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Dalla battaglia contro il riformismo alla lotta contro fascismo e stalinismo: comunisti internazionalisti livornesi.

Presentiamo, in questo come in articoli che seguiranno, alcuni profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921.

Con ciò vogliamo non solo ricordare le basi politiche su cui il Partito Comunista nacque e cioè la rottura col PSI e le sue correnti (i massimalisti di Serrati e Lazzari e i riformisti di Turati, Treves e Modigliani), ma vogliamo offrire anche alcuni elementi di riflessione per non cadere nella vulgata di quella narrazione storica in base alla quale il PCI ha sempre rivendicato una sua continuità con la scissione di Livorno, fondando caso mai la sua specificità sugli svolgimenti politico-ideali seguiti all’assunzione della direzione del Partito da parte di Gramsci con il Congresso di Lione del 1926. Indubbiamente una discontinuità reale e profonda, che in quel congresso vede l’estromissione definitiva di gran parte di quel gruppo dirigente e di non pochi militanti che quel partito avevano fondato e guidato a partire dal 1921, per poi arrivare, tra il 1927 e il 1934 ad un graduale processo di espulsione degli stessi. Credo che sia d’obbligo qui ricordare in primis Amadeo Bordiga (1889-1970), colui che sino ad allora era considerato il leader de facto del partito e che nel PSI aveva raccolto attorno a sé già dal dicembre 1918 i militanti del gruppo napoletano de Il Soviet, contribuendo a fondare la Frazione Comunista Astensionista, vero motore della scissione comunista di Livorno. E come non ricordare Bruno Fortichiari (1892-1981), attorno al quale si era organizzata la sinistra socialista milanese durante il Biennio Rosso, divenuto successivamente responsabile del lavoro illegale del PCd’I (il cosiddetto Ufficio n. I) e dei rapporti con le altre formazioni che combattevano attivamente i fascisti sul campo (come gli anarchici e gli Arditi del Popolo). Esiste poi una seconda narrazione storica relativa alla nascita del PCd’I, ripresa dalla pubblicistica più disparata che vede nella scissione di Livorno una miopia politica manifestata dai comunisti, i quali uscendo dal PSI, avrebbero indebolito il fronte antifascista che si stava con fatica cercando di costruire. Tuttavia è d’uopo ricordare in sede storica che pochi mesi dopo la scissione di Livorno il Psi firmò un Patto di pacificazione con i fascisti (3 agosto 1921), che sicuramente ha indebolito il fronte antifascista nel mentre si andavano formando gli Arditi del Popolo, organizzazione nata per arginare le violenze delle squadre d’azione di Mussolini. Oltre a ciò è necessario dire che il 15 ottobre 1922, a tredici giorni dalla Marcia su Roma, il PSI subì una seconda scissione, questa volta da parte dei riformisti di Turati e Modigliani, che andranno a formare il Partito Socialista Unitario.

Per quel che concerne la storia della Sezione Livornese del Partito Comunista d’Italia, possiamo dire che essa venne fondata il 29 gennaio 1921 da un piccolo ma determinato nucleo di militanti che precedentemente avevano ricoperto dei ruoli dirigenziali all’interno del PSI, in primo luogo quei quattro consiglieri comunali eletti nelle file socialiste nel novembre 1920 che contribuirono a fondare la sezione comunista labronica: Gino Brilli, Ilio Barontini, Giuseppe Lenzi e Pietro Gigli. In particolare significativo è il ruolo politico di Giuseppe Lenzi che fu delegato livornese a Imola, dove si erano riuniti i rappresentanti della Frazione Comunista del PSI.

Alla sezione livornese aderirono immediatamente 255 militanti provenienti in modo quasi esclusivo dalle fila del Partito socialista, in particolare da quanti avevano già aderito alla Frazione Comunista Astensionista e alla Mozione di Imola; nel corso degli anni aderirono poi al PCd’I militanti provenienti dalla corrente cosiddetta terzinternazionalista del PSI (detta terzina, corrente facente capo a livello nazionale a Giacinto Menotti Serrati, già direttore dell’Avanti e a Fabrizio Maffi), come, nella città labronica, Athos Lisa, dirigente della locale Camera del Lavoro, oppure Alberto Mario Albanesi, solo per citare i più noti.

Una parte dei militanti livornesi provennero dall’anarchismo, soprattutto negli anni seguenti alla fondazione del Partito stesso, come ad esempio gli stessi Astarotte Cantini e Fernando Ferrari.  Altro contributo assai importante alla fondazione della sezione livornese del Partito giunse dai militanti della Federazione Giovanile Socialista, che quasi al completo passarono al nuovo PCd’I, con in testa Armando Gigli, Pietro Fontana e Angelo Giacomelli.

La caratteristica dei militanti comunisti di Livorno e provincia fu la sua componente di classe, quasi tutti di estrazione operaia, fatta eccezione per alcuni militanti, i quali copriranno un ruolo dirigenziale di primo piano, al contrario di estrazione borghese: Ilio Barontini, impiegato delle ferrovie, consigliere comunale nonché assessore aggiunto nella giunta socialista del sindaco Mondolfi, proveniente da una famiglia della piccola borghesia industriale (il padre possedeva la nota fabbrica di pipe Barontini); Anna Launaro e il suo compagno Ettore Quaglierini, entrambi figli della classe media labronica, appartenenti al ceto impiegatizio e intellettuale. Tutti costoro entreranno a far parte della componente dei funzionari a tempo pieno del Partito Comunista. A questi nomi va aggiunto quello di Ersilio Ambrogi, avvocato, deputato, sindaco di Cecina, appartenente ad una famiglia della media borghesia professionale di Castagneto Carducci. Tuttavia è necessario ricordare, in sede storica, che Cecina nel 1921 apparteneva alla provincia di Pisa e quindi Ersilio Ambrogi è stato un importante dirigente per la fondazione della sezione pisana del PCd’I. Egli comunque ebbe un ruolo importante durante l’autunno del 1920, insieme col fiorentino di origine svizzera professor Virgilio Verdaro, nella fase preparatoria precongressuale, ovvero nell’aspra campagna politica, svolta anche a Livorno nelle locali sezioni del PSI, a favore della Frazione Comunista e per l’espulsione della corrente riformista, capeggiata nel capoluogo labronico da Giuseppe Emanuele Modigliani. Quest’ultimo rispose di rimando a Ersilio Ambrogi, dicendo che non era il caso che il sindaco di Cecina venisse a Livorno a dettar legge e a cercare di subornare gli animi alla propria tendenza. In quel periodo vennero a Livorno a dar man forte ad Ambrogi anche Egidio Gennari e il fiorentino Filiberto Smorti. Quanto ad estrazione sociale, il resto dei militanti erano in gran parte operai metalmeccanici del Cantiere Navale Orlando o nelle fabbriche metallurgiche del comprensorio livornese; operai specializzati delle piccole e medie imprese site tutte nella zona di Livorno Nord, in particolar modo nel quartiere Torretta, detta la Manchester della Toscana (quindi tornitori, manovali, meccanici, falegnami, marmisti e vetrai); scaricatori portuali impiegati presso il porto di Livorno o lungo il sistema di canali che conducono ad esso (navicellai); marinai civili (fuochisti e mozzi); pescatori; ferrovieri e tranvieri ed infine commessi viaggiatori. Non mancava la componente proletaria agraria, fatta di braccianti e contadini, seppur di gran lunga minoritaria rispetto a quella operaia, concentrata nella zona settentrionale della città, nel quartiere oggi detto Fiorentina (dunque al di fuori della cinta daziaria), non distante da dove sorgevano i Mercati Generali, oppure nel Comune di Collesalvetti, la cui economia all’epoca era essenzialmente agraria. A ciò si aggiungono elementi della piccola borghesia commerciale e dei servizi: negozianti (pescivendoli e alimentari); ambulanti (frutta e verdura, prodotti caseari e vestiario) e infine parrucchieri. Stessa composizione si aveva nelle cittadine e nei paesi della provincia di Livorno, che fino al 1925 comprendeva solo la città di Livorno e l’Isola d’Elba, mentre successivamente dal novembre di quell’anno col Regio Decreto n. 2011/1925 verranno aggiunti il Comune di Collesalvetti, a nord di Livorno in direzione di Pisa, e i Comuni di Rosignano Marittimo, Cecina, Bibbona, Castagneto Carducci, Sassetta, Suvereto, Campiglia Marittima e Piombino a sud. In particolare in quest’ultima città si faceva sentire la presenza comunista all’interno dell’acciaieria.

Per quel che concerne la concentrazione spaziale all’interno della città labronica, la maggior parte dei militanti livornesi proveniva dai due quartieri tra essi confinanti, nonché più sovversivi di Livorno: Pontino e La Venezia, situati nella zona nord-occidentale dell’abitato, a ridosso delle due Fortezze e in prossimità degli scali marittimi. Il primo era essenzialmente un quartiere a carattere operaio, vicinissimo al già nominato quartiere Torretta, ad esso limitrofo. Il secondo era invece uno dei quartieri storici cittadini, ampliato a partire dal ‘600, popolato quasi esclusivamente da famiglie di lavoratori portuali, zona in cui ancora oggi sorge il diroccato Teatro San Marc (dove il PCd’I è formalmente nato) e in cui ancora oggi ha sede la Fratellanza Artigiana, luogo dove spesso si sono tenute riunioni sindacali e “sovversive”.

Sul grado di istruzione dei militanti comunisti livornesi c’è da dire che essa presenta un quadro piuttosto omogeneo, come del resto nella provincia: tutti sono più o meno alfabetizzati, ma non hanno gradi di istruzione oltre la licenza elementare e in molti casi neppure quella. Vi sono tuttavia delle eccezioni; alcuni posseggono la licenza media o meglio il cosiddetto avviamento al lavoro: Barotini, Kutufà, Mannucci, Scotto, Pietro e Armando Gigli. Una militante ha la licenza di scuola media superiore: Anna Launaro, mentre due sono i laureati: Ersilio Ambrogi in Giurisprudenza e Ettore Quaglierini in Scienze Politiche.

Le donne che in quegli anni entrano a far parte del PCd’I sono quattro: Anna Launaro, Alice Giacomelli e Alda Cheli a Livorno e la cecinese Primetta Cipolli.

La prima sede del PCd’I labronico fu collocata in via Santa Fortunata, probabilmente dove oggi ci sono le Scuole medie G. Borsi, nella zona centrale della città, vicino a Piazza della Repubblica e non lontano da piazza Grande dove si trova la Cattedrale. Via Santa Fortunata si trovava in un quartiere popolare, che ospitava quotidianamente il mercato e il Mercato Coperto (come del resto ancora oggi).

I membri del consiglio direttivo della sezione livornese del Partito Comunista d’Italia, in quei primi anni furono: Gino Brilli (che ricoprì il ruolo di primo segretario), Ilio Barontini (segretario nel 1921), Carlo Cantini, Pietro Gigli (anch’egli segretario nel 1922), Giuseppe Lenzi, Carlo Kutufà, Danilo Mannucci, Otello Gragnani, Pietro Gemignani, Angiolo De Murtas, Ugo Lorenzini, Quinto Vanzi ai quali si aggiungeranno Gino Niccolai, Alcide Nocchi, Fortunato Landini, Vasco Jacoponi, mentre nel sindacato assunsero importanti ruoli dirigenti i comunisti Archisio De Carpis e Athos Lisa.

Discorso diverso deve essere fatto per Ettore Quaglierini, il quale per le sue caratteristiche intellettuali già dal marzo 1921 è chiamato dal Centro Politico del Partito a Milano e inviato poi a Mosca dove lavorerà insieme alla compagna Anna Launaro per il Komintern.

In provincia si segnalano come fondatori delle locali sezioni Plinio Trovatelli, piombinese, già presente alla fondazione del PCd’I al San Marco e di lì a poco inviato come delegato al III° Congresso dell’Internazionale Comunista, nonché Macchiavello Macchi, fondatore insieme al fratello Mario della sezione Spartacus a Collesalvetti e assessore nella giunta comunale presieduta dal sindaco comunista Alessandro Panicucci.

I giornali comunisti diffusi a Livorno erano Il Comunista, organo ufficiale del partito; Battaglia Comunista, giornale delle Federazioni di Massa, Lucca, Pisa e Livorno che veniva stampato a Massa e Avanguardia, giornale della gioventù comunista. Esisteva anche un giornale comunista locale, stampato in pochi numeri tra il 1921 e il 1922 chiamato Il Garofano Rosso, di cui purtroppo alcuna copia è oggi reperibile. Con una certa probabilità erano diffusi, anche se in misura minore, Il Soviet di Napoli (sino al 1922), l’Ordine Nuovo di Torino e a partire dal 1924 l’Unità.

Con queste biografie dal carattere non agiografico, vogliamo dunque ricordare che è esistita una schiera di militanti comunisti, che, contro venti e maree avversi, rappresentati in primis dal fascismo e dallo stalinismo, hanno continuato la loro battaglia di comunisti e rivoluzionari in coerenza con la linea politica tracciata a Livorno nel 1921.

TROVATELLI PLINIO

(Piombino (Livorno) 20.1.1886 – Piombino (Livorno) 24.12.1942)

Nato a Piombino, nell’allora provincia di Pisa da Ferdinando e Cristina Grassi, di professione è tornitore. Militante socialista dal 1901 nei ranghi della Federazione Giovanile, si segnala già nel 1906 in quanto scrive su il Martello, foglio operaio diffuso a Livorno e Piombino, dove critica la politica dell’ala riformista del PSI rappresentata a Livorno da Giuseppe Emanuele Modigliani. All’entrata dell’Italia nel Primo Conflitto Mondiale è esonerato dal servizio militare, in quanto svolge il lavoro di tornitore in una fabbrica militarizzata, destinata alla produzione bellica; tuttavia svolge propaganda antimilitarista e disfattista tra gli operai a Piombino e successivamente, nel 1917, a Savona, dove viene trasferito per motivi di lavoro. Nel corso di diverse perquisizioni domiciliari gli vengono sequestrati documenti e altro materiale che comprovavano la sua attività sovversiva. Nel gennaio 1921 è tra i fondatori del Pcd’I a Livorno in quanto è tra i 58 delegati della Frazione Comunista al Congresso Socialista i quali fuoriescono dal Partito Socialista e si recano al Teatro San Marco. Nel maggio del medesimo anno è fermato a Luino (Varese) mentre tenta di espatriare in Svizzera per recarsi nelle Russia Sovietica come delegato del Pcd’I a partecipare, con voto consultivo, al III Congresso dell’Internazionale Comunista. Riesce a varcare la frontiera insieme al comunista istriano Franz Cinseb, ma i due appena giunti in Germania vengono nuovamente arrestati. Nell’aprile 1922 in occasione del Trattato di Rapallo tra Germania e Russia Sovietica, presta sevizio quale guardia rossa presso la delegazione sovietica presieduta dal Commissario del Popolo agli Affari Esteri Georgij V.Cicerin. Nel giugno 1923 emigra in Francia presso il fratello Gino, anch’egli militante comunista, dove lavora sempre come tornitore prima a Tolone e poi a Parigi. Anche in Francia continua a svolgere attività politica per il Partito comunista e per tali motivi nel giugno 1925 è espulso dal paese ed ottiene il visto per l’Unione Sovietica, grazie anche all’interessamento di Robusto Biancani, presidente del Club di Mosca e all’autorizzazione del Comitato centrale del Partito Comunista Francese. Stabilitosi nella capitale sovietica e ottenuta l’autorizzazione a iscriversi al Partito Comunista Sovietico, inizia a lavorare come tornitore presso la fabbrica Gomsa e successivamente per l’Istituto Aereo-idrodinamico Zaghi. In quegli anni si sposa con la con Dar’ja Balandina, cittadina sovietica, dalla quale avrà nel 1930 il figlio Bruno. Alla fine del 1929 è espulso dal Pci e poco dopo dal Partito comunista sovietico in quanto accusato di appartenere all’opposizione bordighista-trotzkista. Nel 1934 trova lavoro presso la Casa cinematografica Mejrabpomfilm, fondata da Willi Muzenburg e diretta da Francesco Misiano, già deputato comunista, tuttavia a causa del clima sempre più pesante dovuto all’inizio delle purghe staliniane nel dicembre del 1936, chiede alle autorità diplomatiche italiane il passaporto per potersi recare in Belgio presso il fratello Alfredo. Costantemente sorvegliato dalla polizia politica staliniana ed essendosi fatto notare insieme ad altri trotzkisti a fare propaganda antistalinista, nella documentazione d’archivio sovietica è descritto nei seguenti termini: “Mantiene un’ideologia trotskista antipartito, distaccato dagli altri compagni, ha legami con Sensi e Cerquetti”. Nell’ottobre 1937 ottiene l’autorizzazione a lasciare l’Urss e anche grazie al “Fondo Matteotti” si stabilisce a Bruxelles, presso il fratello, dove nell’aprile del 1938 viene raggiunto dalla moglie e dal figlio. In Belgio lavora presso la bottega del calzolaio Ovidio Mariani, antifascista italiano ed entra in contatto con antistalinisti italiani lì residenti, in particolare con militanti bordighisti.  Nel luglio 1940, con l’occupazione tedesca del Belgio, chiede alle autorità consolari italiane l’autorizzazione al rientro in Italia e ma la ottiene solo nel luglio di due anni dopo. Si stabilisce quindi nel luglio 1942 a Piombino, città che aveva lasciato nel 1917 e qui muore il 24 dicembre 1942.

FONTI ARCHIVISTICHE: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen.




Contro discriminazioni e sfruttamento. Le scelte di Alessandro Sinigaglia

Alessandro Sinigaglia nasce in una villa nel comune di Fiesole il 2 gennaio 1902, la madre Cynthia White è una “negra” come si diceva allora, americana, protestante, cameriera della famiglia Smith, trasferitasi pochi anni prima dagli USA, il padre, David Sinigaglia, di famiglia ebrea, meccanico, assunto presso la villa, di nove anni più giovane della moglie. Il fatto che il bimbo nasca solo sei mesi dopo le nozze alimenta le malelingue,  si diffondono anche voci che sia figlio di figure ben più illustri di quella casa. Alessandro è quindi figlio di minoranze più o meno accettate, ma che avevano conosciuto segregazioni e che anche in quel momento sperimentavano diffidenze e disprezzo. I pregiudizi sulle donne nere ammaliatrici e selvagge certo concorrono ad alimentare le false voci sulla sua nascita. I primi anni trascorrono sereni alla Villa, figlio dei domestici formato alla cultura americana dalla madre. Ma dal 1908 con l’ingresso a scuola iniziano i problemi, ad inizio Novecento non facile essere accettato per chi è diverso. Lui poi è la sintesi perfetta dei pregiudizi: figlio di madre nera e padre ebreo.

Segue gli sconvolgimenti del suo tempo fra il primo conflitto mondiale, la rivoluzione russa, un senso di crescente insofferenza per la condizione di serva della madre che peraltro muore nel 1920. Nel contesto del primo dopoguerra Alessandro è attratto dagli Arditi del popolo, anche se presto deluso dal rapido esaurirsi. Nel ’21 a seguito della volontà del padre di sposarsi in seconde nozze con un’ebrea e a fronte delle idee politiche del ragazzo, sono fatti allontanare dalla Villa. Vanno ad abitare in via Ghibellina n. 28 nel quartiere di Santa Croce, reso celebre da Pratolini nei suoi romanzi, ma il ragazzo vive male le scelte paterne.

Ad inizio ’22 è richiamato alla leva, marina, sommergibilista, è testimone della ferocia del bombardamento di Corfù nella crisi italo-greca del ’23 e ne è disgustato e anche per questo vuole lasciare e ci riesce dopo 21 mesi, congedo anticipato quale figlio unico di padre vedovo. Quando torna trova un’altra Firenze. Lavora come meccanico in vari stabilimenti. Dopo il congedo effettivo nel ’24 si avvicina al partito comunista non per scelta familiare, ma sente che la madre ne avrebbe capito l’ansia di libertà. Il suo primo impegno ufficiale sono le elezioni del ’24, quelle della legge Acerbo, ma tutto presto precipita fra l’omicidio Matteotti e la seconda ondata dello squadrismo in città a fronte di una sinistra e di un partito comunista peraltro segnati da divisioni interne e tattiche. Dopo l’instaurazione piena della Dittatura con le leggi fascistissime, sa di essere schedato anche se ancora non è diffidato né ammonito. La repressione sempre più capillare, l’assenza di informazioni con i fuoriusciti e il centro estero, il consolidarsi del regime rendono sempre più difficile la vita di chi si oppone integralmente al fascismo. Nel febbraio del ’28 la repressione distrugge la rete comunista fiorentina, Alessandro riesce a fuggire sfuggendo all’ondata di arresti, ma ormai è segnato. Alessandro lascia l’Italia, emigrando in Francia, anche per non mettere in pericolo le persone che lo hanno precedentemente aiutato. Per volontà del Partito, viene poi inviato in URSS, dove, come tutti si affida all’organizzazione del Soccorso rosso internazionale, scoprendo la presenza di centinaia di italiani a Mosca. Assume l’identità clandestina di Luigi Gallone. Non mancano i pericoli, essendo presenti anche i fascisti, essendo stati ristabiliti i rapporti diplomatici fra i due paesi ed essendo quindi presente l’Ambasciata con tutte le sue strutture, compreso i reticolo dei fiduciari ben inseriti nei circoli degli immigrati politici. Lo tengono sotto controllo anche i comunisti per valutarne affidabilità, disciplina e ortodossia, a partire dalla temuta polizia segreta sovietica. Il desiderio di dare notizie di sé al padre lo tradisce. La censura fascista intercetta una lettera e accresce la sorveglianza sia sui contatti italiani sia su di lui Mosca. Intanto segue il corso di propaganda e si innamora, ricambiato, di una giovane russa, Nina di origini asiatiche, che lavora al Soccorso rosso e che gli insegna la lingua; è portato allo studio delle lingue, conosce già francese e inglese, nel 1930 diventa padre di una bambina, Margherita, un periodo sereno mentre nelle informative della polizia fascista è indelicato sempre più come soggetto pericoloso. Nei primi anni Trenta è “emissario” cioè inviato del partito in altri paesi, ma viene tradito da Luigi Tolentino ex funzionario dell’Internazionale comunista che denuncia centinaia di compagni in cambio di un rientro protetto in Italia. Intanto deve affrontare anche i mesi cupi delle repressioni staliniane fra fine ’34 e inizio ’35 che si abbattono anche su italiani accusati di non essere in linea con lo stalinismo, deve essere sempre più riservato e guardingo. Nella primavera del ’35 lascia la Russia per la Svizzera per l’ennesima missione, salutando Nina e la bambina. Non farà più ritorno in URSS. Viene infatti arrestato il 28 agosto a poche decine di chilometri dal confine italiano, probabilmente su delazione. Il governo elvetico comunque ne decreta l’espulsione ma senza consegnarlo all’Italia e passa quindi in Francia dove riesce a scomparire per i successivi tre anni. Si trasferisce a Parigi sede del Comitato centrale del PCdI in esilio, svolge attività da corriere anche in Italia ma per viaggi sempre molto brevi. Nel ’36, dopo il golpe dei generali, parte per la Spagna, assume il nome di battaglia di Sabino. Ad Albacete incontra i volontari antifascisti fra i quali il livornese Mazzini Chiesa. Conosce l’esperienza della lotta armata in una dimensione bellica nuova rispetto ad ogni altra precedente esperienza condotta in Italia prima o durante la clandestinità. In virtù delle esperienze fatte durante il servizio militare viene arruolato nella Marina repubblicana come tecnico silurista alla base navale di Cartagena, il porto più importante della Spagna, sottotenente di vascello viene imbarcato su un incrociatore, contribuendo alla riorganizzazione dell’arma navale. Immediato lo scontro non solo con i golpisti ma anche con i fascisti italiani che intervengono attaccando le navi con i sommergibili, attuando una guerra di pirateria assolutamente illegale sulla base delle norme del diritto internazionale. Per la conoscenza delle lingue è nominato ufficiale di collegamento fra il comando della marina repubblicana e un gruppo di consulenti sovietici. Costante il rapporto con Longo che informa puntualmente delle condizioni della marina. Viene poi inviato a Barcellona per operare la bonifica degli accessi del porto, ed assiste ai bombardamenti fascisti sulla città. A fronte del crollo della repubblica, come tanti, cerca riparo in Francia. Alessandro finisce nel campo di raccolta di Saint Cyprien nei Pirenei orientali all’interno di una comunità multietnica e multirazziale di spagnoli, italiani, polacchi, rappresentanti di oltre 50 paesi. Viene poi trasferito nel campo di internamento di Gurs, il più grande del sud della Francia: 28 ettari per 18.500 “ospiti” suddivisi in 362 baracche, arriverà ad accogliere 24.500 persone. A seguito dell’invasione nazista della Francia e del rifiuto di arruolarsi nei servizi ausiliari, viene condotto nel campo di Vernet, a 100 km dalla frontiera con i Pirenei, il campo peggiore di tutta la Francia per le condizioni igienico sanitarie, la violenza dei gendarmi e l’ambiente atmosferico. Dopo l’occupazione nazista il campo passa sotto Vichy che nei mesi successivi procede ai rimpatri degli antifascisti, che di fatto sono solo costi inutili. Alessandro torna in Italia in manette.

Viene condannato al confino: a Ventotene dove arriva il 14 giugno 1941. Il confino, come sottolineano molti storici, è l’arma peggiore che il regime usa contro gli oppositori. Al di là dell’allontanamento dalla propria residenza, il confino è sottoposto a vigilanza e regole stringenti e a un sostanziale isolamento anche all’interno della comunità dove è trasferito, ad esempio non può sedere in locali e osterie ma consumare al massimo al banco “in piedi e nel più breve tempo possibile”. I confinati sono circa 850, di questi i politici sono 650 (gli altri alcolizzati, spacciatori, usurai…) fra i quali nomi noti come Terracini, Pertini, Rossi, Secchia, per i quali è previsto un pedinamento costante da parte di un milite. Lo colpisce incontrare anche qui ebrei e persone di colore, fra i primi Spinelli, Colorni, Curiel, fra i secondi l’eritreo Menghistù. Ma lo colpisce anche la storia di una ragazza di 28 anni, Monica Esposito, salernita, mandata al confino perché accusata di essere andata a letto con nero, violando così la legge 882 del 13 maggio in tema di relazioni affettive interraziali. L’attacco naziata all’URSS scuote anche i confinati e riapre dialoghi fra i diversi gruppi politici. Nel novembre del ’41 riceve la notizia della morte del padre. Il Ministero degli Interni prima tarda a concedergli la licenza per il funerale poi quando gliela assegna è troppo tardi e così gliela revoca, essendo venuto meno il motivo. Il passare dei mesi rende sempre peggiori le condizioni di vita fra freddo, penuria di cibo (tanto che viene concesso ai confinati di coltivare la terra), malattie.

Estate ’43 gli Alleati si avvicinano e l’isola è colpita dai combattimenti, viene affondato il battello che consentiva i collegamenti. Sapranno della “caduta” di Mussolini solo il 26 luglio. Tuttavia il nuovo Governo, in perfetta continuità, non muta le direttive di ordine pubblico e mantiene il confino per anarchici e comunisti. Solo le proteste variegate spingono il capo della polizia a rettificare con nuova circolare del 14 agosto.

A fine agosto ’43 Alessandro torna a Firenze. I comunisti sono fra i più organizzati, si ritrovano nella libreria di Giulio Montelatici in via Martelli o a casa di Fosco Frizzi in Santo Spirito, mentre fanno parte del Comitato interpartitico poi riorganizzato in CTLN dopo l’annuncio dell’armistizio. L’esperienza dell’attività clandestina rendono i comunisti consapevoli dei pericoli e pronti ad affrontare l’occupazione nazisti e i pericoli conseguenti. Nella riunione con Secchia del 14 settembre viene affidato ad Alessandro la responsabilità dell’organizzazione militare in città, così come in altre città della regione, come Arezzo dove invia il meccanico Romeo Landini, con cui aveva condiviso la guerra in Spagna, l’internamento in Francia, il confino a Ventotene. La scelta è dovuta alla valutazione delle sue esperienze del suo carisma e grande attivismo. Fascisti e nazisti sono consapevoli della sua pericolosità. Intanto il pci avvia l’organizzazione della propria struttura militare con le brigate Garibaldi in ottobre. Alessandro frequenta varie abitazioni di amici, cercando di sottrarsi al pericolo della cattura da parte di fascisti e nazisti, fra questi il direttore d’orchestra russo, ma con passaporto svizzero, Igor Markevitch. Contro lo strapotere nazifascista in città (segnato anche dalle razzie contro gli ebrei), i comunisti iniziano a pensare ad una strategia di lotta armata urbana, formando i GAP, istituti da fine settembre dal Comando centrale delle Brigate Garibaldi, ricalcando un tipo di lotta di resistenza armata diffusa in Francia, sia pur riadattata. Servono uomini di grande esperienza, a guidare i gap infatti di solito sono tutti ex volontari delle Brigate internazionali in Spagna, i componenti uomini di fede assoluta, consapevoli del rischio, con grandi capacità militari., fondamentale il coraggio e la segretezza (non devono conoscersi neppure fra di loro, se non i componenti di ogni piccola unità). Devono compiere attentati o azioni rapide, dimostrare che i nazifascisti non controllano le città, colpire bersagli simbolo. Il divieto di uso delle biciclette nelle città da parte dei nazisti è proprio conseguente a queste azioni, in quanto era il principale mezzo per agire e spostarsi. Alessandro dirige i GAP e coordina tutti i gruppi comunisti toscani. In provincia di Firenze azioni gappiste vi sono già in novembre in varie cittadine e conseguente è la riorganizzazione dei fascisti con la riorganizzazione della milizia nella nuova organizzazione della Guardia nazionale repubblicana. La prima azione dei GAP fiorentini è l’uccisione del ten. Col. Gino Gobbi capo della leva fascista e quindi simbolo del sistema militare imposto agli italiani per proseguire la guerra a fianco del nazismo, il 1° dicembre del ’43. La reazione è immediata all’alba del 2 dicembre cinque detenuti antifascisti sono fucilati alle Cascine (Oreste Ristori, Gino Manetti, Armando Gualtieri, Luigi Pugi, Orlando Storai). Il cardinale Della Costa condanna la violenza gappista difesa non solo dalla stampa clandestina comunista ma anche da quella azionista.

Su Alessandro pesano responsabilità sempre più complesse e solo lui ha l’esperienza necessaria ad affrontare quel tipo di lotta: dare indicazioni organizzative, di addestramento militare, gestire trasporto armi ed esplosivi, organizzare i gruppi, gestire le comunicazioni interne e con i vertici. Inizia a gestire anche contatti con gli operai delle fabbriche della città. 14 gennaio: gap fanno esplodere 9 ordigni in nove punti diversi della città contemporaneamente, impiegando di fatto tutti i gappisti e suscitando sconcerto fra fascisti e nazisti. La caccia ad Alessandro viene quindi affidata a due esponenti fra i più pericolosi della Banda Carità: Natale Cardini e Valerio Menichetti che con Luciano Sestini e Antonio Natali formano il gruppo dei così detti “4 santi” noto per i tratti di spietata ferocia. Il 17 gennaio attentato dei gap, fallito, al capitano della milizia Averardo Mazzuoli e interruzione in tre punti della ferrovia Firenze-Roma presso Varlungo. 21 gennaio bomba alla casa di tolleranza di via delle Terme, messa a disposizione di nazisti e fascisti. 27 gennaio sostegno allo sciopero alla Pignone, gli operai ottengono una distribuzione supplementare di tessere di pane, 30 gennaio bomba al Teatro La Pergola mentre è in corso una manifestazione fascista., 3 febbraio ucciso un sergente tedesco, 5 attaccata una pattuglia della GNR, uccisi due militi. Ad inizio febbraio avventori del bar Paszkosky picchiano una persona di colore. L’8 febbraio il noto tentativo di Tosca Bucarelli e Antonio Ignesti di mettere una bomba nel bar. Anche per consentire la fuga al compagno, la Bucarelli è catturata, torturata dalla Banda Carità, viene poi rinchiusa nel carcere di Santa Verdiana. 9 febbraio viene giustiziato un sergente della GNR alla Fortezza. L’11 febbraio un gap lancia sette bombe contro la sede della Feld Gendarmerie in via dei Serragli. Intanto Alessandro è   impegnato su più fronti organizzativi, a partire da uno sciopero operaio in risposta ai licenziamenti di dicembre ai danni degli operai rifiutatisi di trasferirsi a nord. 13 febbraio nuovi attentati sulla linea ferroviaria Firenze-Roma. La sera Alessandro ha fissato a cena con Antonio Lari vecchio amico e compagno, nella trattoria di via Pandolfini dove va a mangiare spesso. Ma entrano i “santi”, una spia ne ha denunciato la presenza. Vano tentare la fuga. Sinigaglia viene ucciso. Quando si sparge la notizia, tanti fiorentini scrivono sui muri scritte inneggianti ad Alessandro, tanto che è naturale e immediato che la 22 bis Brigata Garibaldi assuma il suo nome, sarà la prima ad entrare a Firenze per liberare la città.




Il grossetano Marino Magnani: dalla militanza socialista all’ingresso nel Pcd’I

Magnani, nato a Sasso d’Ombrone presso Cinigiano, l’11 gennaio 1883, già giovanissimo studente a Siena aveva avviato il suo impegno politico aderendo al Circolo socialista “Figli di operai”. Entrò nel PSI a 17 anni, poi fece parte del circolo giovanile socialista di Grosseto, di indirizzo sindacalista rivoluzionario: era presente alla fine del 1912 fra i relatori al convegno dei giovani socialisti rivoluzionari grossetani, incaricato di trattare il terzo punto all’odg “La gioventù rivoluzionaria di fronte al PSI”.1 Sebbene la sua scheda personale del Casellario politico dichiarasse che «in pubblico frequenta poca la compagnia dei suoi correligionari», il comunista grossetano Aristeo Banchi lo ricorda presente all’inaugurazione del monumento a Francisco Ferrer di Roccatederighi, nel settembre 1914, realizzata grazie a una sottoscrizione popolare. In seguito, Magnani si allontanò dai sindacalisti per rientrare nel PSI, dove diede impulso alla diffusione dei circoli giovanili legati al partito.2

Nel 1915 risultava già schedato nel Casellario politico, sebbene non avesse ancora ricoperto cariche pubbliche, per la sua militanza socialista e come «fervente propagandista» contro la guerra. Forte infatti il suo impegno antinterventista, legato alla mobilitazione crescente in Maremma: «durante i primi mesi del 1914 si organizzò infatti una vasta campagna fatta di scritti su “Il Risveglio” e di manifestazioni a favore del soldato Massetti (feritore del proprio colonnello per protesta contro la guerra di Libia), richiuso in manicomio militare», nella quale si distinse il giovanissimo Magnani, insieme a Emilio Zannerini. Ricordano infatti Carlo Cassola e Luciano Bianciardi che in Maremma, «nel complesso del partito prevalse una forte coscienza antimilitarista che aveva nei giovani la propria punta di diamante. Questi convocarono un proprio congresso provinciale il 6 ottobre, ove il rifiuto della guerra continuò a essere al centro del dibattito».3

L’imponente e rapido sviluppo del movimento giovanile socialista maremmano è in effetti legato direttamente alla mobilitazione contro la guerra: l’affermazione dei giovani socialisti, fra cui Magnani, è da mettere in relazione con l’intensa attività di propaganda antimilitarista che essi svolsero a partire dal 1914. È probabilmente da ascriversi a questo clima l’opuscolo La nostra guerra che Marino Magnani pubblicò per la Federazione giovanile socialista grossetana nell’ottobre 1914; l’opuscolo, stampato a Siena, finì in distribuzione nel 1916, quando si era in pieno conflitto bellico, provocando un ulteriore interessamento delle autorità nei confronti di Magnani: sequestrato il libello, fortemente antinterventista, il Procuratore del Re presso il Tribunale del Regno di Grosseto, sollecitato da Siena dove l’opuscolo era stato stampato, non ritenne tuttavia che offrisse serie basi per un procedimento penale, in quanto antecedente all’ingresso in guerra e quindi più «raccolta di dottrine» che tentativo diretto di «turbare la compagine dello Stato nel momento presente».4

L’attività della Federazione giovanile socialista di Grosseto, di cui Magnani era nel frattempo diventato segretario, continuò poi, dal 1915, con l’azione per la costituzione dei circoli socialisti infantili e della federazione femminile della provincia. Un’azione in cui Marino Magnani fu direttamente implicato, già a partire dalla riunione dei dirigenti indetta per promuoverli nel gennaio 1916, così come nei successivi sviluppi sul territorio (ad esempio, a Montepescali «tentava, ma con esito negativo per lo scarso numero di adesioni, di costituire una Sezione femminile socialista»). Un impegno rilevato anche dalle segnalazioni su di lui prodotte dalle autorità giudiziarie che pure nel 1915 notavano che, «malgrado l’attività spiegata», la costituzione di associazioni femminili «non ebbe felice risultato».

Nel gennaio dell’anno successivo, tuttavia, in qualità di segretario della Federazione giovanile socialista grossetana, Magnani portava l’adesione incondizionata delle Sezioni giovanili e dei Fasci giovanili al XV Congresso provinciale socialista tenutosi a Follonica e nella primavera, l’8 aprile, al I Congresso femminile socialista tenutosi a Follonica assisteva alla costituzione della Federazione femminile della Maremma di cui era stato uno degli organizzatori. Di li a poco i giovani socialisti grossetani poterono convocare il I Congresso regionale femminile socialista toscano, contribuendo così a dare una forte spinta al movimento delle donne socialiste della regione; ancora nel 1919, infatti, nel II Congresso regionale, su 16 sezioni rappresentate, ben 9 appartenevano alla provincia di Grosseto.5Cattura

Magnani era contemporaneamente impegnato nel “Comitato del soldo al soldato” e ad opera sua vennero organizzate a Grosseto collette per i soldati più poveri. Continuò nel frattempo anche la sua attività di collaborazione con “Il Risveglio” e, nel dicembre 1916, divenne direttore di un nuovo foglio periodico, “Il grido dei giovani”, organo della Federazione giovanile. Con la guerra però arrivarono anni di flessione per il movimento giovanile socialista maremmano. Scrive il fratello di Magnani, Manfredi, su “Il Risveglio”: «le continue chiamate alle armi hanno assottigliato in modo impressionate le nostre forze che trovasi adesso ridotte ai minimi termini nel significato più vasto e completo dell’espressione. E siamo quindi in pochi!»6 Del 1917, quindi, è il trasferimento di Magnani a Milano, poi a Brescia dove, debitamente sorvegliato dalla polizia, iniziò a lavorare come segretario alle dipendenze della Lega metallurgica.

Occorre però chiarire che le carte di polizia che via via lo segnalano sembrano spesso confondere la sua attività con quella per alcuni versi parallela del fratello Manfredi,7 classe 1885, anch’egli schedato come propagandista rivoluzionario, attivo nella Sezione giovanile socialista di Grosseto. Anche Manfredi pubblicava articoli su “Il Risveglio” (dove ai due ci si riferisce talvolta come ai «fratelli Magnani») e svolgeva propaganda antimilitarista; venne inoltre segnalato al Congresso giovanile socialista toscano tenutosi a Pisa nel luglio 1918, designato come a capo del movimento giovanile e femminile in Toscana, insieme ad altri tre “sovversivi” di Firenze. A quella data entrambi i fratelli Magnani risultavano trasferiti nel Nord Italia: a Milano e poi a Torino Manfredi; a Milano e poi a Brescia Marino, ma entrambi incaricati come segretari della Federazione nazionale metallurgici. Al di là del dubbio sulla confusione relativa a queste vicende, resta da rilevare un dato interessante proprio nell’attivismo politico del contesto familiare.

A Marino e Manfredi, infatti, si aggiunge un terzo fratello, Mantilio,8 macchinista ferroviere residente ad Antrodoco (in provincia di Rieti), anch’esso schedato nel Casellario politico perché «prima dell’avvento del fascismo professò apertamente idee comuniste, prendendo parte a tutti i movimenti e gli scioperi ferroviari propugnati dal Sindacato rosso». I tre fratelli, del resto, parevano alle autorità «seguire i principi politici del proprio padre», Michele Magnani,9 classe 1858, descritto nel suo fascicolo del CPC come «uno dei più ferventi e accaniti comunisti residenti in questo luogo e mai ha tralasciato di fare propaganda sovversiva, sia pure spicciola, specialmente fra i contadini che egli ha facile occasione di avvicinare per la sua professione di causidico». Nel 1922 anch’egli, avvocato dei poveri, fu aggredito dai fascisti grossetani, che lo caricarono, seppur settantenne, di pugni e bastonate, ferendolo a un occhio; e ciò nonostante, nel suo fascicolo personale, veniva ammonito nel 1926 «per l’azione deleteria che ha compiuto e continua a compiere con pertinace ostinatezza in odio all’azione dei poteri dello Stato» e nel 1935 per le autorità era da considerarsi «ancora di idee sovversive».

Non stupisce quindi il crescente impegno politico del figlio Marino, accompagnato da un radicalizzarsi delle sue posizioni: è della primavera del 1919, un articolo su “Il Risveglio”, intitolato Massimo e Minimo, in cui, in vista del XVI Congresso provinciale socialista di Follonica, Magnani scriveva: «noi siamo contro le fisime riformistiche di molti nostri compagni, anche se illustri, i quali non sanno rinunciare al loro sogno di un socialismo di maniera, buon ragazzone tutto lindo, computo e agghindato il quale batta con le nocche delle dita debitamente inguantate alle porte della società borghese chiedendo sommessamente e con tutta umiltà il permesso di entrare. Noi, invece, (e gli insegnamenti ci vengono da Marx e da Engels) sappiamo che il nostro “scopo non potrà essere raggiunto che colla caduta violenta di tutti gli ordinamenti sociali finora esistenti”».10 Nel frattempo, apprezzandone vivamente l’attività fra gli operai, il segretario della Federazione Impiegati Operai Metallurgici (FIOM), Bruno Buozzi, lo aveva chiamato a far parte della Segreteria nazionale. Ruolo che Magnani preferì, con una precisa scelta di campo verso il sindacato, rispetto alla contemporanea offerta, caldeggiata da Costantino Lazzeri, dell’incarico di Segretario nazionale della Federazione giovanile socialista.11

La guerra aveva sconquassato le organizzazioni sindacali, in particolare le strutture di coordinamento provinciale ed era il momento di ricostruirne la trama organizzativa. La prima categoria a rimettersi in movimento in tal senso era stata in Maremma quella dei minatori con la nascita della Federazione interprovinciale, che raccoglieva, oltre a rappresentanze toscane e umbre, entrambi i bacini minerari della provincia, quello massetano-gavorranese e quello amiatino. In occasione del Convegno del 6 aprile 1919, i delegati di 2500 operai aderenti alla Federazione giunsero alla formulazione di un Memoriale unico, contenente gli obiettivi per i quali i minatori avrebbero combattuto nei mesi successivi, e stabilirono l’adesione della Federazione alla FIOM.12 La direzione della Federazione fu assunta da Pietro Ravagli, un vecchio socialista di Roccatederighi, e dallo stesso Magnani. Quando l’agitazione in Maremma aumentò a causa dell’irrigidimento delle posizioni della Società Montecatini, che aveva il controllo di quasi tutti gli impianti maremmani, fu proprio Magnani, quindi, che un nuovo Convegno dei minatori inviò a Roma per tentare un accordo con i rappresentanti delle società minerarie. Al fallimento di quel tentativo in extremis seguirono tre mesi di mobilitazione e di scioperi, dai quali il movimento uscì, se non completamente vittorioso, in ogni caso estremamente rafforzato.

L’anno successivo vide la nascita della Federazione italiana Addetti alle Miniere (FIAM), la cui Federazione regionale, con sede a Grosseto, fu costituita nell’agosto 1920. Alla segreteria fu chiamato Marino Magnani, che nel frattempo era impegnato anche sul piano più strettamente politico del dibattito interno al partito socialista, aderendo alla frazione Marabini Graziadei, favorevole alla fondazione del Partito comunista. Scrivono Cassola e Bianciardi che «forse la separazione fra “uomini ugualmente cari” risultò ancor più drammatica a Grosseto, allorché la battaglia politica all’interno del PSI vide contrapporsi massimalisti e comunisti, unitari e scissionisti, mentre i pochi riformisti rimasero ai margini del dibattito. Comunque, la radicalità espressa dal movimento nei mesi precedenti ebbe come manifestazione politica la massiccia adesione al Partito comunista d’Italia di tutta la nuova leva dei quadri della Federazione giovanile e il 26 per cento degli iscritti in precedenza al Psi».13 Fra le organizzazioni sindacali più importanti, si dichiararono comunisti Primo Lessi, segretario della Camera del lavoro di Grosseto, e Marino Magnani, per la FIAM. Magnani divenne fin da subito segretario della Sezione di Grosseto e collaborò quindi all’organizzazione del I Congresso provinciale comunista di Grosseto.

In data 13 marzo 1921, il Congresso vide la presenza dei circoli giovanili di quasi tutta la provincia; le sezioni sul territorio, infatti, a quella data erano già 31 e altre se ne stavano formando. Segretario fu nominato Magnani, mentre Enrico Ferrari assunse la presidenza del Congresso che dichiarò costituita la Federazione comunista provinciale, con un direttivo composto fra gli altri da Marino Magnani per Grosseto. Ed è ancora Magnani a occuparsi del movimento giovanile e di quello femminile: rammenta che 55000 giovani su 60000 sono entrati nella Federazione comunista e osserva che «se in provincia scarseggiano gli elementi adatti [all’opera di consolidamento delle sezioni], vi è però una gran fede in tutti».14 Magnani, che da poco è diventato direttore del nuovo giornale “L’Idea comunista”, organo del neo-nato partito grossetano, si occupa poi della questione della stampa, richiamando i compagni al dovere di garantire anche nella provincia la vita di un foglio «di propaganda e di battaglia per sostenere e diffondere le nostre idealità».

Ulteriore momento di confronto, fondamentale, fu quello del Consiglio generale delle Leghe della Camera del Lavoro che si tenne a Grosseto il successivo 20 marzo, quando con 9800 voti contro 5600 venne decisa l’adesione alle posizioni comuniste e confermata la scelta della segreteria. In quell’occasione Magnani dichiarava, come comunista, di essere «incondizionatemente per l’unità proletaria» e riaffermava la «ferrea volontà» di rimanere «a viva forza, magari con i denti, attaccati alla Confederazione generale del lavoro». Parole rafforzate dal manifesto della Camera del Lavoro di Grosseto, affidato sul “Il Risveglio” del 6 febbraio 1921 alle parole di Primo Lessi, che ribadiva alle leghe, ai sindacati, alle cooperative: «nei nostri sindacati c’è posto per tutti. Abbiamo un concetto larghissimo delle libertà di opinione politica. Questa dovrebbe essere una garanzia per convincere tutti a lavorare per l’unità sindacale».15

idea comunistaDi li a poco, però, anche in provincia di Grosseto dilagò la violenza squadrista. Su “L’Idea comunista” del 27 marzo 1921 Magnani consapevolmente scriveva che «il Partito comunista, pur essendo contro la violenza individuale e la guerriglia a base di incendi e distruzione, ha semplicemente sostenuto e sostiene che la massa si prepari (spiritualmente e materialmente) per l’urto finale e decisivo». Una violenza che, ovviamente, si rivolse proprio contro Magnani: durante la “conquista” squadrista di Grosseto, quando numerosi antifascisti furono obbligati a sottoscrivere dichiarazioni di sottomissione che venivano affisse ai muri, «fu pure affisso un manifesto diffamatorio contro il dirigente sindacale Magnani».16

Nel luglio, però, dopo che la spedizione squadrista contro Roccastrada aveva suscitato lo sdegno di tutta Italia, la situazione divenne più incerta. Anche a Grosseto ci fu chi aderì al tentativo di sottoscrivere un “patto di pacificazione” e fra coloro che partecipavano agli incontri finalizzati a tale iniziativa c’era Marino Magnani, in qualità di rappresentante della FIAM. Ma l’accordo, sottoscritto il 2 agosto a Roma, per Grosseto rimase lettera morta. Da quel momento, quindi, la situazione locale per i “sovversivi” si fece complessa e incerta e moltissimi antifascisti si trasferirono nelle grandi città. Magnani fu invitato a dimettersi da segretario della FIAM e dal Pcd’I; al suo rifiuto fu costretto a prendere la via dell’esilio. Obbligato ad abbandonare la Maremma, Magnani si rifugiò inizialmente a Torino, dove scrisse qualche articolo su “L’Ordine nuovo” e strinse amicizia con Gramsci. Rientrò poi in Toscana per tentare di riorganizzare Sezioni di partito, ma fu nuovamente costretto ad allontanarsi: si rifugiò a Tivoli e a Roma dal 1924, dove fu uno dei militanti più attivi del Comitato dei profughi comunisti. E’ probabilmente lui il “buttero maremmano” che narra la cronaca delle ripetute violenze fasciste sulle colonne de “Il comunista”, nuovo quotidiano del Pcd’I edito a Roma, di cui risulta corrispondente.

Fu arrestato infine a Roma, il 16 dicembre 1926: il 5 gennaio successivo cominciava per lui la lunga e drammatica vicenda del confino (condannato a 5 anni), prima alle Tremiti, poi a Ustica, quindi a Lipari.17 Solo nell’agosto 1929, in occasione della morte del fratello Mantilio, poté fruire di una breve licenza per tornare a Grosseto. Nell’ottobre dello stesso anno, infine, fu liberato condizionalmente e fatto accompagnare a Grosseto, ma, “attenzionato” dalla Questura, lasciò poco dopo la città per traferirsi a Roma dove trovò lavoro come impiegato in una società privata. Seppur continuamente vigilato, da quel momento in poi non parve dar luogo a rilievi per la condotta morale e politica.

In seguito, invece, Magnani partecipò attivamente alla lotta di Liberazione, prendendo parte all’azione di Torpignattara, forse quella in cui venne ucciso il commissario Stampacchia, ritenuto il maggior responsabile del clima di terrore che i tedeschi hanno imposto alla popolazione e alle organizzazioni resistenti. Nel 1944 rientrò a Grosseto dove all’unanimità «i lavoratori della provincia, grati a lui per la coraggiosa e instancabile attività, per l’atteggiamento dignitoso e coerente tenuto di fronte al fascismo, lo elessero segretario della Camera confederale del lavoro».18 Fu anche consigliere comunale e assessore dal 1946 al 1950. Candidato nelle liste del Partito comunista nel collegio XVII ( Siena-Arezzo-Grosseto), fu eletto all’Assemblea costituente con 6.796 voti e proclamato il 7 giugno 1946.

l'unità 08.06.1946

l’unità 08.06.1946

Alcune sue interrogazioni riguardarono fatti della provincia di Grosseto, cui continuava a essere rivolto il suo sguardo, con un’attenzione per tematiche a lui molto vicine: un’interrogazione scritta per il rifiuto del Questore del capoluogo maremmano di concedere licenza d’affissione a manifesti della Federazione comunista; un’altra circa il trasferimento imposto a un funzionario dell’Ufficio elenchi nominativi dei lavoratori e per i contributi agricoli unificati, misura dovuta per Magnani al fatto di aver svolto attività sindacale. Un intervento, inoltre, su una questione locale molto nota: la revisione della condanna a morte di Ivo Turchi emessa dal Tribunale militare alleato di Livorno per aver commesso atti che, in occasione del tragico bombardamento alleato su Grosseto del giorno di Pasqua del 1943, avevano provocato la morte di un aviatore il cui apparecchio era stato abbattuto dalla contraerea.19

Nel ricordo che fece di lui l’on. Tognoni alla Camera si legge che «successivamente, anche per le privazioni, per le percosse subite, per le difficoltà incontrate nella vita durante il periodo fascista, l’onorevole Magnani cominciò a perdere le proprie capacità di lavoro e di attività: il suo fisico era minato dalla malattia, che poi l’ha portato alla morte».20 Conclusasi nel gennaio 1948 l’esperienza parlamentare, Magnani si ritirò dall’attività politica di primo piano. Diresse il movimento cooperativo nella provincia di Grosseto e fu Segretario provinciale dell’Associazione nazionale perseguitati politici antifascisti. Morì il 23 settembre 1964.


BIBLIOGRAFIA:

Ivano Tognarini, “Marino Magnani”, in I deputati toscani all’assemblea costituente. Profili biografici, a cura di Pier Luigi Ballini, Consiglio regionale della Toscana, 2018.

Hubert Corsi, La lotta politica in Maremma, 1900-1925, Cinque lune, Roma 1987.

Aristeo Banchi (Ganna), Si va pel mondo. Il partito comunista a Grosseeto dalle origini al 1944, a cura di Fausto Bucci e Rodolfo Bugiani, Arci, Grosseto 1993.

Carlo Cassola, Luciano Bianciardi, I minatori della Maremma, Laterza, Bari 1956.

Adriano Arzilli, La provincia di Grosseto prima dell’avvento del fascismo: situazione socio-economica, mezzadri, braccianti, minatori, sindacati, partiti, Editrice Il mio amico, Roccastrada 1998, p. 190.

AA.VV., Le nostre orme. Per una storia del lavoro e delle organizzazioni operaie e contadine nel grossetano. Contributi di storia sociale, Ediesse, Roma 1988

Il Risveglio

L’idea comunista

A. Dal Pont, S. Carolini, L’Italia al confino: le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle Commissioni provinciali dal novembre 1926 al luglio 1943, Milano 1983, ad indicem

ACS CPC b. 2927 f. 14718 Marino Magnani

ACS CPC b. 2927 f. 45147 Magnani Manfredo

ACS CPC b. 2927 f. 1511 Magnani Mantilio

ACS CPC b. 2927 f. 87525 Magnani Michele


NOTE:

1 Sulla complessa questione locale del rapporto fra PSI e sindacalismo rivoluzionario, cfr. Fabrizio Boldrini, Minatori di Maremma. Vita operaia, lotte sindacali e battaglie politiche a Ribolla e nelle Colline metallifere (1860-1915), Effigi, Roccastrada 2006.

2 Aristeo Banchi (Ganna), Si va pel mondo. Il partito comunista a Grosseeto dalle origini al 1944, a cura di Fausto Bucci e Rodolfo Bugiani, Arci, Grosseto 1993.
3 Carlo Cassola, Luciano Bianciardi, I minatori della Maremma, Laterza, Bari 1956.
4 ACS CPC b. 2927 f. 14718 Marino Magnani.
5 Adriano Arzilli, La provincia di Grosseto prima dell’avvento del fascismo: situazione socio-economica, mezzadri, braccianti, minatori, sindacati, partiti, Editrice Il mio amico, Roccastrada 1998, p. 190.
6 Manfredo Magnani, Nel movimeno giovanile socialista. SERRIAMO LE FILE, in “Il Risveglio” del 21 luglio 1918.
7 ACS CPC b. 2927 f. 45147 Magnani Manfredo.
8 ACS CPC b. 2927 f. 1511 Magnani Mantilio.
9 ACS CPC b. 2927 f. 87525 Magnani Michele.
10 Marino Magnani, Massimo e Minimo, in “Il Risveglio” del 2 marzo 1919.
11 Ivano Tognarini, “Marino Magnani”, in I deputati toscani all’assemblea costituente. Profili biografici, a cura di Pier Luigi Ballini, Consiglio regionale della Toscana, 2018, p. 393.
12 AA.VV., Le nostre orme. Per una storia del lavoro e delle organizzazioni operaie e contadine nel grossetano. Contributi di storia sociale, Ediesse, Roma 1988, p. 118.
13 Carlo Cassola, Luciano Bianciardi, I minatori della Maremma, cit.
14 Congresso provinciale comunista di Grosseto, in “L’Idea comunista” (anno 1 n. 2) del 27 marzo 1921.
15 Movimento sindacale, Camera confederale del Lavoro di Grosseto e provincia: Alle leghe! Ai sindacati! Alle cooperative!, in “Il Risveglio” del 6 febbraio 1921.
16 Hubert Corsi, La lotta politica in Maremma, 1900-1925, Cinque lune, Roma 1987.
17 Adriano Dal Pont, Simonetta Carolini, L’Italia al confino: le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle Commissioni provinciali dal novembre 1926 al luglio 1943, La Pietra, Milano 1983.
18 Mauro Tognoni, Commemorazione dell’ex deputato Marino Magnani, in Camera dei deputati, IV legislatura, Discussioni, Seduta del 29 settembre 1964, p. 10056.
19 Il 26 aprile 1943, lunedì di Pasqua, Grosseto subì il suo primo bombardamento aereo durante la seconda guerra mondiale. Ne avrebbe subiti altri 18, ma questo sarà sempre ricordato per il tragico prezzo di vite civili che costò. Morirono infatti 134 grossetani, tra cui decine di bambini uccisi mentre stavano giocando sulle giostre di un Luna Park situato appena fuori Porta Vecchia (cfr. La ricerca di Giacomo Pacini sul bombardamento del lunedì di Pasqua del 1943, in www.grossetocontemporanea.it/la-ricerca-storica-sul-bombardamento-del-lunedi-di-pasqua/).
20 Mauro Tognoni, Commemorazione dell’ex deputato Marino Magnani, cit., p. 10057.

 




Lasciare l’Italia fascista, per un mondo migliore

L’emigrazione intellettuale dall’Italia durante gli anni del governo fascista è un fenomeno ancora poco conosciuto. Nel tracciare la parabola della persecuzione degli ebrei, l’attenzione degli storici è stata indirizzata maggiormente verso i risvolti più drammatici, come la deportazione, mettendo in secondo piano le vicende di quelli che furono costretti a lasciare l’Italia prima dell’inizio della Seconda guerra mondiale.

La fascistizzazione nelle istituzioni pubbliche spinse alcuni ‘indesiderabili’, ebrei e non – come il ben noto Gaetano Salvemini –, a partire prima che le leggi razziali emanate nel 1938 estromettessero dagli incarichi scolastici e universitari tutti gli studenti, studiosi, ricercatori e professori censiti come ebrei che si ritrovarono senza lavoro e senza possibilità di future assunzioni in Italia.
Le perdite per la cultura italiana furono significative e spesso irreparabili anche perché molti non ritornarono in patria dopo la fine della Seconda guerra mondiale, a volte per volontà stessa dei protagonisti o dei loro figli di restare all’estero, più spesso per gli ostacoli frapposti specialmente dalle università italiane che preferivano mantenere gli organici già formati con chi aveva preso il posto degli espulsi. Venne così sprecata l’opportunità di recuperare risorse con un bagaglio culturale arricchito da esperienze in altri paesi dopo un ventennio di autarchia e isolamento internazionale della cultura e della scienza, per il progredire delle quali è necessaria un’apertura mentale che solo la circolazione delle idee permette. Una fuga di cervelli paragonabile per certi versi a quella che attualmente caratterizza la vita culturale italiana, soprattutto nei casi in cui la scelta di partire precedette il 1943 e non fu quindi propriamente obbligata.

Analizzando e collegando tra loro queste vicende, il progetto di ricerca Intellettuali in fuga dall’Italia fascista. Migranti, esuli e rifugiati per motivi politici e razziali ha lo scopo di rendere più completo il quadro di un fenomeno relativamente ignorato anche perché sottostimato numericamente. Gli elenchi degli espulsi dalle università nel 1938, che solo dal 1997 sono stati ricostruiti non definitivamente, non rendono conto delle perdite effettive nella cultura italiana, che non si limitano agli allontanamenti ufficiali o al solo anno 1938: i liberi docenti non furono ufficialmente espulsi, ma dichiarati “decaduti” dal titolo, mentre al personale universitario non strutturato semplicemente non fu rinnovato il contratto. Si devono includere inoltre gli studenti e i neolaureati a cui di fatto fu preclusa qualsiasi carriera, così come i neodiplomati che non potevano immatricolarsi all’università. È su questa complessità, quantitativamente meno definita ma più realistica rispetto al contesto dell’epoca, che si basa il lavoro di censimento e di ricostruzione storica diretto dalla Professoressa Patrizia Guarnieri, promosso dall’Università di Firenze, finanziato dalla Regione Toscana e patrocinato dalla New York Public Library, dal Council for At-Risk Academics di Londra, dal J. Calandra Italian American Institute e dal Central Archives for the History of Jewish People di Gerusalemme. I profili biografici estrapolati dalla ricerca hanno reso necessaria l’analisi di numerose fonti di diversa natura, come gli archivi delle organizzazioni internazionali di aiuto, quelli delle istituzioni e dei luoghi dove approdarono i fuoriusciti, le loro eventuali memorie e corrispondenze; o ancora le testimonianze degli eredi, fonti preziose ma da verificare con cautela perché a volte discordanti dai documenti ufficiali.

Il focus della ricerca sugli intellettuali ha rivelato un campione eterogeno di profili. Le storie raccontano di donne e uomini, tra cui alcuni scienziati famosi come Rita Levi Montalcini o il fisico Bruno Rossi, che partivano da condizioni molto diverse e che dovettero affrontare difficoltà di varia natura legate all’età, al genere, alla situazione familiare, alla disciplina o alla professione praticata, alla conoscenza di altre lingue, alla rete di contatti personali. Difficoltà e disagi in genere sottaciuti, anche dagli stessi protagonisti a distanza di tempo, ma che emergono dalle lettere di allora, dai diari e dalle richieste di aiuto: l’angoscia della lontananza dai propri cari, la difficoltà di procurarsi i documenti per emigrare e di cercare lavoro altrove, gli stereotipi che colpivano sia gli italiani che gli ebrei, discriminati dalle stesse comunità degli emigrati italiani soprattutto se antifascisti. Chi si recò in Francia o in altri paesi vicini dovette poi scappare altrove a causa dell’occupazione nazista. Alcuni andarono in paesi con situazioni politiche e militari di cui rimasero vittime, come Anna Di Gioacchino Cassuto e Enzo Bonaventura in Palestina o Aldo Mieli in Argentina. Chi rimase in Italia fu costretto a nascondersi o a tentare la fuga in Svizzera nel 1943. Se gli studiosi e i professionisti italiani ricorsero in parte alle organizzazioni internazionali di aiuto che erano sorte per gli intellettuali tedeschi nel 1933, soprattutto all’Emergency Committee di New York e alla Society for the Protection of Science and Learning di Londra, o ai comitati di aiuto per i rifugiati creati da varie associazioni scientifiche e professionali americane, in molti casi contarono altre conoscenze: quelle antifasciste o quelle del sionismo, entrambe reti internazionali; o ancora i contatti di tipo professionale, gli amici e i parenti, proprio come nell’emigrazione comune.

Il perno principale del progetto dal punto di vista divulgativo è costituito dal sito internet ad accesso gratuito http://intellettualinfuga.fupress.com, presente anche in lingua inglese al link http://intellettualinfuga.fupress.com/en.
Il portale è costituito da pagine introduttive agli argomenti indicati nel sommario: una sezione, per esempio, è dedicata alle norme discriminatorie e persecutorie del regime fascista nonché al lungo percorso riparatorio avviato nel dopoguerra nei confronti di quanti erano stati colpiti dalle precedenti disposizioni. Al centro, un elenco alfabetico di intellettuali in fuga, donne e uomini, che è stato finora possibile identificare e che viene via via aggiornato. Ad oggi sono circa 380 nomi, http://intellettualinfuga.fupress.com/schede/indice/6: tutti in qualche modo legati alla Toscana. Per ogni nome viene costruita una scheda in cui è possibile leggere o scaricare il pdf dell’articolo che narra non una biografia generale ma la storia personale, spesso avventurosa e travagliata, dell’esperienza di espatrio; sono poi presenti degli approfondimenti sintetici sui i familiari emigrati, la rete di contatti che favorì l’emigrazione, la ricerca del lavoro, una mappa della mobilità, una linea temporale che segnala i vari spostamenti e una galleria di fotografie, per lo più offerte dai parenti proprio per questa ricerca. Oltre a essere utile per lezioni e ricerche scolastiche e universitarie, le storie di vita riportate sono rivolte ad un pubblico non specialista.
La presenza in rete offre una maggiore visibilità che favorisce a sua volta la crescita del progetto stesso, che è in progress e aperto sempre a nuove acquisizioni: chiunque abbia informazioni utili può contribuire con documenti, foto e testimonianze contattando patrizia.guarnieri@unifi.it.




“Una svolta verso il nulla”.

Nota biografica.

Riccardo_Margheriti

Riccardo Margheriti (Wikipedia)

Riccardo Margheriti nasce a Chiusi (Siena) il 4 gennaio 1938, da una famiglia di umili origini ma dalla forte identità antifascista. Si iscrive alla Federazione giovanile comunista italiana (Fgci) nel 1953, ancora giovanissimo, divenendo segretario della sezione di Chiusi già l’anno seguente. La sua principale attività si svolge tuttavia inizialmente nell’ambito sindacale, nella Cgil, prima nella Camera del lavoro di Chiusi, poi nella Valdichiana e infine a Siena quale direttore provinciale dell’Inca, l’Istituto nazionale confederale di assistenza. Vicesegretario e poi dal 1975 segretario della Federazione senese del Partito comunista, è consigliere comunale a Siena dal 1968 al 1983. È senatore della Repubblica dal 1983 al 1992, ricoprendo la carica di vicepresidente della Commissione agricoltura e produzione agroalimentare. Prosegue poi la propria attività nel settore agroalimentare, come presidente dell’Ente nazionale mostra mercato dei vini doc e vicepresidente, e poi presidente, del Comitato nazionale per la tutela e valorizzazione dei vini doc presso il ministero delle Politiche Agricole e Forestali.

Avvertenza: Nella trascrizione dell’intervista si è cercato di conservare inalterati gli aspetti peculiari del parlato, limitando gli interventi correttivi sul testo al minimo indispensabile e inserendo eventualmente nelle note a piè di pagina ulteriori informazioni o chiarimenti. L’intervista è stata realizzata il giorno 11 luglio 2020 da Riccardo Bardotti e Michelangelo Borri, presso la segreteria dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia – Sezione di Siena; la versione integrale è conservata presso l’Istituto storico della Resistenza senese e dell’età contemporanea.

Per informazioni su letture preliminari ed approfondimenti, rimandiamo a QUESTO articolo della nostra Redazione.

 

D. Senatore Margheriti, può dirci brevemente in che modo ricorda la caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre 1989? Quali furono le prime riflessioni che formulò di fronte a tale evento?

R. Io ero ancora in Parlamento in quel periodo; io rimasi un po’ sconcertato, francamente, non tanto dal crollo del Muro di Berlino, ma dal modo in cui avvenne e dal fatto che non ci fosse stata reazione; e quindi mi fece capire che, fortunatamente, anche da parte di chi sarebbe potuto, come aveva fatto in precedenza, intervenire anche in modo armato, non lo aveva fatto; e quindi si apriva davvero una possibilità di autonomia anche del Partito comunista italiano – dell’ex Partito comunista italiano a quel punto –, per una strada nuova che io vedevo e continuo a vedere, di tutte le forze che attorno alle forze ideali del socialismo possono raggrupparsi…

D. E quali conseguenze produsse questo avvenimento all’interno del Partito comunista italiano, che già stava attraversando una fase complessa della propria storia politica?

R. Intanto era matura una consapevolezza con le discussioni che si erano avute dopo le diverse invasioni che c’erano state da parte dell’esercito sovietico, o comunque del patto di Varsavia, in altri paesi prima ancora dell’‘89 e la discussione che si è sviluppata all’interno del partito aveva, ripeto, maturato una consapevolezza che le cose non potevano continuare e che era indispensabile, nelle forme che sarebbero state possibili, cambiare e cambiare tutto in quel paese e nei paesi dell’Est europeo. In qualche modo dà ragione a questa convinzione il fatto che non c’è un intervento, neanche della polizia oltre che dell’esercito, al crollo del Muro di Berlino e all’uscita dalla Germania dell’Est di tanti cittadini che vanno a riabbracciare parenti, amici e così via, ma comunque che guardano alla libertà che si era costituita e realizzata nella Germania Ovest dopo la guerra e fino a quel momento. Quindi un fatto molto positivo, che imponeva ulteriore riflessione anche a noi e imponeva anche a noi di cambiare rotta, in primo luogo non solo riducendo ma azzerando i rapporti col Partito comunista dell’Unione Sovietica – del quale si diceva quel punto peste e corna, devo dire, anche all’interno del nostro del nostro partito – nonostante le speranze che aveva sollevato l’elezione di [Michail] Gorbačëv [1] e l’inizio, vero, della destalinizzazione in quel paese… Quindi una cosa, un momento di grandissimo rilievo, che imponeva, ripeto, scelte nuove anche a noi; scelte che non dovevano portare al superamento dei caratteri fondamentali del Partito comunista italiano, perché di fatto, in Italia, il Partito comunista era davvero il partito del socialismo europeo, cosa che non era il partito di [Bettino] Craxi [2]; era un partito riformatore e allo stesso tempo un partito di governo, capace quindi di affrontare i problemi dei cittadini e di tentare di dare risposte. Gli enti locali amministrati dal Partito comunista italiano e le regioni – che erano nate da non molto tempo, nel 1970 – amministrate dal Partito comunista italiano, avevano costruito lo Stato sociale, avevano costruito gli asili nido, le scuole materne e così via, nonostante l’indebitamento degli enti locali – ai quali venivano trasferiti pochi finanziamenti – ma che venivano incoraggiati, i nostri sindaci, a indebitarsi ulteriormente, purché l’indebitamento andasse verso la costruzione di uno Stato sociale vero, che consentisse, ad esempio, anche alle donne di non dover rimanere in casa ma di poter lavorare nonostante la presenza dei figli che dovevano essere curati; e doveva dare risposte sul piano del lavoro, dei diritti dei lavoratori nel luogo di lavoro e all’esterno, doveva dare risposte sulla partecipazione – prevista dalla Costituzione della Repubblica del popolo italiano – a scegliere liberamente chi doveva governarlo e a far rispondere chi lo governava ai problemi che gli venivano posti.

D. E invece con la cosiddetta svolta della Bolognina, la direzione intrapresa è quella di un superamento dell’esperienza politica e culturale del Partito comunista italiano. Come reagiscono da una parte la base e dall’altra i quadri intermedi del partito?

R. Con la svolta della Bolognina [3] intanto c’è sconcerto, nessunoavrebbe mai pensato di punto in bianco di dire: “ora si cambia nome, simbolo e il Pci non ci sarà più”. Perché naturalmente la vicenda del Pci è una vicenda non soltanto politica e culturale, è una vicenda anche umana, di formazione della persona dall’interno e nel rapporto con gli altri; era stato costruito un pezzo di società, non era soltanto un partito. La paura del crollo vinse non nella gente ma in chi fece quel tipo di svolta, vinse la paura che col Muro di Berlino finisse il Pci, e sbagliando valutazione su cosa fosse il Partito comunista italiano rispetto ai partiti al potere nell’Est… Naturalmente, far digerire la svolta alle sezioni del Pci, iscritti e così via fu una cosa non terribile, impossibile. E quindi avemmo una parte, che erano i gruppetti dirigenti, che essendo stati educati un po’ al mito anche della personalità del segretario nazionale del partito, continuavano ad avere questa visione anche nei confronti di Achille Occhetto [sorride] [4], dopo [Enrico] Berlinguer, dopo [Palmiro] Togliatti, dopo [Luigi] Longo e quindi seguivano la linea di Occhetto; e la base che se ne andava… E infatti noi perdemmo tanti voti, una parte andarono in Rifondazione [comunista]… Ma gran parte degli elettori e degli iscritti al Partito comunista prima della svolta non passò da un’altra parte, passò all’astensione, rimase a casa…Vivemmo una vicenda terribile, terribile, terribile.

L'Unità del 14 novembre 1989

L’Unità del 14 novembre 1989

D. Più in generale, quale fu l’atteggiamento delle altre forze politiche in quel frangente?

R. Naturalmente la paura del comunismo, che aveva consentito di escludere il Partito comunista dal Governo fino all’uccisione di [Aldo] Moro [5] – che poteva rappresentare invece, assieme a Berlinguer, la possibilità di mettere insieme le forze sane del paese per risolvere le questioni gravissime che stavamo attraversando – viene vissuta come una vittoria nei confronti dei comunisti e quindi come se il Partito comunista italiano, pur realizzando una svolta, dovesse in qualche modo e potesse scomparire perché non aveva più, diciamo così, il piedistallo sul quale appoggiarsi per rimanere in piedi e per continuare la propria funzione. Il partito della Democrazia cristiana quindi ha questo orientamento, il Partito socialista – sbagliando grossolanamente – con la proposta dell’Unità socialista, con Craxi ancora segretario, cerca di annettere il Partito comunista nel proprio partito… Poi matura ancora di più la vicenda della questione morale, che esplode proprio nel ‘92 con Tangentopoli, per cui la Democrazia cristiana viene azzerato nel gruppo dirigente; il Partito socialista viene azzerato nel gruppo dirigente o quasi; Craxi si dimette da presidente del Consiglio, aggredito dai soldi che gli vengono gettati contro – dai soldini, le lire – quando esce dall’ albergo per andare a Palazzo Chigi [6] ; si dimette e quindi, ecco, si va verso in qualche modo lo sfarinamento dei partiti di massa, che erano i partiti che avevano fatto la guerra di Liberazione, la Costituzione e ricostruito in qualche modo il paese nel dopoguerra, e si va verso, verso il nulla… E si sostituisce tutto questo, a quel punto, con le singole personalità e i comitati elettorali che devono tenerle in piedi, eleggerle e dalle quali dipendere.

D. Come è cambiato il modo di fare politica in Italia negli ultimi decenni e quali sono, a suo avviso, le principali cause dell’attuale situazione di crisi che stanno attraversando il sistema politico e la classe politica nel nostro paese?

R. [Oggi] ci si mobilita soltanto attorno alle persone e alle elezioni, naturalmente non essendo in campo invece tutti i giorni, sui problemi concreti all’interno dei luoghi di lavoro, nella scuola, nella sanità, ovunque; e senza avere questo tipo di presenza continua naturalmente, non racimola più voti, lascia anzi, spesso continuano ad astenersi anche quelli che hanno in fiducia – magari anche non del tutto condivisa ma in fiducia –, votato fino a ieri. Non c’è la ricerca, anche perché la scelta del partito “all’americana”, del partito che deve raggiungere la maggioranza da solo, rispetto alle diversità culturali, politiche esistenti in questo paese, storicamente, non funziona, perché è sempre legato al voto per qualcuno, non per qualcosa ma per qualcuno, il quale ci risolverà tutti i problemi… Personalizzi il tutto e attorno alla persona fai il comitato elettorale, ma non un partito politico che ha l’ambizione di essere di nuovo un partito di massa; diventa un partito d’élite che cerca di imbonire la massa e di chiedere alla massa fiducia e voti, e la massa si allontana… [l’elettorato] non ha fiducia in questo tipo di politica, in questo tipo di partiti, in questo tipo di personaggi, perché non gli offre un qualcosa in cui credere e per il quale lottare, e ottenere un qualche cambiamento…

Note al testo

[1] Michail Gorbačëv (1931), segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica dal 1985 al 1991, promotore di una serie di riforme che condussero alla fine della Guerra fredda e alla fine dell’esperienza di governo sovietico nell’Europa dell’Est.

[2] Bettino Craxi (1934-2000), segretario del Partito socialista italiano dal 1976 al 1993 e presidente del Consiglio dei Ministri dal 1983 al 1987.

[3] Si indica comunemente con tale espressione il processo politico avviatosi nel novembre 1989 nell’omonimo rione di Bologna e conclusosi nel febbraio 1991 con lo scioglimento del Partito comunista italiano e la conseguente nascita del Partito democratico della sinistra.

[4] Achille Leone Occhetto (1936), è stato l’ultimo segretario del Partito comunista italiano.

[5] Aldo Moro (1916-1978), fondatore, poi segretario e presidente della Democrazia cristiana, più volte presidente del Consiglio dei Ministri tra il 1963 e il 1976. Fu rapito e ucciso dalle Brigate rosse nel 1978.

[6] L’episodio ebbe luogo nell’aprile 1993, quando Craxi venne fortemente contestato a Roma, all’uscita dall’hotel Raphael, da un gruppo di manifestanti che gli lanciò contro delle monetine, come risposta alle accuse di corruzione formulate a carico del leader socialista.




A sinistra del PCI di fronte all’89: memorie di un “eretico” demoproletario

Eugenio Baronti (Capannori, 1954) ha ricoperto il ruolo di segretario provinciale di DP dal 1980, del quale è uno dei membri fondatori a Lucca; nel 1991 aderisce al PRC, prima di uscire dal partito nel 2010; è stato anche consigliere comunale e assessore all’ambiente per il comune di Capannori, nonché assessore regionale con delega alla ricerca, all’università e al diritto alla casa.

Quando ti sei avvicinato a Democrazia Proletaria?

Mi sono avvicinato a DP fin dall’inizio della sua costituzione come cartello elettorale della sinistra extraparlamentare per le elezioni amministrative del 1975 e poi per le politiche del giugno 1976. Io militavo allora nella Lega dei comunisti, e per me quella fu una campagna elettorale che vissi con grande entusiasmo e un estenuante impegno quotidiano. Nel mio paese a Lammari, dove c’era un bel nucleo forte, riuscimmo a organizzare la prima festa politica nella sua storia di paese rurale, democristiano e conservatore – la Festa d’Estate, a sostegno della lista. Un evento straordinario, costruimmo il villaggio con le nostre mani lavorandoci fino a notte: una grande festa e un gran successo, l’unica a livello lucchese. Alla fine lasciammo la struttura ai compagni del PCI, che vi tennero la prima festa dell’Unità.

Il risultato elettorale fu pessimo, un magrissimo 1,5% che però bastò a eleggere un piccolo drappello di 6 deputati. Fu una grande delusione, mi servì qualche settimana a metabolizzarla. Subito dopo aderii alla costituente del partito, obiettivo per la quale mi impegnai molto, non senza scontri politici interni. Il 13 aprile 1978 ero tra i fondatori al cinema Jolly di Roma dove nacque DP.

Perché proprio DP e non il Partito comunista? Quali ragioni hanno guidato questa tua scelta di militanza?

Perché DP e non il grande e potente PCI? Semplice: la mia militanza movimentista, il mio antimilitarismo, la mia innata riluttanza a ogni autoritarismo, non mi lasciava alternativa. Il PCI era industrialista, sviluppista, nuclearista, molto arretrato in materia di diritti civili. Inoltre non sono mai stato filosovietico: Breznev e tutti quei burocrati e militari impataccati sulla Piazza rossa il 1° Maggio mi sembravano delle insopportabili mummie, fuori dal tempo.

Veniamo agli anni ’80: quale ruolo ricoprivi allora in DP? In che condizioni si trovava il partito in Lucchesia in quel momento?

Essendo stato tra i fondatori nella provincia di Lucca, fui eletto già al I congresso di federazione segretario provinciale, ed ero nel comitato politico regionale e in quello nazionale. La seconda metà degli anni ’80 furono per DP sicuramente i migliori in termini di impegno politico e risultati.

All’inizio del 1984 aprimmo la sede federale in via S. Tommaso in Pelleria, avviando un processo di strutturazione a livello provinciale in tutte le aree geografiche della nostra provincia, e una più limitata presenza istituzionale. Avevamo però una grande capacità di mobilitazione e una buona visibilità politica: in sede avevamo una offset con la quale stampavamo il Quaderno di Dippì, che inviavamo a iscritti e simpatizzanti.

Nell’86 la sede si trasferì in via Fillungo 88, dove tenemmo il I congresso provinciale, aperto da una mia relazione introduttiva dal titolo “Al bivio del 2000. Idee e progetti per l’alternativa”. Erano anni di grandi battaglie sulle questioni nazionali (dall’impegno antinuclearista alle 35 ore lavorative) e locali (la denuncia del malaffare nella gestione dei rifiuti industriali, culminata con l’occupazione del consiglio provinciale, e la vittoriosa lotta referendaria per la chiusura delle Mura urbane e del centro storico al traffico), che alle elezioni dell’87 – dove ero candidato alla Camera – portarono a DP i migliori risultati elettorali: 5.372 voti in provincia, in città siamo al 3,5%, nonché buoni risultati in tanti comuni della Versilia e della Garfagnana. Poi nel 1988, al VI congresso nazionale, si consumò la rottura fra Mario Capanna e quei dirigenti che lasceranno il partito per fondare i Verdi Arcobaleno.

La scissione e l’89 segneranno la fine del progetto di DP, la cui eredità ha avuto però un vasto impatto sulla sinistra italiana. Una formazione marxista eretica e antisovietica, che ha portato nel dibattito politico tematiche fino ad allora inesistenti: la critica radicale dell’idea della crescita infinita e del nostro modello di consumi e sviluppo; le battaglie per i diritti civili e sociali tenuti inscindibilmente assieme; le campagne antinucleariste (quando tutti erano affascinati dalle prospettive dell’energia nucleare); la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario – lavorare meno e lavorare tutti, tratto distintivo di DP.

Ripensando a quella bella esperienza non posso che rilevare che era un piccolo partito elitario, zeppo di personalità, competenze e intelligenze, un bel numero di militanti con livelli di cultura politica estremamente elevati, molto superiori alla media dei militanti delle altre forze compreso il PCI. Per me DP è stata prima di tutto una scuola di vita e una straordinaria opportunità di crescita culturale e politica.

DP si è sempre posta criticamente nei confronti dei paesi del socialismo reale: quali erano le tue posizioni in materia? E come hai reagito di fronte al crollo del Muro nell’89? Quali ricordi hai di quella giornata, e quali riflessioni ha scatenato in te?

Nessuno allora pensava che un giorno sarebbe crollato il Muro di Berlino, sconvolgendo gli equilibri politici usciti da Yalta e che alla mia generazione sembrava dovessero durare per sempre1, il cui superamento per decenni è rimasto un’utopia perseguita da piccole e istituzionalmente marginali minoranze come DP, che osavano immaginare, per il continente europeo, un futuro non più fondato sull’equilibrio del terrore atomico. Quegli accadimenti storici si incaricarono di ricordare a tutti che niente in questo mondo è eterno, tutto ha un inizio e prima o poi anche una fine.

Fra il 1989 e il 1991 illustri ed entusiasti opinion leader – colti di sorpresa dall’evento – sostennero che la Storia era finita poiché “l’impero del male” sovietico era finalmente caduto, aprendo all’umanità prospettive di pace e benessere globali. Sciocchezze colossali, affermate senza il minimo pudore nei dibattiti pubblici che affollavano i palinsesti radiotelevisivi e le colonne dei giornali. Altro che pace! Di lì a poco, nel cuore dell’Europa, si sarebbe scatenata una delle più cruente guerre civili che trasformò l’intera Jugoslavia in un grande teatro di guerra. Parliamoci chiaro, nessun osservatore aveva allora previsto niente di tutto ciò che sarebbe accaduto.

Quella sere del 9 novembre 1989 una folla festosa di uomini e donne presero a picconate e martellate quel muro simbolo di un’Europa divisa in due, che aveva tenuto forzatamente separato un popolo; famiglie costrette a salutarsi a distanza, oltre le reti e i fili spinati, guardandosi con potenti cannocchiali, su versanti opposti e distanti, oltre la maestosa porta chiusa e proibita di Brandeburgo. Io l’ho vista da turista e ho sentito dentro di me tutto il peso soffocante e oppressivo di quel muro. La cosa che più mi amareggiò fu vedere che quei regimi crollarono indecorosamente lasciando dietro di sé una montagna di rovine e miserie a livello culturale e sociale.

Quali furono le reazioni interne al partito a livello locale, fra i tuoi compagni di militanza, di fronte all’89 e alla fine dell’esperienza comunista dell’Est?

Intanto una precisazione: noi di DP non abbiamo mai considerato socialisti e tantomeno comunisti quei regimi, che con la loro presenza infangavano l’immagine stessa del comunismo. DP era una forza antistalinista, antiautoritaria, in sintonia con quel filone marxista “caldo”, non riduzionista e meccanicista come il marxismo ufficiale che pensava che una volta abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione sarebbero nati di conseguenza la società e l’uomo nuovo socialista. Pochi giorni dopo quelle vicende si svolse il 3° congresso della federazione lucchese, aperto da una mia relazione che non poteva non iniziare con un’analisi di ciò che stava avvenendo a Est:

“Gli sconvolgenti avvenimenti che stanno maturando in questi giorni nell’Est europeo sono stati da noi auspicati e desiderati fin dall’inizio della nostra storia. Essi costituiscono la fine di un’ambiguità e di una mistificazione che volevano identificati il socialismo e il comunismo in regimi che si sono caratterizzati per l’onnipotenza della burocrazia di partito e della polizia segreta, per le deportazioni di massa e dei carri armati utilizzati come mezzo di risoluzione dei conflitti sociali al proprio interno e nei confronti dei paesi alleati.”

Il giudizio era estremamente positivo, consapevole che queste vicende avrebbero rimesso in moto la Storia ferma a Yalta. Avvertivo però il pericolo di una forte strumentalizzazione da parte delle destre e degli anticomunisti, allo scopo di dimostrare che il capitalismo era l’unico e il migliore dei mondi possibili.

Nello stesso anno anche il PCI imbocca un cammino che lo porterà a mutare profondamente la propria fisionomia. Cosa pensasti di quel cambiamento in atto, sfociato nella fondazione del PDS? E cosa guidò la tua adesione alla neonata Rifondazione comunista, nella quale DP confluisce nel 1991?

Il nostro giudizio sulla svolta della Bolognina fu duramente critico: le modalità e il dibattito politico di allora tendevano a gettare via il bambino con l’acqua sporca. In quegli anni in molti, anche dirigenti di primo piano, facevano a gara nel dire: mai stati comunisti. Un’indegna e vergognosa liquidazione di una storia che non è mai stata la mia, ma che mi infastidiva per le conseguenze negative che aveva su tutta la sinistra noi compresi, che all’inizio ci pensammo al riparo da quella rovinosa frana poiché venivamo da un’altra storia, radicalmente critica rispetto ai regimi dell’Est; ma come spesso avviene nella storia non si fanno troppe distinzioni, e lo smottamento non risparmiò nessuno. Il senso comune fu quello di dire: il comunismo ha fallito, non c’è alcuna possibilità di rifondarlo. Poi nacque Rifondazione, e siccome io sono sempre attratto dalle sfide impossibili, l’idea di rifondare una nuova cultura comunista per il XXI secolo mi coinvolse. C’era però un ostacolo enorme: quella parte del PCI che non aveva accettato la Bolognina era quella legata a Cossutta, la più conservatrice e filosovietica. Furono mesi di dubbi e perplessità: io in un partito insieme a Cossutta mai! Il pressing su di me a livello locale e nazionale fu estenuante: l’impegno era quello di entrare con la nostra visione per mutare profondamente una prospettiva ormai morta e sconfitta.

Eravamo un gruppo di militanti preparati e determinati, certi che una volta entrati avremmo potuto condizionare lo sviluppo di RC, dando una dimensione di massa al nostro progetto di una sinistra moderna alternativa al PDS. Pochi anni dopo, con la segreteria Bertinotti, si avviò effettivamente un grande processo di rifondazione culturale che integrò la nostra cultura pacifista e ambientalista: non ci divise la battaglia culturale ma, come sempre è avvenuto nella storia della sinistra, questo processo fu interrotto per una divisione profonda rispetto al ruolo del partito nei confronti del governo. Il calvario della sinistra fino ai giorni nostri, con l’ultima divisione consumatasi alle recenti elezioni regionali toscane.

1 Così ad esempio lo storico Robert Service: “Anche se il mondo comunista era percorso da profonde divisioni interne, gli Stati comunisti coprivano un terzo delle terre emerse del pianeta. La maggior parte delle persone dava per scontato che le cose sarebbero andate avanti così per molti anni.” (in Compagni. Storia globale del comunismo nel XX secolo, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 523)




La nascita della Democrazia Cristiana a Siena

La liberazione della città del Palio, come era logico, vide l’immediato riaffiorare dalla clandestinità dei partiti democratici. Già il tre di luglio 1944 (giorno in cui terminò l’occupazione tedesca), in via dei Fusari, si tenne la prima assemblea cittadina della Democrazia cristiana presieduta da Giovanni Cresti, Cesare Viviani, Alberto Radicchi e Antonio Guasparri, nonché dal domenicano Giacinto D’Urso.

Il movimento affondava le proprie radici nel Partito popolare, ma soprattutto nell’Azione cattolica, guardando, all’interno di quest’ultima, con simpatia verso coloro che provenivano dalle file dell’antifascismo[1] come lo stesso Giovanni Cresti, membro del CLN, o Martino Bardotti, un militare che aveva preferito restare in un campo di prigionia tedesco anziché aderire alla Repubblica sociale[2].

Le sfide che si presentarono al nuovo partito, una volta che il conflitto ebbe termine su tutto il territorio nazionale e che iniziò a profilarsi lo spettro della Guerra fredda, furono numerose e tra queste, nell’area senese, ebbero un gran peso l’organizzazione e la costruzione del consenso, la definizione della natura sociale del movimento, il rapporto nei confronti della forza politica che appariva il nuovo nemico, ossia il Partito comunista e, ultima ma non priva di spine, l’autonomia dalla gerarchia cattolica, gerarchia che era ben decisa a giocare un ruolo fondamentale nella DC e di fatto, almeno per i primi anni, lo fece. Furono proprio i vescovi del territorio, con il metropolita Mario Toccabelli in testa, a prendere l’iniziativa intensificando le manifestazioni religiose e conferendo, in molti casi, a queste ultime una connotazione politica più o meno evidente come nel caso della commemorazione, celebrata nel 1945, dell’offerta delle chiavi della città alla Madonna del voto per scongiurare lutti e rovine avvenuta l’anno precedente poco prima della liberazione (il 18 giugno 1944), o l’istituzione della giornata dei cattolici militanti nell’ambito della festa patronale di Sant’Ansano del 1945.

Dal canto loro i laici, costretti a fare perno sulle strutture delle parrocchie e dell’Azione cattolica, tentarono di rafforzare la loro presenza, soprattutto a partire dalla primavera-estate 1945, creando, in città e sul territorio, le prime Acli, per far breccia nel mondo del lavoro, e i centri italiani femminili, destinati a innestarsi sulle forme di filantropismo femminile già presenti in città e a operare in campo assistenziale nei confronti dei minori nonché della promozione del lavoro casalingo delle donne[3]. Gli interventi furono particolarmente intensi all’interno delle mura del capoluogo dove si tenne una vivace attività culturale organizzando lezioni su temi particolarmente attuali come ‘monarchia e repubblica’, ‘i sistemi elettorali’, ‘lo Stato e i comuni’, ‘cos’è il comunismo’, ‘perché il fascismo aveva vinto’ e si provvide, già nel primo semestre del ’45, a mettere in piedi un corso di preparazione politica per i giovani della provincia[4] mentre nel settembre successivo vide la luce il primo settimanale democristiano della provincia di Siena, ossia “Popolo e liberà”, che tuttavia ebbe un’esistenza breve e travagliata cessando le pubblicazioni nell’agosto del 1948[5].

La prima verifica sul campo a cui dovette sottoporsi la giovane DC senese furono le elezioni amministrative del 1946.

Elezioni amministrative del 24 marzo 1946

Elezioni amministrative del 24 marzo 1946per il comune di Siena[6]
Votanti 34.766
Voti validi 29.078
Partito Voti Percentuale Seggi in c.c.
PCI-PSI 14.867 51,1% 21
DC 7.849 26,9% 11
Balzana 3.977 13,6% 6
PRI 1.899 6,5% 2
PdA 466 1,6% 0

Come si può osservare dalla tabella proposta, i risultati del nuovo partito, nel capoluogo, furono tutt’altro che disprezzabili in quanto la Democrazia cristiana ebbe quasi il 27% dei consensi divenendo la seconda forza cittadina alle spalle del Partito comunista, ma non solo. Il nuovo sindaco, Ilio Bocci, probabilmente per stemperare le polemiche nate nelle zone rurali dove i democristiani, talvolta, erano visti con un certo sospetto, chiese ai cattolici di entrare nella giunta e costoro, dopo una certa esitazione, decisero di accettare ottenendo tre assessorati che vennero ricoperti da Vittoria Adami Piccolomini Clementini, Arturo Viviani e Adolfo Agostini[7].

A decretare il positivo risultato per la DC cittadina era stato, prevalentemente, il voto degli impiegati pubblici, delle casalinghe, dei commercianti, degli artigiani e degli studenti medi superiori[8]. Al lusinghiero risultato del capoluogo faceva da contraltare il netto insuccesso patito nel resto del territorio dove in ben 34 comuni le sinistre avevano riportato delle affermazioni piuttosto nette lasciando al predominio cattolico la sola Gaiole in Chianti. Le ragioni di questo insuccesso furono molteplici. In primo luogo aveva giocato a favore del Partito comunista italiano l’indiscusso prestigio acquisito nell’ambito della guerra di liberazione che si era combattuta sul territorio, il nuovo clima creatosi con la guerra fredda, nonché una linea politica chiara per quanto riguardava la mezzadria. Dal canto loro i cattolici, arroccati sul tema dell’anticomunismo, non avevano saputo organizzare una strategia convincente per dare una risposta ai problemi dei contadini che, numericamente, costituivano buona parte degli abitanti delle zone rurali. Il solito Toccabelli, in una lettera al vescovo di Montalcino di qualche anno dopo, sintetizzava il nocciolo della questione affermando che “Una delle difficoltà ad avvicinare il mondo operaio da parte del clero è l’accusa che il clero è dalla parte dei padroni. Parte è pregiudizio e parte è dolorosa realtà.” In effetti all’interno della DC erano confluiti anche numerosi proprietari terrieri che, in contrasto con i compagni di partito ex antifascisti e con i cattolici sociali, erano ostili all’idea della riforma agraria, ma anche poco inclini a finanziare sul territorio l’apertura dei nascenti centri di aggregazione cattolici (all’ombra dei quali nascevano le sezioni della DC) che i parroci più intraprendenti stavano aprendo[9] per dare una risposta efficace all’associazionismo di sinistra.

Nonostante l’aspro dibattito interno legato al tema della mezzadria, il partito dovette ben presto organizzarsi per il secondo banco di prova di quell’anno, ossia le elezioni del 2 giugno 1946.

L’organizzazione per il delicato appuntamento iniziò a partire con il congresso provinciale che si tenne a Siena il 3 aprile dello stesso anno (presieduto da Amintore Fanfani, mentre il segretario provinciale era Aldo Buonomini); l’incontro era in funzione propedeutica ai lavori del primo congresso nazionale che si sarebbe tenuto a Roma dal 24 al 28 aprile successivi[10], tuttavia si decisero anche le strategie da mettere in campo sul territorio. L’orientamento della DC senese, per quanto riguarda il referendum, fu favorevole alla repubblica, ma il tema maggiormente dibattuto fu quello legato all’elezione dell’Assemblea costituente. Per quest’ultima venne fatta una campagna elettorale serrata che, come di consueto, vide il massiccio intervento della gerarchia ecclesiastica con la proclamazione per il 19 maggio 1946, da parte di Toccabelli, della giornata di preghiera per la Costituente ma non solo: si ribadì a chiare lettere, e in modo martellante, che il comunismo era inconciliabile con il cattolicesimo[11].

La macchina organizzativa democristiana, almeno per quanto riguarda la città, vide premiati i propri sforzi poiché per soli 43 voti non strappò la leadership di primo partito al PCI[12].

Elezioni 2 giugno 1946 per l’Assemblea Costituente

Elezioni 2 giugno 1946 per l’Assemblea CostituenteComune di Siena[13]
Elettori   36.709
Votanti   34.092
Partito Voti Percentuale
PCI 9.839 29,96%
DC 9.796 29,83%
PSIUP 5.456 16,62%
FR.UOMO QUALUNQUE 3.379 10,29%
PRI 1.992 6,07%
DEMOC. NAZIONALE 1.181 3,60%
PARTITO D’AZIONE 439 1,34%
BLOCCO NAZ.LIBERTA’ 409 1,25%
PARTITO CRISTIANO SOCIALE 344 1,05%

Il sorpasso era tuttavia soltanto rimandato poiché, pur continuando a perdere negli altri comuni della provincia nonostante un certo rafforzamento, alle politiche del 18 aprile 1948, la DC divenne il primo partito a Siena con 15.902 consensi contro i 14.420 del fronte delle sinistre nonostante i sempre maggiori dissidi interni e l’inevitabile corsa ai posti di potere[14].

Note:

[1] Balocchi Enzo, Un democristiano senese, pp. 162-168, in La nascita della democrazia nel senese dalla liberazione agli anni ’50, Atti del convegno, Colle Val d’Elsa, 9-10 febbraio 1996, a cura di Alessandro Orlandini, Firenze, ed. regione Toscana, 1997, pp.162-165.
[2] Per questa ragione, Martino Bardotti non poté partecipare alla vita politica senese fino alla seconda metà del 1945. Per quanto riguarda la sua esperienza in prigionia si veda Diario di prigionia del sottotenente Martino Bardotti. Internato militare settembre 1943 – dicembre 1944, a cura di M. Borgogni e A. Vannini, Siena, Cantagalli, 2007.
[3] Mirizio Achille, La minoranza inquieta e silenziosa: DC e mondo cattolico nella provincia di Siena 1945-1955, in La nascita della democrazia …, cit., p.138.
[4] Balocchi Enzo, Un democristiano senese …, cit., p.166 e ss.
[5] Mirizio Achille, La minoranza inquieta e silenziosa …, cit., p.158
[6] Sindaci e consigli comunali nel territorio senese del Secondo dopoguerra. Banca dati a cura di Michelangelo Borri, https://www.istitutostoricosiena.it/admin/DOC/Banca%20Dati%20Sindaci%201946.xlsx, visitato il 17 settembre 2020.
[7] Ivi.
[8] Balocchi Enzo, Un democristiano senese …, cit., pp.163-165.
[9] Mirizio Achille, La minoranza inquieta e silenziosa …, cit., p.145.
[10] Democrazia Cristiana (DC) – 1946-1994, in http://www.dellarepubblica.it/congressi-dc, visitato il 18 settembre 2020.
[11] Mirizio Achille, La minoranza inquieta e silenziosa …, cit., pp.145-146.
[12] Nella circoscrizione Arezzo-Siena-Grosseto, i costituenti eletti furono otto; quattro comunisti, due socialisti e due democristiani: Amintore Fanfani e l’avvocato senese Francesco Ponticelli, il quale tuttavia, nel settembre dello stesso anno fu costretto alle dimissioni per motivi di salute lasciando il seggio a Reginaldo Monticelli.
[13]Assemblea costituente 02/06/1946, area ITALIA, circoscrizione SIENA-AREZZO-GROSSETO, Provincia SIENA, https://elezionistorico.interno.gov.it/index.php?tpel=A&dtel=02/06/1946&tpa=I&tpe=P&lev0=0&levsut0=0&lev1=17&levsut1=1&lev2=75&levsut2=2&ne1=17&ne2=75&es0=S&es1=S&es2=S&ms=S, visitato il 17 settembre 2020.
[14] Mirizio Achille, La minoranza inquieta e silenziosa …, cit., pp.142-144.




Ersilio Ambrogi: antifascista o informatore dell’OVRA?

Un quadro: i termini della questione

«Non rischiamo di essere smentiti affermando che il Pnf ha ricevuto l’apporto di gruppi compatti da tutti i partiti politici, eccetto che dal partito comunista»[1]. Nell’aprile 1928, in una serrata difensiva sulle pagine di «Stato operaio», Secondino Tranquilli tentava di scagionare così il presunto cedimento di alcuni militanti comunisti di fronte alle pressioni della polizia fascista. Pur cariche di impegno politico, tuttavia, le parole dell’intellettuale marsicano – poi conosciuto con lo pseudonimo di Ignazio Silone – poggiavano su fondamenta decisamente instabili. Ad oggi, infatti, il graduale accesso alle fonti archivistiche ha mostrato quanto e come – in realtà – le cellule comuniste si fossero rivelate uno dei terreni d’infiltrazione più fertili per il regime[2].

D’altronde, fin dal 1923, il modo in cui il partito si era attrezzato ad una situazione di semilegalità ne aveva fatto il principale obiettivo della Polizia politica guidata da Arturo Bocchini. Già nel 1925 una prima retata aveva assestato forti danni a molte federazioni, permettendo all’Ovra di acquisire preziose informazioni su militanti di base, segretari e dirigenti; operazioni destinate a moltiplicarsi tra il 1926 e il 1927, quando i fascisti riuscirono ad intercettare anche uomini e indicazioni orbitanti attorno al Centro estero del Pcd’I[3]. Come ciò avvenne non è difficile da immaginare: l’ampiezza e la profondità organica della rete clandestina comunista – studiate con accuratezza dalla macchina poliziesca – avevano reso relativamente semplice l’inserimento di agenti segreti, spie e osservatori in borghese, nonché la creazione di canali diretti con alcuni dissidenti dalla linea adottata dall’Internazionale. Se l’individuazione degli emissari del Centro costituiva una priorità assoluta, inoltre, quella disposta nei confronti dei simpatizzanti restava una morsa flebile, avvolta dalla consapevolezza che prima o poi sarebbero serviti da esche per intercettare i militanti più significativi. Una volta arrestati, interrogati e incarcerati, i funzionari si rendevano così conto del labirinto di delazioni entro il quale si erano inconsapevolmente mossi, finendo spesso per subire il peso e le pressioni delle torture e degli interrogatori: non stupisce pertanto che alla fine dell’estate 1927 i comunisti arrestati risultassero «almeno duemila […] e che, in quasi tutti i casi, la loro cattura [fosse] stata assicurata da spie, informatori o agenti provocatori premiati con notevoli somme di denaro dalle varie polizie che [concorrevano] alla caccia al comunista»[4].

Ciò detto, è comunque importante isolare l’arco temporale in cui il fenomeno si consolidò: quello tra il 1927 e il 1932. Di fatto, nel gennaio 1927 l’istituzione del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato aveva aperto una fase di crescenti tensioni che, pochi mesi dopo, sarebbero sfociate nel cosiddetto «processone» contro i comunisti e nelle conseguenti condanne a dirigenti del calibro di Gramsci, Terracini, Scoccimarro e Roveda. A queste si aggiunsero le difficoltà scaturite dalla rovinosa crisi economica del 1929 e – soprattutto – dalle crescenti tensioni legate all’esistenza di linee antitetiche all’interno del partito, crepe in cui la polizia fascista fu capace di penetrare con efficacia. In questo quadro, la paura, le minacce e le perquisizioni – al pari delle generose offerte di denaro, degli adescamenti e dei presunti favoritismi avanzati dalle forze fasciste – generarono un progressivo stravolgimento degli itinerari esistenziali e dei percorsi ideologici di numerosi militanti: un meccanismo del quale peraltro cadde vittima lo stesso Silone, probabilmente ricattato dopo l’arresto del fratello Romolo e protagonista di una vicenda segnata da risvolti familiari, politici e psicologici mai completamente chiariti[5].

Proprio la vicenda Tranquilli, ad ogni modo, risulta utile per introdurre la figura al centro di questo breve contributo: quella di Ersilio Paolo Giuseppe Ambrogi. In particolare, assieme ad essa sembra configurare un osservatorio privilegiato allo scopo di analizzare in che misura le lotte di fazione finirono con il contraddistinguere lo spionaggio comunista.

La vicenda Ersilio Ambrogi: antifascista o collaborazionista?

SovCome già evidenziato, le divergenze interne all’Internazionale erano ben note alla polizia fascista. Da un lato, ciò consentì all’Ovra di insinuarvisi per accentuarne le contrapposizioni; dall’altro – recuperando le parole di Mimmo Franzinelli – gli scontri toccarono punte talmente accese da «indurre esponenti del partito a denunziare identità e recapiti degli avversari interni, con la giustificazione machiavellica di favorire, insieme alla prevalenza della propria corrente, l’interesse generale del movimento comunista»[6]. Non è certo se furono queste motivazioni, assieme a quelle familiari, a spingere Silone – uscito profondamente amareggiato dalla sua esperienza come delegato al VII Plenum dell’Internazionale, dove aveva assistito all’espulsione di Grigorij Zinov’ev – ad intrecciare la sua fitta corrispondenza con l’ispettor Bellone; è forse più sicuro che lo furono nel caso di Ersilio Ambrogi, nonostante un percorso biografico segnato da ombre (tra cui quella di essere stato, viceversa, una spia stalinista) che attendono ancora di essere chiarite.

Nato a Castagneto Carducci (LI) il 16 marzo 1883, figlio di Antonio e Corinna Belli, Ambrogi crebbe in un ambiente di estrazione borghese. Il padre, medico condotto, gli aveva impartito un’educazione vicina alle posizioni del cattolicesimo liberale. Un’impostazione dalla quale si allontanò molto presto, attratto piuttosto dalle idee anarchiche che Pietro Gori aveva contribuito a diffondere lungo la costa toscana[7]. Recatosi a Pisa per studiare legge, dopo essersi iscritto al Psi prese parte – nel 1904 – ad in gruppo rivoluzionario internazionalista e antimilitarista in cui conobbe future figure di spicco dell’Alleanza Internazionale Antimilitarista quali Alfredo Polledro, Ugo Nanni, Domenico Zavattero e Cesare Maragoni. Sempre nello stesso anno, incaricato di cercare proseliti, si trovò coinvolto nella sparatoria che la polizia di Sestri Levante aprì sulla folla durante un  comizio del socialista Giovanni Pertini. Ne seguì un durissimo sciopero generale indetto dalle organizzazioni sindacali alla cui testa si pose lo stesso Ambrogi, il quale finì arrestato e condannato ad undici mesi di reclusione. Uscito dal carcere, iniziò così una fitta serie di viaggi che lo portarono a maturare contatti con soggetti libertari tra Svizzera, Francia (dove nel 1906 prese parte alle manifestazione indette dalla Confédération générale du travail) e Germania, prima di rientrare al paese natale (1911) e di contribuire – assieme ai braccianti Cesare Morganti e Giacinto Bongini – alla nascita del gruppo anarchico castagnetano “P. Gori”. L’anno successivo, dopo essersi laureato in legge all’Università di Bologna, aprì uno studio di consulenza legale a Milano: allo scoppio del primo conflitto mondiale venne richiamato alle armi, ma, come riportano le informazioni presenti nel suo fascicolo del Casellario Politico Centrale (aperto nel 1905 e chiuso nel 1942), finì più volte incarcerato per propaganda antimilitarista e disfattista. Ormai sempre più distante dall’anarchismo, nel 1919 scelse di rientrare nel Psi. Eletto deputato, esponente di spicco della corrente massimalista del partito, emerse ben presto come una delle personalità più incisive del socialismo tirrenico: una popolarità che, nel 1920, gli valse contemporaneamente l’elezione a sindaco di Cecina (rimasta fino al 1925 sotto la provincia di Pisa) e a presidente dell’Amministrazione provinciale di Pisa.

Tuttavia, fu la scissione di Livorno a segnare definitivamente il suo percorso politico: nel 1921 aderì infatti al Pcd’I, trovandosi da subito protagonista di violenti scontri contro le milizie fasciste. Destituito dall’incarico di primo cittadino per aver «levato dagli uffici del Municipio di Cecina  i ritratti dei Sovrani e la targa della Vittoria»[8], venne arrestato per «omicidio» e «tentato omicidio» nei confronti di alcuni squadristi. Grazie all’elezione come deputato comunista per la circoscrizione Livorno-Pisa-Lucca-Massa riuscì comunque ad eludere la condanna a 21 anni e ad uscire di carcere già nel maggio 1921 (la complessità della vicenda giudiziaria meriterebbe adeguati approfondimenti). In un clima di crescente violenza, ad ogni modo, decise di lasciare l’Italia e di iniziare in Germania un’attività di stretta collaborazione con il Kommunistische Partei Deutschlands. Non solo: nel 1922-1923, assieme ad Antonio Gramsci, venne eletto delegato a Mosca nel Komintern e successivamente nominato emissario dell’Internazionale comunista nell’Europa Occidentale. Fu in questo periodo che, pur in stretti rapporti epistolari con Terracini, Grieco e Togliatti, iniziò ad avvicinarsi sempre più alle posizioni di Amadeo Bordiga; e fu sempre in questa fase, in seguito ai durissimi contrasti emersi in seno al VI Plenum del 1926, che maturò un graduale adesione alle teorie di Lev Trockij. Dopo aver paventato – fallendo – la possibilità di creare anche in Russia un piccolo nucleo in contatto con il Centro estero del Pcd’I (di stanza in Francia e Belgio), si trovò così marginalizzato dal partito, finendo con l’esserne espulso nel 1929[9].

Ciononostante, i suoi rapporti con il Komintern proseguirono. Tornato a Berlino e guardato a vista da quella Gpu di cui aveva fatto parte, vi rimase dal 1930 al 1932. Fu proprio nella capitale tedesca che la polizia fascista, ormai perfettamente a conoscenza – dopo aver decapitato le sfere dirigenziali – di «tutto il meccanismo dell’organizzazione comunista»[10], iniziò a seguirlo più da vicino. Alcuni mesi prima, dettagliate informazioni su di lui erano state rilasciate al ministero dell’Interno dal prefetto di Livorno, Guido Farello, il quale aveva scorto nella linea politica intrapresa da Ambrogi una concreta possibilità di avvicinamento:

L’Ambrogi è uno dei capi del gruppo di sinistra tra gli emigrati politici. In una delle ultime riunioni del gruppo egli ebbe a manifestare la sua contrarietà che i componenti di esso non sanno discutere, accettando ogni relazione ed ogni risoluzione con una disciplina che non ha nulla di intelligente. Ciò non può dare nessuna utilità pratica e se non vi fosse il gruppo sinistro che discute e solleva obiezioni che illustrano e chiarificano le idee e i concetti manifestati da taluni oratori si avrebbero delle riunioni notevoli soltanto per l’apatia generale. Finì testualmente così: “i fatti dimostrano il mio dire, anche in questa riunione il compagno Garlandi ha parlato a lungo e contro la destra. Voi non dite nulla e fate blocco con essa contro di noi, questo dimostra che il gruppo non solo non ha capacità ma neanche serietà”. [11]

Le lettere inviate al padre, intercettate dall’Ovra, avevano rivelato al regime anche un’altra potenziale carta di adescamento: Ambrogi versava in drammatiche condizioni economiche. Nonostante tutto, la polizia scelse comunque di adottare nei suoi confronti la tipica tattica dispiegata nei confronti dei gruppi della «sinistra comunista»: fu infatti lasciato libero di operare tranquillamente, controllato e addirittura agevolato nei suoi spostamenti al fine di trarre profitto dalla opera disgregatrice procrastinata all’interno del partito. Dopo essersi trasferito in Belgio, egli aveva quindi fatto ritorno in Unione Sovietica senza incontrare alcun tipo di ostacolo: tuttavia, i suoi rapporti con Stalin e il temporaneo rientro nel partito bolscevico conobbero una brusca interruzione nel 1935, quando – passato nuovamente all’opposizione e ancora attivo nell’ala vicina a Bordiga – sfuggì alle «purghe» solo grazie all’intervento dall’ambasciata italiana a Mosca. Ripartito nuovamente alla volta di Bruxelles, fu qui che i fascisti tentarono definitivamente l’aggancio.

Il 31 luglio 1936, la Regia ambasciata d’Italia a Bruxelles inviò un telegramma riservatissimo e urgente a Roma. L’oggetto riportava la dicitura di «Ambrogi avv. Ersilio» e il contenuto una chiara sintesi della sua manifestazione d’intenti:

Ho l’onore di informare V. E. che ho potuto avvicinare l’Ambrogi allo scopo di conoscere i di lui intendimenti. Da tale colloqui è risultato che trattasi, come V. E. conosce, di un comunista dissidente, divenuto tale non per aver abbandonato le sue opinioni comuniste, ma per aver avuto campo di osservare da vicino il Governo sovietico all’opera. Egli (sono parole dell’Ambrogi), d’accordo con le diverse opposizioni, ritiene che la propria posizione politica sia insufficiente senza una lotta efficace contro la influenza della III° Internazionale. Ma, in considerazione del fatto che la III° Internazionale si appoggia sopra uno Stato potentissimo, ed avvantaggia la sua influenza dalle varie coalizioni di questo Stato con altri Stati, creando e sfruttando movimenti diretti a favorire e a rafforzare tali coalizioni nello esclusivo interesse del nazionalismo russo (che non sempre coincide con le esigenze del movimento rivoluzionario di cui essa si dice banditrice), ogni movimento di opposizione, ha continuato l’avvocato Ambrogi, limitato ai gruppi proletari dissidenti è a priori votato all’insuccesso ed è quindi necessaria la coordinazione di altre forze di opposizione coincidenti. Inoltre (sono ancora parole dell’Ambrogi) si può constatare la esigenza di tutti i punti di coincidenza anche fra lo Stato fascista e la opposizione comunista nella questione della lotta contro la influenza della III° Internazionale. L’Ambrogi intende in questa lotta mettere a profitto tutta la propria esperienza ove sia possibile un accordo diretto alla coordinazione di forze contro la influenza moscovita. Ma tale accordo sarebbe possibile (anche per ragioni tattiche) solo se non si escludesse a propri quella attività politica che spinge il Sig. Ambrogi alla lotta contro la III° Internazionale. In altri termini, l’Ambrogi teme che le varie frazioni di comunisti attualmente in opposizione con la III° Internazionale siano, a causa della loro debolezza, assorbite nuovamente dal Governo dell’Urss o dalle sue emanazioni; ad evitare ciò l’Ambrogi domanda un’intesa col Governo Fascista e l’appoggio di essa. Circa i termini concreti di tale accordo e delle attività dell’Ambrogi, questi ritiene che non potrebbe altrimenti discutersi che in colloqui che un incaricato del Governo Fascista dovrebbe avere col sig. Ambrogi, probabilmente in un tempo molto prossimo. [12]

Furono questi contatti e la percezione che i comunisti maturarono di essi a spingere Dante Corneli, nel suo ricordo del 1979, a dipingere Ersilio Ambrogi come un «agente staliniano e spia fascista che aveva fornito alla polizia italiana importanti notizie sull’attività clandestina che il partito svolgeva in Italia»[13]. Certo, le due parti in causa cercarono in quei contatti – frequenti tra il 1936 e il 1937 – favori vicendevoli: la polizia mussoliniana indicazioni finalizzate ad intercettare i movimenti dei principali esponenti attivi nella rete clandestina comunista; Ambrogi un appoggio alla sua causa politica, aspetto che il fascismo cercò di promuovere anche attraverso l’offerta di vantaggiose concessioni quali la promessa di una radiazione dal Casellario politico centrale o la cancellazione del suo nome dall’elenco dei «sovversivi attentatori o capaci di atti terroristici»[14]. Eppure, nonostante i contatti, Ambrogi conservò sempre una scaltrezza che – in realtà – gli consentì di non cadere nella trappola dell’Ovra, evitando di trasmutarsi come altri suoi compagni in un fiduciario dei servizi segreti.

Constatata l’impossibilità di incidere sulla linea intrapresa dal Pcd’I e ormai sempre più emarginato, egli decise così di interrompere ogni forma di relazione con la polizia politica. A confermarlo un telegramma rigido e nervoso inviato da Guido Leto, capo della Polizia politica, alla Divisione affari generali e riservati il 15 ottobre 1940:

Si comunica che l’arresto dei connazionali Ambrogi Ersilio e Carrà Renzo è stato provocato – come quello di vari altri sovversivi – da questo Ministero allo scopo di eliminarli dal loro campo di azione all’estero, cosa più che opportuna specie nell’attuale momento. Per quanto riflette il contenuto del rapporto della Gerenza degli Affari Consolari a Bruxelles e, più specificatamente, l’accenno che vien fatto, in tale rapporto, ai contatti avuti dall’Ambrogi Ersilio con la R. Ambasciata a Bruxelles, codesto stesso Ministero sa come ebbero origine e come si risolsero, invero in ben poca cosa, i contatti stessi. È noto che l’Ambrogi, il quale nel 1924 fu condannato dalla Corte di Assise di Livorno in contumacia ad anni 21, mesi 10 e giorni 18 di reclusione per essersi reso moralmente e materialmente responsabile del grave eccidio di Cecina del 1921, nei primi del 1922 riuscì a raggiungere il “paradiso sovietico” ove, accolto con tutti gli “onori”, si mise a servizio della Gpu, dirigendone la sezione italiana. Egli lasciò poi la Russia soltanto per circostanze e contrasti ideologici, ma, come ricorderà codesto Ministero, egli dichiarò esplicitamente, quando noi tentammo approcci e contatti con lui, che “era comunista e rimaneva tale”, rifiutandosi recisamente di relazionarci su cose, uomini e metodi della Gpu. Ragioni di opportunità consigliarono, sul momento, di mantenere ugualmente i contatti con lui per poter trarre almeno qualche profitto della campagna giornalistica che egli si proponeva di svolgere in dipendenza dai contrasti ideologici che gli avevano fatto abbandonare la Russia. Ma, anche da questo lato, l’Ambrogi servì ben poco tanto che fummo costretti a troncare i rapporti iniziati con lui. L’Ambrogi è sempre stato un elemento pericoloso e resta tale, pertanto, non vi sono motivi di sorta che possano consigliare di avere per lui qualsiasi considerazione e di dispensarlo dal rendere, come gli altri, i dovuti “conti” sull’attività sovversiva da lui svolta all’estero. [15]

Allontanato dai compagni e messo al bando dal fascismo, nel 1940 Ambrogi venne arrestato dopo l’invasione del Belgio, rilasciato dai tedeschi e poi nuovamente catturato ed estradato in Italia. Assegnato al confino politico per un anno, dopo l’armistizio di Cassibile fu deportato in Germania.

La sua esperienza politica sarebbe rimasta ai margini anche al termine della guerra, quando si ritirò a Livorno per riprendere l’attività di avvocato. Il Pci lo tenne infatti sempre a debita distanza, condizionato dalle voci sul suo conto e da un ruolo mai definitivamente chiarito. Ottenne la riammissione solo nel 1957, sette anni prima di morire – l’11 aprile 1964 – a Venturina. A favorirne il rientro, arrivato dopo molteplici tentativi di riammissione, furono probabilmente l’età ormai avanzata e l’allentamento delle norme di accesso al partito che seguirono alle conseguenze dei fatti di Budapest e alla dura requisitoria con cui Kruscev aveva condannato i crimini di Stalin nel corso del XX Congresso del Pcus (1956). La sua storia, oltretutto, non venne neppure accennata da Paolo Spriano nei sui volumi sulla Storia del Partito comunista (nominato solo due volte, ma nei volumi antecedenti a quelli relativi al secondo dopoguerra) [16], specchio di un insabbiamento politico che difficilmente poteva trovare la sua ragion d’essere nella mancanza di informazioni al riguardo.

Il resoconto dei rapporti di Ambrogi con i fascisti, tuttavia, non ci consegna il profilo di un informatore. Piuttosto, emerge il quadro di un militante tanto avverso alla causa fascista, quanto apparentemente ostile alla direzione imboccata dall’Urss di Stalin e dalla maggioranza dei comunisti italiani. Una vicenda qui solo scalfita ed in attesa di scavi più accurati, eppure ugualmente utile per problematizzare più a fondo la complessa cornice degli anni della clandestinità e del collaborazionismo.

[1] S. Tranquilli, Borghesia, piccola borghesia e fascismo, in «Stato operaio», aprile 1928.

[2] Cfr. M. Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra. Agenti, collaboratori e vittime della polizia fascista, Bollati Boringhieri3, Torino 2020, pp. 311-312; M. Canali,  Le spie del regime, Il Mulino, Bologna 2004.

[3] Cfr. C. Pinzani, Il partito nella clandestinità: problemi di organizzazione (1926-1932), in M. Ilardi – A. Accornero (a cura di), Il Partito comunista italiano. Struttura e storia dell’organizzazione (1921-1979), Feltrinelli, Milano 1982, pp. 975-1005.

[4] P. Spriano, Storia del Partito comunista. Gli anni della clandestinità, II, Einaudi, Torino 1969, p. 110.

[5] Romolo Tranquilli era stato fermato a Como con l’accusa – mai confermata – di aver preso parte all’attentato che il 12 aprile 1928 aveva provocato 20 morti e 23 feriti alla fiera di Milano, arrestato e tradotto nel carcere di Marassi, a Genova. La vicenda colpì profondamente Silone, il quale, forse nell’invana speranza di una sua scarcerazione, intrecciò fino al 1930 un intreccio di informazioni con l’ispettore Guido Bellone sotto il falso nome di «Silvestri»: cfr. M. Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, cit., pp. 335-342. Cfr. anche: M. Canali – D. Biocca, L’informatore: Silone, i comunisti e la polizia, Luni, Milano 2000.

[6] Cfr. M. Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, cit., p. 320.

[7] Cfr. A. Mettewie Morelli (a cura di), Lettres et documents d’Ersilio Ambrogi (1922-1936), in «Annali della Fondazione Giacomo Feltrinelli», 1977, pp. 173-291.

[8] Cfr. «Il Messaggero Toscano» 4 febbraio 1921.

[9] Per un breve quadro biografico di Ersilio Ambrogi, si veda: F. Andreucci – T. Detti (a cura di), Il Movimento operaio italiano. Dizionario biografico, I, Editori Riuniti, Roma 1975, pp. 58-60; F. Bertolucci, Ambrogi, Ersilio, in http://www.bfscollezionidigitali.org/entita/12902-ambrogi-ersilio/ (ultima consultazione: 21 settembre 2020); M. Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, cit., pp. 334-335.

[10] P. Spriano, Storia del Partito comunista. II, cit., p. 353.

[11] Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale della Pubblica Sicurezza, Casellario Politico Centrale, b. 92, fasc. 747, Ambrogi, Ersilio Paolo Giuseppe, Telegramma del prefetto di Livorno al ministero dell’Interno, 7 giugno 1929. Nel comunicato, il nome di Garlandi è sottolineato.

[12] In ibidem, Telegramma della Regia ambasciata d’Italia a Bruxelles al ministero dell’Interno con oggetto Ambrogi avv. Ersilio, 31luglio 1936

[13] D. Corneli, Lo stalinismo in Italia e nell’emigrazione antifascista, III,  Ripoli, Tivoli 1979, p. 32.

[14] Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale della Pubblica Sicurezza, Casellario Politico Centrale, b. 92, fasc. 747, Ambrogi, Ersilio Paolo Giuseppe, Comunicato del capo della Polizia politica alla Divisione affari generali e riservati del ministero dell’Interno, 15 ottobre 1940. Il telegramma, datato 29 novembre 1937 e firmato dal prefetto di Livorno, Emanuele Zannelli, recitava in chiusa che «in questi ultimi tempi [Ambrogi] si è dichiarato favorevole ai troschisti e desideroso di combattere di più il comunismo che il fascismo italiano. Richiami al riguardo la ministeriale n° 14064747 dell’11 Marzo 1936».

[15] In ibidem.

[16] Nei primi due volumi, il nome di Ambrogi compare solo saltuariamente: cfr. P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. Da Bordiga a Gramsci, I, Einaudi, Torino 1967, pp. 90; 100; 130; 163; 175; 217-220; 228n; 296n.; Id., Storia del Partito comunista italiano, II,  cit., p. 9.