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La Grande Guerra lontano dal fronte. Mobilitazione e assistenza civile in una provincia toscana

Per tutto il periodo della neutralità italiana la provincia di Pisa era stata attraversata da numerose proteste e sia nel capoluogo che nelle campagne non erano mancate manifestazioni di segno antimilitarista, sfociate non di rado in episodi di violenza verso gli interventisti. A una decina di giorni dall’ingresso ufficiale in guerra, il prefetto di Pisa, scrivendo a Antonio Salandra, descriveva tuttavia in termini rassicuranti la realtà di un territorio guardato ancora con preoccupazione. Alla fine di maggio del 1915 la partenza delle truppe era stata infatti salutata ovunque da cortei e da dimostrazioni di giubilo e, stando alle sue stesse parole, «la mobilitazione non fu turbata da alcun incidente» e le «manifestazioni contrarie alla guerra […] furono tutte anteriori alla dichiarazione di guerra e non si rinnovarono dopo».

Ma accanto a queste espressioni simboliche di solidarietà verso l’esercito combattente, si infittirono fin da subito anche una serie di attività ben più tangibili. Nel processo di mobilitazione a sostegno dello sforzo bellico un ruolo di primo piano fu giocato da un tessuto di comitati e organizzazioni in parte riconvertiti alle esigenze imposte dagli eventi ma in larga parte costituitisi ad hoc. Fra le iniziative di nuovo conio, alcune avevano in realtà già preso campo fin dalle settimane precedenti alla rottura della neutralità. In linea con quanto accaduto in diversi centri della penisola, ciò vale soprattutto per la formazione di appositi Comitati di preparazione e mobilitazione civile destinati a svolgere un ruolo di spicco in relazione a diversi ambiti di intervento.

Francobolli del Comitato di Assistenza Civile di Volterra in Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale dell'Amministrazione Civile, b. 36.

Francobolli del Comitato di Assistenza Civile di Volterra in Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale dell’Amministrazione Civile, b. 36.

Tali organismi furono chiamati a svolgere un’azione integratrice dei compiti del governo e degli enti locali, acquisendo un grande peso nel tessuto sociale delle città durante il conflitto. La spinta iniziale alla loro costituzione fu quella di preparare e organizzare i cittadini non soggetti a obblighi militari a garantire la continuazione di tutta una serie di attività nei pubblici servizi e nel campo dell’assistenza in caso di eventuali vuoti da colmare per effetto dello stato di guerra. I Comitati furono poi chiamati a un compito unificante per cercare di raccogliere attorno a sé, con propositi di coordinamento, le altre realtà assistenziali già operanti, prevenendo eventuali dissidi ed evitando gli effetti negativi della dispersione di mezzi ed energie negli aiuti propagandando allo stesso tempo un’immagine di profonda unità e compattezza della nazione impegnata nel sostenere i suoi soldati. L’unanimismo politico, da cui risultano attraversati i loro messaggi e appelli, divenne in effetti uno dei motivi più qualificanti della loro retorica.

Con una tempistica rapida rispetto alla dinamica generale del paese, il primo Comitato di preparazione e mobilitazione civile della provincia sorse a Pisa il 22 marzo 1915 nella sala del Consiglio comunale; la riunione istitutiva fu tuttavia solo il punto di arrivo di un percorso avviato da settimane da un apposito gruppo di cittadini promosso dal professore di chimica agraria Italo Giglioli, sostenitore nei suoi studi di una politica estera fortemente colonialista e fautore di posizioni accesamente nazionaliste, nonché dall’attivismo dell’industriale Giacomo Pontecorvo che, attraverso alcune conferenze, cercò di propagandare le ragioni del movimento a favore della mobilitazione civile raccogliendo al contempo i primi fondi a sostegno dell’iniziativa che il 26 marzo fu presentata alla cittadinanza con un grande manifesto pubblicato.

Italo Giglioli (Archivio fotografico Unipi)

Italo Giglioli (Archivio fotografico Unipi)

Nato come un’associazione di privati, il Comitato ricevette fin dagli esordi un occhio di riguardo da parte delle istituzioni locali, esemplificato dalla presidenza onoraria al sindaco Vittorio Frascani e dalla fissazione della sua sede nel palazzo municipale. A infondergli poi una maggiore ufficialità sarebbe venuta in agosto la decisione di trasformarsi in ente morale, al pari di quanto fatto in seguito da altri comitati del territorio, avvalendosi della facoltà del riconoscimento giuridico ammesso da una specifica legge del 25 luglio. Se un po’ ovunque la mobilitazione civile fu una delle principali forme di manifestazione dell’interventismo delle classi dirigenti, che nella gestione dello stato di guerra videro pure un’occasione inaspettata di controllo di mezzi e risorse utile a ribadirne il ruolo di egemonia sociale messo in dubbio dalle crescenti spinte dal basso, ciò che parve connotare il caso del capoluogo fu però la funzione direttiva riconosciuta in essa al mondo universitario, con la larga presenza tanto delle autorità accademiche quanto degli studenti più accesamente interventisti. Un protagonismo che tendeva a rispecchiare la mobilitazione del periodo della neutralità, localmente imperniata su un Ateneo che, in virtù delle sue benemerenze risorgimentali, aveva costituito il nerbo cittadino della campagna per l’intervento. Agli universitari si affiancarono le autorità cittadine, e, ancor più che le casate di origine nobiliare, l’élite borghese locale (ossia agiati appartenenti alle professioni liberali e al mondo degli affari e dell’industria), in cui un ruolo di spicco fu rivestito dalle famiglie della comunità ebraica pisana (i Pontecorvo, i Supino, i Nissim, i Pardo Rooques, i Di Nola), il cui  impegno fattivo per il Comitato ne certificò l’intensa partecipazione allo sforzo patriottico.

Nelle aree della provincia il profilo sociale dei comitati assunse invece un tratto più notabilare, e a egemonizzarlo furono effettivamente gli uomini e le famiglie tradizionalmente più illustri dei ceti dirigenti locali. A testimoniare infatti un livello di penetrazione diffuso, e a certificare il grado di coinvolgimento dell’intero paese entro le maglie dello sforzo bellico, il movimento a favore della mobilitazione civile giunse in maniera capillare fin nelle aree più remote dello stesso territorio pisano. Secondo una dinamica in cui a modalità in prevalenza spontanee si unirono rilevanti spinte dall’alto, come quella venuta a inizio giugno da una specifica adunanza di numerosi sindaci della provincia, fra aprile e la fine del mese sia i comuni maggiori, come Volterra o Pontedera, che le realtà meno popolose del vasto contado pisano, come la piccola Orciano Pisano, non mancarono di un proprio attivo comitato.

Frontespizio dell'opuscolo Comitato Pisano di preparazione e mobilitazione civile. Comitato femminile per la patria, Pisa, Tip. Municipale, 1915.

Frontespizio dell’opuscolo Comitato Pisano di preparazione e mobilitazione civile. Comitato femminile per la patria, Pisa, Tip. Municipale, 1915.

La gran parte dei loro fondi vennero da fonti diverse, in varia misura legate alla solidarietà; della somma di 73.842,21 lire raccolta ad esempio nei primi mesi di guerra dal Comitato pisano più della metà giunse da sottoscrizioni occasionali, un restante 40% da contributi regolari mensili e 4.880,55 da soldi provenienti da varie iniziative. Per quanto minoritaria quest’ultima forma di finanziamento ebbe una sua notevole valenza perché raccolta tramite una serie di iniziative che consentivano di abbinare all’attività assistenziale anche quella di propaganda, offrendo all’opera di mobilitazione una visibilità esterna in chiave di forte intonazione patriottica attraverso serate pubbliche in teatri e cinematografi cittadini o con la vendita di oggetti di consumo di larga circolazione (medagliette, distintivi o cartoline). Se passiamo dal piano delle entrate a quello delle uscite, le attività da essi svolte finirono per concentrarsi in primo luogo nella concessione di sussidi in denaro a favore delle famiglie più bisognose dei richiamati, destinata peraltro a crescere esponenzialmente fino a occupare stabilmente i due terzi della spesa complessiva. Le famiglie sovvenzionate, a dispetto di oltre  tremila richieste, si attestarono nella sola Pisa a un migliaio, per un esborso di oltre 9.000 lire mensili e con un’obbligata riduzione degli importi. In tale quadro non restavano molte risorse da destinare ad altri ambiti dell’«assistenza civile». Fra i campi di intervento che meritano di essere segnalati vi è tuttavia quello assai importante, per la necessità di attivarsi in sostituzione della dimensione famigliare, dell’assistenza ai figli minori dei richiamati e in cui l’azione principale divenne la gestione dei servizi ricreativi, con la realizzazione di molti ricreatori divenuti un po’ ovunque la seconda voce di uscita dei comitati dopo i sussidi. Altri compiti non irrilevanti furono infine la gestione degli uffici notizie, la confezione degli indumenti militari e, perlomeno nei principali centri, quello dell’assistenza ai soldati degenti negli ospedali e ai profughi.

Ma la citata esplosione dei sussidi e la crescita di di tali compiti resero sempre più evidente col trascorrere dei mesi l’insufficienza delle energie locali, e soprattutto, a dispetto delle attese e delle retoriche solidaristiche che la accompagnavano, della beneficenza privata. Ciò costrinse sempre più tanti comitati a rivolgersi alle istituzioni, e soprattutto al governo, anche perché l’aumento costante del numero dei richiamati produceva un paradosso: se le iniziative assistenziali venivano private delle oblazioni occasionali e in particolare di quelle mensili di molti partenti, le nuove chiamate sotto le armi accrescevano le richieste di intervento di famiglie private del rispettivo capofamiglia. Nel 1917, l’anno più nero della guerra europea, nel quadro dello scambio continuo fra spontaneismo di base e sollecitazioni governative realizzatosi in precedenza, le attività di sostegno al fronte interno dovettero confidare sempre più nell’aiuto di un soggetto erogante come lo Stato, che peraltro già gestiva una propria onerosa politica di sussidi ai richiamati.

Il varco aperto nelle mura su piazza Duomo per facilitare il trasporto dei feriti dal fronte all'ospedale Santa Chiara (Collezione privata)

Il varco aperto nelle mura su piazza Duomo per facilitare il trasporto dei feriti dal fronte all’ospedale Santa Chiara (Collezione privata)

La quantità di uomini al fronte, le molteplici necessità di una guerra moderna e la natura di molti dei compiti affidati ai comitati, che rimandavano a tradizionali lavori di cura, fecero infine dell’elemento femminile un altro soggetto decisivo del fenomeno della mobilitazione civile.  Diverse donne legate alle classi dirigenti e ai notabilati locali, al pari dei rispettivi mariti, ebbero parte attiva nelle vicende della patria in armi, giocando un ruolo rilevante nelle iniziative di sostegno al fronte interno. Appositi comitati femminili sorsero in diverse realtà, come nel caso del comitato Pro-Patria sorto già alla metà di febbraio del 1915 a Pisa per impulso di 23 promotrici quale emanazione del Consiglio nazionale delle donne, espressione di un associazionismo liberale mobilitatosi con grande anticipo all’immediato scoppio della guerra europea. Esso agì in strettissima collaborazione operativa e finanziaria con il Comitato pisano fungendo in sostanza da sua sezione femminile, mentre in alcune realtà figure di donne notabili giunsero persino a presiedere il locale Comitato, come avvenne ad esempio nel caso della piccola comunità di Lajatico per la nobildonna Enrichetta Brenno Gotti Lega.

* Marco Manfredi ha conseguito nel 2005 il titolo di Dottore di Ricerca presso l’Università di Pisa. Dal 2007 al 2009 è stato borsista postodottorato al Dipartimento di Scienze della Politica dell’Università di Pisa, mentre dall’anno accademico 2009-2010 è Professore a contratto di Storia Contemporanea. Attualmente è collaboratore dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno.




1965: la chiusura al traffico del centro storico di Siena

Tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50, a Siena si registrò una disordinata espansione edilizia, che vide la costruzione di palazzi persino a ridosso delle mura medioevali.
All’epoca il concetto di tutela era concentrato sui monumenti, le opere d’arte, i palazzi storici. Non ci si preoccupava, invece, dell’ambiente complessivo, di tutto quel tessuto di vie e vicoli, che venivano direttamente dal Medio evo, in alcuni casi dal Rinascimento.

Per frenare le costruzioni, che nascevano un po’ dappertutto in seguito all’inurbamento dalle campagne, e che cominciavano anche a minacciare le “valli verdi” del centro storico, in particolare la valle delle fonti di Follonica, nel 1956 fu affidata la redazione del piano regolatore comunale a Luigi Piccinato, urbanista noto a livello internazionale, insieme a Piero Bottoni di Milano e Aldo Luchini di Siena.

Luigi Piccinato

Luigi Piccinato

Il piano Piccinato stabilì di non edificare nel centro storico, sviluppando la periferia a nord, dove sarebbe anche stato costruito il nuovo ospedale. Per fare posto alle automobili in espansione, il piano Piccinato prevedeva due strade di circonvallazione fra piazza del Sale e Santo Spirito e fra San Domenico e il Duomo all’interno delle mura, da ottenere con lo sventramento dei palazzi esistenti.

La diffusione dell’auto aveva infatti condizionato persino il pensiero di illustri urbanisti, che cercavano di trovare soluzioni tali da consentire il transito e la sosta dei veicoli a motore, di cui non si era pienamente compresa la potenziale enorme crescita.
Con l’avanzata della motorizzazione di massa, la situazione divenne rapidamente insostenibile a partire proprio da Siena, che come poche altre città italiane aveva conservato il tessuto medioevale di vicoli e stradine.

Nel luglio 1962, il sindaco Ugo Bartalini vietò la sosta e la circolazione nell’anello superiore di piazza del Campo, oltre a limitare la circolazione dei bus turistici. Si trattava del primo provvedimento concreto preso per contenere il traffico.

Il problema delle automobili nei centri storici non era soltanto di Siena o dell’Italia, ma riguardava tutta l’Europa.
Nel novembre 1963 fu pubblicato il volume Traffic in Towns. A study of the long term problems of traffic in urban areas. Si trattava di uno studio condotto per conto del Ministero dei Trasporti inglese, che faceva una chiara analisi della problematica.

La penetrazione e la circolazione nelle città sarebbero diventate sempre più faticose e la congestione stradale avrebbe reso pericolosa la vita dei pedoni, di conseguenza l’ambiente urbano sarebbe divenuto sempre più invivibile, man mano che avanzava la motorizzazione di massa. Si doveva perciò eliminare il traffico di attraversamento nei centri storici, consentendo una circolazione limitata a livello locale.
L’Associazione Italia Nostra – fondata nel 1955 – decise di studiare il problema, affidando nel ’64 la redazione di una memoria all’arch. Achille Neri, il cui studio, intitolato Alcune proposte di sistemazione del traffico nel centro storico di Siena, venne stampato e inviato alle istituzioni.
Lo studio prevedeva la riconversione degli ambienti cittadini alla circolazione pedonale, recuperando il silenzio in città e garantendo una maggiore sicurezza per chi si spostava a piedi. Occorreva però una drastica scelta sul numero, sul tipo e sulla velocità dei veicoli ammessi nel centro, nonché una precisa scelta degli itinerari del traffico e delle strade esclusivamente destinate ai pedoni.

Fazio Fabbrini

Fazio Fabbrini

La giunta guidata dal sindaco Fazio Fabbrini, con Augusto Mazzini assessore all’Urbanistica e Bruno Guerri assessore alla polizia municipale, decise di intervenire. Il progetto per la nuova disciplina della circolazione nel centro cittadino si basava su due principi cardine:
1. creare una zona centrale riservata alla circolazione pedonale, in Banchi di Sotto, Banchi di Sopra, via di Città e via Montanini, con le vie limitrofe confluenti;
2. abolire lo scorrimento dei veicoli nel centro storico, creando anelli di circolazione separati: uno a nord da porta Camollia a piazza Indipendenza e uno a sud fra le Porte Pispini, Romana, Tufi e San Marco, con limite alle Logge del Papa, dove cominciava l’area interdetta ai veicoli.

Il 6 luglio 1965 fu emanata l’ordinanza del sindaco n. 148, intitolata Norme particolari di circolazione nel centro cittadino, in vigore dall’11 luglio, con la quale veniva creata una zona interdetta alla circolazione.
Si trattava di un provvedimento innovativo a livello internazionale, che avrebbe fatto scuola in Italia e all’estero, ma che i più non capirono.
Le porte di molti negozi si chiusero per protesta, le auto percorsero in corteo le vie cittadine, occuparono Piazza del Campo, Piazza del Mercato; i clacson suonarono per ore e ore e il telefono del Comune squillò ininterrottamente, con invettive e minacce. L’Ordine dei Medici, l’Automobile Club e il museo dell’Opera Metropolitana, insieme ad alcuni privati cittadini, promossero persino un ricorso gerarchico al ministro dei Lavori Pubblici contro l’ordinanza del sindaco, che dovette giustificare più volte il provvedimento emesso.

“Mi colpì in particolare in quei primi giorni – ha scritto Fabbrini in un libro di memorie – la presenza nelle vie chiuse di moltissime carrozzine con i neonati che le giovani mamme, spesso in coppia con i mariti, quasi a voler sfidare gli oppositori, portavano a spasso per Banchi di Sopra; i capannelli di persone che conversavano liberamente senza essere costrette ad addossarsi alle mura per evitare di essere investite e il ritorno di odori che erano stati soffocati dai fumi di scarico”.
La crisi dell’Amministrazione comunale, che portò alle dimissioni del sindaco nel maggio 1966, con l’arrivo del commissario prefettizio, determinò una “marcia indietro” e il traffico di attraversamento venne parzialmente riaperto a partire dal settembre ’66.

Roberto Barzanti

Roberto Barzanti

La chiusura del centro con la creazione dell’isola pedonale non venne però messa in discussione e anzi negli anni successivi iniziò l’estensione dell’isola stessa.
Nell’agosto 1972, dopo la lunga parentesi del commissario prefettizio, il sindaco Roberto Barzanti aumentò la zona chiusa, vietando l’ingresso alla città dall’area di San Domenico, e riprendendo un percorso che con successivi provvedimenti è arrivato fino ai giorni nostri.
Negli anni ’80 e ’90 fu istituita la ZTL su quasi tutto il resto del centro storico, diviso in settori di circolazione e di sosta riservati ai soli residenti. Ai residenti, gli unici autorizzati a parcheggiare in centro, fu chiesto un bollino di 50.000 lire al mese da destinare all’incremento del trasporto pubblico, una cifra molto alta. Anche in questo caso, si trattò di un esperimento innovativo a livello nazionale.
Fu inoltre iniziata la costruzione di parcheggi scambiatori in periferia, creando una rete di minibus.

Dal 1990, dopo diversi anni di chiusura del centro storico agli autobus, il Comune di Siena, in accordo con la società di trasporto Train, introdusse nel cuore della città un minibus denominato “Pollicino” per consentire l’accesso alle anguste vie cittadine, a partire da parcheggi scambiatori, dove avrebbe posteggiato l’auto chi veniva da fuori.
Tutti gli sviluppi successivi sono stati permessi da quel primo provvedimento coraggioso del 1965, che aveva limitato la circolazione nel cuore della città, introducendo con un atto pratico una sorta di “principio filosofico” nell’urbanistica: anziché demolire i palazzi per fare posto alle automobili, limitare la circolazione e sosta delle auto al fine di preservare l’ambiente storico.

Nelle parole di Luigi Piccinato, il famoso progettista del piano regolatore del 1956, si trova l’espressione dell’importanza di quanto fatto a Siena. In un’intervista rilasciata a Roberto Barzanti nel marzo 1983, a distanza di quasi 30 anni dall’elaborazione del piano, affermava: “L’adozione del provvedimento che fece pedonale la parte più cospicua del centro storico – poi, a quel che ne so, variamente corretto e ampliato – è stata una delle grandi conquiste di Siena. Tutta l’Italia oggi non solo la imita, ma la studia. Fu un atto che ha contribuito a salvare la struttura organica – sottolineo questa parola – di tanti altri centri urbani”.




L’Unione Donne Italiane e La Proletaria alla fine della Seconda Guerra Mondiale

La Proletaria, una cooperativa che oggi è estesa su quattro regioni col nome di Unicoop Tirreno, venne costituita il 26 febbraio 1945, pochi mesi dopo la Liberazione di Piombino. La sua fondazione ricevette un forte impulso dal CLN locale e dai partiti di sinistra, in accordo con le linee guida nazionali che vedevano nella costituzione di cooperative un mezzo per superare le privazioni dell’immediato dopoguerra. Per questi motivi, un gruppo di 30 operai dell’ILVA (l’azienda siderurgica piombinese) dette vita a La Proletaria, riattivando in accordo con i vertici dell’azienda, lo spaccio aziendale.

Tra i 30 soci fondatori della cooperativa non era presente nessuna donna. Nelle settimane successive però le le donne iniziarono a comparire: al 2 marzo del 1945 erano poco più di 800 i soci e tra loro si registrò la presenza delle prime 10 donne. Lo stesso Statuto ammetteva come soci solamente operai, impiegati ed altri lavoratori di mestieri eminentemente maschili. Eppure le donne c’erano, nascoste dalla presenza maschile, tuttavia importanti: le lavoratrici erano in maggioranza rispetto agli uomini, anche se in ruoli di “manovalanza” (erano commesse, banconiere o cassiere), le massaie facevano la spesa per la famiglia.

Convegno delle donne alla Tolla, aprile 1951 (Archivio Storico Unicoop Tirreno)

Convegno delle donne alla Tolla, aprile 1951 (Archivio Storico Unicoop Tirreno)

Il Consiglio di Amministrazione della cooperativa, però, almeno per i primi mesi, restò interamente formato da uomini. La mancata presenza femminile si ebbe fino alla fine degli anni quaranta – e in alcuni casi anche ben oltre – anche in altre piccole cooperative di consumo della zona: questi dati sicuramente fanno pensare ad un’impronta decisamente maschile nella costituzione e nella gestione di sodalizi in cui le donne erano però le principali attrici.

L’Unione Donne Italiane (UDI), alla fine della guerra, si impegnò in tutte quelle attività che toccavano da vicino le donne, prima fra tutte quella del sostentamento alimentare della famiglia e del controllo della qualità e dei prezzi delle merci. Questo, e il legame con i vari CLN, portarono alle sinergie con il mondo cooperativo. Sin dal 1944 l’UDI condusse una campagna di tesseramento delle proprie socie; nel 1946, in ritardo rispetto alle iniziative dell’UDI, fu creato il Comitato Nazionale delle Cooperatrici all’interno della Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue. L’Unione, in quei primi mesi del dopoguerra, premeva affinché anche all’interno dei consigli di amministrazione delle cooperative di consumo fossero ammesse delle donne. Non bisogna poi  dimenticare il legame che l’organizzazione femminile aveva con il PCI e con la lotta di Liberazione, i quali vedevano nella cooperazione un mezzo per risollevare l’economia in momenti difficili: in questo senso l’UDI rappresentò sia uno strumento di emancipazione e di crescita personale per molte donne sia un organismo integrato nella struttura del Partito Comunista che era utilizzato per ampliare il consenso (ma va detto che era anche un modo per le masse di partecipare alla vita pubblica).

Proprio in questo modo iniziò il legame tra l’UDI e la nuova cooperativa nata a Piombino. Alla fine di aprile del 1945 l’Unione Donne di Piombino inviò una lettera al Consiglio di Amministrazione de La Proletaria perché una loro rappresentante venisse a far parte del Consiglio. Questo dette subito parere favorevole, a patto che le rappresentanti UDI fornissero un contributo attivo alla cooperativa: tale contributo si basava sull’immagine della donna di massaia e di prima fruitrice dei prodotti di consumo di una cooperativa. Questo fu il primo importante passo per far uscire le donne dall’ombra in cui lavoravano e fruivano della cooperativa alla sua fondazione. Da questo punto in avanti le donne ebbero il modo di ritagliarsi uno spazio sempre più definito e crearsi un ruolo sempre più complesso e sfaccettato.

Il legame dell’UDI con la Proletaria è testimoniato anche dal fatto che i primi fondi fotografici conservati presso l’Archivio Storico di Unicoop Tirreno che ritraggono delle figure femminili sono proprio dell’Unione. Il collegamento tra i fondatori con il mondo dell’associazionismo femminile e con i suoi temi di attenzione e stimolo al lavoro femminile certo fu molto importante per la partecipazione delle donne.

Dalla parte delle donne raccolta  firme contro la  violenza sessuale 1988 (Archivio Storico Unicoop Tirreno)

Dalla parte delle donne raccolta firme contro la violenza sessuale 1988 (Archivio Storico Unicoop Tirreno)

Tuttavia, nei primi tempi è d’uopo registrare un certo grado di paternalismo dei consiglieri uomini della Proletaria nei confronti delle loro colleghe. Un paternalismo che sembrava non voler riconoscere il peso delle donne nella cooperativa: basti pensare che nei verbali delle riunioni del Cda si leggeva, dopo il nome e cognome dei consiglieri, un laconico “e le rappresentanti dell’UDI”, senza che ne fosse indicato il nome. Di contro le donne dell’UDI si stavano ritagliando un ruolo sempre più preciso all’interno della cooperativa: nei primi mesi le consigliere si dedicavano alla distribuzione del latte tra la popolazione affamata del dopoguerra (questa era una iniziativa in cui l’UDI di Piombino si stava impegnando); le rappresentanti dell’UDI si occupavano di tutte le questioni che interessavano alle donne che facevano la spesa negli spacci della cooperativa (la biancheria, il pesce, il metodo di pagamento) intervenendo nei dibatti del Cda, pur senza diritto di voto.

Via via che i mesi e gli anni passavano le donne presero in mano il settore sociale della cooperativa: si occupavano della promozione e organizzazione di attività sociali, culturali o ricreative (spesso insieme all’UDI di Piombino o nazionale) e della gestione dei comitati di spaccio. La presenza dell’UDI era molto importante per la cooperativa perché, al pari della Lega della Cooperative e mutue, concorreva a dare, attraverso la partecipazione a convegni nazionali, una dimensione più  ampia alla cooperativa e alle donne consigliere, un’opportunità di formazione e di emancipazione dai ristretti ambiti della provincia.

In ultima analisi il ruolo dell’UDI fu fondamentale per la Proletaria: attraverso la sua iniziativa si offrì ad alcune militanti un’occasione di crescita personale e sociale, mentre, pur con molti limiti e distinguo vista ancora la predominanza maschile nei ruoli chiave, si dette alla cooperativa un’impronta femminile.




Leda Rafanelli, libertaria e musulmana, giornalista e scrittrice

Della lunga vita (Pistoia, 1880-Genova,1971) di Leda Rafanelli, dedita fin dalla prima giovinezza non solo alla militanza nel movimento anarchico, ma anche all’attività di pubblicista e scrittrice, è impossibile dare in poco spazio una sintesi sia pure estrema. Ci si limiterà, qui, a concentrare l’attenzione sul periodo della sua formazione giovanile, in cui già si incontrano realizzati esempi della sua vulcanica poliedricità.

Leda si stabilisce a Firenze nei primissimi anni del ‘900, secondo la ‘vulgata’ (trasmessa dalla maggioranza di suoi biografi e critici) dopo essere rientrata da un soggiorno in Egitto, dove si sarebbe convertita contemporaneamente all’anarchismo e alla fede musulmana. Peraltro non vi è certezza che tale soggiorno sia effettivamente avvenuto e tanto meno che ad Alessandria d’Egitto la giovane Leda abbia avuto contatti con l’ambiente anarchico de “La Baracca Rossa” fondata da Enrico Pea. Se Leda rimase sempre molto sul vago a proposito di quel viaggio, fu lo studioso Pier Carlo Masini, a lungo suo amico, ad accreditare tale narrativa (si vedano: Iréos e Djali, in Luigi Fabbri, Studi e documenti sull’anarchismo tra Otto e Novecento, Pisa, BFS edizioni, 2005 e l’introduzione a Una donna e Mussolini, Milano, Rizzoli, 1946). Lo stesso Masini riporta la descrizione fatta da Leda (nell’inedito Pensieri del 1897) del proprio incontro, che sarebbe avvenuto in questa circostanza, con Luigi Polli.

Quello che invece è certo è che Leda incontrerà (nuovamente o per la prima volta) Luigi Polli, che sposerà nel 1902, nell’ambiente della Camera del Lavoro di Firenze. In questo stesso contesto Leda incontra e stringe amicizia con gli “ultimi internazionalisti” (‘reduci’ della Prima Internazionale antiautoritaria) Giuseppe Scarlatti, Francesco Pezzi e la sua compagna Luisa Minguzzi, fondatrice della prima sezione femminile dell’Internazionale.

untitledA Firenze Leda, la cui scolarizzazione si era fermata alla seconda elementare, lavora come tipografa e pubblica il suo primo opuscolo “di propaganda”, Alle madri italiane (1901) con la Libreria editrice G. Nerbini. Qui Leda si riferisce ancora a se stessa come “socialista” e rivolge alle madri il messaggio di “noi socialisti”, propugnando l’idea seppure non del rifiuto totale della religione da parte delle madri credenti, di una religione spogliata dalle sovrastrutture ecclesiastiche.

Nel 1903 inizia la lunga e intensa collaborazione (che durerà fino al 1906) di Leda a «La Pace», il quindicinale antimilitarista di Genova diretto da Ezio Bartalini, giovane socialista dissidente. In quello stesso anno suoi versi e bozzetti in prosa che hanno per oggetto le ingiustizie della società e la persecuzione nei confronti degli anarchici, appaiono su «L’Agitazione», “periodico socialista anarchico” pubblicato a Roma. Dal 1904 in poi la sua firma è frequente su vari altri giornali: «Il Libertario» di La Spezia (dove molti degli articoli appaiono a firma del “Comitato pro-vittime politiche”, costituito nel 1904 insieme a Scarlatti e ai coniugi Pezzi), «La Voce della donna», «L’Allarme», «Il Grido della folla», «L’Aurora», «Energia»: periodico dei giovani socialisti, «La Donna socialista», «In Marcia», «La Protesta umana».

Lo stile giornalistico di Leda si distingue fin da ora per la sua versatilità: i temi che le stanno più a cuore, in particolare quelli dell’antimilitarismo e della lotta per la giustizia e la libertà, vengono affrontati non solo in articoli polemici, ma anche attraverso l’uso di versi e ‘bozzetti’.

Sempre degli anni fiorentini è l’incontro di Leda con importanti esponenti libertari: nel dicembre 1905, al convegno dei sindacalisti rivoluzionari di Bologna a cui partecipano Leda e Luigi Polli, sono presenti, tra gli altri, Luigi Fabbri, Oberdan Gigli, Armando Borghi e Pietro Gori. E del credito che Leda ormai godeva in campo libertario fa fede il fatto che proprio lei firma la prefazione allo scritto di Borghi del 1907, Il nostro e l’altrui individualismo.

È del 1906, poi, la fondazione da parte di Leda e di Luigi Polli (con la collaborazione di Scarlatti) del giornale «La Blouse», realizzato “da autentici lavoratori del braccio” per i “tipi Rafanelli-Polli”.

L’attività di collaborazione e fondazione di giornali non la porta a trascurare la scrittura di opuscoli di propaganda, come pure quella di racconti e romanzi: il 1907 è un anno di intensa produzione di pamphlet, stampati inizialmente dalla “Tipografia Ugo Polli” e poi dalla “Libreria editrice Rafanelli-Polli”. Di tale prolificità e varietà di generi dà conto il lungo elenco che si trova al fondo A l’Eva schiava di scritti precedenti “e che possono essere ordinati della stessa autrice”. Si tratta di: Un sogno d’amore; Le memorie di un prete; La caserma … scuola della nazione (dal diario di un soldato); Amando e combattendo; La bastarda del principe; Contro la scuola; Dal ‘Dio’ alla libertà; Società presente e società avvenire.

Nei pamphlet del 1907 è ormai chiaro il passaggio all’ideologia anarchica, dichiarata con orgoglio nell’enfatizzato “noi libertari”, insieme ad un accentuarsi dell’antimilitarismo e della critica della religione, con l’appello alle madri per richiamarle al loro dovere di educare i figli agli ideali di giustizia e libertà.

Il lungo e fecondo periodo fiorentino, insieme al matrimonio e sodalizio con Luigi Polli, si avviano a conclusione quando Leda incontra Giuseppe Monanni, un anarchico aretino che si era trasferito a Firenze nel 1907 e qui aveva fondato la rivista «Vir». A metà del 1908 la coppia si trasferisce a Milano dove inizia la collaborazione a «La Protesta umana» edita da Ettore Molinari e Nella Giacomelli.

A Milano inizia il successivo lunghissimo e sempre intensissimo capitolo della vita, militanza e attività di giornalista e scrittrice di Leda. E se dall’attività politica Leda si ritirerà progressivamente a partire dal 1919, quella di scrittrice prosegue invece fin quasi all’ultimo della sua lunga vita che si conclude a 91 anni, nel 1971, a Genova.




Le stragi naziste in Toscana

Come è noto, durante la campagna d’Italia gli Alleati raccolsero le prove dei crimini di guerra compiuti dall’esercito tedesco nella penisola, con l’intenzione, all’inizio, di celebrare una sorta di “Norimberga italiana”. Una opzione ben presto accantonata, per ragioni di politica internazionale – la Guerra Fredda abbisognava di una solerte rinascita della Repubblica Federale Tedesca – che vennero ad intrecciarsi con l’interesse tutto italiano di evitare una punizione per i “nostri” criminali di guerra.

Il lavoro istruttorio era stato comunque imponente. Molte delle inchieste dello Special Investigation Branch inglese e della sezione del War Crimes Branch statunitense riguardarono la Toscana e le sue comunità martiri, colpite ripetutamente, soprattutto nell’estate 1944: uno degli allegati al rapporto German Reprisals for Partisan Activity in Italy, inviato a Londra alla fine del 1945, è una cartina (doc. 1) sulla quale sono evidenziate molte località della nostra regione che ebbero a fare i conti con la violenza tedesca.

Questi materiali, assieme ad altri, analoghi, raccolte da diverse autorità italiane (Carabinieri, Comitati di Liberazione Nazionale, ecc.), sono rimasti, come è noto, conservati per decenni negli archivi stranieri e nel cosiddetto “armadio della vergogna” (doc. 2 e 3), ma hanno poi rappresentato la base delle ricerche sulle stragi naziste che, dalla metà degli anni novanta del Novecento, hanno alimentato una feconda stagione storiografica, che si è accompagnata ad alcuni procedimenti penali, riaperti presso le Procure Militari  In attesa di un censimento nazionale delle stragi, al quale sta lavorando un gruppo di ricerca nazionale, per il progetto, finanziato dal governo tedesco come forma di riparazione, Atlante delle stragi nazifasciste, il quadro toscano è comunque già piuttosto chiaro.

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Civili costretti dalla Luftwaffe ad abbandonare le proprie abitazioni (C. Gentile, La Wehrmacht in Italia)

 

Si contano almeno 200 episodi, ed oltre 3600 vittime. Le prime stragi colpiscono nel settembre 1943 (Pistoia, in piazza San Lorenzo, e all’Isola d’Elba), e, dopo i rastrellamenti della “settimana di sangue” dell’aprile 1944 (nei quali avviene per esempio la strage di Vallucciole, 13 aprile, 107 vittime), la violenza diventa quotidiana nell’estate 1944, come strumento di gestione della ritirata, di pressione sulla popolazione civile e sui partigiani, di controllo del territorio e delle aree strategiche, a partire dalla Linea Gotica. Mommio (5 maggio, 22 vittime) e Forno di Massa (13 giugno, 60 vittime), la Niccioleta (13 giugno, 83 vittime) e Guardistallo (25 giugno, 47 vittime), Civitella della Chiana (29 giugno, 204 vittime) l’area di Cavriglia (4 luglio, 173 vittime) e San Polo di Arezzo (14 luglio, 48 vittime), le rappresaglie di Orenaccio di Loro Ciufenna (6 luglio, 32 vittime), Crespino sul Lamone (17-18 luglio, 44 vittime), e Empoli (24 luglio, 29 vittime), e ancora la Romagna sopra Molina di Quosa (7-11 agosto, 72 vittime) e Sant’Anna di Stazzema (12 agosto, oltre 500 vittime), e Bardine San Terenzo (19 agosto, 158 vittime) e Vinca (24 agosto, 171 vittime), preceduta il giorno prima dal Padule di Fucecchio (173 vittime), per finire con le due stragi di Massa (10 settembre, 37 vittime, e 16 settembre, alle Fosse del Frigido, 147 vittime).

Un po’ tutte le formazioni tedesche che combattono in Toscana si macchiano di crimini di guerra, rispondendo con solerzia agli ordini che ricevono dal Feldmaresciallo Kesselring che, proprio attorno alla metà di giugno, definiscono un meccanismo repressivo che autorizza le truppe sul campo ad usare la violenza sulla popolazione civile. Una violenza che così, in queste settimane, parla il linguaggio della rappresaglia o del rastrellamento per rispondere alle azioni partigiane o “bonificare” le aree ove i patrioti operano con maggior efficacia, ma colpisce anche nel corso della ritirata o in zone rese proibite da ordini di sfollamento obbligatorio, subito dietro il fronte, come in tutta l’area di Pisa (il 2 agosto per esempio nel quartiere San Biagio, in seguito a una delazione, si eliminano alcune famiglie rifugiate nella canonica e in alcune abitazioni limitrofe, doc 4 e 5). La repressione si appunta anche contro le forme di resistenza civile, come avviene per esempio dentro la Certosa di Farneta di Lucca, dove nella notte tra il 1 e il 2 settembre 1944 gli uomini della “Reichsführer-SS” del generale Max Simon rastrellano oltre 100 persone, tra le quali i certosini del monastero (alcuni dei quali di nazionalità svizzera, e da questo prenderanno le mosse le indagini del dopoguerra, doc. 6 e 7), rei di aver dato rifugio nei mesi precedenti a varie tipologie di ricercati (ebrei, partigiani, antifascisti, renitenti, ecc.).

Una durissima guerra ai civili, insomma, all’interno della quale emerge il comportamento di alcuni reparti speciali – la già citata divisione di Simon, la “Hermann Göring” – che interpretano il sistema degli ordini in modo più radicale, e inscenano una vera e propria guerra di sterminio ai danni di alcune comunità, come avviene a Sant’Anna, Bardine e Vinca, e oltre: qui la logica repressiva non è più solo quella della punizione, magari esemplare, ma quella della eliminazione di intere comunità. La guerra ai civili si fa così ideologica, razziale, più simile a quella combattuta sul fronte orientale, e costringe la Toscana a pagare un dazio altissimo, prima della Liberazione.




Atletica leggera nella Guerra fredda. Il Meeting dell’Amicizia di Siena

“Il Meeting dell’Amicizia per il suo carattere popolare, scevro da quell’ufficialità tipica della burocrazia federale, si differenzia profondamente dalle altre analoghe manifestazioni italiane e straniere […]. Sostenuto e finanziato dagli Enti Locali (Comune e Provincia) e dagli Enti cittadini (Monte dei Paschi, E.P.T. e Camera di Commercio), organizzato dalla UISP con la collaborazione delle Società sportive cittadine più rappresentative, si è ormai affermato e caratterizzato come un incontro di atleti e di uomini di tutti i paesi con il popolo di Siena, all’insegna dell’amicizia e della solidarietà. Diverso è il meeting di Milano, finanziato dalla Snia e dalla Pirelli, dove lo spettacolo si salda con la merce”.

Così si può leggere su un documento del luglio 1972 a cura del comitato organizzatore del Meeting senese, in occasione della 13° edizione dell’ormai famoso evento di atletica leggera che si teneva allo stadio del Rastrello.

Nel passo sopra riportato emergono con chiarezza lo spirito e i contenuti della manifestazione – la cui prima edizione,- denominata “Meeting dell’Amicizia Post-Olimpica”,- si era tenuta a Roma, pochi giorni dopo la conclusione dell’Olimpiade del 1960 – improntati ad una visione dello sport inteso come servizio sociale ed espressione di quel movimento operaio e democratico che riusciva a connotare di sé ogni ambito della vita sociale e culturale del paese.

Dal 1961 l’evento si trasferì a Siena e il giornalista sportivo Alfredo Berra così scriveva: “Il Meeting dell’Amicizia Intercittà […] rappresenta la sintesi di ciò che un movimento di propaganda e di qualificazione atletica deve avere come insegna: reclutamento, studio, metodo e progresso”. Per queste idealità e connotazioni, il Meeting dell’Amicizia fu, fin dalla sua nascita, una manifestazione sui generis, che attraversò gli anni più turbolenti della Guerra Fredda in cui le contrapposizioni tra USA e URSS erano più aspre.

Copertina del programma del 1961

Copertina del programma del 1961

Una caratteristica del Meeting dell’Amicizia, fin dalla sua prima edizione, fu quella di manifestazione di altissimo livello sportivo – già nell’edizione romana del 1960 fu stabilito un primato mondiale, quello del lancio del disco femminile (57,15 m.) della sovietica Tamara Press – e anche di importante iniziativa di amicizia tra i popoli e di festa sportiva tra culture diverse. L’UISP nazionale, col suo ramo senese UISP Atletica, fu l’ente organizzatore, coadiuvato da altre Società Sportive, ma anche ostacolato, se non apertamente discriminato, dal mondo ufficiale dell’atletica e della politica governativa che vedeva nel Meeting una articolazione della più vasta propaganda di sinistra, nella fattispecie del PCI.

Sono da leggere in questo senso i ripetuti divieti di partecipazione agli atleti appartenenti ai gruppi militari, con esclusione del corpo delle Fiamme Gialle il quale, essendo sotto il Ministero delle Finanze, concesse ai propri rappresentanti l’autorizzazione a partecipare. Emblematico, a tale riguardo, il caso di Eddy Ottoz, uno dei massimi specialisti europei e mondiali dei 110 ostacoli, il quale, in una edizione, essendo stato autorizzato a gareggiare solo all’ultimo momento, si presentò ai blocchi di partenza con la calzamaglia della saltatrice in lungo Magalì Vettorazzo.

Sempre a proposito degli ostacoli che il Meeting dovette superare negli, così si legge nella presentazione dell’edizione del 1974: “Nella misura in cui cresceva il suo successo, specie per l’adesione dei campioni provenienti dai paesi dell’Est, parallelamente si moltiplicava l’irritazione dei faziosi di professione […]. L’irritazione si tramutò in vera e propria rappresaglia nel 1965, quando fu perentoriamente vietato agli atleti in forza a società militari di partecipare al Meeting. Non fu mai appurato da chi partì il veto, ma lo si intuì. E’ risaputo che militare con muove foglia, che il Ministro non voglia”.

Un esempio significativo di boicottaggio della manifestazione fu quello che si verificò nella prima edizione senese dell’ottobre 1961 quando il Prefetto di Siena proibì agli organizzatori di esporre la bandiera delle Repubblica Democratica Tedesca (Germania dell’Est, come altresì veniva definita), perché non riconosciuta dallo Stato italiano. La qualcosa fece molto scalpore e sollevò proteste da parte delle altre delegazioni, in particolare proprio della DDR che peraltro aveva edificato il Muro di Berlino da circa due mesi. Per non creare discriminazioni fra gli atleti partecipanti, il comitato organizzatore decise, unica volta nella storia del Meeting, di non esporre nessuna bandiera.

Sempre in chiave politica sono da interpretare le decisioni relative alla partecipazione della prestigiosa mezzofondista italiana Gabriella Dorio, rappresentante della società Fiamma Atletica Vicenza, articolazione della Società Fiamma fondata nel 1948 dal Raggruppamento Giovanile Studenti e Lavoratori e il cui primo presidente era stato Pino Romualdi, ex vicesegretario del Partito Fascista Repubblicano nonché uno del fondatori del MSI. La soluzione che fu trovata fu un compromesso tra chi si opponeva con fermezza alla presenza al Meeting di atleti appartenenti a quella società sportiva e chi, invece, privilegiava la grandezza atletica della Dorio rispetto alla sua espressione in qualche modo ‘politica’; l’atleta veneta fu infatti ammessa alle gare a patto che non indossasse la divisa della Fiamma che aveva come suo simbolo una “F” scudettata tricolore. 

Fu così in questo clima di aspri scontri e contrapposizioni ideologici, di cui anche il mondo dello sport fu interprete, che il Meeting dell’Amicizia continuò a tenersi a Siena fino alla sua 20° ed ultima edizione del 1979 quando la UISP fu costretta per motivi essenzialmente economici a interrompere l’organizzazione dell’evento.

Rod Milburn, record mondiale nei 110hs con 13"1, Meeting dell'Amicizia 22 luglio 1973, Siena

Rod Milburn, record mondiale nei 110hs con 13″1, Meeting dell’Amicizia 22 luglio 1973, Siena

Come abbiamo accennato, il Meeting si caratterizzò per la partecipazione di atleti di alto livello; nelle prime edizioni i partecipanti provenivano per lo più dai paesi dell’Europa dell’Est – all’edizione del 1961 parteciparono, oltre ad atleti italiani, rappresentanti polacchi, ungheresi, sovietici, rumeni, cecoslovacchi e jugoslavi. In seguito, la manifestazione vide la presenza di atleti cubani, ma anche statunitensi, africani e di tanti stati europei. Di certo il Meeting dell’Amicizia fu un antesignano di analoghe manifestazioni che in seguito vennero organizzate sia in Italia che all’estero e fu caratterizzato da risultati sportivi di assoluto prestigio. Al proposito ricordiamo le imprese nei 400 m. del cubano Alberto Juatorena, conosciuto come El Caballo, il record del mondo nei 100m. (9″9) ottenuto il 16 luglio del 1975 dello statunitense Stewe Williams, quello del 22 luglio 1973 nei 110hs (13″1) dello statunitense Rod Milburn, le epiche sfide di Franco Arese con l’atleta a stelle e strisce Liguori nei 1500m., le partecipazioni nelle gare di velocità di Livio Berruti, Pietro Mennea ed Eddy Ottoz, tanto per citare alcuni dei più famosi atleti italiani. A proposito di ‘gare di velocità’, c’è da ricordare che la pista de ‘Il Rastrello’ era considerata da tanti esperti una pista dove era possibile ottenere grandi risultati e fu anche per questo che il Meeting vide la partecipazione di così tanti atleti di valore e fama internazionale.

Come già accennato, il 1979 fu l’ultimo anno del meeting senese. Da qui, seppure con connotazioni diverse, il Meeting si trasferì a Pisa per due anni e poi avere termine.




Una diocesi sfollata. La Chiesa di Livorno nel biennio 1943-1944

Tra il maggio e il novembre 1943 la guerra cambiò radicalmente il volto di Livorno. Col suo porto e le sue grandi industrie, la città pagò a caro prezzo la centralità logistico-strategica che aveva assunto nello scacchiere bellico del Mediterraneo divenendo un obiettivo militare d’eccellenza. Prima le tre grandi incursioni aeree angloamericane (28 maggio, 28 giugno, 25 luglio) che, bombardando a tappeto la città, distrussero buona parte del patrimonio urbanistico, poi il forzato sgombero del centro cittadino imposto dal Comando tedesco tra l’ottobre e il novembre generarono un esodo di massa che per intensità e modalità di attuazione non ebbe eguali in Toscana. Secondo alcune fonti alleate solo 20.000 dei circa 130.000 abitanti dell’anteguerra, si trovavano in città al momento dell’arrivo delle truppe liberatrici il 19 luglio 1944; mentre, stando alle cifre dell’Ufficio tecnico del Comune, degli edifici del centro, poco più dell’8% rimase illeso. In tale contesto anche la Chiesa di Livorno fu, con grande evidenza, colpita nei suoi gangli vitali. Il 17 dicembre 1944, a quasi venti mesi dall’ultima volta e a cinque dalla liberazione della città, il vescovo di Livorno, Giovanni Piccioni, (a capo della diocesi dal 1921 al 1959) tornava in questo modo ad aggiornare il suo diario personale.

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Una foto del vescovo Piccioni negli anni Venti. (Archivio Centro Studi Roberto Angeli)

“Il 28 maggio 1943 ebbe luogo il primo gravissimo bombardamento aereo di Livorno, che fu poi seguito da uno ancora più grave il 28 giugno, e poi da moltissimi altri. Fin dal primo bombardamento furono distrutte e lesionate parecchie Chiese e case religiose. Il Seminario e l’Episcopio furono dichiarati inabitabili. Io mi recai a Villa Maria che era piena di sfollati e vi abitati fino al 30 Settembre. Dall’Ottobre in poi fui ospitato nel Monastero di Montenero e in quel tempo il Santuario servì come Cattedrale. Altri Sacerdoti – Parroci e Canonici – abitarono anch’essi a Montenero, non essendo abitabili le loro canoniche o case di Livorno. Del resto dai primi di Novembre in poi i quattro quinti della città furono coattivamente sgombrati per ordine dei tedeschi, i quali soli vi rimasero e si valsero di ciò per rapine e depredazioni nelle abitazioni, per la distruzione dei mobili, che non credettero asportare – mentre i migliori furono spediti da loro in Germania insieme al macchinario delle industrie ecc. e anche approfittarono di tale periodo per collocare un numero ingente di mine, per distruggere alcune fabbriche e palazzi. In questo periodo di tempo non ho tenuto al corrente il Diario; né credo di poterlo completare ora. La venuta degli alleati ha recato un po’ di sollievo. Non è ancora compiuta però (e scrivo il 17 dicembre 1944) la rimozione delle macerie e delle mine; cosicché vi è ancora a Livorno sebbene ridotta, la cosiddetta zona nera nella quale non è permesso l’ingresso”.

La gran parte della popolazione livornese visse dunque i grandi rivolgimenti politici e bellici seguiti al 25 luglio e all’8 settembre, le drammatiche conseguenze dell’occupazione nazista e l’avanzata degli alleati in un contesto di pressoché totale sradicamento. Per questo l’eccezionalità del contesto livornese fece assumere al capo della Chiesa livornese non tanto, o non solo, il ruolo di defensor civitatis, sul modello di papa Pacelli che rimase a presidiare Roma nella fuga generale delle altre autorità seguita all’8 settembre, ma lo costrinse, più che in altre zone, ad una rimodulazione del suo servizio episcopale in funzione di un popolo disperso. Il presule – oltre a presidiare la città scegliendo di risiedere a Montenero – dette vita ad un nuovo ministero itinerante, ideando una sorta di “pastorale per gli sfollati” che adattava a un contesto inedito le prospettive di restaurazione cristiana indicate da Pio XII. Un modus operandi che gran parte del suo clero fece proprio spontaneamente già nelle ore immediatamente successive alla prima rovinosa incursione alleata, ma che l’anziano pastore auspicò – e talvolta, pretese – che venisse perseguito: in questo quadro assunsero centralità realtà prima marginali come le parrocchie dei vicariati suburbani, e si trovarono sbalzate al centro della scena figure, come i parroci di campagna e le suore, tradizionalmente votati ad un ministero poco appariscente.

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La mappa della “Zona Nera” a Livorno

Dopo la prima incursione alleata del maggio 1943, il percorso d’azione fu rimodulato nei suoi tratti essenziali attraverso una circolare che il vescovo fece pervenire ai parroci di campagna: notando come «la quasi totalità della popolazione di Livorno» si fosse dispersa nelle campagne, egli esortava «ad esercitare l’ospitalità con quel sentimento cristiano che ci fa vedere Gesù stesso in chiunque abbia bisogno del nostro aiuto». Raccomandava dunque di «provvedere al servizio religioso degli sfollati»; di avere una speciale cura per i bambini che proprio in quel periodo stavano preparando le Cresime e le prime Comunioni; «di usare uno speciale riguardo verso i vecchi e gli infermi». Con questa circolare Piccioni si accordava alla delibera del 6 maggio 1943 della Conferenza Episcopale Toscana nella quale i presuli erano intervenuti sull’assistenza spirituale agli sfollati, suggerendo «che – oltre alla cura pastorale degli sfollati, come le pecorelle più bisognose del proprio gregge – ogni parroco dove gli sfollati sono accolti avesse un libro di stato d’anime a parte per essi».

Questa capillare rete dell’accoglienza ecclesiastica di cui i livornesi beneficiarono a piene mani (anche attraverso percorsi non sempre lineari) suppliva per certi versi alle carenze della macchina assistenziale pubblica, sfaldatasi insieme al default istituzionale dell’estate 1943. Se già alla fine del 1942 il prefetto di Livorno aveva predisposto piani molto articolati relativi al previsto sfollamento della città, nei mesi della grande emergenza le autorità livornesi provarono a imbastire dettagliati progetti, puntualmente disattesi. Con l’occupazione tedesca della città qualsiasi piano d’intervento pubblico in aiuto agli sfollati venne poi ovviamente abbandonato e i livornesi dovettero fare da sé, aggrappandosi alle reti assistenziali di supplenza. In questo quadro certamente Piccioni rappresentò un punto di riferimento rilevante, perché si accordò lui stesso – pur essendo già piuttosto anziano e provato da più di vent’anni di ministero episcopale – a quelle linee pastorali molto esigenti che volle fossero osservate dal suo clero. Il fatto che nello sgretolarsi delle istituzioni, la figura del vescovo si caricasse di inediti significati è testimoniato anche dalle numerose lettere di sfollati che pervennero alla Curia nei mesi dell’esodo. Non solo perché, in linea con le disposizione della Santa Sede, l’istituzione diocesana divenne un importante centro d’informazione in raccordo con la Segreteria di Stato per avere notizie su prigionieri, dispersi e caduti. Ma anche perché, agli occhi dei fedeli, il pastore della diocesi raffigurava una sorta di simbolo di continuità a cui ancorarsi in mezzo alla centrifuga di cambiamenti che accompagnavano gli eventi di quei mesi.

Nella testimonianza di don Giovanni Balzini – l’economo delle cattedrale che con lui visse a Montenero negli anni di guerra – si ricordava che Piccioni, spesso servendosi del passaggio di camion militari, visitava gli sfollati «nei diversi paesi della diocesi, e nei paesi extradiocesi dove più numerosi erano i livornesi». Solo dal maggio al luglio 1943 Piccioni si recò a trovare gli sfollati a Castelnuovo della Misericordia, Gabbro, Quercianella, S. Martino in Parrana, Castell’Anselmo, Nugola, Guasticce per poi arrischiarsi nei mesi successivi anche fuori dal territorio diocesano. In occasione dei suoi avventurosi viaggi Piccioni non mancava di organizzare particolari celebrazioni: ne dà testimonianza l’allestimento della «Giornata degli sfollati» che il presule volle fosse celebrata nei comuni di Castelfranco di Sotto e S. Romano (Pisa), in diocesi di San Miniato, in occasione della sua visita del 5-6 settembre 1943.

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

Oltre a impegnarsi in questo ministero itinerante il vescovo fece in modo poi che la sua Chiesa restasse comunque visibilmente vicina ai pochi livornesi che decisero di sfidare i bombardamenti e le angustie dell’occupazione tedesca rimanendo in città. Da un lato Piccioni, come scrisse sul suo diario, fece in modo di essere sempre vicino alla popolazione nei momenti più tragici con visite agli ospedali e periodiche incursioni nelle parrocchie dei vicariati suburbani, ma pretese anche che le poche chiese rimaste illese al di là della zona nera continuassero a restare aperte e a garantire, per quanto possibile, i normali servizi liturgici e religiosi. Questo orientamento fu deciso in un’adunanza del clero che il vescovo convocò il 6 novembre 1943 a Montenero, a pochi giorni dall’ordine di sgombero completo del centro cittadino: in quell’occasione fu deliberato di assicurare la continuità del servizio nelle due grandi chiese di S. Maria del Soccorso in piazza della Vittoria e del Sacro Cuore (la parrocchia dei salesiani vicina alla stazione) e nella piccola chiesetta di N. S. del Rosario, allora in via delle Siepi.

È da notare poi che l’intervento pastorale di Piccioni tra gli sfollati si puntellava su precisi fondamenti dottrinali. In linea con l’atteggiamento generale dell’episcopato, i temi e il linguaggio del vescovo si incardinavano sul topos classico della guerra intesa come «castigo divino»: il conflitto presente, dicevano a una voce i presuli italiani, non era altro che una punizione, di dimensioni bibliche, che il Signore aveva consentito data la dilagante immoralità e il crescente distacco dell’umanità dalle leggi iscritte nella natura stessa dell’uomo. Parallelamente si faceva così sempre più spesso appello alla sobrietà dei costumi e alla penitenza con denunce dai toni accorati e anche esagerati contro la moda e gli spettacoli immorali. Anche la circolare che il vescovo Piccioni scriveva Agli sfollati nell’estate del 1943 è esemplare al riguardo. Dopo il breve preambolo nel quale prometteva di andare a trovare i livornesi nei luoghi dove erano più numerosi, il presule si soffermava lungamente nell’invitare gli sfollati alla penitenza, connettendo evidentemente i disagi provocati dalla guerra anche alla condotta immorale degli uomini. «So e conosco – scriveva il Vescovo – i disagi materiali, le vostre ansie, i vostri dolori – scriveva il vescovo – e anche le difficoltà morali e i pericoli che un improvviso cambiamento di vita produce. Ma non sia questa una nuova occasione di peccato; sia invece un motivo per tutti di fuggire il male, per molti di proporsi e d’incominciare una vita meno frivola, più seria, più utile al prossimo».

*Gianluca della Maggiore è dottore di ricerca in Storia. Collabora con l’Università degli studi di Milano nell’ambito del PRIN “I cattolici e il cinema in Italia tra gli anni ’40 e gli anni ’70”. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa di cinema, Resistenza e movimenti politici. Tra i suoi ultimi saggi Una diocesi sfollata. La Chiesa di Livorno tra innovazioni pastorali e reti di assistenza (1943-1944), in Spaesamenti. Antifascismo, deportazione e clero in provincia di Livorno, a cura dell’Istoreco Livorno, Ets, Pisa 2015, di cui questo articolo rappresenta un breve stralcio.

 

 

 

 

 




La potenza creativa dell’azione violenta

Le prime sporadiche apparizioni del fascismo a Pistoia cominciarono nell’autunno del 1920.  In città le elezioni amministrative, tenutesi nell’ottobre, avevano segnato, come in molte altre zone del Paese, una netta affermazione dei socialisti, che si aggiudicarono nel capoluogo del circondario la metà dei seggi nel consiglio comunale. I socialisti vincevano anche nei comuni vicini, a prevalenza contadina, di Larciano e Lamporecchio e in quelli montani di San Marcello e Sambuca, mentre i popolari prendevano le zone agricole di Montale, Agliana, Tizzana e il comune montano di Marliana. La vecchia classe dirigente liberale veniva scalzata dalle sue posizioni consolidate. Pistoia nei mesi precedenti aveva vissuto i moti del caroviveri come il resto della Toscana, nonché aspri conflitti agrari e l’occupazione delle fabbriche come altrove in Italia. Nonostante nel tardo autunno del 1920 sia il movimento socialista che quello popolare fossero già entrati in una fase di riflusso, la “grande paura” fece sentire i suoi effetti nei ceti agiati unendosi ai sentimenti di rivalsa conseguenti alla sconfitta elettorale, aprendo quel cruciale spazio di azione ai fascisti all’interno del quale si sviluppò il loro l’insediamento, in maniera analoga a quanto messo più volte in luce dalla storiografia per tante altre zone.

I primissimi fascisti si organizzarono a Pistoia attraverso un reduce, il maggiore Nereo Nesi, e nella zona di Larciano intorno a Idalberto Targioni, un ex socialista, tra i fondatori della Camera del Lavoro, protagonista di una parabola tipica di molti fascisti e dello stesso Mussolini. Interventista nel 1915, il 29 marzo del ’19, a meno di una settimana dalla fondazione dei Fasci di combattimento a Milano, su «Il popolo pistoiese» – giornale dei liberali e presto fiancheggiatore del fascismo – sosteneva il suo credo nella «potenza creativa dell’azione che afferra l’essere in via di formazione e che la violenza generi uno stato epico ed eroico. […] Se i governi non risolveranno gli ardui problemi che stanno oggi sul tappeto della storia, se non li risolveranno nel modo più equo e giusto per tutti e segnatamente per le classi lavoratrici, allora sarà giunto il momento di passare all’azione diretta. Ma vedete: allora, voi che oggi vi scalmanate tanto, sareste i primi a far contro ai rivoluzionari e a scappare a gambe levate!»

Questo fascismo, dai caratteri reducistici e rivoluzionari, compiva alcune iniziali e sporadiche azioni nell’ottobre-novembre del 1920. La prima notizia certa della presenza di un fascismo organizzato a Pistoia arrivò subito dopo e sottotono, in un trafiletto su «Il popolo pistoiese» del 25 dicembre che riportava l’invito del Fascio di combattimento, in occasione della commemorazione di Oberdan, ad esporre il vessillo nazionale, preoccupandosi comunque di ricordare che nel comizio avvenuto alla Fratellanza Artigiana non erano avvenuti incidenti.

Come altrove, i fascisti fiorentini non tardarono a fornire il loro appoggio strutturato al nascente squadrismo pistoiese. Il 7 gennaio 1921 si diffondeva un primo allarme che preannunciava l’arrivo di una spedizione da fuori, secondo una prassi tipica delle azioni squadristiche, mentre «Il popolo pistoiese» rassicurava sulle buone intenzioni dei fascisti pistoiesi, non interessati a creare disordini ma pronti a «rintuzzare le provocazioni con coraggio e di rispondere alla violenza con la violenza». La spedizione del 7 alla fine non avvenne, ma nel mese di gennaio i fascisti provocavano una rissa nella zona vicina di Pieve a Nievole, in direzione di Lucca, e due bombe scoppiavano, una in città e una sulla linea ferroviaria Porrettana.
Il 22 gennaio infine si costituiva ufficialmente il Fascio  pistoiese. Un mese dopo, il 20 febbraio, arrivava il battesimo del fuoco. La Camera del Lavoro pistoiese aveva organizzato un comizio in piazza Garibaldi, a cui doveva parlare il segretario Onorato Damen. Rincalzati da una quarantina di fascisti fiorentini e da altri provenienti da Monsummano e Pescia, gli squadristi pistoiesi radunarono un centinaio di uomini con l’intento di recarsi in piazza, chiedere un contraddittorio per interrompere il comizio e provocare incidenti. La forza pubblica in questa prima occasione fece il suo dovere impedendo ai fascisti di raggiungere la piazza, che comunque si spopolò alla vista delle squadre nelle vicinanze. Alla fine della manifestazione i fascisti, con il consenso della autorità, si impossessarono simbolicamente del palco, tennero un comizio e poi sfilarono in corteo nel centro cittadino cantando i loro inni. La messa in scena scenografica tipica della conquista del territorio veniva messa in pratica nonostante in quella prima occasione fosse mancata la forza di arrivare a uno scontro diretto. Tuttavia, prima di ritirarsi, gli squadristi raggiunsero in treno Corbezzi, provocando tafferugli nelle stazioni attraversate lungo il tragitto. Nel paese di montagna si procedeva alla bastonatura dei “sovversivi” per poi tornare a piedi verso la città, con i trofei presi agli avversari e continuando a provocare incidenti nelle frazioni di Valdibrana e Capostrada, dove i fascisti spararono anche alcuni colpi di rivoltella. In ultimo, prima di rientrare a Firenze, gli squadristi fiorentini attaccarono i ferrovieri socialisti nella stazione del capoluogo.

La prima spedizione era compiuta, il Fascio costituito e radicato, il morale elevato. Iniziava l’epoca della violenza squadrista organizzata a Pistoia.

 

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientaleUna passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.