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La Camera sindacale del Lavoro di Livorno

La storia non può cancellarsi davanti agli storici: così ha scritto Marc Bloch. Infatti, anche se per molto tempo è stata pressoché ignorata dalla storiografia locale, dal 1920 al ’22, a Livorno fu attiva una seconda Camera del Lavoro, aderente all’Unione Sindacale Italiana e punto di riferimento operaio nei conflitti tra capitale e lavoro, prima che il fascismo distruggesse, assieme alle sedi del movimento operaio, anche le conquiste dei lavoratori.

Una prima sezione livornese dell’USI si era costituita dopo la fine della Prima guerra mondiale, «in questa città ove il riformismo ha sempre imperato»: lo riferisce un comunicato pubblicato il 15 dicembre 1918 sul giornale dell’USI, «Guerra di Classe», da cui si apprende del rilevante apporto di alcuni ferrovieri e che, ottimisticamente, venivano prenotate 500 tessere per l’anno seguente.

1920 USI LivornoNel gennaio 1919, si giungeva quindi alla ricostituzione del Fascio operaio “Emancipazione e lavoro” – già attivo prima del conflitto, con sede in via dei Cavalieri – che raccoglieva un certo numero di giovani operai, attorno ad alcuni vecchi militanti, che non si riconoscevano nella Camera confederale del Lavoro, rivendicando l’assoluta autonomia della classe lavoratrice da tutti i partiti politici e dai governi. Nel programma pubblicato su «Guerra di Classe» dell’11 gennaio 1919, si rendeva nota la sua adesione all’USI, «l’unica organizzazione nazionale che sia rimasta incorruttibile e fiera sul terreno della più rigida lotta di classe».

Lo sviluppo della realtà sindacalista veniva favorito dall’inasprirsi della situazione economica e sociale post-bellica e della conseguente radicalizzazione delle lotte operaie, tanto che «a malapena trascorreva anche una sola settimana senza scioperi, ostruzionismi, tumulti, cortei, comizi ed altre forme di azione politica di sinistra». In questo clima, tra febbraio e marzo 1919, «un gruppo di animosi» si attivò per la creazione di una Camera del lavoro alternativa e in antitesi a quella, fondata nel 1886, aderente alla Confederazione Generale del Lavoro (CGdL), con sede in via Vittorio Emanuele 24, nei pressi di piazza Colonnella.

Tale Camera confederale era ormai controllata da una maggioranza socialista riformista, ad eccezione della Federazione dei metallurgici (FIOM) a prevalente indirizzo massimalista, con sempre meno spazio d’iniziativa per le minoranze repubblicana e anarchica, e a promuovere questo primo tentativo sindacalista di scissione erano stati alcuni ferrovieri socialisti, lavoratori repubblicani e, soprattutto, operai e scaricatori anarchici, uniti dall’opposizione verso la condotta, ritenuta inadeguata e perdente, della dirigenza riformista.

Peraltro, a Livorno vi era stata una precedente esperienza di sindacalismo conflittuale nel 1904, durante il periodo in cui il noto agitatore sindacalista Alceste De Ambris si era trovato a Livorno con l’incarico di segretario della Federazione nazionale dei Bottigliai. Fu infatti dopo lo sciopero generale del 19 settembre di quell’anno che comparve il combattivo Gruppo di propaganda sindacalista che raccolse un certo numero di sindacalisti rivoluzionari di matrice socialista-soreliana, fautori dell’azione diretta e dello sciopero generale espropriatore.

Tra il 1905 e il 1906, il principale esponente del socialismo riformista livornese, l’on. Giuseppe Emanuele Modigliani, si preoccupò di osteggiare accanitamente «l’infatuazione direttista» all’interno del Partito socialista, riaffermando la centralità della politica parlamentare. De Ambris rispose alle sue argomentazioni, precisando che l’azione sindacale non escludeva quella parlamentare purchè subordinata ad essa, ricordando che «l’emancipazione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stessi».

Il “sindacalismo puro” nel contesto livornese non aveva però avuto seguito, stretto come era tra la predominanza socialista – sia riformista che massimalista – e la consistente e storica presenza anarchica; anche perché a livello nazionale i sindacalisti rivoluzionari nel 1907 decisero di separarsi dal PSI ma di rimanere nella CGdL.

Infatti, il processo che avrebbe portato all’affermazione dell’USI a Livorno fu possibile soprattutto grazie al consistente apporto degli “anarco-sindacalisti” che, peraltro, fornirono ad essa la quasi totalità dei quadri dirigenti.

Lo scoppio dei moti del caroviveri, nel luglio 1919, che videro l’iniziativa unitaria della Camera del Lavoro, del Partito socialista e dei gruppi anarchici, nonché la susseguente ondata di arresti e denunce, presumibilmente ritardò la costituzione della Camera sindacale; appare comunque significativo che, durante la sommossa popolare, all’Ardenza fu approvata una risoluzione assembleare che ricalcava quella rivendicata dalla forte Camera sindacale di Piombino, Elba e Maremma, aderente all’USI.

Nei mesi seguenti, a Livorno, gli attivisti che facevano riferimento al sindacalismo d’azione diretta – così come la minoranza anarchica all’interno della Camera confederale del Lavoro – ebbero un ruolo decisivo nello sciopero generale indetto per la libertà di Errico Malatesta, arrestato a Tombolo nel febbraio 1920.

Un prima occasione in cui emerse il crescente dissenso nei confronti della linea moderata della Camera confederale del Lavoro fu lo sciopero generale attuato il 6 e il 7 aprile, per protestare contro l’eccidio avvenuto a San Matteo della Decima, frazione di S. Giovanni in Persiceto (Bo), dove le forze dell’ordine avevano ucciso 8 lavoratori ad un comizio indetto dall’USI. In tale frangente, a Livorno, il 6 aprile si erano mobilitati soprattutto anarchici e repubblicani, mentre i dirigenti confederali e socialisti avevano cercato di abbassare la tensione, così come l’on. Modigliani parlando al comizio, mentre l’anarchico Natale Moretti aveva sostenuto lo sciopero generale ad oltranza. L’indomani però la situazione era del tutto sfuggita di mano ai dirigenti riformisti e – come titolò «Il Telegrafo» del 9 aprile – «i socialisti [furono] esautorati dagli anarchici». Una moltitudine di operai e sovversivi, dopo aver fatto irruzione nella Camera del Lavoro ed essersi impadroniti del vessillo di questa, dettero vita ad un corteo non autorizzato che, cantando Bandiera Rossa, giunse sino alla stazione ferroviaria dove fu caricato due volte dalle forze dell’ordine. Erano quindi seguiti scontri da piazza Dante sino a piazza del Cisternone, con un bilancio di alcuni feriti, tra i quali l’anarchico Oreste Gori e Vittorio Colombini, operaio del Catenificio Bassoli.

Ulteriore significativa rottura fu conseguente alla sollevazione cittadina contro la repressione governativa, agli inizi di maggio, quando la direzione della Camera confederale era riuscita – seppure a stento – a far rientrare la sommossa popolare sul piano della protesta civile e contenere l’agitazione anarchica, aprendo così al sindacalismo rivoluzionario nuove possibilità di sviluppo nel contesto sovversivo.

Appare infatti evidente, come osserva Luigi Tommasini, che «i fatti del maggio segnarono una grave frat­tura fra movimento anarchico e Partito socialista, e ebbero ripercussioni evidenti a livello sindacale, dato lo stretto coinvolgimento degli organismi camerali nello svolgimento degli avve­nimenti».

Se la Camera confederale del Lavoro, attraverso il segretario Zaverio Dalberto, stigmatizzò il comportamento dei «facinorosi», da parte loro gli anarchici e i sindacalisti rivoluzionari, subito dopo il Consiglio nazionale dell’USI tenutosi a Firenze, concordarono un’azione comune verso gli aderenti dei «partiti sovversivi» (socialista, repubblicano e anarchico) di serrata critica verso la dirigenza confederale della Camera del Lavoro.

Inoltre, in luglio, in occasione del Congresso della Camera del Lavoro confederale i dirigenti erano stati contestati per la mancata mobilitazione in solidarietà con la rivolta antimilitarista di Ancona del mese precedente. Nel corso della stessa assemblea, rispetto all’annunciata nascita della Camera sindacale, fu approvato all’unanimità un reciso ordine del giorno che riteneva incompatibile l’iscrizione ad entrambe le strutture.

Mentre all’interno della Camera confederale rimaneva un’incalzante minoranza anarchica, il progetto sindacalista portò, come primo passo, alla nascita ufficiale di una sezione livornese dell’USI con alcune decine di lavoratori aderenti. La notizia venne comunicata su «Guerra di Classe» del 17 e del 24 luglio 1920, con il seguente commento: «Era ora! Tutte le ottime illusioni sulla unità proletaria, che molti nostri compagni si facevano, e che in omaggio a queste avevano sempre ostacolato una nostra separazione dai confederalisti, oggi, dopo gli ultimi avvenimenti, sono completamente cadute, e i compagni fiancheggiano con fede ed entusiasmo l’opera nostra».

Nell’ambito dell’intenso lavoro organizzativo intrapreso dalla neonata sezione dell’USI verso alcune categorie (operai, muratori, calzolai, falegnami, lavoranti in crogiuoli…), il 25 luglio, presso le scuole Benci, venne promosso un nuovo partecipato comizio riguardante la vertenza metallurgica – con interventi di Moretti, Attilio Chichizzola e Augusto Consani – che approvò un ordine del giorno a sostegno del contegno dell’USI nei confronti della FIOM «tendente ad una unità d’azione nell’attuale agitazione metallurgica».

Il 27 agosto, mentre nelle fabbriche era in atto l’ostruzionismo operaio, in piazza del Municipio si svolse un comizio sulla vertenza metallurgica con gli interventi di Russardo Capocchi per la FIOM, Sereni per la Camera confederale del Lavoro e Moretti per l’USI, prefigurando la presa di possesso delle industrie.

Gli sviluppi della dura agitazione nazionale dei metallurgici fece però rinviare ancora l’apertura della Camera sindacale a Livorno, vedendo i militanti e dirigenti dell’USI impegnati a partecipare assieme alla FIOM, diretta dal socialista massimalista Capocchi, all’Occupazione delle fabbriche e alla loro difesa.

Dopo che a metà agosto in diverse fabbriche erano stati attuati scioperi bianchi e forme di ostruzionismo, il 2 settembre, alle ore 15, gli operai di undici stabilimenti – ai quali se ne aggiunsero almeno altri cinque – entrarono in sciopero e li occuparono, innalzandovi bandiere sia rosse che nere, e in alcuni di questi, come alla Metallurgica e al Cantiere Navale F.lli Orlando, si continuò a produrre in autogestione.

Se per gli anarco-sindacalisti la pratica autogestionaria, quale forma di lotta prefigurante l’espropriazione dei mezzi di produzione, dimostrava «ai pescicani dell’industria siderurgica e meccanica, che la classe lavoratrice è matura per gestire da sé le fabbriche»; ben diversa era la posizione del Partito socialista, così come risulta da un articolo contro «la gestione diretta delle officine occupate […] nel senso che gli [sic] danno gli anarchici», pubblicato in prima pagina sull’«Avanti!» del 5 settembre e, non casualmente, ripreso l’indomani sul principale quotidiano padronale livornese («Il Telegrafo», 6 settembre 1920).

Al contrario, sin dalla prima settimana, i solidali sindacati dei ferrovieri e dei lavoratori del porto garantirono le forniture di materiali e materie prime alle fabbriche occupate.

Gli stabilimenti furono sgomberati dalle maestranze dopo oltre trenta giorni di resistenza, con risultati inferiori alle aspettative; ma il referendum sul concordato tra FIOM e padronato a Livorno registrò la contrarietà di circa 4.270 operai metalmeccanici, rivendicando il pagamento per intero delle giornate d’occupazione ed esigendo che negli aumenti salariali conquistati non rientrasse l’aumento di L. 2,60 al giorno già ottenuto a maggio, ma anche per la contrarietà all’istituzione della Commissione paritetica che avrebbe dovuto sanzionare presunti atti di indisciplina avvenuti durante l’occupazione.

Il progetto sindacalista riprese quindi impulso, in sintonia con la radicalizzazione dei settori operai più risoluti, dopo l’esito deludente del grande movimento delle occupazioni industriali e il contestato accordo nazionale sottoscritto dalla CGdL. In tal senso, da parte dell’USI livornese, furono intensificati gli incontri con gli operai di alcune fabbriche e le iniziative di propaganda, come il comizio rivolto ai lavoratori dell’edilizia, presso le Case Popolari, tenuto da Eugenio Bini e dal muratore anarchico Filippo Filippetti, referente sindacale del settore edile.

A fine settembre del 1920, in un clima di persistente tensione sociale si giunse quindi all’attivazione della nuova Camera sindacale, che poteva contare, oltre ai lavoratori già aderenti all’USI, su consistenti nuclei operai che, non sentendosi più rappresentati dalla FIOM, stavano aderendo al Sindacato Metallurgico dell’USI.

Nel mese di ottobre del 1920, mentre a Bologna venivano arrestati tutti i componenti del Consiglio generale dell’USI, a Livorno, sulla stampa anarchica locale, si trova riscontro dell’avvenuta apertura della Camera sindacale, con sede in viale Caprera – angolo via delle Lance, nel popolare quartiere “Nuova Venezia”, pur se la prima segnalazione in merito da parte delle autorità di polizia comparve tardivamente, in un rapporto datato 22 novembre.

La Camera sindacale, oltre ad essere luogo di riunione per le diverse categorie, sarebbe stato anche uno spazio di socialità, ospitando anche  feste ed altre iniziative di solidarietà, quasi come una Casa del popolo.

Al 2 dicembre, un’ulteriore nota prefettizia – secondo la quale la Camera sindacale si era costituita nei primi giorni di novembre – indicava in circa 600 gli iscritti, di cui 120 al Cantiere navale Orlando, 100 alla Società Metallurgica Italiana, 100 nelle cooperative sul porto e i restanti suddivisi nelle altre medie e piccole industrie cittadine (Prodotti Chimici, Fabbrica carbone fossile Ruchat, Fabbrica Isolatori, Conduttori Elettrici, Officine meccaniche Vestrini, Oleifici Nazionali, Cementeria, Stabilimento Petrolio, Semoleria…).

Tale rilevazione doveva però essere “arretrata” di qualche mese, oppure limitata al settore industriale, in quanto in un nuovo rapporto, datato 8 dicembre, il prefetto informava il Ministero dell’Interno che l’USI aveva raggiunto i mille iscritti mentre, nello stesso periodo, apparivano in calo quelli alla Camera del lavoro confederale che, pochi mesi prima, aveva dichiarato 15 mila tesserati dei quali circa quattromila della FIOM. Infatti, sull’organo nazionale dell’USI, «Guerra di Classe», del 1° gennaio 1921, veniva riferito che il giornale a Livorno era diffuso settimanalmente in 700 copie e che gli iscritti alla Camera sindacale erano ormai duemila e altre categorie andavano organizzandosi (muratori, ferrovieri, elettricisti, arte bianca, facchini del mercato, calzolai, vestitrici di damigiane, etc.).

La rilevanza numerica del passaggio di iscritti dalla Camera confederale a quella sindacalista è indirettamente confermata dal tono polemico del dirigente della FIOM, Adolfo Minghi, giunto a sostenere, davanti ad un’assemblea di metallurgici, che la Camera sindacale era «dannosa alla classe lavoratrice e di vantaggio alla borghesia», nonché altre accuse che dovette ritrattare. Peraltro, il successo di adesioni alla Camera sindacale livornese appare del tutto in linea con le dinamiche nazionali che vedevano l’USI in rapida crescita con 180.000 iscritti a metà del 1919, 305.000 alla fine dello stesso anno e circa 500.000 nell’autunno del 1920.

Alla Camera del lavoro dell’USI aderivano – riconoscendosi nella sua autonomia classista – lavoratori anarchici di diversa tendenza, senza-partito, repubblicani, socialisti ed anche comunisti, «molti dei quali militavano nella Camera sindacale». Inoltre, la stessa componente comunista della CGdL – legata prima alla frazione “intransigente” di Firenze del Partito socialista e poi al PCdI, con a capo il ferroviere Spartaco Lavagnini – avrebbe optato per privilegiare le intese con i sindacalisti rivoluzionari, in funzione antiriformista, così come avvenne all’inizio del 1921, durante gli scioperi contro i licenziamenti di massa nelle fabbriche livornesi, soprattutto nel settore metalmeccanico, per la “crisi” ritenuta «una bassa manovra egoistica e reazionaria per gettare sul lastrico migliaia di lavoratori».

Su tali posizioni di forte antagonismo, la Camera sindacale si rafforzò, divenendo anche punto di riferimento delle Commissioni interne di fabbrica, mentre lo scontro fra la linea confederale e quella sindacalista si fece sempre più aspro. La Camera del Lavoro della CGdL, infatti, era orientata a contrattare (oggi si direbbe concertare) le modalità di attuazione dei licenziamenti, cercando di mitigarne gli effetti con la richiesta di contributi e sussidi per i disoccupati, nonché suggerendo i criteri – discriminanti per sesso, anzianità e provenienza – con i quali il padronato doveva effettuarli. All’opposto, la Camera del Lavoro sindacale rifiutava recisamente tale contrattazione per regolare i licenziamenti, sostenendo la necessità di una lotta contro quella che riteneva una manovra politica degli industriali per indebolire il movimento operaio e annullarne le recenti conquiste salariali e normative. Su queste posizioni, con impostazione sindacalista rivoluzionaria, lotte importanti furono attuate dagli operai allo Stabilimento Italo Americano Petrolio, alla Società Molini, alla Mattoni Refrattari dell’ing. Mathon, alla Società Conduttori Elettrici e agli Oleifici Nazionali, non senza scontri fisici tra “estremisti” (ossia sindacalisti rivoluzionari, anarchici e comunisti) e confederali.

Nel settembre 1921, durante la vertenza alla Società Metallurgica Italiana contro un taglio salariale del 10%, la Camera sindacale sostenne con forza la lotta degli operai e, durante una partecipata manifestazione, intervenne il dirigente nazionale dell’USI e segretario della Camera sindacale di Sestri Ponente, Antonio Negro, che accusando i riformisti del PSI e della CGdL per i numerosi cedimenti, ricordò come «un anno fa le bandiere rosse sventolavano su tutte le officine: avevamo le armi, eravamo i padroni, e dovevamo restare tali. Ma i dirigenti di allora hanno tradito e bisogna spodestarli, e d’accordo con Lenin occorre fare la rivoluzione». Il 20 ottobre seguente il prefetto ebbe quindi a paventare come «il partito sindacalista, e per esso la Camera del Lavoro sindacale, tende ad impadronirsi del movimento operaio, sostituendosi alla FIOM e qualora vi riuscisse l’ordine pubblico certamente non se ne avvantaggerebbe».

Per contrastare l’ondata di scioperi e insorgenze sociali, oltre al consueto intervento poliziesco (come avvenuto, ad esempio, contro l’occupazione operaia degli Oleifici Nazionali), anche a Livorno il padronato, le gerarchie militari e i settori più reazionari della borghesia locale avevano affidato la «controrivoluzione preventiva» alle squadre fasciste e nazionaliste, per cui la Camera del Lavoro sindacale dovette attivarsi anche su questo fronte, divenendo un punto di riferimento per la difesa proletaria e per l’organizzazione degli Arditi del popolo.

A tragica conferma del ruolo sostenuto dalla Camera sindacale nella battaglia antifascista, vi è la morte sotto il piombo degli squadristi e delle forze dell’ordine di due aderenti all’USI durante l’attacco fascista a Livorno del 2 agosto 1922, costato ben otto vittime. Nella periferia nord, nel corso di uno scontro a fuoco, cadde il già citato Filippetti, ardito del popolo e rappresentante sindacalista per il settore edile; mentre nel quartiere S. Marco rimase ucciso Gisberto (o Gilberto, secondo altre fonti) Catarsi, operaio del Cantiere “Parodi e Del Pino”, facente parte del consiglio direttivo della Camera sindacale e militante del gruppo anarchico “C. Cafiero” di Montenero.

In quelle giornate di reazione, assassinii e distruzioni sistematiche delle sedi sindacali e politiche della sinistra, dopo che la Camera confederale fu devastata una seconda volta, soltanto la Camera sindacale rimase inespugnata, difesa con le armi dai suoi militanti e forte della collocazione nel quartiere sovversivo della “Nuova Venezia”. Imposto lo stato d’assedio alla città, il 10 agosto la Camera sindacale subì una seconda perquisizione, venendo interdetta su ordine dell’autorità militare, dopo essere stata mezza devastata dai carabinieri col pretesto di scovarvi armi ed esplosivi. Per la sua chiusura definitiva i fascisti dovettero però attendere di governare, dopo la Marcia su Roma. Pur senza sede e senza giornale, i sindacalisti dell’Unione ancora in libertà continuarono la propria attività, sempre più illegale, sino al gennaio 1925 quando, a livello nazionale, con un decreto prefettizio l’USI fu formalmente dichiarata fuorilegge, costringendola ad agire all’estero o in clandestinità.

[Il presente testo è un estratto della ricerca: Marco Rossi, L’altra Camera del Lavoro. Livorno 1920 – ’22. L’azione dell’U.S.I. e Augusto Consani, sindacalista rivoluzionario, Gruppo editoriale USI-CIT, Livorno 2020]




Il “crudele morbo” dell’autunno 1918.

L’influenza spagnola del 1918-19, tornata d’attualità a causa del Covid-19, non risparmiò la Toscana. Nella regione, come nel resto del Paese, il momento di maggior difficoltà fu vissuto nell’autunno 1918, con la seconda ondata. Tuttavia, la pandemia seminò morte in un clima di silenzi e false notizie. Il governo impose una “propaganda tranquillante” volta a minimizzare l’emergenza, con il contributo della stampa, della politica interventista e dei comitati patriottici, censurando quanti non si fossero allineati. Tuttavia, lo sfoglio della stampa coeva rivela che la pandemia era un elemento onnipresente: lunghe colonne di necrologi dove figuravano giovani (i più colpiti dal virus) uccisi da “crudele morbo” (nome dietro cui si celava l’influenza), articoli che ridimensionavano la crisi sanitaria, pubblicità di prodotti antinfluenzali (come il Lindol, antisettico il cui «uso preserva dalla Febbre di Spagna») e, occasionalmente, trafiletti sulla grave situazione. Allo stesso modo, le testimonianze popolari offrono importanti informazioni sull’incedere del virus. Il soldato Lorenzo Meleddu, di stanza a Pisa, scrisse al fratello una lettera per descrivergli le processioni funebri che andavano e venivano dai cimiteri «come la formica», perché «qui ne muore anche cinquanta tre e quattro a famiglia e per questo dico io peggio di stare in zona di guerra». L’angoscioso racconto contrastava con la narrazione pubblica delle autorità sanitarie pisane, che alla fine di settembre annunciarono che l’influenza era «stata subito debellata» ed era «in grande decrescenza».

La politica censoria mirava a tutelare lo spirito pubblico e a occultare le mancanze assistenziali dello Stato, tra le cause principali del disastro sanitario. In Toscana, come altrove, gli abitanti, soprattutto delle aree periferiche, patirono la carenza di medici e infermieri, in gran parte mobilitati. Il Ministero della Guerra fu parco, nonostante gli appelli: l’ispettore sanitario fiorentino richiese con urgenza farmaci e personale, ma venne solo parzialmente soddisfatto. Alcuni medici privati e locali benefattori offrirono i propri servigi e risorse: la ex first lady Rose Elisabeth Cleveland finanziò l’ospedale di Bagni di Lucca, dove perì confortando i malati. Tuttavia, il concorso privato non poteva risolvere le deficienze dello Stato.

Il governo demandò molte incombenze alle autorità locali, il cui spazio di manovra fu assai limitato (le quotidiane mancanze furono aggravate dalla congettura bellica e dalla presenza dei profughi), soprattutto se non coadiuvate dai comitati di preparazione civile. Le amministrazioni ritardarono a novembre-dicembre l’apertura delle scuole, chiusero cinema e teatri, organizzarono massicce disinfezioni dei luoghi pubblici. Il prefetto di Firenze tentò di ridurre gli accessi sui treni, ma il provvedimento era inattuabile in tratte affollate, come la Firenze-Pistoia, difettando di materiale rotabile (risorse assorbite dall’esercito). Misure profilattiche non furono imposte alla attività industriali e produttive. Inoltre, l’eccesso di mortalità aggravò le difficoltà di pulizia mortuaria. Per la mancanza di materiali e di necrofori, nelle aree rurali seppellire i deceduti senza cassa e avvolti in un telo bianco imbevuto di sublimato divenne la prassi.

La questione più delicata riguardò la gestione annonaria. Gli assembramenti fuori dagli spacci alimentari agevolavano il contagio, ma non si imposero limitazioni per non turbare i ceti popolari, timorosi di rimanere senza viveri. I modesti sforzi dei municipi, tra cui Firenze, Pistoia e Sesto fiorentino, per regolare la distribuzione, sollevarono critiche. «L’Avanti» attaccò l’autorità fiorentina che «si preoccupa di evitare la frequenza di agglomeramento nei teatri e non agisce […]  onde far cessare il continuo e veramente pericoloso agglomeramento di centinaia e centinaia di persone, per la massima parte donne e bambine, pigiate all’ingresso degli spacci di generi alimentari». All’ansia della popolazione contribuì la contrazione dei rifornimenti e l’aumento dei prezzi, causati dell’impatto della spagnola sui cicli produttivi. Nel Mugello, i lavori agricoli patirono estese interruzioni: «famiglie intere di coloni sono ammalati, tantoché si vede la difficoltà o meglio l’impossibilità di raccogliere il granoturco, le uve e le castagne. È un disastro dei più grandi data la scarsità di uomini validi al lavoro».

Tutti questi aspetti incisero sulle mentalità e sui comportamenti, come prova il generalizzato smarrimento della popolazione toscana. Si registrarono avvelenamenti per l’ingerimento di disinfettanti, nel tentativo disperato di curarsi. Avvennero suicidi di persone soverchiate dalla paura, come la donna che, nel Mugello, si gettò in un fiume con la figlia una volta contratto il virus. Al pari della guerra, il “cataclisma pandemico” favorì la domanda “dal basso” di funzioni religiose propiziatrici: a Campi Bisenzio il SS. Crocifisso della pieve di S. Stefano, venerato nelle calamità, fu esposto nel novembre 1918 per ottenere la cessazione del morbo.

La seconda ondata si attenuò nel dicembre 1918. Il demografo Giorgio Mortara stimò 30.000 vittime (490-600.000 in Italia, 50-100 mln nel mondo). Le zone più colpite furono le aree urbane di provincia. La malattia continuò a colpire la regione, con aggressive recrudescenze (nel febbraio 1920, vi furono oltre 2.200 vittime).

La pandemia aggravò i lutti di una popolazione già flagellata dall’altro cataclisma, la guerra mondiale. Eppure, la spagnola è ricordata nelle memorie familiari, mentre in ambito pubblico ha lasciato flebili tracce. In Toscana, si è individuata una sola lapide, a Borgo San Lorenzo, in ricordo dei combattenti del locale distaccamento morti «per fiero morbo […] nell’anno della vittoria». Poco: forse, al pari di altre nazioni, potrebbe essere il momento di erigere una testimonianza concreta e durevole alla memoria delle vittime della pandemia novecentesca.

 

Mortalità per spagnola nei capoluoghi di provincia toscani (attuali) nel 1918.

 

Morti imputabili alla pandemia nel 1918 Morti imputabili alla pandemia ogni 1.000 abitanti
Arezzo 524 10
Firenze 2.761 10,4
Grosseto 307 18,7
Livorno 1.071 9,4
Lucca 630 7,4
Massa 452 13,2
Pisa 754 10,8
Pistoia 957 12,7
Prato 483 8,3
Siena 323 7,1
 Francesco Cutolo è dottorando in Storia alla Scuola Normale di Pisa. Si è laureato all’Università di Firenze nel 2016 con un lavoro sull’influenza spagnola. E’ membro del consiglio direttivo dell’Isrpt e della redazione della rivista “Farestoria”. Ha pubblicato nel 2020 “L’influenza spagnola del 1918-1919. La dimensione globale, il quadro nazionale e un caso locale” (Isrpt). 



Itinerari chiniani a Montecatini Terme

Si dice che Montecatini sia l’armonico e straordinario connubio di antico e moderno, identificabili rispettivamente con la parte alta della città, sede dell’antico castello e teatro di numerose battaglie, e con la zona dei bagni termali, a valle, dove prima dei Lorena i benefici delle acque rimanevano relegati ad un’insalubre area stagnante.
Inizialmente l’unica Montecatini era quella sulla collina, fondata intorno all’anno Mille, e bruciata dall’incendio del 1554. Si deve al periodo delle grandi riforme leopoldine (1773) il ritorno alla salubrità della zona sottostante: il Granduca Pietro Leopoldo fece costruire canali di smaltimento delle acque per recuperare il territorio e favorire l’uso delle sorgenti termali, per le quali cominciò, inoltre, un’intensa edificazione di stabilimenti. Nonostante le migliorie pubbliche consentissero una riqualificazione della parte bassa, si dovette però aspettare fino al 1905 per veder nascere il Comune di Bagni di Montecatini, poi Montecatini Terme, che immediatamente assunse nell’estetica cittadina gli inconfondibili tratti della belle epoque. Basterebbe scorrere le fotografie del tempo o una serie di vetuste cartoline per notare tripudi di cappellini piumati su belle signore in posa, davanti ai classici e maestosi edifici termali.

Un indiscusso protagonista di questa ristrutturazione cittadina all’insegna del bello fu Galileo Chini con la sua manifattura ceramica, della quale coordinava la direzione artistica. La storia della fabbrica è ormai nota e, per riassumerla in pillole, non rimane che far riferimento agli innumerevoli successi nazionali e internazionali che, sin dalla fondazione (1896, al tempo Arte della Ceramica) essa accumulava: Torino (1898) Parigi (1900), Pietroburgo, Gand, Bruxelles (1901) e ancora Torino (1902) sono solo alcune delle Esposizioni in cui la Manifattura ricevette le onorificenze più alte.
Nei primi vent’anni di attività, quindi, il successo della produzione chiniana era talmente attestato sul territorio che chiamare tali maestranze per intervenire sui lavori pubblici era sintomo d’indiscusso prestigio. Questo fu probabilmente il pensiero dell’architetto Raffaello Brizzi e dell’ingegner Luigi Righetti, quando proposero in Giunta Comunale l’affidamento della copertura per i velari principali al Chini.

In effetti, i lavori per il Palazzo Comunale di Montecatini impegnarono le Fornaci (che nel frattempo si erano trasferite a Borgo San Lorenzo, cambiando la ragione sociale in Fornaci San Lorenzo Chini & C.) dal 1918 al 1920, quando una serie di vetrate fu eseguita all’interno dell’edificio. In realtà la copertura dei lucernari, affidata alla ditta Quentin, era cominciata almeno due anni prima, come dimostra la serie archivistica Lavori pubblici conservata presso l’Archivio Storico del Comune e recentemente rinvenuta, ma la scabra intelaiatura di ferro e vetro non soddisfaceva gli stilemi estetici ormai pienamente devoluti alle rotondità Liberty. I Chini proposero pertanto nuovi bozzetti per il velario d’ingresso, dove allegre forme tondeggianti si concentravano nel puttino centrale e si alternavano ai vetri colorati e nitidi, alle sagome geometriche di quelli laterali.
Alle opere in vetro si aggiunse un ciclo pittorico (otto pennacchi con soggetti allegorici e dodici lunotti, dove risiedono putti e corbeille fiorite) situato sulla volta dell’imponente scalinata e sempre eseguito per mano di Galileo Chini.

IMG_5861Quest’arte manifatturiera, connotata dalle forti istanze dell’artigianalità di bottega e allo stesso tempo permeata di spirito moderno, aveva già in precedenza lasciato il segno in città: il Padiglione Tamerici, progettato nel 1903 da Giulio Bernardini per la vendita dei Sali, fu decorato da quattro pannelli in grès realizzati dalla Manifattura per Domenico Trentacoste. Modellati con sapiente equilibrio di forza e gentilezza, essi raffigurano i differenti ruoli connessi all’arte dei vasai: Il Fornaciaio, il Molatore, lo Scultore e il Disegnatore; quest’ultimo ha le sembianze di Galileo Chini. Tali bassorilievi erano stati presentati all’Esposizione Italiana di Arti Decorative e Industriali di Torino del 1902, prima di trovare definitivamente posto sulla facciata di questo edificio. All’estero ricerche sul grès avevano prodotto risultati di straordinario interesse (si pensi a ceramisti di grande fama come Auguste Delaherche, in Francia o i fratelli Martin, in Inghilterra) ma in Italia l’uso di questo materiale era del tutto innovativo per la ceramica dell’epoca. Il tipo di grès usato dalla fabbrica fiorentina era grigio e nella maggior parte dei casi presentato con sintetici decori in blu di cobalto: esemplari che sono definiti di ‘grès salato’, perché rivestiti da una pellicola vetrosa trasparente ottenuta dalla combustione del cloruro di sodio. Ciò mette in luce l’alto livello tecnico raggiunto dalla fabbrica, che si pone così in linea con i più progrediti laboratori europei del tempo.
Passeggiando sul gran Viale delle Terme ci troviamo di fronte all’imponente facciata dello Stabilimento Tettuccio, ricco di storia e che rappresenta, oggi, una vera città termale con parchi, caffè, concerto e negozi. Interessanti sono le decorazioni dei vari padiglioni che ne arricchiscono la sontuosità: dalle ceramiche della Galleria delle Bibite di Basilio Cascella, agli affreschi di Giuseppe Moroni nella Sala di Scrittura o di Giulio Bargellini e Maria Biseo nel Salone del Caffè, fino alle decorazioni di Ezio Giovannozzi nella cupola della Tribuna dell’Orchestra, coperta con tegole a squame in maiolica della Manifattura Chini. Si noti, in questo senso, che gli interventi di rivestimento ceramico esterno hanno esiti vicini a quelli di Salsomaggiore: le Terme Berzieri riportano, infatti, elementi di somiglianza e talvolta di assoluta corrispondenza.
Non lontano, sempre all’interno del parco cittadino, si trovano le Terme Tamerici, ristrutturate nel 1910 da Giulio Bernardini e Ugo Giusti. Galileo Chini qui realizzò pannelli, banconi, vetrate e persino i pavimenti della vecchia sala di mescita. L’incarico di ampliare le Terme Tamerici interessò in particolare la decorazione esterna in grès ceramico che s’inserì organicamente nell’architettura neo-medioevale dell’edificio: le teste leonine, i rosoni, gli stemmi policromi e i vari tipi di piastrelle con motivi geometrici e a intreccio sono elementi che in parte saranno ripresi dall’esperienza di Galileo in Siam e in parte riutilizzati per altri lavori.

Montecatini può dunque vantare interventi artistici importanti e qualificati, e non solo per commesse istituzionali. Spesso l’intervento della famiglia Chini è richiesto per lavori di carattere privato: ne è esempio splendido il Grand Hotel & La Pace. Costruito nella seconda metà dell’800 e più volte trasformato, fu radicalmente ristrutturato agli inizi del ʼ900. Nel 1904 fu inaugurato il Salone delle Feste, affrescato da Galileo, autore peraltro anche dei disegni per le vetrate della vecchia hall. Di chiara ispirazione klimtiana e di produzione totalmente autoctona, i vetri della Manifattura Chini ricorrono a schemi decorativi tratti dai moduli artistici della Secessione viennese, con un impianto compositivo che si articola su diversi livelli geometrici, affiancati poi da composizioni floreali dalle evidenti riduzioni formali. La stessa influenza stilistica si ritrova nelle tre splendide e vivaci vetrate di Villa Agatina (V.le Giacomo Puccini, 67), eseguite con grande maestria dalla Manifattura Fornaci di San Lorenzo su disegno di Galileo.

La Belle époque assegnò dunque a Montecatini – città spensierata e modaiola – una precisa collocazione estetica all’interno del gusto Liberty e lo fece avvalendosi, anche concettualmente, ai maestri nel settore. La Manifattura Chini lascia anche su Montecatini un segno indelebile, una traccia che andrebbe rispettata nel solco della tradizione storica e artistica e perpetuata attraverso notevoli opere di valorizzazione come quella permessa dalla sensibilità degli eredi nella conservazione dell’Archivio Storico dell’impresa e della famiglia.

Elena Gonnelli è laureata in Lettere con il prof. Andrea Battistini, ha conseguito una seconda laurea magistrale in Archivistica con Antonio Romiti curando il riordino e l’inventario analitico dell’Archivio della Manifattura Chini di Borgo San Lorenzo. Insegnante di scuola media, lavoro inoltre presso l’Archivio di Stato di Bologna e come collaboratrice esterna per diversi archivi del territorio. Direttore dell’Istituto storico lucchese – Sezione Montecatini Monsummano. Tra le sue pubblicazioni: Il Codice numero 1 dell’Archivio Storico pre unitario di Montecatini: questioni storicoarchivistiche, in «Caffè Storico – Rivista di Studi e cultura della Valdinievole», anno I, n. 1, Luglio 2016, in corso di stampa; L’Arte della Ceramica e il Liberty italiano, in «Il senso della Repubblica. Nel XXI secolo quaderni di storia e filosofia», Heos, anno IX, n. 6, Giugno 2016; L’Archivio della Manifattura Chini: il disegno per Porretta, «Nuéter», anno XLI, n. 82, Dicembre 2015, Porretta Terme; L’Archivio della Manifattura Chini, in «Quaderni di storia e cultura viareggina: Da Firenze a Viareggio. Viaggio nell’arte di Galileo Chini», Istituto Storico Lucchese – Sezione di Viareggio, n. 7, 2016.




L’eccidio di Monterongriffoli, 17 luglio 1920.

L’Italia uscì dalla Grande Guerra con una situazione di forte crisi economica e sociale, che causò un continuo incancrenirsi dello scontro politico. Nei primi mesi del 1920 si moltiplicarono le violenze. Il 7 marzo si registrò una prima aggressione alla Casa del popolo di Siena, durante la quale rimase ucciso un giovane di 18 anni, Enrico Lachi, per un colpo di pistola sparato da un appuntato dei carabinieri[1].
In segno di forte protesta, fu indetto lo sciopero generale. Si cominciava infatti a percepire una sentita avversione, di parte della forza pubblica e degli organi statali, contro i socialisti, che avrebbe in seguito condotto a una piena affermazione della violenza fascista[2].
Nel moltiplicarsi degli scontri, sabato 17 luglio si verificò l’episodio più tragico delle campagne.
L’oggetto del contendere era il “patto colonico”, del quale i mezzadri chiedevano alcune modifiche, per esempio di avere più del 50% del raccolto e di limitare il potere di escomio del padrone. L’occasione era il periodo della trebbiatura, il momento più delicato del lavoro nelle campagne, durante il quale lo sciopero assumeva una maggiore forza.
Un paio di poderi non ubbidivano all’ordine di scioperare emanato dal sindacato di matrice socialista. Di conseguenza, il proprietario della fattoria di Monterongriffoli, Aldo Bellugi Gragnoli, aveva chiesto al prefetto la protezione dei contadini che volevano tagliare il grano, in particolare il podere di Montepietri.
Problemi di scioperi si ebbero in tutta la provincia, che era in mano alle cosiddette “leghe rosse”, cioè le organizzazioni sindacali socialiste, tanto che fu proclamato lo “stato d’assedio”[3].
La nostra Provincia di questi giorni passati – scriveva il settimanale socialista “Bandiera Rossa Martinella” – è stata invasa da grandi forze armate col preciso scopo di soffocare col sangue la grandiosa compattezza delle masse agricole. La folla della campagna ha sostenuto l’urto violento, non ha piegato un attimo di fronte alla travolgente reazione padronale stimolante le autorità civili e militari alla più feroce repressione”[4].
La mattina del 17 luglio arrivarono a Monterongriffoli alcuni carabinieri del battaglione mobile di Roma, comandati da un maresciallo.
Il paese si sviluppava lungo la strada in discesa sotto una collina di tufo, e alla fine della stessa strada si trovava la villa padronale, che chiudeva l’abitato da un lato. Il maresciallo mandò una parte dei suoi uomini a sorvegliare il lavoro nei campi, mentre gli altri rimasero nella villa.

L’arrivo dei carabinieri aveva riscaldato gli umori degli scioperanti, che avevano comunque deciso di non impedire la trebbiatura da parte dei crumiri.
Erano i primi scioperi che venivano fatti; ancora il Fascismo non esisteva – ha testimoniato la sig.ra A. Meini – erano i contadini che volevano un po’ più di giustizia e stare un po’ meglio”[5].
Le rivendicazioni erano modeste e apparivano nel complesso degne di considerazione, non mettevano in dubbio l’istituto secolare della mezzadria. Ma gli animi erano stati accesi dalla forte propaganda socialista massimalista, dalla crisi economica e sociale, dalla speranza o paura – secondo in quale parte della barricata ci si trovava – di una rivoluzione come quella russa.
La scintilla che innescò la miccia degli scontri fu causata dall’arresto di tre contadini, che secondo alcune testimonianze erano ubriachi e provocarono i carabinieri, secondo altre avevano semplicemente sfoggiato vessilli rossi.
Ecco un paio di descrizioni contrastanti, da parte di due giornali, che fanno capire quanto fossero accesi gli animi e quanto le descrizioni risultassero di parte, orientando l’opinione pubblica dei lettori.
“La Vedetta Senese”, 19-20 luglio 1920.

A Monterongrifoli, frazione di S. Giovanni d’Asso, dove è situata la fattoria di proprietà del signor Aldo Bellugi, si trovavano 20 carabinieri per proteggere i lavori della trebbiatura. Nella mattinata di ieri 14 militi furono dislocati rimanendo così a Monterongrifoli 6 carabinieri con un commissario di P.S.
Una numerosa masnada di scioperanti si partì da S. Giovan d’Asso, distante pochi
chilometri, e si recò nella frazione a reclamare il rilascio di tre contadini arrestati.
Gli scioperanti ebbero la cura di sbarrare le strade d’accesso per impedire l’arrivo di rinforzi. Appena giunti a Monterongrifoli dettero un’assalto in piena regola ai R.R. C.C. tirando bastonate e commettendo violenza.
I carabinieri si difesero con i calci dei fucili cercando di ripararsi dalle botte date con rabbia e con forza, tanto che alcuno ebbe il calcio del moschetto spezzato da una bastonata. Mentre la zuffa continuava, arrivò un camion guidato da una guardia regia. Questa si accorse che un gruppo di forsennati cercava di prendere alle spalle un carabiniere per colpirlo a tradimento. Comprendendo che la vita del milite era in grave pericolo, la guardia sparò un colpo di rivoltella ferendo due contadini.
I carabinieri subito dopo, per non essere sopraffatti, spararono disperdendo la folla.
Si hanno a deplorare 4 morti e 4 feriti, fra i contadini.
I 6 carabinieri rimasero tutti più o meno gravemente contusi.
L’ord
ine è ristabilito”.

“Bandiera Rossa – Martinella”, 25 luglio 1920.

Ingresso Villa padronale a Monterongriffoli, giugno 2020

Sabato 17 verso sera tre contadini del vicino paese di Montisi si recavano a Monterongriffoli. Soffermatosi in una trattoria a bere, furono subito raggiunti dai carabinieri, i quali, senza motivo, li trassero in arresto, trasportandoli alla fattoria dell’agrario Aldo Bellucci-Gragnoli, poiché era colà che un camion di carabinieri comandati da un commissario di P.S. e da un maresciallo, sostava.
L
a folla composta, come dissi, di pacifici lavoratori, si avviava alla fattoria per chiedere il  rilascio degli arrestati. All’approssimarsi di questa, maresciallo, commissario e si dice anche il proprietario, ed il fattore, cominciarono a sparare. Fu un momento di panico. Si domandava se questi agenti e proprietari erano diventati pazzi. Si vedeva la faccia contorta del commissario che gridava sparando, il maresciallo e i carabinieri lo imitavano, dalle finestre della fattoria si faceva altrettanto. Cadevano contadini al suolo, feriti a morte. La folla veniva poi inseguita alla carica dai carabinieri, i quali piattonavano e colpivano col calcio del moschetto”.

La ricostruzione dei fatti risulta molto differenziata, nei giornali, nei documenti e nelle testimonianze. Quello che sembra certo è che arrivò una folla di persone, per chiedere di liberare i contadini fermati, che la folla entrò nel piazzale della villa padronale e che partirono colpi di arma da fuoco, non soltanto dalle pistole di ordinanza, come se qualcun altro avesse sparato contro i contadini.
Si contarono tre morti (Angelo Cingottini di 54 anni, Natale Baglioni di 30 anni e Settimio Capaccioli di 26 anni). Altre sei persone rimasero ferite.
I fatti di Monterongriffoli furono oggetto di un processo penale, tenuto nel corso del 1921, che si concluse in agosto, con le condanne per oltraggio e lesioni alla forza pubblica di alcuni contadini, che fecero ricorso in appello, e con l’assoluzione dai reati di omicidio e violenza del proprietaria dello fattoria Aldo e del parente Guido, per non aver commesso il fatto[6].
Poco dopo l’eccidio, ebbero termine le lunghe trattative sul patto colonico fra l’Associazione agraria in rappresentanza dei padroni e la Federazione italiana lavoratori della terra, in rappresentanza dei mezzadri.
Lo sciopero dei contadini può dirsi finalmente cessato” – scriveva il quotidiano “La Vedetta Senese” del 19-20 luglio –. Notizie che ci giungono da ogni parte della provincia confermano che i lavori sono già ripresi quasi da per tutto, e che in ogni modo l’agitazione è scomparsa possiamo sperare che fatti incresciosi non si abbiano a ripetere…
Disgraziatamente questo sciopero à voluto le sue vittime che potevano certamente essere evitate con un po’ di serenità
”[7].

Il paese di Monterongriffoli nei pressi della fattoria, giugno 2020

Note
[1] G. Maccianti, Una storia violenta: Siena e la sua provincia 1919-1922, Siena, Il Leccio, 2015, pp. 58-59.
[2] S. Maggi, Dalla città allo Stato nazionale. Ferrovie e modernizzazione a Siena tra Risorgimento e fascismo, Milano, Giuffrè, 1994, pp. 305-308.
[3] Lettera di Sesto Bisogni del 19 luglio, in “La Vedetta Senese”, 19-20 luglio 1920, p. 3.
[4] La ferocia bestiale dei carabinieri del re nello sciopero dei contadini, sbocca nel malvagio eccidio di Monterongriffoli, in “Bandiera Rossa Martinella”, 25 luglio 1920, p. 1.
[5] Statuto del Comune di Monterongriffoli. 1534, a cura di F. Raffaelli, Comune di San Giovanni d’Asso, 2001, p. 143.
[6] Archivio di Stato di Siena, Fondo Tribunale Penale di Siena, filza 611, Processi Penali, anno 1921, ottobre-novembre.
[7] Lo sciopero dei contadini. Lo sciopero è finito?, in “La Vedetta Senese”, 19-20 luglio 1920, p. 3.




Dover partire.

Come afferma Patrizia Gabrielli, quello biografico è un approccio a lungo rimasto a margine rispetto alla produzione storiografica sull’antifascismo che, solo fino a pochi anni fa, pareva prediligere una rimozione del retaggio delle storie personali, dei vissuti soggettivi quasi fossero soffocate dalle gesta dei molti eroi che contraddistinsero il periodo e segnarono la storia della nostra repubblica e della nostra libertà.

Nell’ambito della produzione memorialistica sull’antifascismo, il metodo biografico ha acquistato progressivamente uno spazio significativo, al punto che ormai, costituisce parte integrante della bibliografia sull’emigrazione con le sue memorie, autobiografie e carteggi, che hanno avuto il potere di mettere in luce angoli visuali inattesi.

Le ricche e interessanti storie soggettive e collettive contribuiscono così a rendere una visione d’insieme dell’esperienza dei fuoriusciti italiani attraverso plurimi punti di osservazione, non solo statistici o politici. La visione al tempo stesso vittimistica ed elogiativa dei migranti italiani all’estero, offre più profondi e interessanti spunti di riflessione sociologica e culturale. Infatti, ogni situazione contiene in se stessa una complessità che la rende unica. Questo articolo descrive la storia della migrazione da Marti a Valbonne durante l’affermazione del fascismo in Toscana raccontando, a titolo di esempio, la storia della famiglia Lanini una delle 28 famiglie immigrate in quel periodo da un paese che contava all’epoca 2000 anime, insieme ad altri toscani perseguitati dal fascismo[1]. In questa ondata migratoria una famiglia si caratterizzò dalle altre. In quanto strumento del regime, aveva un incarico ben preciso quello del controllo affermando le direttive del fascismo, fuori dal territorio nazionale, seppur interpretate secondo le necessità locali[2]. Il fascismo aveva provato a più riprese a incunearsi nelle società ospiti sebbene la forza del regime sia stata riconosciuta, soprattutto in Francia, con maggiore reticenza[3], sebbene tutti gli studiosi abbiano sempre concordato sul fatto che solo una minoranza degli italiani avesse aderito alle organizzazioni antifasciste all’estero.

Primo Lanini arrivò a Valbonne (Francia) nell’estate del 1924 a piedi, dopo una lunga e disagiata marcia lunga 400 km durata 5 settimane. Aveva 37 anni.  Il suo è un viaggio esplorativo per verificare la situazione, trovare un alloggio, prendere accordi, stabilire contatti, comprendere le potenzialità da dove partire. Cosetta è l’ultima figlia nata in Italia e ancora vivente. Nasce il 5 dicembre 1924 al civico 18 di Borgo d’Arena, una borgata di Marti, al tempo frazione del comune di Palaia in provincia di Pisa un quartiere, molto attivo da un punto di vista di impegno politico dove risiedevano anarchici, socialisti e comunisti afferenti alla Lega mista contadini-operai formatesi con autentica partecipazione durante il biennio rosso ma anche l’associazione La fratellanza operaia legata al modello del mutuo soccorso e già attiva agli inizi del 1900.

La scelta del luogo dove installarsi con la famiglia era riconducibile essenzialmente al passaparola con altre famiglie toscane emigrate a Valbonne[4] già a fine Ottocento per motivi legati al lavoro stagionale costituito principalmente dalla vendemmia dell’uva servan e dalla raccolta dei fiori come il gelsomino e la rosa centifoglia per le profumerie di Grasse, che attirava nella zona donne e uomini provenienti anche dalla provincia di Cuneo e dalle valli limitrofe[5] e dal fatto che la Francia, in quel momento, registrava un importante presenza di antifascisti (nel dipartimento Alpi Marittime e nella Regione PACA ce ne sono molte)[6]. Il Paese confinante era stato ritenuto da Primo l’alternativa più sicura e più accessibile considerato l’inasprimento dei rapporti internazionali e l’affermarsi del fascismo. La comunità martigiana proveniva da un paesaggio rurale caratterizzato dalle belle colline inferiori pisane, punteggiato da boschi e calanchi di creta argillosa. La gente allevava polli, vitelli e porci, intrecciava cesta, costruiva cerchi per le botti, lavorava il castagno, forgiava il ferro, coltivavano la terra, il mare non era nelle loro corde, né tantomeno il paesaggio urbano di Nizza, per questo la scelta di un paese simile, se non altro per clima e contesto, sembrò la più appropriata. Valbonne al tempo, era circondata da boschi si poteva tagliare la legna, venderla, trasformarla in carbone, costruire gabbie per gli uccelli, arrangiarsi, ingegnarsi, destreggiarsi, adattarsi ma lavorare finalmente in pace e vivere in attesa di tempi migliori. Le migrazioni cambiano e arricchiscono la storia di un Paese, trasformano la composizione sociale e politica di un luogo, incrementano l’economia locale ma la transizione non è così immediata, lineare e pacifica e, sicuramente nella fase iniziale, non è mai semplice inserirsi nel nuovo tessuto sociale. Così, spesso, gli eventi sfociavano in importanti divergenze culturali anche se, nel caso di Valbonne, non ci sono state mai vere e proprie discriminazioni da parte francese[7]. L’integrazione, anche solo lavorativa, non sembrava essere facile salvo sfruttare liberamente le risorse naturali del territorio: i boschi, rendendo vitale questo settore. I martigiani si specializzarono nel taglio del bosco e nella produzione del carbone, realizzavano fascine per venderle nei ristoranti, nei panifici o nei forni di cottura della celebre ceramica di Vallauris dove si installerà Picasso dal 1948 al 1955[8].

unnamedParisina Bottai con il primogenito Rigoletto, 10 anni,  Alfio, 5 anni e Cosetta, di soli sei mesi[9], arrivarono a Valbonne un anno più tardi, nell’estate del 1925, quando ormai in Italia erano state parzialmente approvate le leggi fascistissime trasformando, progressivamente, la monarchia parlamentare in una dittatura totalitaria. Arrivarono con il treno con un biglietto di terza classe fino a Ventimiglia dove Primo li raggiunse e li aiutò a passare la frontiera. Lanini era un socialista non interventista (aderente in un successivo momento al comunismo) che, suo malgrado, fu coscritto quattro anni nel corpo degli alpini e inviato sul fronte orientale in Trentino Alto Adige per combattere durante la Prima Guerra mondiale[10]. Tornato a casa, scioccato da quanto aveva visto e vissuto, demoralizzato e amareggiato per il trattamento riservato loro al rientro dalla guerra, cercava, come tutti i reduci, di reinserirsi nel tessuto sociale e riprendere stabilmente il suo lavoro di boscaiolo che gli consentisse di mantenere la famiglia. Così quando le camice nere andarono a cercarlo a casa per ingaggiarlo nelle loro spregiudicate imprese intimidatorie, Primo non ne volle sapere: era stanco della violenza e del dolore. Era un uomo giusto, dignitoso, le sue pretese erano semplici e lecite:  voleva solo ricominciare a lavorare e dimenticarsi dell’orrore della vita delle trincee e della disillusione delle promesse fatte. Lanini non condivideva l’ideologia fascista pertanto si rifiutò con fermezza di partecipare anche alla Marcia su Roma. Considerato un sovversivo, divenne vittima delle vessazioni delle cosiddette squadracce e a seguito di un’aggressione fisica grave decise di mettersi in salvo con la famiglia da un paese ingrato e illiberale.. Vi erano già state nel Comune di Palaia situazioni di tensione alcune delle quali trasformarsi in tragedia. Una sera durante una veglia clandestina, un gruppo di camicie nere provenienti da Pontedera fece irruzione nella casa dove si erano riuniti clandestinamente alcuni esponenti antifascisti e cominciarono a colpire all’impazzata con il manganello tutti i partecipanti alla riunione. Emilio Doni (1886-1954) attivo sindacalista e autorevole sindaco di Palaia già dal 1920 si mise miracolosamente in salvo saltando velocemente fuori dalla finestra e nascondendosi dentro il forno per il pane. Doni fu costretto a dimettersi dal ruolo di sindaco a causa dell’avanzamento dell’ondata nera guidata dai proprietari terrieri della zona tra tensioni e tumulti che sfociarono in feroci aggressioni e atti di sangue. Ma l’evento determinante che fece maturare definitivamente la scelta di Primo Lanini di trasferirsi in Francia fu l’aggressione e l’omicidio di un compaesano. Primo, che da qualche tempo aveva già preso in considerazione l’ipotesi della fuga all’estero, ne fu convinto soprattutto dopo l’assassinio di Alvaro Fantozzi[11]  segretario della Camera del lavoro di Palaia di soli 29 anni avvenuto sulla strada di Castel del Bosco al mattino del 2 aprile 1922 mentre si recava a un comizio a Marti per cercare di ripristinare la Lega mista contadini-operai. Lanini comprese che la situazione stava degenerando, accelerò dunque i tempi passando velocemente all’azione avvalendosi delle indicazioni di altri martigiani che anni prima avevano già tentato l’avventura in cerca di fortuna e che nel frattempo, grazie a scelte oculate, erano diventati abbienti. Infine, la realtà nella quale questo giovane toscano dovette, suo malgrado, vivere gli prospettò un avvenire tranquillo e agiato, così quando, al termine della Seconda Guerra Mondiale si paventò l’idea di ritornare a casa a Marti, la scelta fu quella di restare in Oltralpe, a Valbonne dove morirà nel 1973[12]. Nonostante un forte senso esistenziale lo legasse ancora alla Toscana, la sua vita era ormai orientata a Valbonne e la Francia gli aveva procurato protezione e benessere economico.

[1] Famiglie provenienti da Marti: Bottai, Balducci, Bagnoli, Bandini, Banti, Doni, Trinti, Monti, Catalini, Giglioli, Ciampini, Cenci, Corti, Costagli, Ceccarelli, Giannini, Marmeggi, Gorini, Lanini, Nardi, Pretini, Pitti, Telleschi, Ulivieri, Regoli, Pistolesi, Pupeschi, Vanni. Famiglie originarie di Ponte a Egola : Billeri, di Forcoli : Doveri, di Massa : Trietti, di Pontremoli : Biasini e Valenti. Infine, famiglie provenienti da Pistoia: Vivarelli e Bizzarri.
[2] Il fascismo aveva provato a più riprese a incunearsi nelle società ospiti sebbene le forza del regime sia stata riconosciuta, soprattutto in Francia, con maggiore reticenza, sebbene tutti gli studiosi abbiano sempre concordato sul fatto che solo una minoranza degli italiani avesse aderito alle organizzazioni antifasciste all’estero.
[3] La penetrazione del fascismo nelle comunità italiane all’estero è stata per lungo tempo sottovalutata dalla storiografia, tanto in Italia quanto nei paesi d’arrivo. La storia del fascismo all’estero si è arricchita, nel corso degli anni, di diversi contributi che hanno ricostruito la penetrazione del regime in svariati contesti nazionali e regionali. Nell’ambito della storiografia italiana, il contributo recente più interessante appare quello di Matteo Pretelli.
[4] Demografia di Valbonne village: 1891 = 1015 , 1896 = 1138, 1901 = 1067, 1911 = 1045, 1921 = 831, 1926 = 949, 1931 = 1063. Nel periodo di cui stiamo parlando Valbonne contava 949 abitanti. Ultimi dati aggiornati al 2017 = 13 325 abitanti.
[5] Il Comune di Valbonne si era già dimostrato accogliente nei confronti degli italiani che svolgevano lavori stagionali poiché aveva già ospitato altri migranti toscani, provenienti da Marti primo su tutti Amerigo Balducci giunto nel villaggio nel 1895 con la moglie Zaira Nardi, seguiti, in ordine sparso, da altre 6 famiglie di cui il nucleo di Armando Nardi e Ida Petrini arrivati a Valbonne nel 1904 che rappresentano un’importante testa di ponte per la successiva migrazione politica.
[6] Occorre ricordare, a titolo di esempio, la famiglia di Amleto Gorini martigiano installatosi a Draguignan e Danilo Gorini che fu a lungo sindacalista nella CGT e che partecipò alla Resistenza francese.
[7]  Le condizioni di vita erano piuttosto favorevoli e la comunità locale dimostrava quanto meno una certa tolleranza nei loro confronti. Nel censimento del 1936 si contano in Francia 720.000 italiani tra esuli antifascisti e comunità di lavoratori immigrati di cui 11.000 aderenti ai partiti politici antifascisti.
[8] Studi antropologici mostrano che la catena di immigrazione si organizzava per via familiare, così che le nuove comunità che si formavano erano omogenee per area di provenienza; la stabilità di tale flusso migratorio è confermata dall’esiguo numero di ritorni in Toscana.
[9] L’ultima figlia della famiglia Lanini, Angel, nascerà in Francia nel 1931.
[10] Primo Lanini fu insignito dal capo della Repubblica dell’Ordine di Vittorio Veneto dell’Onorificenza di cavaliere al valore militare (Numero d’ordine 315). L’onorificenza commemorativa fu istituita in Italia nel 1968 dall’allora presidente Giuseppe Saragat.
[11] Alvaro Fantozzi, Segretario della Camera del lavoro di Palaia e Assessore comunale a Pontedera, fu un infaticabile organizzatore di leghe bracciantili. Il giovane fu assassinato con armi da fuoco la mattina del 2 aprile 1922 da tre fascisti di San Miniato rimasti poi impuniti. Dopo l’omicidio Fantozzi, che scosse per la sua cruenza tutta la Valdera, i comunisti aggredirono due fascisti a cui seguì una pronta rappresaglia delle camicie nere che, in varie località della Provincia di Pisa, bastonarono gli avversari.
[12] Solo due famiglie dell’ondata migratoria tornarono a Marti dopo la fine della seconda guerra a causa di lutti e della necessità di fornire un aiuto materiale ai propri cari. Gli altri rimasero tutti in Francia dove nel frattempo avevano preso la nazionalità.




Livorno 1920: maggio di sangue

I primi giorni del maggio 1920, cento anni fa, Livorno fu teatro di un episodio a carattere insurrezionale che, seppur di breve durata e di relativa intensità, fu comunque sintomatico di una situazione di elevata tensione politica e sociale, tanto che, come annotò il console inglese, “la città era stata per due giorni quasi completamente in mano ai rivoltosi”. La prima, circostanziata e puntuale, ricostruzione di quei fatti la dobbiamo, ancora una volta, al fondamentale saggio di Tobias Abse.

    A differenza di Torino, Pola e Vicenza dove le forze dell’ordine avevano ucciso sette lavoratori, la giornata del Primo Maggio in città era appena trascorsa senza incidenti, tanto che «Il Telegrafo» aveva parlato di “Esempio luminoso di calma e moderazione”, esaltando “l’istintivo buon senso” e “l’innata avversione per tutto ciò che è ingiustificato disordine e inutile violenza” degli operai livornesi.

   Partito da Piazza Vittorio Emanuele  – l’attuale Piazza Grande – il corteo sindacale di 1.500 persone (secondo la stima non benevola de «Il Telegrafo»), con una quindicina di vessilli, aveva percorso le vie del centro e si era concluso con un comizio al teatro Politeama, “con grande sfoggio di bandiere rosse e nere e di garofani fiammanti”. Oltre ai rappresentanti delle diverse categorie, erano quindi intervenuti il socialista mas­simalista Nicola Bombacci, appena “reduce dalla Russia”, e il segretario della Camera del Lavoro, Zave­rio Dalberto.

   All’Ardenza invece era stato tenuto il comizio indetto dagli anarchici con la partecipazione del sindacalista valdarnese Attilio Sassi dell’Unione Sindacale Italiana. Inoltre, nel pomeriggio, un’altra adunata sindacale, con i mede­simi oratori della mattinata, si era pacificamente svolta a Colline.

   Dietro a tale apparente calma però, la tensione sociale in quel perio­do era già molto alta in città a seguito delle agitazioni dei disoccupati e degli scioperi dei lavoratori portuali contro il potere padronale e la poli­tica governativa; bastò infatti la notizia degli imprevisti fatti di Viareggio a far sfociare tale tensione in aperta rivolta.

   A Viareggio una banale rissa sportiva, seguita alla partita di calcio tra la Lucchese e la squadra di casa, era degenerata in gravi disordini e quindi aveva assun­to i caratteri di uno sciopero generale e di una sollevazione popolare che è possibile ricostruire attraverso le cronache pubblicate sui quotidiani: «Il Telegrafo» del 4 maggio; «La Gazzetta Livornese» del 7-8 maggio; «Umanità Nova» del 6, 7, 8 maggio 1920.

  Tutto era iniziato il 2 maggio quando, durante una zuffa scoppiata dopo il derby calcistico, i carabinieri avevano sparato e ucciso Augusto Morganti, un guardalinee con un passato di ex-tenente degli arditi di guerra che si era messo a capo della tifoseria viareggina.

    Di fronte a tale uccisione, la rabbia dei proletari viareggini tra i quali era forte la presenza anarchica dette vita ad un vero e proprio moto insurrezionale, tale da costringere i riottosi riformisti della Camera del lavoro e del Parti­to socialista a dichiarare lo sciopero generale cittadino, mentre venivano disarmati i carabinieri ed assaltate le caserme dell’Arma. In particolare, secondo quanto riferito dal corrispondente de «Il Telegrafo»: “Le donne, non tutte, si capisce, sono le più agitate, le più infuriate. Ne vedo a frotte, scarmigliate e discinte presso la Camera del lavoro, ove sono esposti due vessilli, uno nero e l’altro rosso”.

   Una volta che l’eco dei moti viareggini giunse a Livorno, immedia­tamente accese e fece dilagare il risentimento popolare, tanto da indurre la Camera del lavoro a indire uno sciopero di protesta per il 4 maggio, aderendo all’invito del Sindacato ferrovieri e vedendo la convergenza del segretario, massimalista, Dalberto, con le consistenti componenti anar­chica e repubblicana della Camera del lavoro.

    La città, intanto, era già attraversata da pattuglie armate delle forze dell’ordine, dopo che la Questura aveva ordinato il divieto di circolazione per ogni mezzo – biciclette comprese – nonché la vendita della benzina.

    Lo sciopero risultò esteso e compatto e, nel pomeriggio, una folla di lavoratori e sovversivi si radunò sotto la Camera del lavoro in via Vitto­rio Emanuele (oggi via Grande), nei pressi di piazza Colonnella, in attesa di notizie dalla Versilia e delle conseguenti decisioni del Consiglio delle Leghe ivi riunito. Nonostante la comunicazione che a Viareggio era stata decisa la cessazione del movimento, peraltro rimasto circoscritto, i di­mostranti continuarono a rimanere in strada, mentre dalle finestre della Camera confederale, gli esponenti socialisti invitavano a tornare a casa, contraddetti dagli anarchici – presenti in circa trecento – che sollecitavano i presenti a non fidarsi del governo e a continuare l’agitazione contro le continue violenze poliziesche.

La situazione era ancora relativamente calma, con capannelli di gente impegnata a discutere sul da farsi; fin quando carabinieri e militari pre­senti in forze circondarono la zona effettuando diversi fermi e bloccando le vie adiacenti, anche se la motivazione poi addotta dalla Questura, e riportata su «Il Telegrafo», fu che venne deciso di inviare un plotone di soldati (presumibilmente bersaglieri), al comando del commissario Ruggiero, per difendere la Camera del lavoro “dai facinorosi” e “dalla teppa”.

A quel punto i presenti reagirono inveendo contro la presenza della “sbirraglia”, mentre sconosciuti assaltavano l’antistante armeria Soldaini e l’armeria Bertelli in via della Tazza (l’odierna via Piave), pur facendo uno scarso bottino consistente in rivoltelle per lo più inservibili, qualche fucile da caccia e alcuni coltelli.

Recatisi nella vicina Regia Questura in piazza Vittorio Emanuele, i sindaca­listi socialisti Dalberto e Capocchi riuscirono, faticosamente, a ottenere il rilascio degli arrestati, ma la tensione rimase alta, alimentata dall’atteggiamento aggressivo della forza pubblica.

Un drappello di carabinieri – una cinquantina – continuarono nella provoca­zione e in via Vittorio Emanuele alle sassate dei manifestanti risposero sparando – ginocchio a terra – coi moschetti e le rivoltelle sui manifestanti. Presi tra due fuochi, le vittime furono numerose: il socialista Flaminio Mazzantini, operaio ebanista di 48 anni e padre di otto figli, fu mortal­mente colpito da due proiettili e Vittorio Volpini venne ferito in modo grave tanto da rimanere a lungo in pericolo di vita, ma si contarono al­meno altri 14 lavoratori feriti dal piombo regio.

Telegrafo7maggio20Seguì una prima, immediata, reazione che vide alcuni dimostranti sparare alcune rivoltellate e lanciare un piccolo ordigno verso la Questura dove, dietro ai cancelli, “si trovavano reparti in pieno assetto di guerra”, ferendo alcuni carabinieri. Quasi con­temporaneamente al porto, nei pressi del “Ponte dei sospiri” sbarrato con cavalli di frisia e reticolati, venne tirata una bomba a ma­no “Sipe” all’indirizzo del presidio composto da carabinieri e soldati che difendevano la caserma “Malenchini” e quella della Guardia di Finanza, ferendo un carabiniere.

Ancora, attorno le ore 21, nonostante la pioggia, un folto gruppo di sovver­sivi provenienti da via dei Cavalieri (probabilmente attraverso via del Traforo) lanciò altri tre ordigni esplosivi contro la Questura.

A seguito dell’eccidio (così sarà definito anche su «Il Telegrafo»), la giunta esecutiva della Camera del lavoro decideva, a tarda notte, la ripresa dello sciopero per l’indomani, mentre le forze di polizia eseguivano molti arresti, soprattutto tra gli anarchici ritenuti, senza alcuna prova, responsabili dell’assalto alla Questura. Così come a Viareggio, nel porto mediceo entrava un cacciatorpediniere della marina militare, mentre venivano fatti affluire, via mare, circa un migliaio di carabinieri e guardie regie.

I funerali di Mazzantini si trasformarono in un’enorme manifesta­zione proletaria di almeno diecimila persone, con la partecipazione di tutte le organizzazioni di classe, oltre a socialisti, repubblicani e anarchi­ci. Molti negozi avevano esposto la scritta “Chiuso per lutto proletario”. Il feretro era fiancheggiato da aderenti alla Lega proletaria dei reduci di guerra, con fascia rossa al braccio, e seguito anche dai “Ciclisti rossi” di cui Mazzantini era caposquadra.

Nel nutrito spezzone libertario, «La Gazzetta Livornese» riferì della presenza del gruppo di Ardenza, della se­zione femminile anarchica, del Fascio operaio di via dei Cavalieri e dell’asso­ciazione anticlericale “I nemici di Dio”. Alcuni incidenti si registrarono durante il corteo, soprattutto al passaggio davanti alla Questura, tanto che al termine della giornata si contò un’altra quindicina di feriti, tra i quali otto donne.

Alla luce degli eventi e dei diffusi sentimenti di riscossa, sul piano politico e sindacale, l’esito della sollevazione, come sottolineato dallo storico Luigi Tomassini, determinò “una grave frat­tura fra movimento anarchico e Partito socialista […] dato lo stretto coinvolgimento degli organismi camerali nello svolgimento degli avve­nimenti”, tanto che nei mesi seguenti si andò rafforzando il progetto di dare vita a una Camera del lavoro d’impronta sindacalista rivoluzionaria. Questa infatti sarebbe nata nell’autunno seguente, dopo l’Occupazione delle fabbriche, con sede in viale Caprera, coinvolgendo oltre al “vecchio” Fascio operaio la cui fondazione risaliva alla prima Internazionale e i lavoratori già aderenti all’Unione Sindacale Italiana, anche settori intransigenti repubblicani e socialisti, più inclini all’azione diretta che alla mediazione.

Post scriptum
Un aspetto significativo di quelle settimane è il coinvolgimento diretto dei ferrovieri organizzati nel SFI nell’opposizione concreta alla repressione statale. Il 17 aprile 1920, i ferrovieri a Livorno si erano rifiutati di far partire un treno carico di Guardie Regie che dovevano raggiungere Torino per contrastare lo sciopero generale. Nei giorni della rivolta a Livorno, furono invece i ferrovieri di Genova a bloccare un treno di Guardie Regie dirette a Livorno, tanto che si rese necessario far affluire via mare le forze dell’ordine (circa un migliaio tra Guardie Regie e Carabinieri) nel porto labronico, e un altro contingente di circa cinquanta Guardie Regie giunse in città ai primi di giugno su camion militari da Firenze, onde evitare ulteriori problemi ferroviari.




Febbraio 1920: Livorno in sciopero per la libertà di Malatesta

«Tombolo! Lo ricordiamo più? Nitti tentò il colpo. Ma dovette rendere gorge. Fu nel febbraio del 1920. Erano appena due mesi che era in Italia. Quella piccola borgata presso Livorno, dove un commissario con qualche poliziotto lo dichiarò in arresto divenne presto celebre. Tombolo! Le maggiori città della Toscana scioperarono in segno di protesta» (Armando Borghi)

L’importante sciopero a Livorno del 2 e 3 febbraio 1920 – cento anni fa – attuato per reclamare la liberazione dell’anarchico Errico Malatesta, difficilmente si trova ricordato nei libri di storia locale; ma soprattutto è scomparso dalla memoria cittadina, nonostante la rilevanza della figura di Malatesta nella storia del movimento operaio. Le prime, e probabilmente uniche, ricostruzioni di tale sciopero risalgono al 1990, con il saggio di Paolo Finzi (La nota persona), dedicato alla biografia di Malatesta in Italia tra il dicembre 1919 e il luglio 1920, e il fondamentale lavoro di Tobias Abse,“Sovversivi” e fascisti a Livorno, 1918-1922.

Per cui, oltre a questi due libri e alle informazioni contenute nel fascicolo del Casellario politico centrale intestato a Malatesta, per scrivere le seguenti note sono state utilizzate soprattutto le notizie estrapolate dalla stampa dell’epoca, in particolare dalla testata cittadina «La Gazzetta Livornese» e dai giornali «Avanti!», «L’Avvenire anarchico» e «Il Libertario».

«La Gazzetta Livornese», con classico spirito liberale, racconta i fatti persino con un certo rispetto nei confronti di Malatesta, allora sessantasettenne, definito «vecchio rivoluzionario», «irriducibile ribelle» e «noto agitatore», ma altresì tendendo a mettere in cattiva luce lo sciopero e a ridicolizzare gli scioperanti.

Errico Malatesta, rientrato clandestinamente dall’esilio londinese sul finire del 1919, aveva iniziato un impegnativo tour di propaganda e agitazione in mezza Italia, accolto da una grande partecipazione popolare.

A Livorno giunse in treno alle 9,20 di domenica 1° febbraio 1920, proveniente da Pisa dove il giorno precedente aveva  partecipato ad una manifestazione organizzata dalla locale Camera del lavoro sindacale (aderente all’USI) e conclusasi con un comizio in Piazza dei Cavalieri, dalla scalinata della Scuola Normale. Il prefetto di Pisa aveva informato della partenza il Ministero dell’Interno, precisando che «è partito per Livorno seguito funzionario Ps e segnalato quella questura e quella Sicurezza ferrovia».

Alla stazione di Livorno, oltre agli agenti, ad accoglierlo trovò  un centinaio di amici e compagni informati da poche ore del suo arrivo. Le ultime sue visite nella città labronica risalivano al 1913 e al 1914, prima del suo esilio in Inghilterra, quando era stato ospite del noto anarchico ardenzino Adolfo – anche se da tutti conosciuto come Amedeo – Boschi col quale aveva condiviso il soggiorno coatto a Lampedusa nel 1898 .

Dopo avergli offerta una colazione al Caffè della Posta (poi Teatro Lazzeri), i compagni livornesi accompagnarono Malatesta al Teatro S. Marco. «Già intanto si era propagata – riportava il cronista de «La Gazzetta Livornese – la voce del suo arrivo e di un comizio popolare nel quale  Malatesta avrebbe parlato al pubblico», tanto che molta folla fu costretta a rimaner fuori del Teatro.

Il comizio iniziò attorno alle 10,30 con la partecipazione di lavoratori e oratori anarchici, socialisti repubblicani e sindacalisti. Seguì infine, «salutato da clamorose acclamazioni», l’atteso intervento di Malatesta: «La borghesia non sa più come risolvere le cose e gli eventi che precipitano ed il governo, il quale si trova a difesa di questa borghesia ormai pericolante sui piedistalli corrosi non è più sicuro della propria forza: neppure di quella dell’esercito che al momento della lotta decisiva, certamente non rivolgerebbe le armi contro la forza soverchiante rivoluzionaria […] il proletariato produttore sente che è l’ora di sovvertire il sistema capitalistico borghese: l’unica  forza che sostiene la borghesia è basata sulla disgregazione delle forze proletarie: occorre perciò la concordia. Anarchici, socialisti, repubblicani tendono ad un fine unico, sebbene per vie diverse: l’intendimento è unico […] È quindi necessaria la collaborazione sincera e concorde delle varie tendenze al fine unico: la rivoluzione […] La Rivoluzione non si fa però coi rosari…(a questo punto il cannone annunzia mezzogiorno. Tra le risa generali, per la conferma del cannone intelligente, dal pubblico, un ignoto, dal basso, grida di rimando: «Si fa col cannone!»). Ora la Rivoluzione è possibile. Soltanto bisogna prepararvisi militarmente e economicamente. Nitti dice agli operai: “Producete! Producete!…”. Gli operai hanno ragione di produrre poco e male, oggi, in regime capitalista, e di esigere salari più alti […] Così per le abitazioni. Ci son cave, pietre, sabbia, cemento, muratori e tecnici, e non ci son case e abitazioni. Il male è nel regime capitalista, che bisogna abbattere…».

Terminato il comizio, continua la cronaca su «La Gazzetta Livornese», un folto gruppo di anarchici e socialisti con le bandiere in testa si avviarono verso il centro della città e per via del Porticciolo e Piazza Vittorio Emanuele, cantando l’«Internazionale» e altre canzoni… affini, si diressero alla Camera del Lavoro, e deposti i vessilli rossi e neri subito si sciolsero.

Intanto Malatesta, assieme ad alcuni compagni, si diresse in carrozza ad Ardenza Terra, a casa dell’amico Boschi, in attesa del comizio che tenne nel pomeriggio. In quella che «L’Avvenire anarchico» ebbe a definire «cittadella dell’Anarchia», il secondo comizio iniziò alle ore 16 in un vasto cortile in via del Litorale, alla presenza di un migliaio di persone (lo afferma «La Gazzetta Livornese»).

Dopo l’introduzione di Natale Moretti, seguito dagli interventi di Renato Siglich, Primo Petracchini e Dante Nardi per i giovani socialisti di Ardenza, Malatesta, si rivolse infine ai convenuti, dichiarandosi contrario ad ogni azione di parlamentarismo e chiamando a raccolta anarchici, socialisti e repubblicani e tutte le masse del proletariato, ormai insofferenti di ogni sfruttamento economico e politico. Il comizio terminò senza il minimo incidente e un corteo attraversò via del Litorale al canto di inni rivoluzionari.

Dopo una breve visita a casa di Boschi, secondo la minuziosa cronaca de «La Gazzetta Livornese», Malatesta «e i maggiorenti prendono posto in due vetture che fiancheggiate da agenti ciclisti riprendono alle 18 la via della città». Dopo le fatiche dell’intensa giornata, i compagni offrirono una cena conviviale a Malatesta.

All’indomani, lunedì 2 febbraio, alle ore 5 circa Malatesta, accompagnato dall’anarchico ardenzino Ferdinando Bacci  prendeva il treno per Milano, ma poco dopo la partenza – attorno alle 5,25 – mentre era in sosta presso la piccola stazione di Tombolo, tra Livorno e Pisa, alcuni carabinieri e funzionari in borghese della Questura di Livorno guidati dal commissario di Ps, dott. Dino Fabbris, salivano sul treno e traevano in arresto l’anarchico. Prima di essere fatto salire su un’auto che l’attendeva nei pressi, Malatesta – mostrando la massima calma – nel salutare l’anarchico Bacci gli chiedeva di avvertire i compagni dell’accaduto.

Quindi l’auto partì alla volta di Firenze; secondo una successiva testimonianza dello stesso Malatesta, durante il tragitto, al passaggio d’ogni paese, i questurini gli coprivano il viso, affinché qualcuno non lo riconoscesse e l’auto fosse bloccata a furor di popolo. Giunti nel capoluogo toscano, entrando da Porta S. Frediano, dopo un breve interrogatorio in Questura, Malatesta venne rinchiuso nel carcere delle Murate nella cella n. 32 destinata normalmente ai detenuti per reati comuni dove, attorno alle ore 14, venne interrogato dal giudice istruttore cav. Casentino.

Su Malatesta, infatti, pendeva una denuncia «per eccitamento all’odio di classe e all’insurrezione armata» presentata dal deputato liberale Dino Philipson presso l’autorità giudiziaria fiorentina, con riferimento al comizio tenuto da Malatesta a Firenze, in piazza Cavour, il 19 gennaio che aveva visto la partecipazione di circa temila persone, ma conclusosi con  incidenti in cui era stati ucciso un manifestante.

Appreso della denuncia dello zelante parlamentare, il governo aveva perentoriamente telegrafato al Prefetto di Firenze: «Pregasi far conoscere massima urgenza se Malatesta fu denunciato autorità giudiziaria per parole pronunciate comizio ieri costituenti reato. Se non ancora denunciato dovrà esserlo subito sollecitando autorità giudiziaria emettere immediatamente mandato cattura che vorrà comunicarmi».

Per motivi di ordine pubblico – dato che la situazione sociale era già estremamente tesa per lo sciopero dei ferrovieri – il mandato era rimasto chiuso in qualche cassetto per una decina di giorni, tanto da indispettire l’assai poco liberale on. Philipson che peraltro, pochi anni dopo, avrebbe ammesso di aver finanziato lo squadrismo fascista con «varie centinaia di migliaia di lire».

Conclusosi lo sciopero dei ferrovieri che lo aveva bloccato a Roma, il  31 gennaio Malatesta aveva ripreso il suo giro di propaganda anarchica e agitazione sociale, partecipando alla citata manifestazione a Pisa.

Il 1° febbraio il governo giunse quindi alla decisione d’arrestarlo e tramite il Ministero dell’Interno l’aveva comunicata con telegrammi ai prefetti di Livorno e Firenze, non senza preoccupazione per le prevedibili reazioni.

A quello di Livorno veniva consigliato di procedere al fermo in una  «piccola stazione intermedia lungo tragitto», mentre a quello di Firenze si raccomandava «vivamente» di interrogarlo e scarcerarlo in giornata. Così infatti avvenne e il giudice istruttore incaricato dispose la libertà provvisoria, con l’obbligo di rimanere «a disposizione dell’autorità giudiziaria di Firenze».

Appena uscito dalle Murate, Malatesta incontrava gli anarchici fiorentini coi quali si intrattenne in un caffè di piazza Santa Maria Novella per festeggiare la liberazione ma anche per fare il punto della situazione; la sera stessa parlò presso la Camera del Lavoro sul tema «Il proletariato nel momento attuale».

Di certo, anche se la sua scarcerazione era stata decisa in anticipo, il governo aveva dovuto registrare una risposta istantanea e di massa: nel giro di poche ore scioperi e manifestazioni si erano allargati da Livorno a Piombino, a Pisa, alla provincia di Massa-Carrara e alla Versilia, a La Spezia, sino a Perugia dove i lavoratori senza attendere la riunione serale della Camera del Lavoro confederale erano entrati in sciopero.

A Livorno, la notizia dell’arresto di Malatesta si sparse velocemente, diffusa sia dall’anarchico Bacci che dai ferrovieri. La prima notizia era stata data al mattino dal quotidiano «Il Telegrafo», ma i particolari  dell’arresto furono forniti da «La Gazzetta Livornese» che «andò a ruba». Fin dalla tarda mattinata, riferisce quest’ultima: «Gli elementi anarcoidi erano in gran fermento […] Buona parte dei lavoratori del Porto, che non sono ascritti alla Camera del Lavoro, volle disertare subito il lavoro. Nelle officine e negli stabilimenti corse la parola d’ordine e  le staffette ebbero in gran da fare». In pratica lo sciopero generale era già stato deciso, ma la Camera del lavoro convocò il Consiglio generale delle Leghe per la sera stessa, in cui prevalse la linea più combattiva sostenuta da massimalisti e anarchici.

Attorno alle 22, i vice-commissari della Questura Ruggero e D’Ambrosio si recarono nei pressi della Camera del lavoro portando la notizia della scarcerazione e quindi accompagnarono una commissione, capeggiata dall’anarchico Bacci e seguita dai giornalisti della stampa locale, dal Prefetto Gasperini che confermò ufficialmente la notizia. La commissione fece quindi ritorno alla Camera del lavoro, mentre fuori, in via Vittorio Emanuele, sostava una folla impaziente di lavoratori; da una finestra della sede sindacale intanto un giovane sventolando una bandiera «inneggiò allo sciopero generale, a Errico Malatesta e gridò abbasso alla polizia e al Niccoletti» funzionario della squadra politica presente sul luogo.

La notizia della liberazione non fu ritenuta abbastanza credibile, d’altra la maggioranza (e non certo una «minoranza turbolenta» come ebbe a scrivere «La Gazzetta Livornese») del Consiglio evidentemente ritenne necessario dare comunque un segnale politico forte al governo, quale monito contro la sua politica repressiva. Quando il segretario della Camera del lavoro Zaverio Dalberto annunciò la proclamazione per l’indomani dello sciopero «suscitò tra la folla molto entusiasmo e gran clamore di applausi».

Il 3 febbraio lo sciopero risultò compatto e la città apparve pressoché paralizzata: «niente trams, niente carrozze, botteghe aperte nelle strade secondarie e botteghe e negozi sprangati nelle vie del centro», registrava «La Gazzetta Livornese». Nel pomeriggio si tenne un comizio nella piazza davanti al Palazzo Comunale, dalla cui scalinata parlarono Dalberto, l’anarchico Augusto Consani – particolarmente applaudito – e il repubblicano Gualtiero Corsi.

La manifestazione e lo sciopero si conclusero alle 17. Il giorno seguente, 4 febbraio, Malatesta decise di tornare a Livorno, per sottolineare l’importanza della mobilitazione dei lavoratori  livornesi a favore della sua libertà. Partito da Firenze in automobile – la stessa con cui la polizia l’aveva sequestrato – e accompagnato da alcuni compagni, si diresse alla volta del porto tirrenico; lungo la strada dovette fermarsi a Signa, Empoli, Santa Croce sull’Arno, Pontedera e Fornacette per tenere, in piedi sull’auto, brevi discorsi a quanti lo stavano aspettando per festeggiarlo.

GazzettaLivorneseFinalmente giunto nel pomeriggio a Livorno, accolto dal segretario camerale Dalberto, da Bacci e da altri compagni, dopo una breve visita a Boschi e un “ponce” presso il Caffè della Posta, verso le 17,30 uscendo dal Caffè su via del Fante s’incamminò verso piazza Goldoni, seguito da numerosi manifestanti e poliziotti, dove era previsto un suo comizio presso la palestra “Sebastiano Fenzi”. Dato che i presenti nella piazza erano migliaia, il comizio fu tenuto sotto il loggiato del Regio Teatro Goldoni; il commissario di Ps presente, da parte sua, ritenne saggio non impedire tale manifestazione pubblica.

In piedi su un tavolo accanto a una delle colonne del loggiato, l’anarchico livornese Natale Moretti aprì il comizio sottolineando che il proletariato livornese aveva mantenuto «l’impegno manifestato domenica al teatro S. Marco di opporsi con ogni mezzo all’arresto di Malatesta». Toccò quindi a Malatesta salire sul tavolo, salutato da intensi applausi e da grida d’entusiasmo; l’anarchico esordì quindi dicendo «Non viva Malatesta, ma viva Livorno, viva l’Unione Sindacale anarchica».

Il suo discorso – annotato in modo sommario nei rapporti di polizia  – risulta attendibilmente riportato su «La Gazzetta Livornese»: «Ed il Malatesta entra in argomento sostenendo che la sua scarcerazione fu grande vittoria non per lui ma per l’idea. Vittoria di grande importanza,  poiché gli anarchici premendo collo sciopero salvarono – come i ferrovieri –  la libertà di propaganda ed ogni volta che si arresterà qualcuno reo solo sia pure di propaganda, il proletariato lo appoggerà […] Certo che Modigliani con tutto il suo parlamentarismo non avrebbe ottenuto quello che in poche ore collo sciopero immediato il proletariato ottenne». Malatesta soggiunse che però, per quanto animato da idealità anarchiche, simpatizza pure per le masse dei socialisti che sono lavoratori, ma non per i deputati che seggono a Montecitorio.

Cessati gli applausi, intervenne il segretario camerale Dalberto, che si scagliò «ferocemente contro la stampa borghese, di quella borghesia pavida che da quando Malatesta rientrò in Italia fu invasa dalla tremarella». Aggiunse pure che Malatesta era «di tutta la gente che lavora» e «disopra di ogni partito» in quanto era «il campione della emancipazione del popolo».

Parlarono quindi Pratali dell’Unione anarchica fiorentina, e Gentili a nome dei comunisti fiorentini. Dopo un applauso accompagnato dal canto di «Bandiera rossa», il comizio si andò sciogliendo, mentre Malatesta tornò in carrozza ad Ardenza a casa Boschi; «più tardi rientrava in città per una bicchierata al Circolo repubblicano in via Pellegrini».

L’indomani mattina Malatesta riprendeva il suo giro di propaganda, partendo alla volta di Bologna, dove lo attendevano Armando Borghi e gli anarchici bolognesi. Nella stessa serata tenne un comizio presso la Vecchia Camera del lavoro di Porta Lame durante il quale, riferendosi a quanto avvenuto, affermò che l’articolo 246 del Codice Penale, all’origine del suo arresto a Tombolo, era stato di fatto cancellato grazie all’azione diretta del proletariato e alla forza dimostrata dalle forze sindacaliste. In tale valutazione apparentemente trionfalistica, c’era invece molta più verità di quanto potrebbe apparire; lo dimostrano le motivazioni del Direttore generale della Ps in una comunicazione del 7 febbraio al Sottosegretario degli Interni, attorno al ritardo di dieci giorni con cui era stato effettuato l’arresto di Malatesta. L’alto funzionario di polizia sostenne infatti che ciò era stato determinato dalle «continue peregrinazioni» di Malatesta, quando questi invece, a causa dello sciopero ferroviario, in tale periodo era sempre rimasto a Roma, partecipando a una festa di finanziamento per il giornale «Umanità Nova» il 25 gennaio e ad altre iniziative pubbliche, tra le quali un grande comizio presso la Casa del Popolo alla presenza di settemila persone.

Evidentemente quindi, le autorità di governo e di polizia, anche se non potevano ammetterlo, prima avevano rimandato e poi deciso di procedere all’arresto prevedendo già un rapido rilascio, nel timore delle conseguenze per l’ordine pubblico che tale provvedimento avrebbe innescato.

A distanza di un anno, nel 1921, davanti alla Corte di Assise di Milano, Malatesta, nuovamente accusato di istigazione all’odio di classe, avrebbe risposto ironicamente: «Ora, signori giurati e signori della corte, dirvi che io ammetto la lotta di classe, è come dirvi che io ammetto il terremoto o l’aurora boreale».




Luglio 1919: lo “scioperissimo” di Livorno.

Dopo i moti popolari del caroviveri esplosi anche a Livorno dal 5 all’8 luglio 1919, la situazione degli approvvigionamenti in città si mantiene, ancora per settimane, problematica, pur senza registrare ulteriori gravi incidenti.

D’altronde lo stato, endemico, di tensione era stato segnato, all’inizio del mese, dal Prefetto Gasperini al ministero dell’Interno (P. Ciccotti, 2014):

Devesi poi tenere presente che Livorno conta oltre centocinquemila abitanti tutti rinchiusi nel ristretto territorio della città, che si tratta di una popolazione impulsiva e facile a trascendere, che vi sono oltre ventimila operai, che vi è una Camera di Lavoro in piena balia degli estremisti, che vi è un partito di anarchici numeroso e vi sono associazioni, sodalizi e partiti in contrasto tra loro per fini e tendenze diverse .

Nelle cronache giornalistiche di quei giorni, si continua a leggere l’elenco aggiornato degli esercizi saccheggiati assieme alle disposizioni del calmiere istituito dalle autorità cittadine.

Da parte delle istituzioni, infatti, si opera per abbassare la tensione mentre la Prefettura cerca di vigilare sui prezzi e promuove la costituzione di una Commissione annonaria, alla quale però la Camera del lavoro non aderirà («La Gazzetta livornese», 29-30 luglio; «La Parola dei Socialisti», 2 agosto 1919).

Passata la burrasca, il Partito Socialista e la Confederazione Generale del Lavoro, dopo aver profuso i propri sforzi nel ”governare” tumulti ed espropriazioni, dedicano il proprio attivismo e cercano d’indirizzare il malcontento popolare verso l’atteso sciopero internazionale del 20-21 luglio «in difesa delle repubbliche sovietiche ed ungherese», sciopero “rivoluzionario” al quale aderisce anche l’Unione Sindacale Italiana.

Sull’«Avanti!» del 7 luglio viene annunciato in prima pagina: «Tutto il mondo del lavoro incrocierà le braccia il 20 e il 21 corrente. Il movimento popolare induce finalmente il governo a provvedere contro il caro-viveri» e, nell’articolo a commento della proclamazione dello sciopero, è possibile leggere un tentato collegamento tra la questione – sociale – dei moti contro il carovita e le motivazioni politiche internazionali dello sciopero, presentandolo come un momento di riscossa «verso la totale emancipazione».

Le aspettative per l’inizio di una sollevazione sociale vengono prerò escluse dal Consiglio generale della CGdL tenutosi a Bologna il 13 e 14 luglio e, quando a Livorno la decisione confederale di non dare carattere insurrezionale allo sciopero viene riportata nel Consiglio delle Leghe, «parecchi anarchici e socialisti ufficiali [massimalisti], nonché un repubblicano, inveirono violentemente contro i capi della Camera del lavoro, perchè essi ritenevano che fosse giunto il momento dell’azione» (L. Tomassini, 1990).

Ad ogni buon conto, il Prefetto si prepara al peggio, temendo che la piazza sfugga di nuovo al controllo riformista, e con un manifesto alla cittadinanza comunica il suo «fermo intendimento di reprimere ogni violenza, ogni eccesso, ogni attentato alla libertà e alla sicurezza civile» («La Gazzetta Livornese», 19-20 luglio 1919).

Nello stesso giorno, il rappresentante del governo sospende la circolazione di auto, camion, motociclette, così come la vendita di benzina. Inoltre, l’autorità di PS esegue una «retata» di circa ottocento (800!) «individui sospetti di ambo i sessi», preventivamente arrestati e internati in Fortezza Vecchia e in Fortezza Nuova («La Gazzetta Livornese», 22-23 luglio 1919).

Pochi giorni prima, nella notte tra il 18 e il 19 luglio, erano stati già arrestati sette noti militanti anarchici (Aristide Colli, Oreste Piazzi, Augusto Consani, Libero Masnada, Turiddo Giuseppe Carlotti, Dante Nardi) per «procedimenti politici» in relazione ai moti del caroviveri («Il Telegrafo», 23 luglio). Considerata la vicinanza al Mercato centrale della sede del Fascio operaio di via dei Cavalieri, è presumibile che si volesse criminalizzare i suoi aderenti, anarchici e sindacalisti rivoluzionari, indicandoli come i responsabili dei saccheggi.

Alla vigilia alla mobilitazione, i diversi sodalizi politici e sindacali si riuniscono e prendono posizione, per lo più a favore dello sciopero. Particolarmente animata deve essere stata l’assemblea dell’Unione repubblicana livornese dopo che, fin dal marzo precedente, si erano registrate forti divergenze verso l’atteggiamento da assumere nei confronti degli scioperi socialisti, fermo restando l’«essere all’avanguardia di qualsiasi movimento per incanalarlo ai fini politici e sociali del partito stesso» (C. Scibilia, 2012).

Anche la Società di Mutuo Soccorso fra il personale della Regia Accademia Navale, pur non aderendo allo sciopero politico, «dichiara altresì di rendersi solidale con i compagni per quei movimenti di carattere economico, essendo questo lo scopo principale della Società» («Il Telegrafo», 19 luglio 1919).

Così come quasi ovunque, le due giornate trascorrono in relativa tranquillità, con la città paralizzata dallo sciopero e pattugliata dai militari. Il comando del Distretto militare alcuni giorni prima aveva invitato «gli arditi in congedo e in licenza o comunque presenti nel Comune di Livorno […] a presentarsi subito» per un presumibile impiego in funzione d’ordine pubblico, così come avvenuto in altre città, tra le quali Piombino dove avevano affiancato carabinieri e bersaglieri («La Gazzetta Livornese», 19-20 luglio 1919).

Le banche vengono presidiate, cinema e teatri chiusi, sospeso il servizio telegrafico: «anche la passeggiata a mare, e gli stabilimenti a mare, non videro quella folla chiassosa e spensierata di belle signorine, che nei giorni trascorsi mettevano, con i loro graziosi sorrisi e con le loro seducenti toilettes, la nota gaia  in quell’ambiente mondano» («Il Telegrafo», 22 luglio 1919).

Mentre i sovversivi sono detenuti nelle due Fortezze, al Politeama si tiene il comizio del segretario della Camera del lavoro e dell’on. Modigliani, davanti a circa cinquemila persone, ma senza particolari tensioni ed anche la consistente partecipazione non fa notizia.

«Dell’entusiasmo e del protagonismo creativo delle folle in azione durante i recenti moti annonari sembrava rimanere poco o niente, e i tentativi di razionalizzazione politica attuati dagli organizzatori dello sciopero parvero paradossalmente stamparsi al di sopra  dei linguaggi e degli slogan che avevano dominato nelle strade e nelle piazze in tumulto, rendendoli quasi invisibili» (R. Bianchi, 2006).

Lo sciopero, in tutta evidenza, sconta infatti la mancata saldatura tra lo spontaneismo delle insorgenze per il caroviveri  e lo svolgimento dello sciopero politico, tanto da far parlare di fallimento la stessa stampa che aveva paventato lo sciopero; laconico invece il commento de «Il Libertario» del 31 luglio: «l’astensione dal lavoro è stata generale; la vita normale nelle città è stata per due giorni paralizzata, non solo, ma sconquassata dalle disposizioni di prevenzione e di difesa prese dalle autorità contro lo stesso sciopero».

Di fatto, comunque, la sottovalutata rilevanza dei moti livornesi dei caroviveri sembra essere, a posteriori, colta – forse anche autocriticamente – dagli stessi socialisti labronici che scrivono, rivendicando politicamente – compresi i deprecati eccessi – quanto accaduto venti giorni prima:

la storia è piena di questi crimini, i grandi sommovimenti sociali sono tutti pieni di questi crimini, le rivoluzioni vivono tutte di questi crimini sociali. Lo storico ufficiale riderà scettico e sardonico dal suo palazzo dorato battendosi il ventre ben panciuto finchè la verità storica nuova non lo desterà dalla sua visione del vecchio mondo. Cinque anni di storia sanguinosa ci precedono atroci come tanti rimorsi […] Dai trivi, dalle piazze, dalle strade, dai bassifondi, questa cloaca dirompente […] avanza scalzando le basi di una società caduca e sanguinaria […]. Sgorga e dilaga come un fiume limaccioso […] il crimine della folla multicolore e multiforme. Signori della vecchia coscienza sociale, filosofi dell’aristocrazia politica, mummie della diplomazia, fate largo e inchinatevi. Passa Gravoche [recte: Gavroche]! («La Parola dei Socialisti», 27 luglio 1919).

La battuta d’arresto sarà però destinata a durare poco; nei mesi seguenti, il conflitto sociale riprenderà esprimendo posizioni e pratiche sempre più radicali. Infatti, il Biennio rosso livornese vedrà l’occupazione generalizzata delle fabbriche locali e la comparsa delle Guardie Rosse; la nascita della Camera sindacale del lavoro, aderente all’USI; lo sciopero politico in solidarietà con l’anarchico Errico Malatesta nel febbraio 1920 e la sommossa contro la questura del maggio 1920.