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Vaiano: storia di una Casa del Popolo

Dopo la fine della Grande Guerra, i socialisti ripresero con vigore, anche in Val di Bisenzio, l’attività di propaganda e di proselitismo: è in questo contesto che si colloca il progetto di dar vita ad una Casa del popolo.

Furono infatti la crescita del sindacato, del movimento cooperativistico, di quello mutualistico e del Partito socialista che  fecero sorgere l’idea di costruire a Vaiano una Casa del popolo, per dare finalmente ai lavoratori uno spazio dove fosse possibile svolgere attività di tipo culturale e ricreativo.

Naturalmente bisognava risolvere il problema delle risorse. A questo riguardo, occorre tenere presente che il concordato per l’applicazione delle otto ore nel Pratese, stipulato il 6 maggio 1919, stabiliva che ogni ditta avrebbe versato alla Camera del lavoro, per la costruzione delle Case del popolo di Prato e di Vaiano, una somma non inferiore a sette lire per ogni operaio ed operaia. Dal canto loro, i lavoratori si impegnavano a rinunciare a dieci delle venti lire che avrebbero riscosso in occasione della firma della pace in favore delle erigende Case del popolo.

Grazie a questo meccanismo fu possibile raccogliere buona parte dei fondi necessari, il denaro mancante venne trovato tramite un’apposita sottoscrizione.

A Vaiano fu deciso di rialzare di un piano l’immobile della Cooperativa generale di consumo (sorta nel 1910) e di utilizzare il grande salone che si sarebbe così ottenuto come Casa del popolo. I lavori, iniziati ai primi di aprile del 1920, erano già conclusi nell’estate: in agosto nei locali della Casa del Popolo si svolse un’adunanza dei rappresentanti delle sezioni socialiste della vallata.

La Cooperativa generale di consumo era, a tutti gli effetti, la proprietaria del salone edificato dai lavoratori.

Ma la neonata Casa del popolo cadde ben presto sotto i colpi della violenza squadristica, che, il 17 aprile 1921, si abbatté prima su Prato e poi su Vaiano, colpita in quanto roccaforte del movimento operaio della zona. Nel pomeriggio del 17 aprile giunsero in paese quattordici camion carichi di fascisti scortati da un automezzo dei carabinieri. Sul camion di testa e su quello di coda era stata piazzata una mitragliatrice. Gli squadristi erano circa quattrocento. Arrivati in centro, cominciarono a sparare all’impazzata: il bilancio della spedizione fu di due morti (Guglielmo Vitali ed Umberto Corona) e di tredici feriti tra la popolazione: Vitali venne ucciso mentre stava parlando con degli amici fuori dal caffè detto di “Cucca”, Corona, un giovane diciassettenne soprannominato “il Profughino” perché aveva lasciato il suo paese durante la ritirata delle truppe italiane nel 1917, fu raggiunto da un colpo sparato da una finestra. La Cooperativa generale di consumo, la Società democratica di mutuo soccorso, la Lega laniera, la Lega edile e la Casa del popolo vennero devastate, la stessa sorte subirono diverse case, fra cui quella di Battista Tettamanti, che, negli anni precedenti, era stato alla testa dei lanieri della zona. L’ammontare dei danni fu superiore a 187.000 lire dell’epoca. I danni arrecati alla Casa del popolo furono calcolati in 17.280 lire. La spedizione era stata guidata dal pratese Tullio Tamburini, ex impiegato del lanificio Forti della Briglia, che sarebbe poi divenuto prefetto ed infine capo della polizia della Repubblica sociale italiana.

L’assalto squadristico significò la fine della Cooperativa generale di consumo, che, come si è detto, ospitava anche la Casa del popolo.

I fascisti assunsero il controllo della Cooperativa. L’immobile divenne la sede della Casa del fascio: il salone che era stato della Casa del popolo diventò una palestra dove, in caso di maltempo, si svolgevano le esercitazioni del premilitare. Ma dopo la fascistizzazione la Cooperativa cominciò a navigare in cattive acque ed infine fallì: nel 1929 i suoi locali furono messi all’asta ed acquistati da Dante Bardazzi, fornaio. I fascisti continuarono peraltro ad occuparli senza pagare una lira di affitto al proprietario.

L’immobile restò in loro mano sino al 25 luglio 1943.

Dopo la liberazione di Vaiano (10 settembre 1944) i lavoratori ripresero possesso dell’immobile che era stato della Casa del fascio, sistemandovi le loro organizzazioni politiche e sindacali: i locali furono occupati dal Partito comunista, dal Partito socialista, dalla Camera del lavoro, dalla risorta Cooperativa di consumo e dal Circolo ricreativo. Più tardi fu stipulato un regolare contratto di affitto col proprietario dell’immobile, Dante Bardazzi.

La ripresa della normale attività politica mise in luce la forza ed il radicamento del Partito comunista nella vallata. Anche la CGIL era molto forte: la Camera del lavoro di Vaiano sorse nel 1944.

Nel 1946 fu deciso di costruire una nuova sede per l’organizzazione camerale: il progetto prevedeva che all’edificio fosse annesso un politeama. Negli anni seguenti le energie dei lavoratori vaianesi furono assorbite da questo progetto: i lavori furono ultimati nel 1949, ma la crisi dell’industria tessile determinò la fine della Camera del lavoro di Vaiano, che, per il calo degli iscritti, fu costretta a cessare la sua attività nel giro di pochi anni. Il permesso per l’apertura della sala cinematografica nel nuovo politeama non venne concesso per ragioni politiche, ed il locale dovette essere venduto: si riaffacciò così l’esigenza di edificare una Casa del popolo.

Ma il momento non era propizio perché proprio in quegli anni il governo Scelba-Saragat (ribattezzato “governo SS” dai lavoratori) scatenò la sua offensiva contro le Case del popolo, decidendo, nel 1954, di recuperare allo stato tutti i beni che erano appartenuti al disciolto Partito nazionale fascista ed assestando, in tal modo, un duro colpo al movimento circolistico (nella sola provincia di Firenze, fra il 1953 ed il 1955, furono chiuse ben ventitré Case del popolo).

Nel corso degli anni Sessanta, col venire meno dello scelbismo e con l’avviarsi verso un risultato positivo della lenta gestazione del centrosinistra, il quadro politico si fece meno sfavorevole, mentre si rafforzava la coscienza che le case del popolo dovevano essere sempre più delle strutture capaci di coinvolgere ampi strati sociali e classi di età diversa. Per altro verso, l’aumento del reddito e dei consumi, il moltiplicarsi degli apparecchi radiotelevisivi ed il diffondersi della motorizzazione spinsero la gente verso nuove forme di utilizzazione del tempo libero, determinando una seria crisi delle case del popolo.

Ebbero quindi del coraggio i sette compagni che il 24 febbraio 1961, con rogito del notaio Ugolino Golini di Firenze, costituirono l’Associazione civile Casa del popolo di Vaiano. Ricordiamone i nomi: Natale Consorti, Dino Lilli, Giorgio Oliviero Meucci, Severino Morganti, Mauro Risaliti, Giuseppe Santi e Pietro Sizzi.

L’Associazione acquistò l’immobile del vecchio teatro Gustavo Modena, per costruire, sull’area da esso occupata, la nuova Casa del popolo, ma, prima che cominciassero i lavori, dovettero passare sette anni, durante i quali vennero esaminati vari progetti, tenendo conto della realtà di Vaiano e delle capacità economiche dell’Associazione stessa.

A dare la spinta necessaria alla realizzazione dell’opera fu l’avanzata del Partito comunista alle politiche del 1968 (+1,65% alla Camera), insieme con l’esplodere della contestazione studentesca e col riaccendersi delle lotte operaie, che, in tutta Italia, determinarono un rilancio delle case del popolo.

Verso la metà di luglio del 1968 l’impresa edile Carlo Fiaschi iniziò i lavori sulla base di un progetto fatto dal geometra Alberto Pastacaldi (la direzione tecnica dei lavori venne in seguito affidata all’architetto Vinicio Brilli ed all’ingegner Umberto Fiaschi).

L’inaugurazione della nuova sede ebbe luogo domenica 20 settembre 1970, centesimo anniversario della breccia di Porta Pia.

L’apertura dei nuovi locali ha permesso alla Casa del popolo di esplicare un’attività rilevante, alla quale hanno dato un valido contributo i giovani entrati a far parte dell’associazione. Molteplici sono state le iniziative, sia ricreative sia culturali, e costante è stato l’impegno in difesa delle libertà democratiche (giova sottolineare che la Casa del popolo ha rappresentato un punto di riferimento per gli alpini inviati a sorvegliare la Direttissima durante la tragica stagione degli attentati ferroviari degli anni Settanta-Ottanta).

Ed anche oggi la Casa del popolo gode di buona salute e continua a svolgere una funzione davvero preziosa, permettendo ai lavoratori di socializzare, di ricrearsi e di allargare i propri orizzonti culturali.




Scioperare contro Hitler: una testimonianza

All’inizio del 1944 la direzione del PCI per l’Alta Italia riunì i rappresentanti dei comitati di agitazione che avevano diretto gli scioperi del novembre-dicembre 1943 e decise di organizzare uno sciopero generale nelle regioni del triangolo industriale. L’iniziativa venne poi discussa con gli altri partiti del Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia ed estesa al Veneto, all’Emilia ed alla Toscana. Alla data stabilita (1° marzo 1944) circa un milione di lavoratori entrò in lotta, dando vita al più grande movimento di massa verificatosi in Europa sotto l’occupazione nazista. Pieno di rabbia, Hitler ordinò personalmente a Rudolph Rahn, suo ambasciatore a Salò, di far deportare il 20% degli scioperanti, ed anche se «il mostruoso provvedimento non fu eseguito nella misura indicata per ‘difficoltà tecniche’ inerenti ai trasporti e per il danno che ne sarebbe derivato alla produzione bellica» (Pietro Secchia-Filippo Frassati, Storia della Resistenza, vol. I, Roma, Editori riuniti, 1965, p. 476), tuttavia settecento operai vennero deportati da Torino e varie centinaia da Milano.

In Toscana, a causa di ritardi verificatisi nella preparazione, l’agitazione cominciò il 3 marzo. A Prato lo sciopero, appoggiato da tutti i partiti antifascisti, fu preparato dal PCI nel primo bimestre del 1944. I repubblichini risposero con i rastrellamenti alla buona riuscita dell’agitazione: centotrentasette persone vennero deportate nei campi di sterminio tedeschi (Ebensee, Gusen, Hartheim, Mauthausen … ): i superstiti furono soltanto ventuno.
Tra i principali organizzatori dello sciopero vi fu Renzo Martelli, un coraggioso combattente antifascista che nel 1941 era stato arrestato e deferito al Tribunale speciale, riportando una condanna a sette anni di reclusione con sentenza del 28 aprile dell’anno successivo (su Renzo Martelli, oggi scomparso, cfr. Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, vol. III, H-M, Milano, La pietra, 1976, ad vocem). Il 9 settembre 1991 Renzo mi rilasciò un’intervista sui giorni dello sciopero a Prato che venne pubblicata alcuni anni dopo da Azione sindacale. Periodico della CGIL di Prato nel numero del 31 luglio 1997. Ne riproponiamo il testo ai lettori di ToscanaNovecento con lievi modifiche.

Nel libro Un popolo alla macchia (Roma, Editori riuniti, 1975) Luigi Longo scrive che gli scioperi del marzo ’44 furono decisi dalla direzione del PCI per l’Alta Italia unitamente ai comitati di agitazione che avevano diretto gli scioperi del ’43. Questa iniziativa venne poi approvata dai CLN (pp. 134-135). Quale organismo decise lo sciopero a Prato?

A Prato fu il CLN che deliberò lo sciopero su proposta dei comunisti. Parallelamente alla discussione che si svolgeva all’interno del CLN, il PCI organizzò alcune riunioni in località La Catena [Quarrata, N.d.C.], per discutere gli aspetti organizzativi dello sciopero. A tali riunioni prese parte Giuseppe Rossi, segretario provinciale del partito. A Prato i principali organizzatori dello sciopero furono – oltre al sottoscritto – Dino Saccenti, Bruno Rosati, Cesare Rosati, Alimo Gori ed Alberto Innocenti.

Sempre Luigi Longo afferma che lo sciopero generale fu attuato nelle principali città dell’Alta Italia il 1° marzo 1944 (p. 136), e che in Toscana esso cominciò due giorno dopo “per il ritardo nella preparazione” (p. 139). Da che cosa dipese questo ritardo?

Tale ritardo fu dovuto alla difficoltà di raggiungere, a proposito della proclamazione dello sciopero, l’unanimità in seno al CLN (che non deliberava a maggioranza, ma, per l’appunto, all’unanimità). Lo sciopero avrebbe comunque avuto luogo perché il PCI era deciso ad organizzarlo anche senza l’appoggio degli altri partiti ciellenistici. La proposta comunista di indire lo sciopero fu sostenuta soprattutto dai socialisti e dagli azionisti. Gli altri erano più tiepidi. I democristiani si pronunciarono a favore dello sciopero, ma il loro apporto sul piano organizzativo fu poi molto limitato.

Aspetti organizzativi. Come venne preparato lo sciopero a Prato? Come furono avvisati gli operai e che cosa fu fatto perché l’astensione dal lavoro fosse la più ampia possibile?

Nei 3-4 giorni che precedettero lo sciopero il PCI costituì delle squadre che agivano durante il coprifuoco lasciando dei manifestini sui davanzali delle finestre, sotto le porte, in campagna, ecc. La notizia dello sciopero fu inoltre diffusa oralmente. Infine il PCI organizzò, la mattina del giorno in cui lo sciopero doveva cominciare, dei posti di blocco, formati da 3 o 4 uomini armati, sulle principali vie di accesso alla città (io facevo parte del nucleo che si trovava alla Madonna del Berti). Lo scopo era quello di rimandare indietro gli operai che si recavano al lavoro, ma solo facendo opera di persuasione, evitando naturalmente minacce o violenze. Le armi servivano nel caso in cui fossimo stati sorpresi dai nazifascisti. Da rilevare che alcuni operai decisero di andare regolarmente in fabbrica senza darci ascolto.

Quali erano gli obiettivi dello sciopero?

Pace e libertà per il popolo italiano. Non furono allora avanzate rivendicazioni di carattere salariale, ecc. L’obiettivo prioritario era la liberazione del Paese.

Quale fu l’estensione dello sciopero? Grosso modo, quante fabbriche ne furono interessate e quanti furono gli scioperanti?

Lo sciopero riuscì bene. Ci furono delle defezioni, ma nella maggioranza delle fabbriche non si lavorò. Sarebbe tuttavia scorretto parlare di astensione generale dal lavoro.

Quale fu la durata dello sciopero? A questo riguardo le cose non sono del tutto chiare.

Lo sciopero cominciò il 4 marzo e si concluse il 7 col rientro graduale degli operai nelle fabbriche. Il 10 io fui incaricato dal centro fiorentino del partito di riorganizzare una formazione partigiana nei dintorni di Vicchio [la Compagnia Ceccutti, N.d.C.] e partii alla volta del Mugello. Ora, se lo sciopero fosse stato ancora in corso a quella data o nei giorni immediatamente precedenti (8 e 9 marzo) io, che ne ero stato uno degli organizzatori, non avrei evidentemente lasciato Prato. Ciò sarebbe stato alquanto strano.

Quale fu il comportamento degli industriali? Anche a questo riguardo le cose non sono del tutto chiare (cfr. Alessandro Affortunati, Vaiano e la sua Casa del popolo. Il movimento operaio nella Valle del Bisenzio, Prato, Pentalinea, 2000, pp. 75-76).

Gli industriali lavoravano per i tedeschi. Essi guardarono quindi con sfavore allo sciopero, ma non mi risulta che le loro responsabilità siano state particolarmente pesanti. Ci furono comunque degli episodi (per esempio al Lanificio Campolmi) che diedero adito a sospetti.

Carlo Ferri ne La valle rossa (Vaiano, Viridiana, 1975, p. 95) scrive che lo sciopero provocò l’interruzione di ogni collegamento fra la città ed i partigiani. A questo riguardo ci fu dunque una carenza organizzativa che si risolse nella mancanza di coordinazione fra la città e la formazione che si trovava ai Faggi?

Lo sciopero creò indubbiamente degli scompensi, ma una formazione partigiana deve essere autonoma. I partigiani che si trovavano ai Faggi dovevano dunque risolvere da soli il problema dei rifornimenti. Non potevano aspettarsi di ricevere allora particolari aiuti dalla città.

Secondo quali modalità ebbero luogo i rastrellamenti attuati dopo lo sciopero?

Non furono seguite modalità particolari: i tedeschi catturavano tutti quelli che capitavano loro a tiro. Va sottolineato il fatto che i repubblichini ebbero gravissime responsabilità nei rastrellamenti perché erano loro che conoscevano bene i luoghi, le fabbriche e le persone.

A tanti anni di distanza quale bilancio ritieni di poter fare dello sciopero del marzo ’44?

Lo sciopero sollevò il morale della gente nonostante le deportazioni. Dimostrò che agire era possibile, se se ne aveva la volontà, ed è significativo il fatto che, dopo la fine dello sciopero, il numero delle persone che salivano in montagna aumentasse. A Prato, come nel resto del Paese, lo sciopero del ’44 fu una tappa importante della lotta di liberazione.




Arte sotto le macerie. La storia del Tabernacolo del Mercatale

Sepolto sotto le macerie, disintegrato da quelle maledette bombe che il 7 marzo 1944 piovvero su Prato. Era ridotto in mille brandelli, un’offesa alla memoria storica collettiva, pallida ombra di quell’affresco che il Vasari descriveva come «colorito con tanta freschezza e vivacità che merita per ciò essere lodato infinitamente». 

É una storia di ricostruzione, coraggio e speranza quella racchiusa nel Tabernacolo del Mercatale di Filippo Lippi, celebrato nei secoli come una delle meraviglie di Prato e bombardato dall’aviazione alleata.
Non potremmo oggi ammirarlo tra le sale del Museo di Palazzo Pretorio, recentemente riaperto dopo un lungo intervento di restauro, se non fosse stato per il coraggio del restauratore Leonetto Tintori che a quel tabernacolo ridotto a mille pezzi, raffigurazione della Madonna con il bambino insieme ai santi Antonio Abate e Margherita, Santo Stefano e santa Caterina d’Alessandria, restituì una vita. Sull’opera Leonetto aveva già messo le mani, riparandolo dai danni prodotti da un camion.
esterni palazzo pretorioStavolta però si trattava di riparare l’irreparabile: c’era da ricostruire quasi ex novo un capolavoro. Armandosi di coraggio e pazienza, il restauratore si recò dalle autorità tedesche ottenendo l’autorizzazione a procedere nel restauro mentre trovò la porta chiusa del commissario prefettizio il cui primo pensiero, di fronte a una città devastata dalle bombe, poteva essere tutto fuorché l’arte. «Ho tante cose a cui pensare, levati di torno!», furono le parole con cui Leonetto venne liquidato. Ma il Tintori decise comunque di tentare l’impresa: i frammenti più piccoli vennero riposti in vasi da marmellata con la sabbia per essere protetti dagli urti.
Lo aiuterà un altro maestro destinato a farsi strada nell’arte del restauro, Giuseppe Rosi: dall’opera a quattro mani iniziò a riemergere il “Filippino”, come veniva affettuosamente chiamato da Tintori il tabernacolo che sotto l’immagine centrale riporta lo stemma dei Tieri, committenti dell’opera.
Rimettere in piedi quel capolavoro non fu un’impresa facile: Tintori, che all’epoca era già un maestro di restauro affermato, prese più volte contatti con le università di New York e di Harvard che lo avrebbero più volte aiutato, anche economicamente, nelle sue ricerche scientifiche.
Il Tabernacolo ricostruito e ricomposto nella vivacità dei suoi colori oggi risplende al primo piano di Palazzo Pretorio e fa parte della collezione permanente del Museo, insieme ad altri capolavori di Filippo Lippi e dello stesso Filippino.




Prato, 1918-1922. Nascita e avvento del fascismo

Prima dell’uscita di Prato, storia di una città – l’imponente opera pubblicata dal Comune di Prato e dalla casa editrice Le Monnier, i cui due ultimi volumi (il terzo ed il quarto, usciti rispettivamente nel 1988 e nel 1997) sono dedicati alla storia della città laniera fra il 1815 ed il 1993 – la storiografia su Prato in età contemporanea non era molto ricca.
Certo, esistevano alcuni importanti contributi, tutti risalenti agli anni Sessanta-Settanta (si pensi alla Storia economica di Prato dall’Unità d’Italia ad oggi di Renzo Marchi, agli studi di Claudio Caponi sul movimento cattolico, a Le lotte sociali e le origini del fascismo a Prato di Rosangela Degl’Innocenti Mazzamuto), ai quali si affiancavano altre opere, a metà strada tra la memorialistica ed il saggio storico (come Coccodrillo verde, di Aldo Petri, sul periodo resistenziale, Prato, ieri, di Armando Meoni, sulla Prato fra Otto e Novecento, La valle rossa, di Carlo Ferri, sulla Val di Bisenzio, Fermenti popolari e classe dirigente a Prato, di Dino Fiorelli e così via), ma, in complesso, l’esigenza di fare i conti con la storia più recente della città non poteva dirsi soddisfatta.
La pubblicazione di Prato, storia di una città fu dunque un evento periodizzante, che (oltre a rappresentare il primo tentativo da parte della sinistra di far corrispondere all’egemonia politica a livello di amministrazione comunale un’analoga egemonia sul piano dell’elaborazione storiografica) costituì il preludio della successiva fioritura della storiografia su Prato in età contemporanea, concretatasi nella pubblicazione di diverse monografie dovute a Michele Di Sabato, ad Andrea Giaconi, a Giuseppe Gregori, a Federico Lucarini, a chi scrive e ad altri ancora.
Il libro di Alessandro Bicci si situa in questo contesto.
Il terreno scelto dall’Autore per il suo lavoro non può dirsi completamente vergine dal punto di vista storiografico. Altri studiosi si sono infatti occupati prima di lui dei fatti (o almeno di alcuni fatti) accaduti nel Pratese dopo la fine della grande guerra, ma il suo libro ha il merito di ricostruire, per la prima volta in maniera organica ed approfondita, i principali eventi verificatisi tra il 1918 ed il 1922, fornendoci un quadro della situazione economica, politica e sociale della Prato di allora.
Bicci ci parla dunque dei successi riportati dai lavoratori nel corso del cosiddetto “biennio rosso” (1919-1920), quando le classi dirigenti assistettero attonite all’ascesa del movimento operaio che riuscì a conquistare le otto ore, a strappare alla controparte un concordato che prevedeva un aumento del 50% della paga giornaliera dei lanieri e che, col moto del caroviveri del luglio del 1919, sembrò per un attimo padrone della situazione.
Scorrendo l’indice del volume, vediamo però che ben presto la spinta operaia si esaurì e la reazione cominciò a prendere campo, favorita dalle divisioni tra socialisti e comunisti: i primi a farne le spese furono i lavoratori edili della Direttissima, vittime di una serrata che preluse alla nascita ed allo sviluppo del movimento fascista.
Bicci ci parla quindi dei “fatti di Carmignano” (28 marzo 1921), cioè dell’uccisione dei carabinieri Pucci e Verdini, della quale vennero incolpati tre comunisti seanesi. Questo episodio, su cui non è stata mai fatta pienamente luce, è molto interessante perché potrebbe essere stato nient’altro che la cinica applicazione nel comune mediceo, da parte dei fascisti, della nota “formula Pasella-Perrone Compagni”, consistente nel colpire persone in qualche modo legate all’establishment per giustificare poi la repressione contro il movimento operaio e contadino e l’assalto alle amministrazioni democratiche liberamente elette (cosa che puntualmente accadde).
Continuiamo a scorrere l’indice del volume: le violenze fasciste si moltiplicano, il 17 aprile 1921 gli squadristi, con la protezione dei carabinieri, effettuano un sanguinoso raid su Vaiano, cuore della “Valle rossa” e roccaforte del movimento operaio, i tessili registrano una pesante sconfitta in occasione dello sciopero del settembre-novembre di quell’anno (che vide la comparsa sulla scena di un vero e proprio sindacato giallo – il Sindacato economico apolitico – creato in seno all’Associazione nazionale combattenti) e, dopo l’omicidio del ras locale Federico Guglielmo Florio, per mano del comunista Cafiero Lucchesi, i fascisti procedono senz’altro alla conquista del comune, defenestrando l’amministrazione guidata dal socialista Giocondo Papi: siamo così giunti al gennaio del 1922, quando per Prato cominciò, come è stato scritto, “la lunga notte medievale del fascismo” (Ugo Cantini).
Anche a Prato il fascismo fu senza alcun dubbio, come si ricava chiaramente dal lavoro di cui si sta parlando, il prodotto, da un lato, del nullismo massimalista (vale a dire dell’incapacità, da parte dei dirigenti del PSI, di elaborare una strategia politica in grado di dare alle aspirazioni di palingenesi sociale delle masse uno sbocco concreto, senza estenuarle in un’inutile “ginnastica rivoluzionaria” che demoralizzava gli operai ed allarmava anche più del dovuto i padroni) e, dall’altro, della volontà di riscossa del padronato, che delle squadre fasciste fu diretto e generoso finanziatore.
Ma chi erano gli squadristi? Chi erano i violenti, gli assassini, che, a Prato come altrove, si macchiarono di delitti orrendi? (e voglio qui ricordare un episodio, nel quale mi sono imbattuto nel corso della mia attività di ricerca, che mi ha particolarmete colpito: l’uccisione, avvenuta a Borgo a Buggiano nel ’21, di un lavoratore, che rispondeva al nome di Francersco Antonio Puccini, solo perché portava all’occhiello un fiore rosso, simbolo della sua fede politica e delle sue speranze).
Chi erano i fascisti, dunque. Cerchiamo di rispondere a questa domanda. Com’è noto, Antonio Gramsci seppe magistralmente cogliere, in una serie di articoli pubblicati sull’Ordine nuovo fra il 1921 ed il 1922, quelli che erano i tratti distintivi del fascismo, che è sì reazione antiproletaria (cioè una delle forme assunte nel XX secolo dalla lotta del capitalismo contro il movimento rivoluzionario dei lavoratori), ma che si differenzia da altri movimenti reazionari per il fatto di dare corpo alla “mobilitazione violenta della piccola borghesia nella lotta del capitalismo contro il proletariato” (Alfonso Leonetti).
Ebbene, il libro di Bicci ha il merito di sottoporre a verifica, sul terreno concreto dei fatti a livello locale, questa intuizione gramsciana, evidenziando che anche nel Pratese, il fascismo fece proseliti in primo luogo fra i piccoli borghesi, atterriti dalla prospettiva della proletarizzazione, e fra la massa di spostati (nelle cui file rientravano anche diversi operai) venutasi a creare in seguito alla crisi che si abbatté sull’industria laniera locale nel 1921. Gli interessanti profili biografici di alcuni esponenti del fascismo pratese stesi da Bicci (si pensi a personaggi come Tullio Tamburini e come lo stesso Florio) sono, da questo punto di vista, illuminanti. Si può quindi sostenere che la tesi di Gramsci sulla natura piccolo borghese del fascismo trova nell’accurata analisi di Bicci una puntuale conferma.
L’utilità degli studi di caso sul fascismo, di questo particolare tipo di studi di “microstoria”, consiste proprio in questo: verificando a livello locale certe tesi generali, essi permettono di capire come, nell’Italia del primo dopoguerra, poté affermarsi un movimento come quello mussoliniano, che impose al Paese vent’anni di dittatura e lo precipitò infine nell’abisso della seconda guerra mondiale: la lettura di questo libro è quindi quanto mai utile per comprendere uno degli snodi della storia recente della città.