natale; Franci Quirino; Borri Aldo; Saccardi Ubaldo; Centini Fortunato; Colicchi Giulio; Bartoli Elia; Mariti Ezio; Bartalini Giuliana; Pacini Maria; Anatrini Zaira; Anatrini Gino; Anatrini Mario; Del Lungo Primetta; Selvolini Tea; Maccari Santi; Veneri Ida; Maccari Maria; Marzucchi Azelio; Campolmi Duilia; Santi Dina. Cfr. ASSI, Prefettura. Ufficio Gabinetto (1935-1957) – III Versamento (2004), b. 77, f. 41. Elenco delle vittime dell’incursione aerea del 23 gennaio 1944.
[ix]Paoletti Paolo. La vicenda diplomatica del riconoscimento di Siena “città aperta”: tra il falso storico della “città ospedaliera” e la verità oggettiva del centro ospedaliero, in Biscarini Claudio, Meoni Vittorio, Paoletti Paolo. 1943-1944. Vicende belliche e resistenza in terra di Siena. Nuova Immagine; Siena, 1994, p. 44.
[x]La Nazione, 14 Marzo 1944. Relazione del Capo della Provincia sull’attività svolta dal Partito.
[xi]AS-SI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 17M, f. 4. Diari della P.A.A.; AS-SI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 17M, f. 5. 1940-1944, Quaderno degli allarmi.




Il Centro di Documentazione di Pistoia: protagonisti e fonti del ’68 pistoiese

All’ultimo piano della biblioteca San Giorgio, un po’ in disparte rispetto al via vai di studenti che frequentano ogni giorno la biblioteca comunale di Pistoia, si trova il Centro di Documentazione. Entrando, tra scaffali pieni di riviste e manifesti, è possibile incontrare ogni pomeriggio un nutrito gruppo di persone che, a titolo volontario, cura e gestisce un archivio, una biblioteca, un’emeroteca e una casa editrice: un patrimonio di materiali fondamentale per studiosi di tutto il mondo.

Il Centro di Documentazione è nato nella temperie culturale della contestazione del 1968 e ha saputo attraversare le stagioni successive, le problematiche interne e i mutamenti esterni, mantenendo un ruolo originale e serio nel mondo culturale pistoiese e italiano.

A cinquant’anni dal 1968 molte delle realtà nate negli anni della conestazione si sono esaurite, il riflusso nel privato ha spento gli ardori di molte associazioni e ha prosciugato le risorse, non solo economiche, di molte esperienze: non è questo il caso del Centro di Documentazione di Pistoia che ha saputo mantenere salde le proprie radici e, allo stesso tempo, rinnovarsi in un mondo completamente mutato.

Ma com’è nata questa esperienza? Nel 1968 Giuliano Capecchi, Paolo Turi e Carmine Fiorillo ebbero l’idea di iniziare a raccogliere in casa del primo, in via degli Argonauti a Pistoia, riviste e materiali da tutto il mondo relativi ai gruppi cattolici, alle attività politiche delle formazioni extraparlamentari, alle diverse aree della marginalità, alla cultura underground: in generale tutto il materiale scritto, indipendentemente dalla provenienza, purché prodotto dai gruppi della contestazione.

Intorno al materiale raccolto si radunò un gruppo di ragazzi che si autodefinì come “un gruppo di giovani che svolgono un lavoro di ricerca e di informazione sui problemi della “nuova sinistra” italiana e dei movimenti rivoluzionari mondiali, con riferimento anche a certe tendenze esistenti all’interno delle comunità cristiane”.

Ben presto il gruppo corredò il lavoro di raccolta con la pubblicazione di un Bollettino, che dal 1970 divenne Notiziario del centro di Documentazione, per far conoscere le proprie attività e il proprio materiale e per distribuire quello prodotto dai gruppi della contestazione.

Sfogliando i primi numeri della rivista emerge con chiarezza un’iniziale vicinanza del Centro di Documentazione al mondo del dissenso cattolico, cioè a un movimento diffusosi in tutta la Chiesa cattolica dopo il Concilio Vaticano II che cercò di unire la fede cattolica ad un impegno concreto per la giustizia sociale nel mondo.  I temi del bollettino sono emblematici: le lotte degli afro-americani negli Stati Uniti e in particolare l’uccisione di Martin Luter King; i cristiani e la rivoluzione; le vicende dell’Isolotto, famoso caso fiornetino centrale nel dissenso cattolico italiano, con il volume L’Isolotto: popolo di Dio che in seguito fu ripubblicato da Feltrinelli; il doposcuola, sull’onda dell’esperienza di don Lorenzo Milani (morto nel 1967) e a seguito di alcune esperimenti realizzati a Pistoia dagli stessi membri del Centro.

La politica permeava la scelta di ogni argomento; il Notiziario tuttavia non era una rivista di riflessione politica, come molte ne esistevano in quegli anni, ma era un notiziario appunto: un resoconto di quanto accadeva in Italia a livello editoriale nel mondo della contestazione, che fossero pubblicazioni di case editrici o ciclostilati in proprio di gruppi spontanei. Le case editrici di cui si pubblicarono i cataloghi furono tra le altre La Locusta, Jacka Book, la Claudiana, ora come allora di chiara impronta cattolica.

Il Notiziario offriva strumenti di informazione come elenchi bibliografici su determinati argomenti. Il primo dei quali fu sul tema dell’obiezione di coscienza al servizio militare, col preciso intento di fornire un’adeguata documentazione alla diffusa mobilitazione contro l’esercito. Il secondo sulla Chiesa in Italia, o meglio, su una specifica parte della Chiesa in Italia quella delle Comunità di base: «Crediamo che queste esperienze di base, seppur fra loro spesso differenti, siano un preciso segno dei tempi. Queste esperienze e altre che non sono documentate in libri rappresentano la vera Chiesa in Italia». Infine un ultimo tema presente tra i primi numeri del Notiziario – e rimasto al centro delle iniziative anche successive del Centro –  fu il tema della salute mentale. I titoli presentati delle bibliografie erano vari e riconducibili a diverse impostazioni ideologiche: il Centro si proponeva di farli conoscere senza censure e senza giudizi, al solo fine di fornire strumenti di conoscenza. Un’impostazione aperta che rispecchia la natura di tutta la collezione del Centro.

Il Centro di Documentazione non si limitò a raccogliere materiali pubblicati da altri, ma fu fin dalle sue origini anche una casa editrice. Scorrendo l’elenco dei titoli delle prime pubblicazioni si nota come la casa editrice permise un contatto tra la piccola cittadina di Pistoia e alcuni importanti intellettuali di quegli anni. Fu pubblicato a Pistoia Il Cristianesimo nel mondo moderno del pastore valdese Giorgio Bouchard, moderatore della Tavola valdese e presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia. Fu dato alle stampe Cristianesimo e lotta di classe di Giulio Girardi, sacerdote animatore dell’esperienza dei Cristiani per il Socialismo, un movimento diffusosi dal Cile in Europa e in Italia. Tradotto per la prima volta in Italia un testo di Jürgen Moltmann, tedesco riformato tra i più importanti teologi evangelici del ‘900. Infine, stampato il saggio di Ivan Illich  Distruggere la scuola: sei saggi sulla descolarizzazione, nonostante una controversia con l’editore Mondadori che ne deteneva l’esclusiva e che non mancò di ricordarlo al piccolo editore pistoiese con una visita del proprio avvocato.

Da allora il Centro ha cambiato molte sedi ed è diventato una tappa fondamentale per ogni ricerca sugli anni Sessanta e Settanta del ‘900 perchè è riuscito a preservare un importante patrimonio che oggi è possibile conoscere attraverso il catalogo della rete bibliotecaria di Pistoia e, per quanto riguarda le riviste, il catalogo nazionale dei periodici (ACNP).

Francesca Perugi è dottoranda presso l’Università Cattolica di Milano e membro della redazione dei Quaderni di Farestoria. Ha curato la mostra e l’omonimo numero monografico di QF “Cupe vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti”.




Quel 29 giugno del 1944

Il passato imprevedibile

Gli antropologi non sono degli storici, ma hanno una importante componente di formazione legata alle teorie della storicità. L’evoluzionismo, il diffusionismo, il marxismo e lo strutturalismo, che hanno segnato l’antropologia del Novecento, sono teorie che si basano tutte su una idea della storia. Nella mia formazione antropologica mi sono abituato a immaginare il processo storico sulla base di leggi che regolano i comportamenti collettivi (lotta delle classi, evoluzione delle civiltà, diffusione da un centro, modelli simbolici e secondarietà della storia). Con la ‘crisi delle grandi narrazioni’ anche queste idee normative e  generali della storia  si sono fortemente indebolite. A me personalmente, legato come sono – da antropologo – allo storicismo italiano che è attivo anche nel pensiero di Gramsci, si sono aperte possibilità complesse di attenzione e comprensione dei fatti e soprattutto delle rappresentazioni storiche, pur non rinunciando a ricondurle sempre ai processi collettivi di cui ci occupiamo. Nel mio lavoro di collaborazione con l’Archivio Nazionale Diaristico di Pieve Santo Stefano, nel quale sono membro della giuria e quindi ‘lettore’, mi è capitato tante volte di avere tra le mani diari, autobiografie, epistolari i cui contenuti narrativi non corrispondevano alle immagini generali che avevo della storia e dei suoi soggetti. In senso generale ‘scandalosi’ per le mie ‘precognizioni’. Mi abituavo così a non dedurre il passato da un modello generale, ma ad aprirlo vistosamente alla varietà delle forme della vita. Poteva essere un maestro fascista in Dalmazia, che non corrispondeva alla mie idea dei maestri fascisti, o un emigrato italiano in Australia, o un prigioniero italiano in India, ma l’idea di parlare di un ‘passato imprevedibile’ mi è venuta leggendo l’epistolario di un giovane aristocratico  siciliano – Fazio Salvo dei Baroni di Nasari  – che a metà dell’800 faceva il Gran Tour al rovescio, dal Sud al Nord, e raccontava come era Firenze per lui in quell’anno, come erano i vestiti alla moda, le serate mondane, poi raccontava Torino, poi la Germania, chiedendo soldi ai familiari, in modalità simili ai ‘bonifici bancari’ (che io ho appena scoperto) ben note a viaggiatori e commercianti di quel secolo[1]. Ma non è un problema di rivalutazione della storia ‘individuante ’ o ‘evenimenziale’, ma piuttosto di apertura a diversi possibili  modi di immaginazione storiografica e antropologica  di tratti del passato.  Intanto nel 1994 mi ero  imbattuto in un mondo per me davvero inimmaginabile: quello del vissuto dei sopravvissuti alle stragi naziste in Toscana. Una esperienza che mi ha cambiato, come succede quando si fanno ricerche importanti.

Stragi

Nel 1993/94 fui coinvolto da Leonardo Paggi in un progetto di ricerca sulla memoria delle stragi naziste in Toscana, che si svolgeva tra Civitella della Chiana e Bucine. Il caso era caratterizzato – oltre che dalla quantità dei morti civili – dalla ostilità dei sopravvissuti verso i comportamenti delle locali formazioni partigiane. Il fenomeno della  ‘memoria antipartigiana’ è noto e documentato lungo tutto il passaggio del fronte tra Toscana ed Emilia.[2] Lo affrontai con un gruppo di ricerca di giovani ricercatori e studenti che venivano dalla Università di Roma (dove allora insegnavo antropologia culturale) e di Siena (doveva avevo insegnato fino al 1991);  insieme ad altri  colleghi storici e antropologi, tra i quali mi  pare importante ricordare  Francesca Cappelletto che scrisse delle stragi naziste anche su riviste internazionali. La ricordo con particolare emozione perché è morta assai giovane. C’era Giovanni Contini, storico orale della Soprintendenza regionale archivistica e la antropologa visiva Silvia Paggi che realizzò un film. Ci fu anche un convegno internazionale In memory: per una memoria europea dei crimini nazisti. La ricerca produsse molto materiale di intervista poi versato alla Regione Toscana. Anni dopo fu la Regione Toscana a riprendere un progetto più ampio di ricerca delle stragi sulla Toscana a tutto campo. La guidò ancora Leonardo Paggi, e io partecipai con un gruppo di ricerca dell’Università di Firenze, alcuni laureati romani, e la direzione di Fabio Dei. Con alle spalle l’esperienza di Civitella fu più facile, ma non meno doloroso incontrare mondi di una Toscana marginale, montana e contadina, così segnati dal lutto.  Puntammo la ricerca sulla ‘rappresentazione degli eventi e del lutto e sui riti di memoria’[3].

La ricerca di Civitella fu una vera iniziazione. Mi ero formato agli studi sulla Resistenza con una ricerca sulla memoria orale dei testimoni della Spartaco Lavagnini, e della Garibaldi Boscaglia, tra Siena e Pisa. Avevo della Resistenza una immagine un po’ epica, e un po’ radicale. Nei primi anni ’80 collaborai con l’Istituto di Milano (INSMLI), allora diretto da Guido Quazza su temi della didattica della storia, e i miei riferimento cominciarono ad essere meno epici e più legati alla vita quotidiana, Quazza e poi Claudio Pavone – da dentro la loro esperienza – ci avevano insegnato a far calare l’epos e il tasso di ideologia dalla memoria della Resistenza, e a far crescere la comprensione di molteplici storie di giovani, spesso confuse, complesse da discernere, formatesi sul campo talora a partire dai renitenti alla leva. Anche alla Resistenza Quazza aveva osato estendere il tema del ‘personale’ , della spontaneità, che tanto aveva caratterizzato la fine degli anni ’70 e l’esplosione  del femminismo. E Pavone ci aveva inquietato e fatto riflettere sulla nozione di ‘guerra civile’ che chiedeva una nuova complessità dello sguardo storico. Ciononostante fu duro per me affrontare l’incontro con i rappresentanti delle famiglie di Civitella colpite dalla strage, disposte a collaborare solo a patto che noi non li confondessimo con il mondo della resistenza e non difendessimo quella resistenza locale che vedevano come causa prima della strage. Gli antropologi tendono sempre – metodologicamente – ad essere dalla parte dei loro testimoni, e questo ci facilitò l’impresa.  E questo risultò per me poi un arricchimento e una apertura imprevista alla comprensione.

Non sapevo se era la fine del mondo

I risultati condivisi della nostra ricerca non furono accettati facilmente, e fu soprattutto il libro di Giovanni Contini La memoria divisa (Milano Rizzoli 1997) a essere bersaglio di interpreti troppo fedeli alle ideologie e alle letture  più classiche della memoria antipartigiana.

Io ebbi una grande difficoltà ad elaborare questa esperienza. E debbo dire che dovetti accettare la presenza di una forte componente emotiva, un senso di smarrimento e di recupero della ragione, che è giusto raccontare in sede storica e antropologica. Come è giusto fare la storia e l’antropologia dei sentimenti, è anche giusto riconoscere il ruolo dei sentimenti nella ricerca.

La comunità di Civitella si aprì alle nostre interviste, i miei studenti furono adottati e coinvolti nelle memorie luttuose  e nella incessante presenza di un cordoglio mai compiuto del tutto.

Al centro della ricerca si posero decisamente i racconti. I racconti delle vedove, che in parte erano stati già proposti sulla rivista Società nel 1946, con stile orale, colpivano molto . Raccontavano delle giornate di sole, legate all’arrivo dell’estate, ai lavori della campagna, traversate dal dolore, dalla paura, dalle mitragliatrici, dal sangue, da eventi indicibili, fissati nella memoria come sul nitrato d’argento di una pellicola fotografica.

Il racconto su Società della vedova Marsili, mi rimase nella memoria:

 “…Non si vedeva che cadaveri di uomini, ma non potevo conoscerli perché i miei occhi erano velati dal dolore e dalla paura. Non sapevo se era la fine del mondo…” (Giuseppa Marsili vedova Tiezzi, in Società ,7-8, 1946)

La fine del mondo era anche il titolo della raccolta di scritti postumi dell’antropologo Ernesto De martino, dedicate a quelle che lui chiamò ‘apocalissi culturali’. Così mi colpirono i racconti dei corpi portati ai cimiteri, dei bambini testimoni di morti tragiche di persone carissime, il tutto legato a un cielo azzurro, a una giornata di sole, a una presenza delle messi e dei lavori agricoli.  La pioggia compare nella strage di Monte Sole, quando era cominciato l’autunno e il fronte si era spostato più a Nord.

Così anche i racconti dei bambini che trasportando in delle carriole i corpi dei loro cari improvvisamente prendevano velocità e si rincorrevano, e ridevano, e così finivano per far rientrare il  gioco dentro la morte.

I fatti, i ‘nudi fatti’ sono ora – asciutti ma capaci di suscitare ancora interpretazioni – nella scheda su Civitella della Chiana dell’Atlante delle Stragi naziste e fasciste in Italia. Meno di una pagina.  Che senso ha allora questa mia riflessione?

Il vecchio marinaio

Ho spesso raccontato ai miei studenti, ma anche in conferenze esterne all’Università, e di recente anche con un Power Point, questa esperienza di ricerca. E – nel tempo – la ho sentita sempre più attuale. Le morti dei civili si sono moltiplicate nelle guerre che hanno caratterizzato il mondo dopo la caduta del muro. Quel che appariva un episodio ai margini della Resistenza italiana, è diventato paradigmatico delle guerre nel mondo. Mi colpisce che ancora qualcuno parlando pubblicamente dica che bisogna tenere memoria  perché non succeda più. Succede ancora e più di prima. Ma, soprattutto andando a presentare a  Crespino sul Lamione  il libro sulla strage scritto da Valeria Trupiano nel quadro della nostra ricerca,  in quel piccolo centro di montagna[4], dove i riti della memoria si sono radicati in un ambito fortemente religioso, mi parve evidente che gli eredi del dolore e della morte di quella terra di confine dell’Appennino, erano più vicini al dolore del mondo per le stragi dei civili di quanto fossi io, vissuto dentro la guerra ma a distanza di sicurezza. E pensai che ricordiamo per sperare, per non perdere il filo con il passato, per dare senso ai morti e al futuro, per capire meglio il dolore degli altri, non perché non succeda più.

La lettura  che feci di Civitella in una chiave ‘demartiniana’[5] in termini cioè di lutto, di cordoglio, di memoria  e di lamento funebre,  oltre la storia dei fatti, mi apriva ai temi della pietà, del perdono, che hanno traversato la filosofia postbellica ( Paul Ricoeur, su Francia e Germania; Nelson Mandela sulla riconciliazione in Africa Australe etc…) e alla comprensione dei traumi legati alle guerre vicine (in specie quella che ha fatto esplodere la Yugoslavia) , alla possibilità di comprensione e di conciliazione . Mi pareva così di animare la memoria partigiana togliendola da fondamenta un po’ invecchiate e aprendola a nuove implicazioni. Ci sono due temi che ancora mi piace ricordare, ma che chiedono un racconto ulteriore.

Leonardo

Leonardo Paggi è uno storico del quale ho avuto ammirazione già dagli anni ’70 quando tentò una analisi gramsciana della società toscana e del rapporto tra passato e presente in questa regionesulla rivista Critica Marxista , ho poi collaborato al progetto Civitella, e ancora in seguito a delle iniziativa ad esempio dedicate al film di Giorgio Diritti,  L’uomo che verrà  (2009),  sulla strage di Monte Sole, ma mi è piaciuto anche il libro Il popolo dei morti, nelle sue scritture ci sono sempre tentativi di  trovare un senso generale ai processi, di aprire varchi diversi da quelli consueti alla storia – ormai nota nei fatti e nei documenti – dell’Italia nella seconda guerra mondiale, quella in cui lui ed io siamo nati.

Ma a Civitella venni a sapere che lì era stato ucciso dai tedeschi anche suo padre, medico a Firenze, resistente di famiglia ebraica, che era andato a visitare la famiglia e aveva creduto di essere al sicuro dove la famiglia era sfollata. La famiglia ne fu fortemente segnata. Paggi Gastone 37 anni  è nella lista dei morti  della strage. Le liste dei morti sono tra le cose più emotivamente significative di queste memorie.

Una testimonianza locale  dirà:

“Il Dott. Paggi di Firenze, … viene sorpreso nella sua camera matrimoniale. La Signora ed i bambini furono visti uscire ancor seminudi, con le vesti insanguinate mentre la casa bruciava. I resti del Dott. Paggi, ridotti in cenere, furono pietosamente raccolti in una bacinella”.

Leonardo, che dirigeva il nostro gruppo di ricerca aveva fatto quella esperienza in prima persona. Forse fu questo a farmi sentire, piuttosto che un ricercatore-interprete- divulgatore,  un sopravvissuto. Ho all’incirca la stessa età di Paggi, e quando Civitella della Chiana fu messa a ferro e fuoco io avevo appena compiuto i due anni ed era il giorno del mio onomastico. Ma stavo in Sardegna, dove certo era una bella giornata di sole come a Civitella, ma dove la furia della guerra era lontana.  Ed è in questa veste che mi sono idealmente connesso alle pagine di Primo Levi de I sommersi e i salvati, in cui richiama l’obbligo di testimoniare con un brano della a Ballata del vecchio marinaio di Coleridge :

Since then, at an incertain hour

That agony returns:

And till my ghastly tale is told

This heart within me burns.

Da allora, a ora incerta/ quell’ansia ritorna/ e finchè il mio terribile racconto non è concluso/ il cuore dentro il mio petto  brucia.

Si scrive per contagio dell’orrore ed obbligo a raccontarlo.

Innocenti

Forse sono innocenti i morti dei campi di sterminio, come i morti di Civitella, forse lo sono i civili morti di tutte le guerre. Ed il cordoglio per la morte che li accomuna nella tragedia della guerra mondiale  non è poca cosa. Ormai sembra proprio una sciocchezza separare i mondi delle memoria dolorosa, tanto più che essa è diventata sempre più attuale, sempre più capace di farci capire le guerre del mondo. Dal 1994 qualcosa è cambiato. La storia del lutto di Civitella e quella delle formazioni partigiane sono state rilette nel tempo e sono ormai oggettivamente sullo stesso fronte di memoria. Oggi è possibile più che allora, quando scrissi un testo Il ritorno dall’apocalisse[6], immaginare una memoria resistenziale che possa essere rappresentata come la Madonna degli Innocenti, con un grande manto in cui tutti le vedove e gli orfani e i dolori della guerra possano essere accolti sotto il suo mantello, come nella immagine quattrocentesca dell’Istituto degli innocenti di Firenze.

L’estate toscana del 1944, che ho scoperto nella memoria dei sopravvissuti  venendo dalla Sardegna, la ho ritrovata come un segnale forte di memorie bellica in tante storie di vita dei nonni dei miei allievi fiorentini. Cercando di iniziare i giovani antropologi alle interviste e a raccogliere storie di vita facevo intervistare i nonni, e ce ne erano pochi che non erano stati contadini e non avevano avuto i tedeschi in casa.

La memoria della guerra, abbiamo visto, non serve a che la storia non si ripeta, ma a renderci sensibili al mondo in guerra, a fare vivere con noi il ricordo dei morti, a vivere avendo vicina la loro testimonianza, perché , come scrisse Berti Arnoaldi in un passo fulminante, forse il nostro compito fondativo e comune come studiosi e come cittadini di un paese che ha una Costituzione antifascista, è quello di trasformare i cadaveri  in antenati, che è il senso profondo del cordoglio.

Pietro Clemente è attualmente Presidente dell’Istituto storico senese della Resistenza e dell’età contemporanea

[1] P.Clemente, Il passato imprevedibile, in  Primapersona, 2, 1999
[2]  Ora Civitella è ben rappresentata nell’ Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia 2016 ; http://www.straginazifasciste.it/wp- content/uploads/schede/CIVITELLA%20IN%20VAL%20DI%20CHIANA%2029.06.1944.pdf
[3] P.Clemente, F.Dei, Poetiche e politiche del ricordo. memoria pubblica delle stragi nazifasciste in Toscana, Roma, Regione toscana, Carocci, 2005,
[4] V.Trupiano, A sentirle sembran storielle. Luglio 1944. La memoria della strage di civili nell’area di Crespino del Lamone, Pisa, Pacini,
[5] E.De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre al pianto di Maria, Torino, Bollati Boringhieri, 1958
[6] Apparve poi nei primi anni 2000 sul sito della Regione Toscana nella pagina dedicata alle stragi, e nle volume che concluse la seconda ricerca, generalizzata a tutta la Toscana e condotta in collaborazione con Fabio Dei : P.Clemente, F.Dei, Poetiche e politiche del ricordo. memoria pubblica delle stragi nazifasciste in Toscana, Roma, Regione toscana, Carocci, 2005,




Aspettando Hitler: la seduzione della bellezza e l’allontanamento da Firenze dell’ebreo Castelfranco.

Di tutti i luoghi che Hitler avrebbe desiderato con forza visitare anche semplicemente da turista, Firenze era la meta più agognata. Ci riuscì, accolto con inquietante bellezza e sfarzo imperiale, il 9 maggio 1938, ottanta anni fa esatti. Hitler, dalla stazione di Firenze, attraversò con l’auto scoperta il centro cittadino addobbato con sequenze ininterrotte di svastiche e bandiere gigliate, per poi dirigersi come prima tappa a Palazzo Pitti e alle sue collezioni artistiche. Quando l’auto varcò il cortile interno della reggia, probabilmente il Führer mai avrebbe immaginato che l’artefice della risistemazione di tanta magnificenza fosse stato proprio un ebreo.

La Toscana e Firenze erano la terza e ultima tappa programmata nella visita ufficiale in Italia, dopo Roma e Napoli, dopo un tour che, dal 3 al 9 maggio, avrebbe fatto fermare l’Italia per una settimana, convogliando energie e masse per salutare al meglio l’alleato nazista. In molte città fu decretata festa nazionale, gli esercizi commerciali furono chiusi, gli alberghi furono attrezzati per accogliere giornalisti e operatori cinematografici. Per Roma e provincia furono confezionate ben 13.000 bandiere tricolori con croce reale e fascio littorio, mentre i monumenti più emblematici della Capitale furono illuminati dalla luce di migliaia di fiaccole e fari, con suggestive e imponenti scenografie che riecheggiavano gli antichi fasti imperiali. Anche Napoli non fu da meno. La suggestiva visione del Golfo di Napoli, con lo sfondo del Vesuvio e della collina del monte Echia, si aprì a Hitler con la gigantesca scritta “Heil Hitler”, mentre di lì a poco avrebbe assistito alla sfilata di 200 unità navali a bordo del transatlantico Rex, con tanto di radiocronaca in italiano e in tedesco sullo sfondo.

Ogni città, in base alla sua vocazione storica e agli intenti del Duce, doveva impressionare il Führer per alcune sue peculiarità intrinseche. A Firenze era stato riservato il compito di sedurre l’alleato con la sua bellezza e armonia rinascimentale, con tanto di Ranuccio Bianchi Bandinelli, tra i maggiori archeologi di tutti i tempi, nel compito -per lui odiatissimo- di Virgilio dell’arte per i due dittatori.

Vorace collezionista e pittore mancato, Hitler amava Michelangelo, Leonardo, Raffaello, il rinascimento fiorentino e i ponti artistici che si erano creati all’epoca con il rinascimento d’Oltralpe. Legami artistici e spirituali che rinascevano nuovamente con l’alleanza dell’Asse: non a caso in una sala degli Uffizi erano stati collocati dipinti fatti arrivare direttamente dalla Germania a dialogo con la collezione di artisti tedeschi già presenti nei musei cittadini.

In questo gioco di seduzione, sotto il controllo di Alessandro Pavolini da Roma e dell’apposito ufficio festeggiamenti istituito in Comune, si erano adoperati schiere di architetti, fotografi, giovani artisti che diedero vita ad apparati effimeri degni di una corte cinquecentesca. Ma soprattutto e suo malgrado si era adoperato Giorgio Castelfranco, lo storico dell’arte ebreo direttore di un luogo altamente significativo per la visita fiorentina, un luogo dove bellezza e regalità si sposavano perfettamente: la Reggia di Palazzo Pitti.

Giorgio Castelfranco, figura di primo piano nel panorama della cultura italiana del Novecento, sia come funzionario della Soprintendenza che come critico militante e mecenate di artisti quali De Chirico e Savinio, nel 1936 era stato promosso a direttore della Galleria di Palazzo Pitti. La meritata carica sarebbe durata pochissimo: dopo aver alacremente lavorato per il riordino e la risistemazione della galleria e degli appartamenti dove il Führer, nel pomeriggio del 9 maggio, avrebbe riposato per un breve tempo le stanche membra, Castelfranco nell’aprile del 1938 fu allontanato dalla città e dal suo museo. Nella studiatissima macchina scenografica del grand tour hitleriano l’ebreo Castelfranco doveva momentaneamente scomparire.

Furono le inquietanti prove generali di disposizioni messe in atto con le successive leggi razziali. Così Castelfranco, all’inizio del 1944, in una relazione all’allora Ministro dell’Educazione Nazionale ricordava quei momenti:

È curioso che riuscii ad avere mezzi abbondanti nella primavera del 1938 sui fondi per le trionfali accoglienze fatte in Italia a Adolfo Hitler; avendo già da tempo studiato le questioni relative, potei, rapidamente, in poche settimane, realizzare un riordino parziale, che diede nei suoi limiti ottimi risultati. Mi occupai io anche del restauro del passaggio tra Pitti e Uffizi e del riordino delle collezioni di ritratti ivi esposte. Durante la visita di Hitler fui mandato con ridicoli e finti pretesti a Modena a reggere la R. Galleria Estense; avevo comunque accelerato i lavori intrapresi, che lasciai oramai terminati. Dall’estate del 1938 in poi la mia attività fu, per ovvie ragioni, ridotta; curai però ancora qualche piccolo lavoro ai locali di Pitti. Da allora cessarono anche le mie pubblicazioni e in genere, debbo dirlo, la mia attività di studi ebbe una brusca interruzione.

Nel settembre 1938 lo storico dell’arte siglò uno degli ultimi documenti, se non l’ultimo, come direttore di Palazzo Pitti, ovvero la relazione di tutti i lavori condotti tra il gennaio e il maggio 1938 nella Galleria Palatina. Il grande cantiere d’accoglienza aveva previsto il tappezzamento in seta delle sale di Marte, Apollo e Venere, la pavimentazione o il restauro di essa in tutte le sale, l’apertura di finestre sul giardino, l’abbellimento con pastelli -cari al Führer- dell’ambiente tra Palazzo Pitti e Corridoio vasariano. Niente era stato lasciato al caso: “sistemate adeguatamente  anche le latrine nell’ammezzato del Rondò di destra del palazzo” chiosava Castelfranco nella sua relazione conservata negli archivi della Soprintendenza fiorentina.

Il 20 gennaio 1939, dieci giorni prima del suo definitivo licenziamento per l’applicazione del R.D. del 15 novembre 1938, sarebbe giunto a Castelfranco, dal Ministero dell’Educazione Nazionale, il diploma a Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia, prestigiosa e beffarda onorificenza.

Alessia Cecconi (Prato, 1981), storica dell’arte, è direttrice della Fondazione CDSE (Centro di Documentazione Storico Etnografica, Vaiano, Prato); collabora inoltre da molti anni con la Fondazione Memofonte di Firenze. Le sue ricerche e pubblicazioni sono dedicate alla letteratura artistica di età moderna, alla storia della tutela del patrimonio, al rapporto tra arte e memoria. Ha coordinato per la Regione Toscana il progetto ”Resistere per l’arte: guerra e patrimonio artistico in Toscana”, tema al quale ha dedicato le sue ultime pubblicazioni e mostre. Da sempre interessata all’educazione al patrimonio, è co-autrice del manuale di storia dell’arte per la scuola media inferiore Arte e Immagine (Gruppo RCS-Fabbri editore, 2014).