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Livorno 1919: fra tumulti e rivoluzione

La Grande guerra è finita da pochi mesi ma, nella primavera del 1919, il precipitare del disagio economico sembra riportare la conflittualità di larghi settori popolari alla rivolta per la mancanza di viveri avvenuta a Torino nell’agosto 1917. Il prezzo di tutti i generi di prima necessità, dal cibo al vestiario, è rapidamente salito a livelli insostenibili per la classe lavoratrice che avverte l’inadeguatezza delle rivendicazioni salariali nella rincorsa del valore di acquisto del danaro. In particolare, nei primi mesi del 1919, avviene un ulteriore brusco rialzo dei prezzi; rispetto al 1914, i prezzi dei generi di consumo popolare  risultano aumentati in tre anni del 300%.

Persino la neonata Confederazione Generale dell’Industria Italiana, presagendo che tale questione può innescare gravi conseguenze, all’inizio di giugno presenta al governo una richiesta affinchè fornisca i più importanti generi alimentari, come il pane, a prezzi popolari senza tener conto del costo di produzione (cfr. R. Sarti, 1977). Nel mese di giugno, da La Spezia si estende ed esplode una prima ondata di moti contro il caroviveri, dalla Liguria alla Lunigiana e alla Versilia; quindi l’agitazione si riaccende alla fine del mese, a partire dalla Romagna, raggiungendo la sua massima intensità nella prima settimana di luglio.

In Toscana è il tempo del bolscevismo o del Bocci-Bocci, deformazione linguistica popolare che unisce il termine bolscevismo con l’espressione fiorentina «fare i cocci» che sta per rompere tutto (cfr. A. Pescarolo,  G.B. Ravenni, 1991; R. Bianchi, 2001). Nonostante tale richiamo rivoluzionario e gli intenti delle “avanguardie”, in realtà, «massimalisti e anarchici si trovano piuttosto a “rincorrere” le azioni di folla per tutto l’anno» (cfr. R. Bianchi, 2006). Infatti, i socialisti ne prendono le distanze; se per Amedeo Bordiga, a capo della frazione intransigente del Partito socialista: «il concetto dell’espropriazione simultanea all’insurrezione ed attuata capricciosamente da individui o gruppi, implicito nella frase di “sciopero espropriatore” è un concetto anarcoide, che nulla ha di rivoluzionario» («Avanti!», 20 luglio 1919), per la corrente riformista, per bocca di Claudio Treves al Congresso socialista di Bologna, «si tratta di masse guidate più dallo spirito di Masaniello che da quello di Marx».

Tabella (2)Anche a Livorno, da settimane, agli scioperi riguardanti diverse categorie – tipografi, portuali, scaricatori, tessili, impiegati del settore privato, insegnanti, dipendenti comunali… – si andava sommando l’agitazione sociale, a partire dal prezzo dei beni essenziali per l’alimentazione delle famiglie proletarie, in una sovrapposizione di linguaggi e pratiche (cfr. R. Bianchi, 2014). La protesta contro il carovita fuoriesce dalle fabbriche e dagli altri luoghi di lavoro. È opinione diffusa che l’attesa operaia per una sorta di scala mobile sia insufficiente e si ritengono inadeguate le rivendicazioni sindacali, mentre le tensioni scoppiate al mercato centrale confermano la rilevanza di settori di classe con una cultura politica segnata più dal sovversivismo di origine repubblicana e anarchica, che dal socialismo riformista di Modigliani. Cominciano i repubblicani con una riunione, alla fine di maggio, del loro Comitato di azione sociale, presso la sede della Unione Magistrale, presieduta da Cesare Tevené. Vi partecipano i rappresentanti delle leghe operaie e di numerose organizzazioni popolari. Viene decisa la costituzione di un Comitato d’agitazione contro il caro viveri, formato dai rappresentanti dei sodalizi locali di ogni tendenza politica. Si mira ad un prestito, da chiedere al governo per l’acquisto di derrate alimentari da lanciarsi sui mercati e si prospettano vendite senza intermediari. Qualche giorno dopo, si tiene una nuova riunione per nominare il comitato direttivo coi rappresentanti di ogni struttura aderente e per designare una giunta esecutiva di sette persone: Adolfo Minghi, Amleto Bazzoni, Francesco Silici, Ezio Cagliata, Alfredo Fiorini, Gualtiero Corsi e Gastone Mannucci (cfr. V. Marchi, 1973). Particolarmente significativa appare la figura di quest’ultimo: classe 1874, facchino, repubblicano intransigente e affiliato alla massoneria, detto Libeccino, abitante in via Eugenia; già attivo interventista nel 1915, poi dal 1923 esule antifascista con la famiglia in Francia (ACS, CPC, fasc. 58576).

Intanto nella cittadinanza cresce il malumore, ma la Camera del lavoro tarda a comprendere l’evolversi del risentimento popolare e stenta a reagire di fronte alle drammatiche notizie provenienti da La Spezia dove ci sono stati due morti e sette feriti tra i manifestanti. Scoppiano quindi, spontaneamente, i primi tumulti al mercato centrale, detto “delle vettovaglie”: le donne protestano clamorosamente davanti ai banchi, anche con colluttazioni con gli esercenti.

Il neonato Comitato di agitazione contro il caro-viveri è presto abbandonato dalle Leghe operaie di orientamento socialista che spingono per una più decisa «azione politica» a livello nazionale.

Malgrado la scissione, il Comitato repubblicano d’azione sociale prosegue la sua attività. Il 14 giugno c’è una adunanza alla “Fratellanza Artigiana” presieduta dal ferroviere Gino Reggioli – segretario Gastone Mannucci – «per una azione energica che, al di sopra di tutti i partiti, unisca tutti i consumatori nella lotta santa contro gli affamatori» («La Gazzetta Livornese», 13-14 giugno 1919). Vi aderiscono il sindacato ferrovieri, la cooperativa ferroviaria, la cooperativa mutuo soccorso operai cementisti, i pensionati ferrovieri, la Federazione nazionale ufficiali della riserva, l’Associazione nazionale dei combattenti, la cooperativa Alleanza, la Garibaldini e reduci, la Società cooperativa maestri d’ascia e calafati, il Fascio d’azione sociale, le cooperative Attività, Unione ferroviaria, Indipendenza, Mercantile, Privativa, la Società scaricatori dei marmi della stazione marittima, la cooperativa Ordine e Lavoro, la Società infermieri e infermiere, il Sindacato tramvieri, l’Associazione mutilati ed invalidi, gli avventizi ferroviari, la Società mutuo soccorso navicellai, la Lega lavoranti fornai, la Lega spazzini municipali, la Cooperativa tiraggio e rinfusi, la Federazione operaia farmacisti. Nella riunione si nomina una commissione di venti persone per la stesura di un programma «di azione radicale ed energica» e una decina di giorni dopo il Comitato viene ricevuto dal Prefetto, ottenendo l’impegno per un ribasso dei prezzi e l’adozione di un tariffario con i massimali per i generi alimentari. Viene anche annunciata l’attivazione di un calmiere su ortaggi e frutta («La Gazzetta Livornese», 27-28 giugno 1919).

Intanto l’assemblea delle Leghe operaie in un suo ordine del giorno ritiene ancora «non opportuno lo sciopero generale per protesta contro il caro-viveri, mentre il consiglio delle Leghe è pronto a rispondere all’appello della Confederazione del lavoro per uno sciopero politico». Intanto, alla fine di giugno i tramvieri entrano in sciopero contro il rialzo dei prezzi. Viene istituito il «calmiere del popolo»: consumatori ed acquirenti stabiliscono spontaneamente il prezzo che dovranno avere le merci giorno per giorno; ma i negozianti cominciano a sottrarre i prodotti, oppure, quando accettano il prezzo del calmiere, subito rimangono senza scorte.

 5 LUGLIO

 telegrafo_5LuglioNella Cronaca della città, su «Il Telegrafo» del 4 luglio 1919, si apprende che presso i Regi Bagni Pancaldi sono cominciati i concerti diurni e notturni, senza alcun aumento del prezzo d’ingresso. Poco sopra questo rassicurante trafiletto viene però riportata la notizia che «l’ufficio municipale annonario fa del suo meglio onde arginare l’ingordigia degli speculatori e per imporre l’obbedienza ai regolamenti e ai calmieri» e che sette esercenti sono stati «denunziati all’Autorità giudiziaria» per aver venduto merce a prezzi superiori a quelli previsti e per altre irregolarità. Nello stesso giorno, il Prefetto informa che il governo ha disposto una risibile riduzione del prezzo della carne congelata di Lire 1,50 al chilo. Si arriva così a sabato 5 luglio, in una situazione già tesa, mentre giungono notizie di sommosse in altre città.

Come nel maggio 1898, quando popolane e cenciaine avevano dato l’assalto ai forni, di nuovo le donne sono le prime a prendere l’iniziativa, affiancate da alcuni soldati: attorno a mezzogiorno c’è una prima irruzione nel negozio di calzature di lusso “Varese” di via Vittorio Emanuele [l’attuale via Grande], dove i prezzi non erano stati ribassati: «direttore e commessi del negozio, impossibilitati a contenere la valanga umana, sono rimasti muti e tremanti spettatori della scena» («Il Telegrafo», 6 luglio 1919). Al diffondersi della notizia dell’accaduto, nel pomeriggio sono prese d’assalto le botteghe di Borgo Cappuccini: «erano gruppi di uomini decisi a tutto, erano donne e ragazzi che si pigiavano dinanzi alle saracinesche e agli usci», mentre «molte persone assistevano passivamente ai saccheggi a breve distanza». Le forze dell’ordine evitano d’intervenire, anche per la presenza di soldati tra la folla, attenendosi alle disposizioni del Prefetto che, evidentemente, ritiene controproducente un’immediata repressione. Da Borgo Cappuccini, la sommossa si sposta sul lungomare, in direzione dell’Ardenza, con «saccheggi e requisizioni in ogni arteria, in ogni strada»; i negozianti reagiscono chiudendo le botteghe, ma avvengono anche incidenti, sassaiole e sparatorie: «sarebbe opera vana e… ciclopica diffonderci ad enumerare tutti i negozi assaltati e razziati. Il numero è di essi assai alto»; almeno una trentina solo quelli segnalati nelle cronache cittadine («La Gazzetta Livornese», 7-8, luglio 1919). Alla fine della giornata si contano una quindicina di feriti, tra cui quattro fra le forze dell’ordine.

Nel tentativo di arginare e gestire la situazione la Camera del lavoro – in contatto col sindaco Rosolino Orlando – si assume la responsabilità della requisizione collettiva. Tra l’una e le cinque del pomeriggio, mentre uno sciopero non-dichiarato sta bloccando la città, squadre di giovani aderenti, seguendo le direttive camerali, rastrellano merci nei negozi, immagazzinandole nei vari centri di raccolta allestiti presso il Teatro S. Marco, già ridotto a deposito durante la guerra; il mercato centrale; la Camera del lavoro, la sede dell’Unione repubblicana e la sezione socialista in piazza S. Jacopo, per ridistribuirli alla popolazione a prezzi calmierati. All’Ardenza si registrano alcuni espropri, ma nel borgo sovversivo l’agitazione appare sostanzialmente in mano alla sezione socialista e al gruppo anarchico, nonché della sezione della Camera del lavoro che stipula direttamente con i commercianti ardenzini, disponibili ad un «concordato collettivo» per il ribasso dei prezzi, in linea con l’ordinanza del Comune di Livorno. Nella serata, si tiene un comizio in via del Pastore tenuto dal muratore socialista Giovanni Cerri e dal noto esponente anarchico “Amedeo” (Adolfo) Boschi; viene approvato un ordine del giorno nel quale sta scritto: «Il popolo dell’Ardenza […] mentre saluta il risorgere della energia proletaria, che sembrava fiaccata dall’orribile guerra […] e mentre manda il saluto augurale ai rivoluzionari di Russia, di Ungheria e di Germania, rileva che la crisi economica che oggi affama i popoli non dipende dalla sola ingordigia dei ladri grossi e piccoli del commercio, ma è insita in tutto il sistema sociale vigente, che trova la sua base sulla proprietà privata, e invita perciò i fratelli operai a pensare che la totale emancipazione dei lavoratori non avverrà finchè tutto non sarà di tutti, finchè non si effettuerà il motto «chi non lavora non mangia» (R.Bianchi, 2001). La stessa risoluzione viene approvata a Piombino il giorno seguente in un comizio organizzato dall’Unione Sindacale Italiana (cfr. P. Bianconi, 1970), nel tentativo anarco-sindacalista di indirizzare il malcontento popolare verso uno sciopero che sviluppi un movimento rivoluzionario per rovesciare l’ordine economico e politico del paese.

 6 LUGLIO

 «L’insurrezione contro gli affamatori si va estendendo in tutta Italia»: questo il titolo in prima del quotidiano socialista «Avanti!» di domenica 6 luglio.

A Livorno, «gli eventi sfuggirono [anche] dalle mani di Boschi, in quanto la folla dimostrò di non essere disposta a sottomettersi alle direttive politiche degli anarchici più di quanto lo fosse a quelle socialiste […] Il Mercato centrale, nel quale erano state depositate le derrate alimentari per essere vendute al pubblico, venne saccheggiato soprattutto da donne e bambini e le merci, invece che vendute, vennero trafugate» (T. Abse, 1990). Nella notte, invece, era stata invasa l’elegante trattoria “La Casina Rossa” nella centrale via Vittorio Emanuele; tra i diversi denunciati per tale espropriazione figura anche Bruno Piccioli, un caporal maggiore fiorentino che aveva disertato dalla caserma di marittima, sede dell’88° reggimento fanteria.

Nel pomeriggio, la presenza in città di polizia, carabinieri e militari si fa più consistente, anche se prudente: «reparti di truppa dislocati nei vari punti della città, un via vai di camions colle mitragliatrici» («La Gazzetta Livornese», 7-8 luglio 1919). La stampa locale riferisce di un primo gruppo di 36 arrestati (25 per saccheggio, 1 per porto di coltello, 4 per eccitamento alla disobbedienza alla legge, 5 per oltraggio e resistenza alla forza pubblica), «tra cui noti ladri e altrettanto noti sovversivi» (T. ABSE). Viene riferito che vi sono «tra gli arrestati individui accusati di grida sediziose di propaganda sovvertitrice. Fra essi è un giovanotto che sabato sera mostrava un cencio rosso ai militari invitandoli a inneggiare al comunismo e bolscevismo». Tale Goffredo Angarelli è accusato di «oltraggio con vie di fatto nei confronti del capitano comandante il corpo delle Guardie di città» («La Gazzetta Livornese», 7-8, 8-9 luglio 1919). Si apprende pure dell’arrivo in città, proveniente da Udine, di un battaglione di “Bersaglieri mitragliatori”, temporaneamente acquartierati presso le scuole Benci.

Nelle stesse ore, si tiene una riunione allargata in Municipio. Da parte sua il Comune ordina la riduzione del 50% sui prezzi dei generi compresi nel calmiere e del 70% sugli altri. Nei fatti è la Camera del Lavoro che, dal giorno prima, cerca di coordinare la requisizione e la vendita a prezzi calmierati dei prodotti, fornendo ai negozianti cartelli informativi da affiggere fuori dai loro esercizi, al fine di proteggerli dall’esasperazione popolare. Molti negozianti decidono volontariamente di consegnare le chiavi alla Camera del lavoro. Quando i cartelli affissi non recano il timbro camerale i negozi vengono depredati o requisiti, ma talvolta non c’è avviso o timbro sufficienti per fermare gli espropri più o meno selvaggi, come avviene per una salsamenteria in via Cairoli, pur aderente al calmiere.

Carabinieri e bersaglieri intervenuti sul posto eseguono 14 arresti; risultano asportati prosciutti, salami, formaggi, scatolame ed anche soldi, per un danno denunciato di L. 20.000 («La Gazzetta Livornese», 24-25 luglio 1919). Svuotati sono pure i magazzini sugli Scali del Pesce, quelli dei Bottini dell’Olio, affittati dal municipio ai grossisti e agli importatori, i fondi dei grossisti di via della Posta, i depositi di vino e liquori di via Cairoli, nonostante la vicinanza della caserma di PS. Saccheggiato anche il magazzino comunale dell’Ente autonomo dei consumi in via del Vescovado, già requisito per depositi. Impossibile fermare la moltitudine: «gli addetti della Camera del lavoro invano si opposero allo scempio». Secondo un primo rapporto del Prefetto «furono vuotati 53 magazzini, contenenti in maggior parte vini, oli, formaggi e qualcuno tessuti, calzature e simili, per un valore complessivo approssimativo di circa 800.000 lire, a quanto hanno dichiarato i danneggiati». Prosegue intanto la requisizione gestita dalle organizzazioni politiche e sindacali: per il trasporto della merce vengono usati camion, barrocci ed anche auto private requisite a ricchi imprenditori, quali Orlando, Corradini, Rosselli, Folena, Guidi. Davanti alla Camera del lavoro, «c’è grande animazione. Sono squadre di giovani muniti di bracciale rosso che vanno e vengono e che salgono e che scendono da automobili e camions. Le squadre ricevono ordini e si allontanano sulle locomobili». Al teatro S. Marco, dove i giornalisti non sono graditi, sventolano la bandiera rosso-nera della Federazione Socialista e un drappo nero degli anarchici (R. Marchi, 1973); su l’«Avanti!» si legge, non senza enfasi, che «Livorno è in mano ai soviet del popolo». Molte trattorie “alla carta” e caffé di lusso continuano ad essere depredati da una folla eterogenea, nonostante che la Camera del lavoro cerchi di mantenere il controllo nelle strade per evitare altri atti di vandalismo.

 7 – 8 LUGLIO

telegrafo_8luglioPrendendo atto della situazione, per l’indomani, la Camera del lavoro proclama lo sciopero generale e sollecita l’intervento delle autorità governative per un urgente approvvigionamento di viveri. Lo sciopero, secondo la CdL, deve però terminare a mezzanotte del 7 luglio, anche se i portuali, tra i quali è forte la presenza anarchica, lo prolungano sino a martedì 8. Nello stesso giorno sui muri appare un manifesto ai cittadini della Giunta esecutiva della CdL nel tentativo di riprendere in mano la situazione:

Le organizzazioni operaie vi approvano e sono al vostro fianco ed in vostro nome i rappresentanti della Camera del lavoro hanno fatto sentire la vostra parola e fatto valere i vostri propositi di fronte all’autorità. Così è stato deliberato che le merci dei negozi, le cui chiavi sono state consegnate alla Camera del lavoro ed al municipio, debbono essere considerati requisiti […] Voi potete essere contenti di quanto avete ottenuto ed appunto perciò dovete vigilare che gli impegni dell’autorità siano eseguiti subito ed interamente e che elementi spuri non sfruttino per privata ingordigia il grandioso movimento del popolo.
Quindi sospendete le requisizioni!

Al termine dell’agitazione si fa sentire anche il movimento popolare cattolico: l’esecutivo del PPI  commenta che «la sommossa recente è diretta e logica conseguenza di una colposa diuturna trascuratezza del governo». Aggiunge che «lo sciopero non può bastare nello scatto del risentimento popolare per quanto giustificato […] Questo del caro-viveri è problema complesso determinato da cause e fattori molteplici che non hanno carattere locale ma nazionale ed internazionale». I cattolici non vanno oltre questa genericità e l’indicazione di alcuni rimedi di ordine generale, «ad onta e al di sopra di tutte le resistenze burocratiche e dei gruppi interessati che sono i veri affamatori del popolo».

I repubblicani, vedendo il loro operato sconfessato dalle pratiche collettive illegali, accusano le «autorità governative e comunali», deplorando che «il giusto malcontento popolare si trasformi in semplici tumulti caotici, che i saccheggi e le devastazioni allontanino il trionfo della rivoluzione» («Il Dovere», 6 luglio 1919).

I dirigenti della Camera del lavoro e del Partito socialista, da parte loro, più pragmaticamente, hanno cercato di controllare e politicizzare la spontanea ribellione popolare «livellando così il movimento per rappresentarlo, garantire un nuovo tipo di ordine pubblico, governare la politica annonaria» (R. Bianchi, 2001).

La Camera del lavoro, in un manifesto rivolto ai lavoratori, cerca quindi di far rientrare i moti in una prospettiva emancipatrice di lungo periodo: «Ricordatevi della vostra forza; se pensate anche, che se vorrete essere gli eredi della società che vi opprime bisognerà che sappiate essere non solo forti, ma anche capaci di dirigere il nuovo ordinamento sociale» (cfr. N. Badaloni, F. Pieroni Bortolotti, 1977).

Anche la Federazione Socialista, con evidente allusione polemica con i repubblicani per il loro recente interventismo, appare sulla stessa linea “di responsabilità”:

Lavoratori, il caroviveri è una conseguenza della guerra; quelli che si fanno paladini dei vostri interessi esigendone la diminuzione immediata, sapendo che tale rimedio esula dalle loro possibilità, vi tradiscono. Essi che furono i maggiori responsabilità del macello immane e della rovina della ricchezza sociale, devono tacere. Il rimedio a tutti i mali non si trova assaltando i negozi, che è effimero,, ma assaltando la diligenza borghese che già corre traballando verso la perdizione («La Parola dei Socialisti», 13 luglio 1919).

In altre parole, la dirigenza socialista – locale e nazionale – dopo aver sottovalutato l’occasione dei moti ed anzi operato per il ritorno alla legalità, depotenziando il movimento di protesta, mira ad incanalare politicamente le residue tensioni, a partire dallo sciopero generale internazionale indetto per il 20 e 21 luglio contro la posizione ostile del governo italiano nei riguardi delle rivoluzioni socialiste.

Significativo anche il comunicato della sezione livornese dell’Associazione nazionale fra mutilati e invalidi di guerra in cui viene promesso tutto l’appoggio «ad ogni buona, giusta e pratica azione popolare, che sia di riparo al mal Governo dei pubblici poteri» («La Gazzetta Livornese», 8-9 luglio 1919).

Il Fascio liberale rivolge invece ai cittadini un appello interclassista: «il male prodotto dai disordini di questi giorni chiede rimedio urgente, mentre si impone la necessità di scongiurare l’approssimarsi dello spettro della fame che colpirebbe poveri e ricchi, borghesi e proletari» (cfr. V. Marchi, 1973); ma finanche il direttore de «Il Telegrafo», quotidiano di notoria impostazione borghese, deve ammettere:

Anche il popolo di Livorno – seguendo l’esempio di altre città consorelle – ha tentato di sciogliere da se stesso il problema spasmodico del caro viveri, visto e considerato che il Governo nuovo, come il vecchio, continuava a trastullarlo con le solite promesse ed a consentire agli affamatori i più ignobili arbitrî e le più sfacciate sfide alla longanimità collettiva (cfr. R. Cecchini, 1993).

Il 10 luglio – giovedì – il Prefetto ordina la requisizione dei generi alimentari e il Questore  l’arresto dei commercianti che l’ostacolano o che vendono a prezzi non concordati. Ai proprietari vengono rilasciate “ricevute” firmate da sindaco e Prefetto che si assumono la responsabilità della requisizione e della vendita alla cittadinanza a prezzi fissi, resi noti tramite un manifesto.

Al fine di prevenire nuovi tumulti, il governo – su sollecitazione dell’on. Modigliani e tramite il ministro Murialdi – ordina al Prefetto di Pisa di far destinare parte dei viveri disponibili nella sua provincia a quella di Livorno per le più critiche condizioni in cui versa.




Una protesta piccola piccola: i disordini per l’imposta sul vino a Barberino Val d’Elsa (1919-20)

Il 1919, primo anno di pace dopo «l’inutile strage», si presentò agli occhi della popolazione italiana carico di aspettative e speranze. La guerra si era conclusa vittoriosamente ma aveva aperto e rivelato notevoli problematiche tra le maglie del tessuto sociale del Paese. In particolare, nell’immediato dopoguerra i problemi posti dalla riconversione economica si sovrapposero alle richieste della popolazione facendo emergere la fragilità dello Stato liberale sia sul piano delle relazioni interne, con una vera e propria crisi istituzionale, sia nel più generale rapporto tra istituzioni e società. L’apice della tensione sociale prodotta dalla fine della guerra mostrò la sua immagine nell’estate di quel primo e tanto agognato periodo di pace. La questione annonaria, ancora una volta, costituì uno dei temi principali dello scontro politico-sociale nelle vie e nelle piazze di un paese uscito altresì vincitore dalla guerra. In questo contesto la Toscana si distinse proprio come la regione dove i moti si manifestarono con un’intensità e un vigore unico nel panorama della penisola sconvolta dalle rivolte[1].

A Barberino Val d’Elsa – piccolo centro valdelsano che all’indomani della Grande guerra poteva contare una popolazione di 5.862 abitanti, situato a metà strada tra Firenze e Siena, tra le valli d’Elsa e di Pesa –, le prime avvisaglie del malcontento sociale si manifestarono verso la fine dell’estate 1919. Alfredo Bazzani, agente della locale fattoria Guicciardini – che due mesi prima, nel pieno delle proteste del «bocci-bocci», si era compiaciuto per il fallimento dello “scioperissimo” indetto in difesa delle rivoluzioni in Russia e Ungheria –, il 17 settembre, scrivendo alla contessa Guicciardini, esprimeva le sue più vive preoccupazioni perché «i contadini colla nuova tassa sul vino sono agitatissimi, e male si giunge a persuaderli»[2].

Barberino 1908

Barberino Val d’Elsa ai primi del Novecento (Archivio Mario Forconi)

La tassa sul vino a cui l’agente faceva riferimento era rappresentata dal Regio decreto n. 1635 del 2 settembre 1919. L’Imposta straordinaria sul vino prevedeva che ogni «piccolo proprietario coltivatore, colono, mezzadro od affittuario[3] del fondo da cui il vino stesso prov[enisse]» ne avrebbe dovuto fare denuncia al comune di residenza in modo tale che questo avesse poi provveduto ad applicare l’imposta sullo stesso prodotto. Già duramente colpite da un’invasione di fillossera – un piccolo parassita della vite che provoca in breve tempo gravi danni alle radici e la conseguente morte della pianta attaccata – che aveva danneggiato irrimediabilmente la produzione vinicola, le comunità rurali iniziarono a osteggiare fortemente la tassa, nonostante questa prevedesse l’esenzione di 3 ettolitri per famiglia – quantitativo tuttavia ritenuto insufficiente per il fabbisogno annuo delle famiglie. A Barberino il turbamento della popolazione iniziò a farsi più evidente verso la fine di quell’anno quando Cesare Cianferoni, assessore anziano del comune e membro della locale commissione annonaria, comunicò al sindaco Giovanni Chiostri che, in occasione della riscossione dell’imposta, «contadini tutti ed agenti del Comune si riuniscono nel Capoluogo per fare protesta solenne energica contro [il] provvedimento [di] requisizione e [la] tassa [sul] vino»[4].

La protesta assunse una caratteristica peculiare per la sua capacità di coinvolgere verticalmente strati diversi della popolazione: in un primo momento infatti – visto il danno economico che inevitabilmente si sarebbe ripercosso sulle casse dei grandi proprietari terrieri – fu spalleggiata dalla classe dirigente locale, tanto che la stessa Commissione rappresentante le autorità municipali del mandamento di San Casciano, i proprietari e i coloni produttori, deliberò di «opporsi con energia» alla disposta requisizione del 50% del vino prodotto[5]. Va sottolineato però che il connubio tra élite locali e popolazione durò poco. Il protrarsi della protesta, con l’inedita partecipazione dei coloni che fino a quel momento erano rimasti assolutamente ai margini della vita politica – spinti probabilmente dalle agitazioni contadine che nella zona stavano contestando gli agrari per i ritardi nell’attuazione dei nuovi patti colonici[6] –, fece mutare radicalmente gli atteggiamenti della classe dirigente, e se in un primo momento il malcontento della popolazione fu quantomeno spalleggiato, quando questa diede adito nel marzo 1920 ad una

agitazione gravissima restituendo in segno di protesta le cartelle relative al pagamento dell’imposta stessa, appendendole alla porta dell’esattoria municipale in presenza di tre impotenti agenti di pubblica sicurezza[7]

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Fascicolo contenente documentazione riguardante affari annonari (Archivio storico del Comune di Barberino Val d’Elsa)

l’amministrazione comunale decise di passare a politiche più energiche. Ciò che colpì di questa prima protesta a Barberino Val d’Elsa fu l’ostinatezza dei coloni che, anche se ammoniti dal sindaco – «nessuno dimentichi i propri doveri, ciascuno ricordi la necessità di mantenere la calma e di rispettare la legge»[8] –, e sotto la minaccia d’attuare «atti esecutivi»[9], proseguirono nelle agitazioni adducendo come principale motivazione la seguente istanza

Venuti a conoscenza della imposta sul vino protestano contro quale tassa ingiusta, facendo osservare alla S. V. Ill.ma che il raccolto del vino non è capitale ricavato dal commercio, ma è retribuzione ricavata dal lavoro manuale di tutta la famiglia colonica, facendo osservare a questa imposta si aggiunge ancora maggiore lamento su la requisizione del vino a prezzo di calmiere anch’esso gravato dalla tassa succitata. È puramente ingiusto quel Decreto Prefettizio ove vieta il libero commercio sul vino[10].

Vedendosi, per la prima volta, esautorato nella propria “autonomia politico-gestionale”, e temendo un degenerare delle azioni di protesta che altrove stavano infiammando la regione[11], il sindaco decise di richiedere al prefetto l’invio dei carabinieri per ripristinare la «quiete pubblica continuamente turbata»[12] e l’insediamento di uno «sbarramento». Ancora nell’ottobre 1920 c’erano «circa trecento morosi»[13] e si organizzavano opposizioni collettive ai pignoramenti previsti, per la verità poi mai attuati visto lo stanziamento di un presidio fisso di «sbarramento» dei carabinieri[14] che verso la fine dell’anno portò al «rinsavimento dei morosi»[15].

[1] Cfr. R. Bianchi, Pace, pane, terra. Il 1919 in Italia, Odradek, Roma 2006; Id., Bocci-Bocci. I tumulti annonari nella Toscana del 1919, Olschki, Firenze 2001.

[2] Archivio Massimiliano Majoni, Fondo aggregato Marcella Guicciardini Majoni, b. 135.1, Alfredo Bazzani alla Contessa Marcella Guicciardini, 17 settembre 1919.

[3] Si consideravano «piccoli proprietari coltivatori, coloni, mezzadri o affittuari, agli effetti del presente decreto, tutti coloro che attendono personalmente alla coltivazione dei vigneti propri o presi a colonia, a mezzadria o in affitto»: cfr. Regio decreto n. 1635, 2 settembre 1919, Che istituisce un’imposta straordinaria sul vino prodotto nella raccolta dell’anno 1919 e su quello delle annate precedenti.

[4] Archivio Storico Comunale di Barberino Val d’Elsa (d’ora in poi ASCB), b. C-73, f. Cat. 2, Cesare Cianferoni al Sindaco Chiostri, 29 dicembre 1919.

[5] Ivi, b. C-75, f. Cat. 2, Delibera di una Commissione del mandamento di San Casciano Val di Pesa, 2 gennaio 1920; Sulle polemiche che opposero produttori, commercianti ed industriali della provincia alle autorità prefettizie in merito ai vari provvedimenti sul vino cfr. Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Guerra europea 1915-1922, b. 149, f. Firenze.

[6] Ivi, Ministero degli interni, Direzione generale di Pubblica sicurezza, Affari generali e riservati, Ordine pubblico, C-1, 1920, b. 51-A, f. Firenze e provincia, sf. Agitazione agraria.

[7] Cfr.ASCB, b. C-75, f. Cat. 6, n. 1162/6, Sindaco di Barberino al Questore, 29 marzo 1920.

[8] Ivi, Comune di Barberino al Prefetto, 22 marzo 1920; Sindaco Chiostri alla cittadinanza, 23 marzo 1920.

[9] Ivi, n. 1162/6, Sindaco di Barberino al Questore, 29 marzo 1920.

[10] Ivi, b. C-75, f. Cat. 6, istanza presentata dai coloni del Comune all’Intendenza di Finanza di Firenze, 22 aprile 1920.

[11] Per un quadro della situazione cfr. M. Toscano, Lotte mezzadrili in Toscana nel primo dopoguerra (1919-1922), «Storia contemporanea», 8 (1978), n. 5-6, pp. 877-950.

[12] ASCB, b. C-76, f. Cat. 18, n. 1914/18, Sindaco Chiostri al Prefetto di Firenze, 31 maggio 1920.

[13] Ivi, n. 3563/6, Sindaco di Barberino a destinatari vari, 22 ottobre 1920.

[14] Ivi, b. C-80, f. Cat. 11, Maresciallo dei Carabinieri di Tavarnelle a Sindaco Chiostri, 7 luglio 1922.

[15] Ivi, n. 4104/18, Sindaco di Barberino al Cavalier Barile, Commissario di Pubblica Sicurezza di Firenze, 7 dicembre 1920.




Il conflitto di Cecina

Sul finire del gennaio 1921 Cecina, modesta ma vivace cittadina allora facente parte della provincia di Pisa, fu teatro di un duro scontro che coinvolse squadristi livornesi e socialisti locali, tra i quali il sindaco e alcuni membri della giunta comunale. Lo scontro, in cui venne ferito mortalmente il fascista Dino Leoni, si colloca al centro di intricate vicende che portarono alla prematura fine della neoeletta amministrazione socialista.

Gli anni che separano il primo conflitto mondiale dall’avvento del fascismo sono per l’Italia una fase di grande instabilità politica e agitazione sociale. Sulla scena pubblica del Paese si affacciano movimenti di massa contrapposti, impegnati fin da subito in una lotta violenta a tal punto da ricordare i toni di una guerra civile. Ai frequenti scioperi e disordini di piazza agitati dalle rivendicazioni delle classi lavoratrici rispose ben presto un fenomeno del tutto nuovo ma destinato a condizionare profondamente la storia italiana degli anni successivi: lo squadrismo fascista. La tensione sociale raggiunse il suo apice a seguito delle elezioni politiche del 1919 e, specialmente, di quelle amministrative del 1920, che videro una netta affermazione del Partito Socialista in numerosissimi comuni. In Toscana, su un totale di 290 comuni, ben 151 andarono ai socialisti, seguiti a grande distanza dai conservatori. Questo risultato elettorale portò a un intensificarsi delle azioni squadriste in tutta la regione, volte a colpire le amministrazioni passate agli odiatissimi “nemici rossi”.

Anche a Cecina le amministrative del 1920 segnarono l’affermazione di una maggioranza socialista. La nuova giunta era guidata da Ersilio Ambrogi, personalità di spicco della scena politica tirrenica, deputato nella Circoscrizione Livorno-Pisa e successivamente aderente al neonato Partito Comunista d’Italia. Il 9 dicembre 1920, in una delle sue prime sedute, l’amministrazione comunale votò una deliberazione con cui si decideva di rimuovere dalle sale del municipio la targa in bronzo che riportava il celebre Bollettino della Vittoria, ovvero il documento ufficiale con cui il generale Armando Diaz aveva annunciato la resa dell’Impero austro-ungarico e la fine delle ostilità sul fronte italiano. Le ragioni che spinsero la giunta a prendere questa decisione non sono totalmente chiarite dalle fonti, ma il gesto – forse dovuto all’euforia seguente il trionfo elettorale – non è certamente un caso isolato nelle turbolente cronache di quegli anni. Un indizio si può trarre dalle parole dello stesso Ambrogi il quale, interpellato in più occasioni al riguardo, dichiarò sempre che le motivazioni della rimozione della targa furono politiche, così come politica era stata, a suo dire, l’affissione della stessa. Lasciando da parte le considerazioni sulla felicità del gesto, quel che è certo è che questo costituì il casus belli dei disordini successivi.

•Perizia topografica del tratto della Via Emilia teatro del conflitto (Archivio di Stato di Padova) (img2).

• Perizia topografica del tratto della Via Emilia teatro del conflitto (Archivio di Stato di Padova).

Un primo scontro, seppur a parole, fu cominciato dall’articolo Intelligenti pauca, uscito sul settimanale cecinese Vita Nuova il 12 Dicembre 1920. L’articolo, firmato «C.», molto probabilmente è da attribuirsi a Renato Cambellotti, esponente di spicco del fascismo locale che guiderà la 23° Legione Maremmana nella Marcia su Roma. Con un tono decisamente aggressivo, l’autore intima ai membri della giunta comunale – i «signori bolscevichi» – di non procedere con la loro deliberazione e promette che la targa sarà comunque rimessa al suo posto da «coloro che seppero tutte le ansie, i disagi e i dolori della trincea». La risposta della controparte arrivò il 26 dicembre sulle pagine de La Fiamma, settimanale della Federazione Socialista di Pisa. Nel suo articolo intitolato CONIGLI!!!, Pierino Cateni, personaggio vicino al sindaco Ambrogi, difende vigorosamente la rimozione della targa – vista come simbolo della guerra in cui «si spinse il proletariato al macello» – e conclude provocando il suo anonimo interlocutore, senza risparmiarsi: «È già molti giorni, che è stata tolta la targa, e coloro che ci minacciavano di rimetterla immediatamente, non si sono ancora mostrati. Vigliacchi! Vigliacchi! Vigliacchi!».

La promessa controffensiva ebbe luogo un mese più tardi: nella notte tra il 24 e il 25 gennaio 1921, un gruppo di fascisti penetrò nel municipio e rimise al suo posto la targa. Non si conoscono con certezza i nomi dei componenti del gruppo, si sa solo che a prendere parte alla spedizione furono fascisti locali supportati da squadristi appartenenti ai Fasci di combattimento di Livorno, Pisa e, forse, Firenze. La partecipazione di fascisti provenienti da città, come il capoluogo toscano, anche piuttosto distanti da Cecina, non deve sorprendere. I Fasci operavano in stretta collaborazione ed erano organizzati in una ben definita struttura gerarchica; le azioni venivano decise nelle sezioni dei centri maggiori, dove erano definite anche forze e strategie da mettere in campo, mentre quelle dei centri minori rappresentavano una sorta di presidi, utili a fornire supporto durante le incursioni nella provincia. La mattina del 25, il sindaco e gli assessori vennero a conoscenza dei fatti della notte precedente e, dopo aver ordinato che la targa fosse nuovamente rimossa, proclamarono lo sciopero generale. La tensione era altissima.

La sera stessa, con il pretesto di difendere i commercianti – che a loro dire erano stati costretti con la forza a tenere chiusi i negozi – giunse a Cecina una seconda spedizione di fascisti, stavolta provenienti da Livorno. I leader della spedizione richiesero al vicecommissario di polizia che le autorità tutelassero gli interessi degli esercenti e rimettessero definitivamente al suo posto la targa. Dall’altro lato, ricevuta la notizia dell’arrivo dei fascisti, il sindaco Ambrogi si recò dal maresciallo dei carabinieri per sincerarsi che lo stesso avesse forze sufficienti alla tutela dell’ordine pubblico. Entrambe le parti furono rassicurate dalle autorità, così gli squadristi dissero che sarebbero tornati indietro col primo treno mentre il sindaco, atteso da numerosi compagni nella locale sezione socialista, decise di far rincasare tutti. Gli eventi successivi non sono definiti con assoluta chiarezza dalle fonti. Sicuramente i fascisti non tornarono subito a Livorno – pare per un ritardo del treno – e si avviarono sulla via Emilia, la strada principale del paese, strappando dai muri i

•Targa commemorativa dell’amministrazione eletta nel 1920, affissa sul municipio vecchio di Cecina (foto T. Barsotti)

• Targa commemorativa dell’amministrazione eletta nel 1920, affissa sul municipio vecchio di Cecina (foto T. Barsotti)

manifesti rossi affissi per lo sciopero e improvvisando una parata. Giunti i fascisti sotto il balcone della sezione socialista, dove ancora si trovavano il sindaco e altre persone, scoppiò uno scontro a fuoco tra i due gruppi, terminato solo dopo l’intervento delle forze dell’ordine. Nello scontro – non è possibile dire con certezza quale delle due fazioni abbia sparato per prima – rimasero feriti Arsace Bertelli, un giovane cecinese colpito accidentalmente, e Dino Leoni, capitano della Marina Mercantile e fascista livornese, che morirà il 19 febbraio seguente a causa delle ferite riportate.

Le indagini vennero avviate negli istanti immediatamente successivi ai fatti. Una perquisizione della sezione socialista, alla presenza del vicecommissario di polizia e del maresciallo dei carabinieri, rinvenne nei locali e sul balcone numerose pietre, dei bossoli di rivoltella e alcune munizioni inesplose. L’unica arma sequestrata fu trovata addosso a uno dei fascisti. La mattina del 26 il sindaco Ambrogi e alcuni amministratori – tra i quali spicca Alfredo Bonsignori, colui che aveva proposto la rimozione della targa – vennero arrestati e subito trasferiti nelle carceri di Volterra. La fase istruttoria si concluse un anno più tardi e portò alla sentenza del 1923 presso la Corte di Assise di Padova, che condannò quasi tutti gli imputati a scontare diversi anni di carcere. Il sindaco Ambrogi venne condannato in contumacia in quanto, eletto alla Camera dei deputati per il PCd’I, era stato scarcerato nel giugno 1921 ed era espatriato pochi mesi dopo. A nulla valse il ricorso in Cassazione dei rimanenti imputati, che risultò semplicemente in alcuni aggiustamenti della pena.

Il procedimento penale, pur giungendo alle sentenze di condanna, non servì a gettare definitivamente luce sui fatti del 25 gennaio. La difesa lamentò varie irregolarità sia nel corso delle indagini sia durante il processo, ottenendo pressoché nessuna risposta. Dalle fonti appare evidente l’accanimento delle autorità nei confronti degli imputati. Gli atti, infatti, sembrano far trasparire un piano – impossibile dire se anteriore o posteriore ai fatti – volto a rovesciare la giunta. In questo senso, è utile ricordare le vicende immediatamente successive. Dopo la rimozione dalla carica del sindaco Ambrogi, stabilita con decreto reale il 30 gennaio 1921, prese il suo posto l’assessore anziano Dante Vannozzi. Quest’ultimo scrisse ripetutamente al prefetto di Pisa e al sottoprefetto di Volterra per denunciare le minacce di morte a lui indirizzate dai fascisti locali, senza ottenere dalle autorità nessun provvedimento concreto. Perciò, il 25 aprile successivo Vannozzi si dimise assieme a tutti gli assessori e i consiglieri di maggioranza. L’episodio, come numerosi altri emergenti dagli atti, avvicina le vicende di Cecina a quelle dei tantissimi comuni italiani nei quali l’azione fascista rappresentò il perno su cui rovesciare quelle amministrazioni comunali ritenute “scomode”.

Tommaso Barsotti, laureando in Storia dell’Università di Firenze, svolge il servizio civile regionale presso l’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea (ciclo 26 giugno 2018 – 25 febbraio 2019).




Ebrei in Toscana XX-XXI secolo

Ebrei in Toscana XX-XXI secolo è il titolo di una Mostra tutta concentrata sull’età contemporanea. Perché questa scelta? Le ragioni sono molte e di diversa origine. Intanto perché è il periodo più vicino, quello che storicamente ci coinvolge di più. Ma, e non secondariamente, perché sentiamo il bisogno di ampliare sia la possibilità di una conoscenza più articolata cronologicamente che quella di affrontare questo tema per un pubblico non solo specializzato. L’idea è quella di analizzare la storia della comunità ebraica, così importante per la nostra regione e non solo, focalizzando l’attenzione su quegli avvenimenti più direttamente coinvolti, nel bene e nel male, con il nostro presente. Tale necessità si è particolarmente fatta urgente perché a partire dalla Legge sulla Memoria, istituita nel 2000, la vicenda ebraica toscana e nazionale è stata in qualche modo risucchiata e appiattita sulla tematica delle leggi razziali, della persecuzione e della deportazione. Ci sembra giusto ed opportuno uscire da quel periodo e narrare la storia di una minoranza in un quadro più articolato, più complesso di avvenimenti, un quadro capace di ridare evidenza alle caratteristiche sociali, culturali, politiche di questo gruppo. Evidenziare la loro capacità di collocarsi dentro il panorama delle idee non solo nazionali ma anche internazionali, di partecipare al farsi del destino politico e morale del paese.

famiglia Castelli con figli e nipoti1

La famiglia Castelli con figli e nipoti (Fonte: Archivio privato famiglia Castelli)

L’idea progettuale nasce all’interno di un Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea, quello di Livorno, l’ultimo nato nella rete degli istituti regionali. Può darsi che ad un osservatore esterno questa appaia anche come una decisione piena di arroganza. Noi pensiamo di no. Forti della nostra esperienza di gestione, nella città di Livorno, della grande Mostra della Fondazione Gramsci di Roma su: Avanti popolo. Il Pci nella storia d’Italia. Forti dell’esperienza dell’allestimento della Mostra sui manifesti politici: Rosso creativo. Oriano Niccolai 50 anni di manifesti, abbiamo deciso di affrontare una nuova sfida. L’idea che soggiaceva a questa nostra intenzione poi concretizzatesi era che gli Istituti come il nostro sono a pari dignità di altri enti culturali, sia pubblici che privati, soggetti produttori di cultura, e anche di cultura alta.

L’idea però è divenuta realtà concreta perché si è incontrata con la sensibilità della Regione Toscana che ha accolto il nostro progetto e l’ha sostenuto con generosità sia finanziaria che collaborativa, sia da parte della Presidenza, sia da parte dell’Assessorato alla Cultura. Non solo, durante tutto il periodo di realizzazione abbiamo sempre avuto al nostro fianco gli uffici della Cultura della Regione, in particolare, Massimo Cervelli, Claudia De Venuto, Floriana Pagano, Elena Pianea e Michela Toni e l’appoggio morale e intellettuale di una figura fondamentale per le politiche della Memoria, Ugo Caffaz. E dall’inizio abbiamo avuto a fianco le competenze della Scuola Normale Superiore di Pisa.

Il tema della Mostra si è fatto strada in noi anche perché la città di Livorno era ed è una delle sedi più significative della presenza ebraica in Italia e il nostro Istituto, sin dal suo nascere, ha collaborato e collabora con la Comunità ebraica locale. Questa stessa vicinanza amplia il bisogno di raccontare una memoria dentro la cornice vasta della storia novecentesca, dare la possibilità ai cittadini tutti e in particolare ai giovani, di approfondire i motivi che conducono alla tragedia della Shoah ma anche di raccontare come si esce da quella esperienza e come ci si ricostruttura, sia come comunità, che come singoli.  Il momento in cui comincia a prendere forma questa proposta, non era un momento ancora così tragico come quello che stiamo adesso vivendo. Se ne vedevano però tutte le avvisaglie all’orizzonte. Forse tutti ricordano l’uccisione di tre bambini davanti ad una scuola ebraica di Tolosa, nel marzo del 2012.

Eravamo consapevoli poi che il gruppo di lavoro che avremmo messo insieme avrebbe avuto a sostegno una ricca bibliografia frutto di lavori ultradecennali particolarmente vivaci, come quelli promossi dalla stessa regione Toscana sotto la guida di Enzo Collotti, così come tutto il materiale preparatorio per i viaggi della Memoria che la stessa Regione ha realizzato nel corso degli anni. Eravamo cioè sicuri di essere in buona compagnia.

La volontà di raccontare oltre cento anni di storia con un allestimento espositivo viene dal desiderio di utilizzare una modalità d’approccio capace di parlare anche al mondo dei non addetti ai lavori, e soprattutto ai più giovani. L’utilizzazione nel corpo della Mostra di riproduzioni di carte d’archivio, di copertine di libri, di disegni ma soprattutto di un apparato di riproduzioni fotografiche risultato delle donazioni di famiglie e di fondazioni culturali, arricchisce i testi, già di per sé particolarmente densi. Testi che abbiamo scelto di fare bilingui: in italiano e in inglese, in modo da aprirli alla fruizione di un pubblico potenzialmente molto più vasto di quello italiano. Sono testi che si prestano ad una possibilità di letture trasversali, di arricchimenti di senso, di interconnessioni e di suggestioni. Il team di lavoro che si è raggruppato attorno all’Istoreco, formato da specialiste della tematica come Barbara Armani, Ilaria Pavan, Elena Mazzini oltre alla direttrice dell’Istoreco, Catia Sonetti, si è poi arricchito di altri due narratori che hanno elaborato due pannelli specifici: Enrico Acciai, che ha curato quello sullo sfollamento degli ebrei livornesi, e Marta Baiardi, che ha scritto quello sulle memorie della deportazione. Un materiale esteso, coeso, uniformato da alcune scelte di scrittura condivise e rispettate con acribia che hanno, a nostro parere, dato il tono giusto alla Mostra. La traduzione è stata assegnata ad una specialista, la dottoressa Johanna Bishop, che ci ha garantito la qualità del lavoro. Tutti i nostri sforzi sono stati sorretti dalla volontà di far arrivare l’allestimento sui diversi territori regionali e anche esterni alla Toscana. Perché questo nostro piano si concretizzi, si dovrà incontrare con la volontà degli amministratori locali e con la possibilità di reperire altre risorse per i nuovi allestimenti, ma siamo fiduciosi che il desiderio di compartecipare a questa avventura renderà tutto ciò realizzabile. Del resto questa scelta è anche la strada più sicura per una reale e completa valorizzazione dello sforzo compiuto sia in termini finanziari che in termini scientifici.

Il risultato, di cui solo noi siamo responsabili, è anche il frutto della collaborazione con le diverse comunità ebraiche presenti sul territorio, collaborazione che è stata sempre continua e proficua. I loro presidenti, i loro archivisti e bibliotecari sono venuti incontro alle nostre richieste concedendoci materiali d’archivio e fotografici, sia delle Comunità stesse che dei componenti le medesime, in un rapporto di totale e rispettosa autonomia. Non solo. Abbiamo potuto realizzare alcune videointerviste a esponenti del mondo ebraico, che saranno riversate con un montaggio ad hoc in alcuni video che vanno ad arricchire il materiale documentale della Mostra.

Dal punto di vista del percorso seguito, dopo la stesura del progetto, si passa alla sua realizzazione che vede per oltre un anno tutti gli interessati coinvolti impegnarsi nello studio, nella ricerca archivistica e bibliografica, nella raccolta delle fonti iconografiche. Superata questa prima fase, ci siamo dedicati alla stesura vera e propria dei pannelli e poi alla sua realizzazione digitale con le professionalità specifiche dell’Agenzia Frankenstein di Giuseppe Burshtein di Firenze, in particolare con Cristina Andolcetti, Maddalena Ammanati, Stefano Casati, Federico Picardi e Isabella d’Addazio Quest’ultima fase è quella che ci ha permesso in itinere l’anteprima visiva di quello che andavamo facendo. Occorre dire che il controllo dei contenuti non è mai stato piegato alle esigenze della comunicazione anche se questa ha costretto tutti ad una sintesi espressiva, non proprio consueta per delle storiche e storici italiani. Vogliamo dire però che non ci siamo fatti prendere la mano dalla necessità della “leggerezza”, che nel nostro caso rischiava di farci dimenticare il forte sentimento divulgativo che ci animava. Siamo però stati attenti a tutti i suggerimenti degli addetti ai lavori che ci hanno consentito, perlomeno in parte, di superare certe difficoltà dei temi trattati per veicolare i nostri contenuti nel modo più accessibile possibile. Perlomeno questo era il nostro scopo.

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni '30 - Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni ’30 – Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

La Mostra si sviluppa secondo un arco cronologico che va dalla Grande Guerra ai giorni nostri. Presenta anche alcuni pannelli introduttivi, uno sul perché questa Mostra, uno generale sulla presenza ebraica nella regione a partire dal periodo tardo medioevale, e l’altro specifico per l’età liberale, anteprima al secolo XX. Dopo aver analizzato la Grande guerra, la prima vera manifestazione dell’avvenuta emancipazione, ed esserci soffermati sul tema del sionismo, affronta in una sezione di grandi dimensioni, per forza di cose, il ventennio fascista con le colonie e l’impero, analizza sia il fronte degli antifascisti che quello dei sostenitori del regime, le leggi razziali del ’38, la persecuzione del 1943-1945. La Mostra si chiude infine con il secondo dopoguerra, toccando la problematica della ricostruzione dopo il ritorno dai campi, la battaglia per riavere i beni che erano state requisiti, il lento ricollocarsi dentro lo scenario postbellico, i rapporti con Israele. Questa è la sezione per la quale l’apparato storiografico al quale guardare, soprattutto in lingua italiana, è risultato più debole e carente. In ogni sezione analizzata emerge come il gruppo degli ebrei si collochi esattamente alla stessa maniera di tutti gli altri cittadini italiani del momento. Appoggia Mussolini con entusiasmo o perlomeno con un atteggiamento di condiviso conformismo alle opinioni della maggioranza oppure si schiera contro in una opposizione lucida ed eroica con quei pochi che vedono e capiscono prima degli altri il significato del regime e il futuro di guerra e di persecuzione che si intravede all’orizzonte. È possibile comprendere attraverso i nostri testi, e soprattutto con le fotografie a corredo, come fino all’ultimo la consapevolezza di quello che stanno rischiando, la possibilità di perdere i beni e le vite, non sia particolarmente radicata. O forse, accanto a questa sottovalutazione del pericolo, si nasconde l’abitudine plurisecolare a sopravvivere nelle disgrazie, a ridere nel bisogno, ad affrontare con allegria ed ironia le sorti peggiori, carattere che emerge proprio nei frangenti più drammatici. Così si spiega ad esempio la fotografia della famiglia Samaia che mentre sta per uscire dal paesino di Monte Virginio, vicino Roma, il 25 marzo 1944, di nuovo in fuga per trovare salvezza, trova il modo di farsi fotografare e a commento della foto scrive: Via col vento!

Le immagini, a corredo, nell’insieme, racconta più dei testi scritti la “religione” della famiglia che pervade queste comunità. Non viene sprecata nessuna occasione per fotografarsi in gruppo ed il gruppo si sviluppa e si espande attorno alla coppia degli anziani. Particolarmente indicative in questo senso sono le foto a corredo donateci dagli eredi della famiglia Castelli. Ma non sono da meno quelle, più vicine a noi nel tempo, della famiglia Cividalli, Orefice, della famiglia Levi, dei Viterbo o dei Caffaz, della famiglia Samaia, e molte altre ancora. Certo l’amore per la famiglia pervade anche tutti gli altri italiani. Nessuno o quasi ne è escluso. Quello che qui vediamo è la documentazione fotografica dei passaggi importanti: le nozze, le feste di purim, il bar mitzvah per i ragazzi o il bat mitzvah per le ragazze, perché anche se l’adesione alla religione dei padri è, perlomeno fino alle leggi razziali, piuttosto debole, fatta più di consuetudine che di una adesione forte e vissuta con convinzione, importante è attraverso la ripetizioni di ritualità, come la preparazione di alcuni dolci tipici o il pranzo in comune in certi momenti, mantenere la coesione del gruppo. Gruppo nel quale molto spesso vengono inseriti, senza particolare travaglio, anche gli elementi “gentili” assorbiti con i matrimoni misti. Questo come dicevamo sopra fino alle leggi razziali.

Nel secondo dopoguerra, la scoperta della tragedia che si è abbattuta sul popolo ebraico rinsalda le tradizioni, aumenta i viaggi in Israele e la scelta di andare a viverci, riavvicina alla religione dei padri anche chi se ne era distaccato, fino ad arrivare al nostro presente, fatto di piccole e piccolissime comunità orgogliose della propria specificità, molto presenti sul piano culturale e molto attive nel dialogo interreligioso.

La Mostra è arricchita di diversi video in cui scorrono i montaggi tratti da alcune videointerviste realizzate nel corso della preparazione della Mostra. Si vedono donne e uomini ragionare sulla loro appartenenza, sulla storia della loro famiglia, sul loro sentimento religioso, sui conti che hanno fatto come singoli rispetto alla loro maggiore, o minore, o assente, appartenenza alla comunità ebraica.

Naturalmente nella Mostra non c’è affatto tutto quello che si può raccontare su questa minoranza, mancano alcuni pezzi importanti come le vicende, fra l’altro segnate da numerosi episodi di antisemitismo, della minoranza ebraica italiana, quasi tutta di provenienza labronica, in Algeria o in Marocco. Non c’è stata la possibilità di raccontare nessuna storia di genere, anche se attraverso il materiale raccolto, tra cui molte lettere e molti diari inediti, ci siamo fatti un’idea piuttosto articolata delle condizione della donna dentro la comunità ebraica. In qualche modo sicuramente privilegiata perché istruita e capace di saper leggere e scrivere, conoscere una lingua straniera, suonare uno strumento musicale ma assolutamente ostacolata nel suo desiderio di intraprendere libere professioni o attività lavorative vere e proprie. Questo perlomeno fino alla conclusione del secondo conflitto. Come succedeva nelle famiglie non ebree dell’Italia liberale e fascista del secolo scorso. Non abbiamo potuto approfondire il tema dei rapporti con lo Stato italiano sul versante della restituzione dei beni sottratti, né quello dei processi intentati contri fascisti e delatori.

La Mostra poteva chiudersi con l’immagine di una svastica disegnata in anni recenti sulla facciata della sinagoga di Livorno. Abbiamo deciso di no. Non era il caso. Tutto il nostro lavoro ha senso anche perché sottintende il desiderio di un rispetto reciproco nelle riconosciute diversità che all’interno del nostro orizzonte odierno, che non è più quello nazionale, ma perlomeno europeo, vedono di nuovo muri che si ergono, leggi di discriminazione strisciante farsi avanti e ancora rumore di bombe e sangue versato contro istituzioni e luoghi Kasher. Noi pensiamo e percepiamo il nostro lavoro solo come piccolo tassello per un dialogo di pace e ci siamo rifiutati di chiudere con un’immagine senza speranza.

Livorno, 24 ottobre 2016




Gli altri e Ilio Barontini

“Gli altri e Ilio Barontini”: è il titolo della ricerca di Mario Tredici (Ets, 2017) sui comunisti livornesi che, a vario titolo, furono inviati dal loro partito in Urss tra la fine degli anni venti e la metà degli anni trenta, e in cui si riassume sinteticamente il senso di questo lavoro.  Infatti se Ilio Barontini è stato un uomo politico assai noto e celebrato , “gli altri” sono rimasti finora pressoché sconosciuti: su di loro è caduta una spessa coltre di oblio. Ma allora, negli anni segnati dalla dittatura fascista, ebbero un ruolo significativo per mantenere in vita l’organizzazione illegale comunista in Italia, alimentare l’emigrazione in Francia e poi essere inviati dal Pci in Urss, un tratto distintivo perché emblematico di un valore politico. Quattro di loro combatterono in Spagna nelle Brigate Internazionali, e uno Menotti Gasparri cadde nel novembre 1936 in difesa di Madrid.

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Ilio Barontini (al centro in piedi, con la cravata e le mani in tasca) in una foto di gruppo con Togliatti e Nilde Iotti (Archivio Istoreco, Livorno)

Ilio Barontini, è stato finora l’unico cui siano state dedicate ben tre biografie: la prima, la tesi di laurea di Giovanni Degl’Innocenti, scritta nel 1981-82. Poi a seguire quella scritta a due mani da Era Barontini e Vittorio Marchi nel 1987, e infine quella di Fabio Baldassarri edita nel 2013. I documenti base su cui si è sviluppata questa ricerca sono ovviamente i fascicoli del casellario politico centrale all’Archivio centrale dello stato. Una raccolta di dati di natura poliziesca, comunque fondamentali, senza i quali per quasi tutti loro si sarebbe del tutto persa ogni memoria. La persecuzione come strumento di conoscenza, insomma. Documentazione certo parziale e tendenziosa, arricchita però, in vari casi, dalle lettere inviate dagli emigrati alle famiglie e dunque in grado di restituirci il tratto umano e momenti del pensiero politico. Di assoluta importanza è stato anche l’archivio del partito comunista, depositato alla Fondazione Gramsci, poiché su quasi tutti era stata stilata almeno una scheda biografica dall’ufficio quadri del Pci a Mosca. Per i militanti che furono in Spagna è stato di grande utilità anche l’archivio delle Brigate Internazionali, sempre alla Fondazione Gramsci.

Per Barontini, che certamente è la personalità di maggior rilievo politico, l’autore ha scelto di concentrare la ricerca, anche e soprattutto per la dimensione internazionale della sua attività (Francia, Unione Sovietica, Spagna, Etiopia, ancora Francia nel maquis e poi la Resistenza in Emilia-Romagna), su alcuni problemi ancora aperti: quale fu il suo impegno in Francia subito dopo la fuga da Livorno nel maggio 1931; come e perché fu inviato in Unione Sovietica, con note negative come sostenne Paolo Robotti; come si configurò il suo ruolo nel paese del socialismo al tempo di Stalin.  Emerge in sostanza un profilo di Barontini come stalinista a tutto tondo. Fu permeato da quella temperie politica come quasi tutti quelli che ebbero un ruolo dirigente nel Pci in quel tempo, tanto più se si trovarono a vivere e operare nell’Urss.

Il mito, di cui è stato da sempre circonfuso, si è nutrito di una perniciosa rinuncia a un serio approccio critico. Come invece merita, dato che è stato uomo del suo tempo, non ha partecipato a deliziosi balli di gala ma ha attraversato le fasi della storia del XX secolo più dure e drammatiche. Poteva essere solo cavaliere dell’ideale? In sostanza è emersa una figura con forti chiaro-scuri, che nel periodo qui analizzato (in sostanza dal 1927 al 1936) ha avuto un ruolo di primo piano.

La ricerca d’archivio ha consentito di accertare in via definitiva il fatto che Ilio Barontini fu inviato in Unione Sovietica per punizione. Era tra i dirigenti operativi del Centro estero del Pci, responsabile dell’invio di corrieri in Italia e fu travolto dal clima di sospetti nella “grande inchiesta” interna al Pci condotta nel 1932 da Giuseppe Dozza. E di cui si trovano accenni negli scritti di Giorgio Amendola, Mario Montagnana e Aldo Agosti. Fu accusato di “disordine, settarismo, non buona politica dei quadri” come ebbe a rilevare Togliatti. Fu ritenuto responsabile in sostanza di scarsa vigilanza cospirativa e rimosso dal delicato incarico. E gli andò bene, perché Dozza chiese addirittura di sospenderlo per sei mesi dal partito, sanzione che l’Ufficio politico rifiutò di infliggergli. Il libro ricostruisce nel dettaglio la complessa vicenda, finora trascurata dalla ricerca storica.

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Ettore Borghi (Casellario Politico Centrale, Archivio Centrale dello Stato)

Poteva essere una caduta definitiva, invece in Unione Sovietica riuscì ben presto a riabilitarsi e a entrare nel nucleo dirigente dell’emigrazione. Barontini aveva personalità, carattere e “nervi saldi” come si riconosceva. Risalì la corrente, pur patendo un altro infortunio con il rifiuto opposto ai dirigenti sovietici ad andare a Odessa. Pur di restare a Mosca (si era ben inserito nel Club degli emigrati italiani e si era anche innamorato) accettò le conseguenze del suo rifiuto: venne rimosso dall’incarico di funzionario del Profintern e dovette andare a lavorare in fabbrica. Sempre nel 1933 fu implicato, politicamente, nella tragica vicenda che portò all’omicidio di Alberto Bonciani, alias Grandi. Che venne soppresso in un albergo nel centro di Mosca. Finora la vicenda, per il contesto in cui si svolse, aveva sollevato gravi dubbi sul coinvolgimento della dirigenza del Club. La ricerca ha potuto utilizzare una vasta documentazione (anche risalente all’Nkvd) da cui esce una piena conferma della fondatezza di quei sospetti. Anche Barontini fu tra gli estensori di ripetute accuse e avvertimenti sul caso Bonciani.

Grazie alle lettere alla famiglia e alla documentazione d’archivio la ricerca ha teso a delineare quali fossero la mentalità e formazione politica di Barontini quando lasciò la Francia per Mosca. L’esperienza sovietica ne accentuò i tratti, segnò e plasmò la personalità politica di Barontini in senso stalinista. Esito che lui stesso ebbe a segnalare nell’autobiografia: “Non sono mai stato in dissenso con il partito”; “mi sono sforzato di assorbire quanto più ho potuto di ideologia marxista leninista stalinista”. E, in effetti, a Mosca, nel Club Internazionale di cui fu uno dei leader, fu sempre schierato a fianco di Paolo Robotti “stalinista al 100 per 100” come lo definì Dante Corneli. Lui “soldato disciplinato” fu allineato convintamente con il partito fino alle estreme conseguenze anche nella lotta senza quartiere contro i compagni accusati di bordighismo o di trotzkismo. Una lotta politica che nell’Urss di Stalin si trasformò ben presto in tragedia con oltre cento comunisti italiani soppressi e molti altri spediti nei gulag. Una tragedia che il Pci tenne celata fino al novembre 1961, quando proprio Robotti fu autorizzato a parlarne in comitato centrale. Quando Barontini arrivò a Mosca nel settembre 1932, era un dirigente in disgrazia, quando ne uscì, quattro anni dopo, nell’estate 1936 aveva uno status di tutto rilievo, tanto che fu tra i 62 che firmarono il famoso appello ai “fratelli in camicia nera”

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Armando Gigli (Casellario Politico Centrale, Archivio Centrale dello Stato)

Ma torniamo agli “altri”. Alle biografie degli altri otto militanti: vite parallele con tratti ed esiti assi diversi.  Astarotte Cantini e Menotti Gasparri ebbero un destino tragico: il primo fu represso nelle purghe staliniane, l’altro cadde combattendo a Madrid. Cantini era di origini assai modeste, militante anarchico poi diventato comunista, emigrò in Francia e quindi in Russia dove fu soppresso nel 1938. Il secondo, operaio vetraio, fu condannato giovanissimo dal Tribunale speciale, riuscì a fuggire in Francia dove peregrinò molto stentatamente nell’emigrazione (faceva letteralmente la fame), con compiti modesti nei ranghi dei Comitati proletari antifascisti (Cpa) finché venne inviato in sanatorio in Russia fino alla tragica morte a Madrid. Tamberi è una figura atipica: piccolo commerciante in fallimento fuggì  in barca da Livorno con Ilio Barontini e Armando Gigli; visse e lavorò a Mosca per oltre cinque anni e riuscì a tornare in Italia con un passaporto ottenuto dall’ambasciata italiana nell’autunno del 1936, mentre già dilagavano le repressioni staliniane. Riuscì, singolarmente, a passare indenne tra le insidie di Scilla e Cariddi.

Urbano Lorenzini emerge come la figura più compromessa con lo stalinismo: ebbe – come rivendicò – rapporti sistematici con l’Nkvd per denunciare alcuni dei propri compagni di Odessa. Ettore Borghi, di origini contadine, ebbe un ruolo fondamentale nella ricostruzione dell’organizzazione giovanile comunista a Milano: arrestato nel settembre 1934, fu condannato a 18 anni di galera. Nel dopoguerra di affermò come dirigente della Federmezzadri di cui fu segretario generale. Anche Armando Gigli, processato e assolto per insufficienza di prove nel 1927-28 dal Tribunale speciale, fu inviato più volte come corriere in Italia. Arrestato nel 1935 fu condannato a 12 anni. Assai controversa invece la figura di Angiolo Giacomelli, tra i fondatori del Pci a Livorno. Transfuga nel 1927, dal 1929 al 1932 a Mosca, inviato come corriere in Italia fu arrestato. Rimesso in libertà grazie all’amnistia del decennale svolse un ruolo occulto ma molto importante tra il 1933 e il 1935 quando venne nuovamente arrestato nel febbraio nella grande retata frutto di una delazione di un vecchio comunista, Tullio Baronti. Giacomelli fece il compromesso con l’Ovra con l’obiettivo di scoprire la spia o le spie che avevano provocato la caduta dell’intero gruppo dirigente comunista. La cosa si riseppe: da qui l’ostracismo, con l’espulsione per tradimento dal partito, fino alla sua riabilitazione completa nel 1969. Infine di grande rilievo la figura di Silvano Scotto, un portuale che fu l’anima della riorganizzazione del Pci dopo le ripetute retate dei primi anni ’30. La ricerca, proprio nell’ambito della sua biografia, ricostruisce anche il quadro politico degli anni della svolta a Livorno mettendo in luce una coriacea e persistente  volontà combattiva del piccolo nucleo comunista esistente in città. Che non cedette mai le armi.

Quella che esce da questa ricerca è una galleria di figure politiche, con l’obiettivo di ricostruire, attraverso loro, un periodo di lotte e di travagli umani e politici, segnato da una durezza di vita e di sacrifici, di dolori non solo dei militanti ma anche e soprattutto delle loro famiglie (molto importanti le lettere inviate a madri, mogli e figli). Anni ed esperienze connotati certo da asprezze, settarismi, opacità e talora gesti politici condannabili, ma anche anni ricchi di occasioni di crescita e riscatto, di coraggio e di dignità. Di lotte contro il fascismo. Questi tenaci combattenti fuggirono dall’Italia sotto il segno di un’amara sconfitta, ma sicuri che presto o tardi le cose sarebbero cambiate (è il leitmotiv di quasi tutte le lettere alle famiglie) e con una fiducia totale nel ruolo dell’Unione Sovietica. Un’ancora di salvezza, in un mare in tempesta.

 * Mario Tredici, giornalista professionista, è stato capocronista delle redazioni di Pontedera e di Livorno per il quotidiano “Il Tirreno” e vice capo redattore responsabile delle pagine nazionali. Membro del consiglio nazionale della Fnsi, del consiglio regionale toscano e del consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, è stato assessore alle culture del Comune di Livorno dal 2009 al 2014.




Il “trenino dei marmi” versiliese: ascesa, gloria e caduta di un “servizio utile”

Lavorò per più di 35 anni e, oltreché una mirabile opera d’ingegneria, rappresentò per l’intera Versilia storica un formidabile strumento di sviluppo nei decenni chiave d’inizio Novecento che ne decisero la vocazione economica: fu la “Tranvia della Versilia”, ricordata ancora oggi dagli anziani della zona come “marmifera”, o semplicemente “trenino dei marmi”.
Le prime iniziative volte a promuovere la costruzione di moderne infrastrutture per mettere in collegamento le cave dell’entroterra con il litorale, naturale sbocco commerciale per il prezioso marmo bianco delle Apuane, risalgono in realtà alla seconda metà dell’Ottocento: del resto, all’epoca, non molto lontano, il bacino estrattivo di Carrara si era dotato di una rete ferroviaria propria già nel 1876, via via accresciuta e di notevole utilità per la movimentazione dei blocchi verso il porto di Marina di Carrara e la linea ferrata Genova-Pisa.
Fu soltanto nel 1903, che un comitato locale versiliese decise di dar vita ad una società di diritto britannico denominata “The Carrara Versilia Electric Railway and Power Limited”, che, presentato alla Provincia di Lucca il progetto per una ferrovia a scartamento ridotto che soddisfacesse le richieste logistiche dell’area, otto anni dopo ottenne l’autorizzazione alla posa in opera della rete, denominata “Tranvie Elettriche Versiliesi” (TEV). A causa del trasferimento delle competenze in merito dagli enti locali al governo centrale, però, i lavori di costruzione dovettero attendere ancora un poco, e presero il via soltanto nell’agosto 1913.

1919: il caratteristico scavalco di Querceta, che permetteva al “trenino dei marmi” di superare la via Aurelia e la linea ferroviaria Genova-Pisa appena più a monte. Sulla sinistra, è visibile la chiesa di Santa Maria Lauretana. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 203]

1919: il caratteristico scavalco di Querceta, che permetteva al “trenino dei marmi” di superare la via Aurelia e la linea ferroviaria Genova-Pisa, situata appena più a monte. Sulla sinistra, è visibile la chiesa di Santa Maria Lauretana. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 203]

Le prime sezioni ad essere inaugurate, il 15 gennaio 1916, nel bel mezzo della Prima Guerra Mondiale, furono quelle comprese fra Querceta, Seravezza e Pietrasanta, per una lunghezza complessiva di quasi 11 km: pensato eminentemente per il trasporto merci, il tracciato offrì fin da subito anche un apprezzato servizio passeggeri. Di particolare rilevanza, oltre al deposito-officina per il materiale rotabile edificato presso la frazione di Ripa di Seravezza appena a monte del ponte Foggi, su cui passava la diramazione che conduceva a Pietrasanta, era la grande opera di scavalco della ferrovia tirrenica eretta a Querceta: lunga quasi 180 metri, realizzata in metallo e cemento armato, costituiva di fatto una fermata sospesa in pieno stile americano, con tanto di scale da cui era possibile scendere al paese. Sempre a Querceta, la TEV disponeva poi di uno speciale binario di collegamento con il grande piazzale della società marmifera Henraux, sfruttato per il caricamento dei blocchi sui pianali della ferrovia Genova-Pisa.

Manovre di composizione di un convoglio presso il capolinea della marmifera di piazza Garibaldi, a Forte dei Marmi. Cartolina del 1932. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 124]

Manovre di composizione di un convoglio presso il capolinea della marmifera di piazza Garibaldi, a Forte dei Marmi. Rara cartolina del 1932. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 124]

Pochi anni dopo, la rete raggiunse Forte dei Marmi, e, solo per le merci, la località di Trambiserra, presso Malbacco di Seravezza, centro di raccolta dei marmi della valle del Serra e del monte Altissimo: con l’allungamento dei binari fino alla costa, si completò così il primo collegamento ferrato fra i bacini estrattivi dell’entroterra ed il punto d’imbarco del materiale, lo storico ponte caricatore del Forte, posto a breve distanza dal capolinea TEV di piazza Garibaldi, proprio affianco al Fortino.

Di fronte alle crescenti richieste del mercato, poi, l’infrastruttura si espanse verso il cuore delle Apuane, risalendo l’angusta valle del torrente Vezza: l‘inaugurazione della tratta Seravezza-Pontestazzemese si tenne il 31 maggio 1922, e, oltre ad un pregevole risultato ingegneristico, per la natura geografica delle aree attraversate, costituì pure un notevole passo avanti sulla via della modernizzazione dell’arcaica montagna versiliese.
Perché la nuova rete potesse davvero dirsi capillare, tuttavia, mancava ancora un tassello: un collegamento con le frazioni più remote della montagna stazzemese e con i ricchi bacini marmiferi dell’area di Arni. Un’opera complessa e assai dispendiosa, in termini di uomini, mezzi e risorse finanziarie necessarie, che, dopo l’apertura di una prima tratta fra le località di Iacco e Pollaccia nel 1923, vide finalmente la luce nel 1926, quando la strada ferrata, che in questa sezione di quasi 16 km aveva tutte le caratteristiche di una vera e propria linea di montagna, con tanto di rifornitori d’acqua e binari di salvamento per eventuali convogli fuori controllo in discesa, raggiunse Tre Fiumi, vasta spianata compresa fra le vette del Freddone, del Sumbra, del Sella e dell’Altissimo. Per superare il colle del Cipollaio, fra l’altro, che separava la conca di Arni dal resto della Versilia, si rese necessaria la realizzazione dell’opera d’arte più impegnativa dell’intera ferrovia dei marmi: l’escavazione di un lungo tunnel nel ventre della montagna, che, lungo 1.135 metri, mise in comunicazione due versanti fino a quel momento completamente isolati, e, sfruttata ancora oggi dalla Strada Provinciale 13, che ripercorre esattamente l’antico tracciato della marmifera, prese il appunto nome di galleria del Cipollaio. Nel 1927, anche quest’ultima sezione della linea venne aperta ai passeggeri, mentre fu definitivamente abbandonata l’intenzione iniziale di prolungare il tracciato fino a Castelnuovo di Garfagnana.

Veduta d’insieme della rete TEV negli anni della sua massima espansione: nel complesso, l’infrastruttura si estendeva per 37 km.

Veduta d’insieme della rete TEV negli anni della sua massima espansione: nel complesso, l’infrastruttura si estendeva per ben 37 km.

A quel punto, l’avveniristica infrastruttura della TEV, nata come una visione e completata in 14 anni di lavori, raggiunse il suo aspetto finale: una rete efficiente, che quotidianamente movimentava uomini e materiali attraverso le gole ed i pendii di un territorio aspro e meraviglioso, slanciandosi attraverso borghi, strade, torrenti, valli, strettoie e crepacci, coprendo, dal mare alla montagna, un impressionante dislivello di 850 metri di altitudine, con punte di pendenza del 60‰ nei pressi del valico del Cipollaio.
Assai gradito da imprese e residenti, nel giro di pochi anni il nuovo trenino cambiò per sempre il volto della Versilia storica, conferendole l’aspetto di un territorio moderno e al passo coi tempi, connesso alle principali arterie di comunicazione del Paese. A farsi carico del grosso volume di merci e passeggeri, oltre a diverse decine di vagoni, erano sei piccole locomotive a vapore, che ogni giorno sbuffavano vistosamente i propri fumi sferragliando fra gli olivi della piana o su per le rocce delle Apuane (l’idea originaria, ricordata anche nel nome della rete, di elettrificare l’intera struttura, era stata infatti accantonata nel 1921): tre a due assi, di fabbricazione britannica, chiamate Z1, Z2 e Z3, meno potenti e pertanto riservate alle tratte più dolci, e tre a tre assi, tedesche, più capaci e quindi destinate al servizio lungo l’impegnativa “linea di Arni”. Oltre ad una sigla, quest’ultime ricevettero pure un soprannome, che riprendeva la denominazione di alcuni toponimi della montagna versiliese: Z4 Arni, Z5 Sumbra e Z6 Corchia.

Pietrasanta, 1924: coincidenza tra un convoglio a vapore della marmifera, riconoscibile sulla sinistra, ed una vettura elettrica del tram SELT per la marina, visibile sulla destra. Siamo in piazza Carducci, proprio di fronte a Porta a Pisa e alla Rocchetta Arrighina. [Enrico Botti, Saluti dalla Versilia, p. 48]

Nel corso degli anni Venti, la TEV visse il proprio momento di splendore: frequentata da un gran numero di turisti, che presso i capolinea di Forte dei Marmi e Pietrasanta potevano trovare anche le fermate del tram elettrico della SELT (Società Elettrica Litoranea Tramviaria) che portava lungo la costa fino a Viareggio, la nuova ferrovia entrò pian piano nell’immaginario collettivo ed iniziò a comparire su un gran numero di fotografie e cartoline (alcune delle quali sono visibili nel corpo del presente articolo, mentre altre sono consultabili in allegato fra i Documenti dalle fonti).

Ripa di Seravezza, anni ’10: veduta del ponte Foggi, sul quale passava la diramazione della ferrovia marmifera per Pietrasanta. Sullo sfondo, è visibile il grande deposito-officina della TEV, gravemente danneggiato dalla guerra nel 1944. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 221]

Ripa di Seravezza, anni ’10: veduta del ponte Foggi, sul quale passava la diramazione della ferrovia marmifera per Pietrasanta. Sullo sfondo, è visibile il grande deposito-officina della TEV, gravemente danneggiato dalla guerra nel 1944. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 221]

I contraccolpi della crisi del 1929, tuttavia, combinati alcuni anni dopo con gli effetti nefasti della politica estera aggressiva del fascismo sugli scambi commerciali internazionali, influirono negativamente sulle attività estrattive della Versilia, riducendo la domanda e generando un sensibile aumento della disoccupazione. Parallelamente, rimanendo elevati i costi di manutenzione, i margini di profitto della ferrovia iniziarono a diminuire.
Con gli anni Trenta, poi, il trenino dovette cominciare a fare i conti con una nuova, inattesa minaccia al proprio ruolo egemone nella movimentazione locale dei passeggeri: quella del trasporto su gomma, quella dei torpedoni della società Fratelli Lazzi, che, a fronte di un’elevata flessibilità di utilizzo e di costi d’esercizio davvero ridotti, offrivano spostamenti a prezzi concorrenziali, raggiungendo anche le più remote località della montagna apuana. Come risultato, il 20 gennaio 1936 il servizio viaggiatori della tranvia venne soppresso.
A sancire il definitivo tramonto della marmifera dal panorama versiliese, tuttavia, fu la Seconda Guerra Mondiale: le distruzioni operate dai nazisti in vista della ritirata sulla Linea Gotica, infatti, non risparmiarono neppure le strutture della TEV, infliggendo loro un colpo mortale. Nel 1944, assieme all’adiacente chiesa di Santa Maria Lauretana, il ponte di scavalco di Querceta fu minato e fatto saltare in aria, crollando sulla via Aurelia e sulla ferrovia tirrenica: contestualmente, per impedire un pratico passaggio agli Alleati, la linea d’Arni fu danneggiata in più punti e l’accesso lato mare della galleria del Cipollaio distrutto con l’esplosivo. Nel corso dei bombardamenti americani sulle posizioni tedesche, poi, andò quasi completamente in macerie anche il deposito-officina di Ripa.

Levigliani di Stazzema, 1930: una suggestiva visione del “trenino dei marmi” al lavoro sull’impervia “linea d’Arni”, completata nel 1926 ed aperta al traffico passeggeri l’anno successivo. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 249]

Levigliani di Stazzema, 1930: una suggestiva visione del “trenino dei marmi” al lavoro sull’impervia “linea d’Arni”, completata nel 1926 ed aperta al traffico passeggeri l’anno successivo. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 249]

Quando i fumi della guerra si diradarono, la Versilia giaceva in ginocchio, devastata da sette mesi di feroci battaglie combattute nel cuore delle sue contrade. Con grande sforzo, nonostante la povertà diffusa e la penuria di materiali, la ferrovia dei marmi poté essere riattivata il 2 luglio 1946, eccettuata la tratta Querceta-Forte dei Marmi, per l’impossibilità di ricostruire il costoso scavalco della Genova-Pisa. Del resto, in quel terribile 1944, era saltato in aria anche il ponte caricatore del Forte: l’epoca dei blocchi calati a valle dalle locomotive e caricati sui bastimenti dai buoi e dalla “Mancina” era ormai finita.

Querceta, 1929: il grande piazzale della società marmifera Henraux, con i colli di Strettoia ed il monte Folgorito sullo sfondo. In primo piano, il ponte di scavalco della ferrovia marmifera, che sarebbe stato fatto saltare in aria dai genieri nazisti nel 1944. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 208]

Querceta, 1929: il grande piazzale della società marmifera Henraux, con i colli di Strettoia ed il monte Folgorito sullo sfondo. In primo piano, il ponte di scavalco della ferrovia marmifera, fatto poi saltare in aria dai genieri nazisti nel 1944. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 208]

Di fronte a guadagni sempre più declinanti e ad una sempre più agguerrita concorrenza del trasporto su gomma, che permetteva di raggiungere direttamente i piazzali delle cave in quota, nella prima metà del 1950 il braccio Iacco-Pontestazzemese fu chiuso. Il 30 giugno dell’anno successivo, il trenino dei marmi fece il suo ultimo viaggio e l’intera rete della TEV chiuse i battenti: senza dare troppo nell’occhio, usciva così di scena un generoso protagonista della vita quotidiana versiliese del primo Novecento, che, oltre ad aver reso possibile il grande sviluppo economico del territorio, ne aveva contribuito a radicare il senso di appartenenza comunitaria, riducendo sensibilmente le distanze fra pianura e montagna.
Ancora oggi, la memoria degli anziani locali riserva un posto speciale al vecchio “trenino dei marmi”, uno spazio affettuoso, intriso di sincera nostalgia per un mondo ormai percepito come irrimediabilmente perduto. A tal proposito, in chiusura, valga su tutte la testimonianza di Concettina Bertonelli. Classe 1935, nativa di Arni, ricorda:

Me lo ricordo sempre il trenino, il trenino che dico io: era chiamato anche la tramvìa. Partiva dal Forte, da piazza Garibaldi, e pò andava sù sù sù, Seravezza… Portava i marmi, quelle robe lì, ma anche i passeggeri: era un servizio utile. A Querceta c’era un doppio ponte, perché c’era la ferrovia e poi questo trenino. Poi andava in su, sulla via d’Arni. Fino a Tre Fiumi, però, è! Da Tre Fiumi in poi, niente: a piédi! Sicché quel poco di roba che si portava su, c’era da caricassela sulle spalle e via. Dopo, allora, son venuti i pullman.




Grosseto e l’acquedotto delle Arbure tra abbondanza e scarsità d’acqua

Grosseto è una città giovane. Infatti, nonostante lo status di civitas ricevuto nel 1138, fino all’Ottocento rimane un piccolo borgo all’interno delle proprie mura cittadine, assediato esternamente dalle paludi e dalla malaria, caratterizzato da una bassa densità abitativa e da un minimo sviluppo sociale ed economico. Del resto anche Gian Franco Elia parla di Grosseto come di una “città malgrado” perché «sorge in un’area priva dei requisiti essenziali per divenire città»; perché «nel suo primo millennio, non ha un’organizzazione politica espressa in qualche modo dalla popolazione e manca di quella autonomia che (…) costituisce condizione indispensabile per lo sviluppo della civilizzazione urbana in Italia» ed infine perché «nello stesso periodo, la perimentazione della città è rigorosamente definita dalla sua cerchia muraria ed accoglie una popolazione assai ridotta»(1).

È con la fine dell’Ottocento che la situazione inizia a cambiare, quando Grosseto acquista una dimensione demografica di vera città e soprattutto nella pianura maremmana si avvia quel lungo processo di bonifica che porterà alla messa in sicurezza idrogeologica e al debellamento della malaria. L’acqua paludosa è un tratto distintivo nella storia del territorio, la sua presenza ne ha frenato lo sviluppo, creando condizioni igienico-sanitarie precarie per la popolazione, mentre la bonifica ne ha assicurato la crescita economica e sociale.

È possibile capire la storia di Grosseto e il suo percorso per diventare città attraverso il racconto dell’acqua. Se è vero che nell’immaginario collettivo è legata alla terra e all’agricoltura, la costituzione dell’identità maremmana è legata a doppio filo al ruolo dell’acqua, non solo per la vicinanza al fiume Ombrone, spesso protagonista di tragiche alluvioni, ma soprattutto per il legame forte con il padule circostante.

Anche l’andamento demografico è il frutto del rapporto tra la città e l’acqua; il breve aumento e poi la stabilizzazione della popolazione tra il 1861 e il 1881 racconta la prosecuzione della bonifica, la progressiva lotta alla malaria, la regimentazione delle acque e la costruzione dell’acquedotto. Furono queste le condizioni che migliorarono lo stato delle cose sul versante igienico-sanitario della città.

È necessario quindi tenere ben presenti queste variabili esplicative: poca popolazione, abbondanza di acque paludose e presenza della malaria.

Il rapporto della città con le acque, declinato nell’abbondanza e nella scarsità, ci rivela la situazione assai complicata di un luogo che fatica a crescere e a trovare la propria via per lo sviluppo economico e sociale. Senza questo elemento, diventerebbe incomprensibile, infatti, la scelta del regime fascista di investire le proprie energie nella costruzione del nuovo acquedotto e diventerebbero di difficile comprensione le ragioni che portarono i fascisti grossetani ad usare in maniera propagandistica l’elemento dell’acqua quale simbolo della redenzione di un’intera terra. Una redenzione che nel discorso pubblico fascista risolveva i problemi atavici della Maremma e poneva fine alla lunga guerra delle acque.

In questa prospettiva, il primo problema da affrontare per Grosseto fu dunque quello della sovrabbondanza d’acqua delle zone paludose. Queste, fin da epoche remote avevano invaso la pianura maremmana e diffuso la malaria. Davanti a quella sterminata pianura abbandonata e in parte occupata da zone umide, la Repubblica di Siena, una volta preso il possesso di quella terra, non vide altro che pascolo, luoghi di transumanza e di campi aperti. La situazione non cambiò neppure con i Medici che seguirono ai senesi, e che, pur cercando di risolvere i problemi idraulici di quella terra, ne lasciarono invariati il paesaggio e l‘economia. La prima vera svolta si ebbe con i Lorena, i Granduchi di Toscana, primi governanti a prendersi cura con devozione delle sorti della Maremma. In realtà, il primo che se ne prese cura fu Sallustio Bandini, arcidiacono senese. Nel suo famoso Discorso sopra la Maremma di Siena del 1737 non la vedeva solo come terra di sfruttamento e di pascolo ma come area dove il libero mercato e l’indipendenza amministrativa avrebbero potuto fare da volano per lo sviluppo sociale ed economico. Da quelle idee rivoluzionarie si innescarono le azioni di governo dei Lorena, che grazie alle opere idrauliche di Ximenes e di Fossombroni riuscirono a bonificare la pianura maremmana.

Il 1828 è un anno cruciale nella storia della Maremma; Leopoldo II, dopo aver emanato un importante motuproprio, dette inizio a novembre alla bonifica per colmata, architettata da Fossombroni; è la svolta nella storia di questa terra, l’atto di fondazione della Maremma moderna e l’inizio di quel lungo viaggio che portò al bonificamento e alla modernizzazione. Se le idee e la lungimiranza dei sovrani lorenesi e dei loro consiglieri (tecnici e politici) dettero un impulso fondamentale, il cammino vide progressi e regressi, non fu lineare ma lento e travagliato, tanto che solo dopo un trentennio i lavori potevano dirsi conclusi. La bonifica generale della Maremma aveva creato circa 9000 ettari di pianura, nuova terra vergine per l’agricoltura. Grazie a quella gigantesca opera si erano create le condizioni minime per un’adeguata produzione di grano, che avrebbe potuto far progredire e sviluppare quella terra.

È in questo periodo che nasce, o meglio rinasce, la città di Grosseto; se il problema della sovrabbondanza dell’acqua paludosa era in parte risolto, rimaneva da affrontare quello della scarsità di acqua potabile. Una vera città aveva bisogno di un acquedotto e Grosseto non ne aveva mai avuto uno. Il primo costruito fu quello del Maiano nel 1872, che però fin dal principio si dimostrò insufficiente a garantire le esigenze della città: portava in maniera discontinua pochissima acqua e solo in alcune fontane pubbliche cittadine; con una portata di soli 5 litri al secondo e le tubature in cotto non garantiva un servizio continuato, soprattutto d’estate.

Con il crescere della popolazione la situazione del sistema idrico cittadino appariva sempre più carente; era necessario migliorare le condizioni igienico-sanitarie della popolazione presente, sopratutto per combattere la diffusione della malaria. In quegli anni, infatti, il processo di bonifica non era ancora terminato e nella pianura grossetana imperversava questa malattia, con dei picchi gravissimi in estate. Era per questa ragione che era stata istituita l’estatatura, quella pratica che prevedeva, nel periodo più pericoloso per la diffusione del morbo, lo spostamento degli uffici pubblici dalla città alla collina, principalmente a Scansano. E’ chiaro che una città falcidiata dalla malaria e priva per molti mesi all’anno delle funzioni pubbliche non poteva sperare in un futuro di espansione e progresso. La strada per un futuro moderno e rigoglioso passava da un nuovo acquedotto capace di garantire migliori condizioni igienico-sanitarie della città. Per realizzare quest’opera modernizzatrice fu necessario cercare l’acqua molto lontano dalla città: nacque così il primo vero acquedotto di Grosseto, un sistema di tubazioni sicuro che trasportava l’acqua dalle fonti delle Arbure sul Monte Amiata verso la città.

Il primo acquedotto delle Arbure fu inaugurato a Grosseto l’11 giugno 1896. Fu frutto di un lungo processo di miglioramento e di modernizzazione, non episodio marginale, ma tappa del percorso che Grosseto e la Maremma vissero dal tempo dei Lorena fino al fascismo; sarebbe infatti riduttivo osservarne la costruzione senza il contesto di lungo periodo e apparirebbe opera di poca importanza se slegata dalla lunga e difficile guerra delle acque. Purtroppo, anche questo acquedotto dopo alcuni anni si rivelò non adeguato alle esigenze demografiche di una città in progressiva espansione. La situazione andò peggiorando fino a manifestarsi come una vera e propria crisi nel primo dopoguerra. Se per l’epoca era «largamente sufficiente ai bisogni di Grosseto, tanto che nel principio quasi la metà della totale portata giornaliera dell’acquedotto veniva concessa al Comune pel rifornimento della stazione ferroviaria e del deposito d’allevamento cavalli»(2), negli anni successivi si rivelò insufficiente. Mentre diminuiva il flusso idrico la popolazione della città cresceva e con essa aumentavano le esigenze igienico-sanitarie, tanto che negli anni Venti la portata bastava solo «per uso potabile ed [era] del tutto manchevole per i servizi di igiene e per ogni altra esigenza cittadina» (3).

L’aumento demografico e un progressivo deterioramento della struttura resero l’acquedotto antiquato e poco utile alla città; è così che a partire dal primo decennio del Novecento le amministrazioni comunali che si susseguirono a Grosseto iniziarono a pensarne e a progettarne uno nuovo. Nel 1914 l’ingegner Ulivieri propose di ristrutturare il tracciato esistente e di raddoppiarne la condotta adduttrice per aumentare la dotazione idrica dell’acquedotto di 60 litri al secondo ma lo scoppio del primo conflitto mondiale ne bloccò la realizzazione.

Nel primo dopoguerra dunque la situazione igienico-sanitaria della città divenne insostenibile tanto da costringere l’Amministrazione comunale a una rapida soluzione, partendo proprio dalle riflessioni dell’ingegner Ulivieri che aveva fatto un quadro ben chiaro sull’inadeguatezza dell’acquedotto:

«non potevasi d’altra parte prevedere che la città ed il contado maremmano si fossero quasi improvvisamente destati da un letargo millenario e si fossero quasi improvvisamente destati da un letargo millenario e si fossero sviluppati in modo da moltiplicare a tal punto le esigenze ed i bisogni fin quasi al livello dei grandi centri; e che lo sviluppo grandissimo dell’igiene, il concetto più umanitario per il trattamento dell’operaio del vasto latifondo, non del tutto scomparso e del colono che gradualmente ad esso si sostituisce e gli impianti per i pubblici servizi sorti di un tratto e sviluppati per l’improvviso addensarsi della popolazione, avrebbero richiesto soprattutto acqua, acqua purissima in abbondanza, senza la quale non è possibile ingaggiare alcuna lotta contro le infezioni malariche, non è possibile alimentare le conquiste in vantaggio della salute pubblica» (4).

Intorno agli anni Venti il Comune di Grosseto scelse una soluzione drastica: invece di continuare ad adeguare il tracciato del vecchio acquedotto propose di costruirne uno nuovo. La svolta nella storia dell’acquedotto grossetano avvenne nel periodo dell’ascesa del fascismo, una fase che qui come altrove si caratterizzò per episodi di violenze e brutalità.

Il 9 agosto 1923 fu deliberato dal Consiglio Comunale un nuovo studio per poter capire se fosse possibile progettare un nuovo acquedotto; era quindi necessario «affidare ad un ingegnere idraulico specialista lo studio e presentazione di uno studio definito di derivazione in città delle acque delle sorgenti comunali delle Arbure e Bugnano per una quantità di circa litri 75 al minuto secondo» (5). Il sindaco durante quel consiglio sottolineò come «le condizioni dell’acquedotto si [facessero] ogni anno più critiche per il progressivo aumento delle esigenze del servizio e per nuovi inconvenienti che si [manifestavano] fra cui quello recentemente osservato della corrosione dell’esterno di alcuni tratti di tubazione rimasta gravemente danneggiata». Aggiunse poi: «il problema dell’acquedotto si dibatte da circa un decennio tanto che fu concretato un progetto prima del 1915, progetto che non poté avere attuazione per ragioni varie e per il sopraggiungere della guerra» e per questo concluse affermando quanto fosse «urgente la necessità di riprendere in esame questo importantissimo problema e di risolvere il più rapidamente possibile perché il disagio della popolazione possa eliminarsi quanto prima» (6).

Lavori del grande serbatoio del Grancia. Visita sindacati fascisti

Lavori del grande serbatoio del Grancia. Visita sindacati fascisti

Il progetto fu affidato il 14 novembre a Luciano Conti, ingegnere capo del Genio Civile e della provincia di Grosseto. Fin da quel primo progetto si capì che il nuovo acquedotto sarebbe stato totalmente diverso da quello del 1896, più moderno e soprattutto adeguato alle esigenze igienico-sanitarie di una città in rapida espansione. L’ingegnere sottolineò il fatto che l’acquedotto avrebbe dovuto avere un uso domestico, avrebbe dovuto servire le fontane pubbliche e tutti quei servizi di pubblica utilità che avevano bisogno dell’acqua corrente ma soprattutto avrebbe dovuto essere destinato agli usi industriali e agricoli del territorio comunale. Il nuovo acquedotto aveva quindi bisogno di una grossa portata e di una struttura idrica sicura e capace di servire adeguatamente e senza interruzione le molte e varie esigenze della cittadinanza.

Era chiaro che le sole acque delle Arbure non bastavano più; si decise allora di convogliare anche quelle del Bugnano, oltre ad altre piccole polle d’acqua. Il progetto dell’ing. Conti fu approvato dal Comune il 22 dicembre 1924 e oltre alle nuove fonti proponeva anche la costruzione di un grande serbatoio terminale posto nei pressi della Grancia di Alberese, che avrebbe garantito un servizio continuativo e sicuro. I lavori furono affidati alla Ditta Del Fante; dopo alcuni problemi economici, ritardi nella consegna dei lavori e alcuni piccoli scandali il nuovo tracciato dell’acquedotto fu completato.

Ponte sulle Trasubbie in costruzione. Foto con maestranze e tecnici

Ponte sulle Trasubbie in costruzione. Foto con maestranze e tecnici

Figura fondamentale nella costruzione di questa grande opera fu Aldo Scaramucci, podestà e figura ambigua del fascismo locale; fu lui che costruì l’acquedotto grazie dell’Onorevole Pierazzi, che riuscì ad ottenere i mutui necessari alla costruzione. Il 13 novembre 1932 a Grosseto Re Vittorio Emanuele III, alla presenza di tutti i gerarchi fascisti della provincia, inaugurò davanti al nuovo palazzo delle Poste il nuovo acquedotto cittadino. Due inaugurazioni solenni e retoriche che il regime, in quel momento, stava usando per far passare un chiaro messaggio propagandistico: il fascismo grossetano si presentava come unico movimento politico ad essere riuscito, primo tra tutti, a portare l’acqua in città ma soprattutto a portare Grosseto nell’era moderna.

Il nuovo acquedotto simboleggiava la fine dei problemi inerenti alla scarsità di acqua potabile e richiamava la guerra delle acque che il fascismo stava concludendo con la bonifica integrale. La scelta di inaugurarlo davanti al palazzo delle Poste era un altro chiaro segno propagandistico. Il palazzo, infatti, realizzato dal famoso architetto Angiolo Mazzoni, non solo sarebbe dovuto diventare il nuovo centro nevralgico della città ma attraverso il linguaggio architettonico avrebbe dovuto simboleggiare l’imponenza del regime. La stessa destinazione d’uso di palazzo Mazzoni era coerente con l’idea di profondo rinnovamento della città: gli uffici delle Poste e delle Comunicazioni erano un tipico simbolo della modernità, che il regime seppe usare e sfruttare a proprio favore. Il centro della nuova Grosseto, quindi, appariva moderno grazie a questi tre elementi di valore simbolico: il potere, la comunicazione e l’acqua.

È in questo senso che vanno lette le parole, piene di toni propagandistici, del podestà Scaramucci, durante l’inaugurazione:

«Abbiamo trovato la Maremma abbandonata e intristita. In questa terra tre sole cose erano permesse: pagare le tasse, contare i malarici che venivano ricoverati all’ospedale e dare ospitalità ai briganti che la legge, qui, lasciava impuniti. Il popolo maremmano ha già visto e vede ogni giorno le opere che portano il segno del Littorio: decine e decine di Km di strade, edifici pubblici, acquedotti, scuole, ponti ricostruiti sulla via dell’Impero, migliaia di ettari strappati dal lavoro umano e dalla saggezza fascista al danno e alla vergogna della palude. (…) Quando tutte le opere in programma saranno compiute e la Legge sulla Maremma avrà avuto la sua piena attuazione il nostro sogno sarà un’irrevocabile realtà» (7).

Al di là dei toni propagandistici, in effetti nessuno dei tentativi di prosciugamento delle zone paludose era riuscito in maniera definitiva a risanare e a recuperare la Maremma. Fino agli anni Trenta del Novecento, la natura era sempre riuscita ad avere la meglio sulle opere artificiali. La cosiddetta “bonifica integrale” tentò di creare le condizioni per rendere irreversibili prosciugamento e risanamento dell’ambiente. Questi furono accompagnati da massicce opere su tutto il bacino idrologico della pianura: dal miglioramento della viabilità, alle politiche utili a favorire migrazioni per il popolamento delle campagne. Causa ed effetto di questo processo fu l’aumento del fabbisogno idrico sia in città che in campagna. Sarebbe incomprensibile, senza questo sguardo d’insieme, capire la grande opera che ebbe il suo completamento con una scenografica inaugurazione nella piazza completamente trasformata dalla modernissima architettura del palazzo delle Poste. L’investimento in denaro per lavori di bonifica e miglioramento rispetto al periodo compreso tra il 1930 e il 1940 fu maggiore proprio negli anni delle opere necessarie alla costruzione del grande acquedotto.

Le autorità presenziano all'inaugurazione del nuovo acquedotto

Le autorità presenziano all’inaugurazione del nuovo acquedotto

Un aspetto non marginale è inoltre l’effetto che l’acquedotto ebbe sull’economia locale. Gli ultimi anni Venti erano stati di crisi, una crisi globale, con l’effetto di un forte calo dell’occupazione. Le opere pubbliche programmate e poi realizzate, tra la lunga e complessa conduzione delle acque dall’Amiata alla pianura, contribuirono a limitare la disoccupazione in Maremma. Il 1932 è infatti l’anno in cui raggiunse il suo livello più alto l’impiego di manodopera in opere pubbliche.

Per il regime fascista la costruzione dell’acquedotto ebbe dunque una duplice valenza di utilità pubblica, sia per soddisfare un bisogno sociale primario, sia nel migliorare l’economia locale; ma si colloca anche a buon diritto tra le politiche del regime finalizzate alla propaganda politica. Nel caso grossetano possiamo osservare un fenomeno interessante: centro e periferia sembrano viaggiare in piena sintonia nella ricerca del consenso. Il fascismo, fin dai primi anni, promosse la costruzione di opere introducendo uno strettissimo rapporto tra politica e architettura: questa, infatti, divenne «uno strumento di governo, attraverso cui ottenere il consenso delle masse. Gli edifici pubblici realizzati vengono identificati come architettura del fascismo, costruite dal regime per il popolo. Tutto ciò che viene costruito espone sempre e con evidenza le insegne del fascio»(8). Il fascismo si identifica con le opere pubbliche, che a loro volta diventano simboli tangibili della modernità e del progresso del regime; del resto l’architettura ha il compito di costruire simboli chiari che tutti possano capire: «il monumento architettonico ha la capacità di trasmettere significati in grado di raggiungere tutta una comunità, la quale in esso poi si viene a riconoscere» (9). Con una semplificazione, si può istituire un parallelo con una delle fasi storiche che hanno trasformato le città – l’età medioevale – quando le cattedrali e le opere che custodivano avevano anche il fine di evangelizzare il popolo. Il fascismo usò l’architettura e più in generale le opere pubbliche per creare consenso e fascistizzare le masse. Il nuovo acquedotto di Grosseto non era un’opera architettonica che poteva essere ammirata e neppure un monumento, ma faceva comunque parte di questo contesto sinergico tra opere pubbliche e propaganda.

Dopo l’inaugurazione del 1932 l’acquedotto continuò a servire d’acqua potabile la città di Grosseto, anche se rimasero ritardi nella prosecuzioni degli altri tronchi, emersero problemi di liquidità e si verificarono altre complicazioni con le ditte appaltatrici. La pur faticosa fine della costruzione dell’acquedotto delle Arbure si connotò in realtà come un nuovo inizio; nel 1938 il regime annunciò la costruzione di una nuova opera che avrebbe portato l’acqua a tutta la Maremma: l’acquedotto del Fiora.

  1. Gian Franco Elia, Città malgrado, 2002.
  2. ASGr, Comune di Grosseto, nuovo deposito, XV, b, 16, Corpo Reale del Genio Civile, Ufficio di Grosseto, “Progetto di massima del nuovo acquedotto”, 29 luglio 1925.
  3. Ibidem.
  4. ASGr, Comune di Grosseto, nuovo deposito, XV, b, 16, Progetto Ulivieri per il nuovo acquedotto, 28 dicembre 1914.
  5. ASG, Comune di Grosseto, nuovo deposito, XV, b, 16, Delibera del Comune di Grosseto, 9 agosto 1923, numero 163.
  6. Ibidem.
  7. “La Maremma”, 19 novembre 1932.
  8. Paolo Nicoloso, Mussolini architetto. Propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista, 2008.
  9. “La Maremma”, 19 novembre 1932.



Bisenzio

Fino a quando, a seguito della smobilitazione dei Lanifici negli anni Cinquanta, l’arrivo dei carbonizzi e delle tintorie non iniziò a inquinare le acque limpide del fiume, il Bisenzio non era solo un corso d’acqua sulle cui sponde erano nate le principali industrie del pratese.

Era il palcoscenico dei divertimenti estivi di tutti i ragazzi che trascorrevano ore nelle pozze d’acqua create dalle pescaie o nei canali delle gore; era una fonte di alimento e guadagno, attraverso la pesca e il duro lavoro dei renaioli; era il luogo dove le donne, chine sui sassi, lavavano panni e indumenti.

Proprio le testimonianze dei ragazzi d’allora, raccolte con cura dal Centro di Documentazione Storica della val di Bisenzio negli ultimi trent’anni, permettono di rievocare con vivacità i mille legami intessuti tra la gente del posto e un corso d’acqua: uno scambio continuo e infinito, dove ogni singola risorsa offerta dal fiume era sfruttata o piegata ai bisogni primari e secondari della comunità.

E sicuramente l’aspetto ludico era tra i bisogni secondari pienamente soddisfatti dal fiume: tutti i ragazzi, dal più piccolo al più grande, sapevano nuotare con sicurezza: prima nelle piccole pozze confortati dagli alti massi che fuoriuscivano dall’acqua, per poi affrontare le varie pescaie che accompagnavano il corso del Bisenzio, mentre nelle gore si facevano gare di nuoto per varie categorie d’età, a eliminazione, perché più che due per volta non si poteva gareggiare per lo stretto margine delle due sponde.

Nella vita sociale prima della Seconda guerra mondiale il Bisenzio era ancora l’ambiente deputato al benessere e alle attività fisiche dei bambini: in epoca fascista, infatti, le principali colonie elioterapiche erano dislocate lungo il fiume, e l’aria fresca del Bisenzio accompagnava i disciplinati bagni di sole e di fiume, i saggi ginnici e i giochi.

Tra fabbrica e fabbrica, tra pescaia e pescaia, il fiume era pulito, trasparente. La buona qualità delle acque permetteva anche la presenza di pesci delle più varie specie -broccioli, lasche, codinelle, barbi, boghe, anguille- da catturare con peculiari specializzazioni: con le mani e le forchette; in apnea frugando tra gli scogli; con l’amo e il tramaglio (una rete alta e lunga); “a rintrono”, facendo uscire storditi i pesci da un anfratto dove era stato scagliato un sasso sopra l’altro; a “frugnolo”, dove, nelle ore notturne, a lume di carburo con un retino piccolo si illuminavano i pesci che rimanevano fermi, o ancora “a corda”, con cordicelle che facevano girare i fusi delle filande presi in filatura. Molti di questi sistemi erano proibiti dalla legge e non passava settimana, nel periodo dalla fine di marzo a ottobre, che non ci fosse qualche inseguimento da parte della Guardia Forestale e dei Carabinieri. Pochissimi avevano la licenza di pesca e quasi tutti rischiavano: alcuni lo vendevano, arrotondando la paga della fabbrica, ma per la maggior parte dei pescatori di frodo il pesce era una delle basi dell’alimentazione. Il ristorante “Il Bongino” presso La Tignamica (Vaiano) si era specializzato nella frittura di pesciolini di Bisenzio e il lunedì -quando a Prato chiudevano i negozi e le attività- molti cittadini si riversavano sulle sponde del fiume a pescare per poi pranzare alla celebre locanda.

4-giovani-donne-a-lavare-panni-e-indumenti-nel-bisenzioAltra fonte di guadagno era costituita dalla rena, creatasi dall’arrotatura della pietra arenaria prodottasi nel fiume durante le piene, scavata e raccolta con fatica dai renaioli nei vari posti di prelievo autorizzati. Nella maggior parte dei casi i renaioli erano anziani che conoscevano bene il fiume e sapevano dove scavare il greto; per arnesi avevano un picco, un badile e una rete metallica inchiodata ad un telaio in legno rettangolare” strumentale alla divisione tra ghiaia e rena, venduta poi ai muratori come collante per la calce e il cemento.

Le rischiose inondazioni del Bisenzio, che più di una volta avevano travolto uomini e animali (come il direttore dello stabilimento Sbraci Godi Noris nel 1932) ed erano state indagate dai più illustri fisici e ingegneri (come Galileo Galilei nel 1631) erano ancora una volta sfruttate a fini economici: oltre alla rena, la piena era attesa per i pezzi di indumenti (rivenduti agli stracciaioli) e le tavole di legno (utilizzate per scaldarsi) che la furia delle acque portava a valle, ripescate con rudimentali ganci attaccati ad aste lunghe anche dieci metri.

Ad utilizzare il fiume principalmente per lavare erano ovviamente le donne, e per alcune “fare la lavandaia in Bisenzio” era un’occupazione professionale. Il lavoro era particolarmente duro: nella Val di Bisenzio quasi tutte le donne erano operaie nelle numerose fabbriche e, uscite dal turno, ad ogni stagione si dirigevano con i panni sporchi sugli argini del fiume, in ginocchio sui sassi. Ambiti ma rari erano i pozzi o le gore che talvolta si trovano lungo i fossi dei vari paesi.

Come un piccolo mare, il Bisenzio tra le due guerre era l’elemento principe nella vita delle varie comunità dislocate lungo il fiume: un ecosistema di relazioni e affetti, di svaghi e preoccupazioni, di lavoro e sostentamento.