Dover partire.

Come afferma Patrizia Gabrielli, quello biografico è un approccio a lungo rimasto a margine rispetto alla produzione storiografica sull’antifascismo che, solo fino a pochi anni fa, pareva prediligere una rimozione del retaggio delle storie personali, dei vissuti soggettivi quasi fossero soffocate dalle gesta dei molti eroi che contraddistinsero il periodo e segnarono la storia della nostra repubblica e della nostra libertà.

Nell’ambito della produzione memorialistica sull’antifascismo, il metodo biografico ha acquistato progressivamente uno spazio significativo, al punto che ormai, costituisce parte integrante della bibliografia sull’emigrazione con le sue memorie, autobiografie e carteggi, che hanno avuto il potere di mettere in luce angoli visuali inattesi.

Le ricche e interessanti storie soggettive e collettive contribuiscono così a rendere una visione d’insieme dell’esperienza dei fuoriusciti italiani attraverso plurimi punti di osservazione, non solo statistici o politici. La visione al tempo stesso vittimistica ed elogiativa dei migranti italiani all’estero, offre più profondi e interessanti spunti di riflessione sociologica e culturale. Infatti, ogni situazione contiene in se stessa una complessità che la rende unica. Questo articolo descrive la storia della migrazione da Marti a Valbonne durante l’affermazione del fascismo in Toscana raccontando, a titolo di esempio, la storia della famiglia Lanini una delle 28 famiglie immigrate in quel periodo da un paese che contava all’epoca 2000 anime, insieme ad altri toscani perseguitati dal fascismo[1]. In questa ondata migratoria una famiglia si caratterizzò dalle altre. In quanto strumento del regime, aveva un incarico ben preciso quello del controllo affermando le direttive del fascismo, fuori dal territorio nazionale, seppur interpretate secondo le necessità locali[2]. Il fascismo aveva provato a più riprese a incunearsi nelle società ospiti sebbene la forza del regime sia stata riconosciuta, soprattutto in Francia, con maggiore reticenza[3], sebbene tutti gli studiosi abbiano sempre concordato sul fatto che solo una minoranza degli italiani avesse aderito alle organizzazioni antifasciste all’estero.

Primo Lanini arrivò a Valbonne (Francia) nell’estate del 1924 a piedi, dopo una lunga e disagiata marcia lunga 400 km durata 5 settimane. Aveva 37 anni.  Il suo è un viaggio esplorativo per verificare la situazione, trovare un alloggio, prendere accordi, stabilire contatti, comprendere le potenzialità da dove partire. Cosetta è l’ultima figlia nata in Italia e ancora vivente. Nasce il 5 dicembre 1924 al civico 18 di Borgo d’Arena, una borgata di Marti, al tempo frazione del comune di Palaia in provincia di Pisa un quartiere, molto attivo da un punto di vista di impegno politico dove risiedevano anarchici, socialisti e comunisti afferenti alla Lega mista contadini-operai formatesi con autentica partecipazione durante il biennio rosso ma anche l’associazione La fratellanza operaia legata al modello del mutuo soccorso e già attiva agli inizi del 1900.

La scelta del luogo dove installarsi con la famiglia era riconducibile essenzialmente al passaparola con altre famiglie toscane emigrate a Valbonne[4] già a fine Ottocento per motivi legati al lavoro stagionale costituito principalmente dalla vendemmia dell’uva servan e dalla raccolta dei fiori come il gelsomino e la rosa centifoglia per le profumerie di Grasse, che attirava nella zona donne e uomini provenienti anche dalla provincia di Cuneo e dalle valli limitrofe[5] e dal fatto che la Francia, in quel momento, registrava un importante presenza di antifascisti (nel dipartimento Alpi Marittime e nella Regione PACA ce ne sono molte)[6]. Il Paese confinante era stato ritenuto da Primo l’alternativa più sicura e più accessibile considerato l’inasprimento dei rapporti internazionali e l’affermarsi del fascismo. La comunità martigiana proveniva da un paesaggio rurale caratterizzato dalle belle colline inferiori pisane, punteggiato da boschi e calanchi di creta argillosa. La gente allevava polli, vitelli e porci, intrecciava cesta, costruiva cerchi per le botti, lavorava il castagno, forgiava il ferro, coltivavano la terra, il mare non era nelle loro corde, né tantomeno il paesaggio urbano di Nizza, per questo la scelta di un paese simile, se non altro per clima e contesto, sembrò la più appropriata. Valbonne al tempo, era circondata da boschi si poteva tagliare la legna, venderla, trasformarla in carbone, costruire gabbie per gli uccelli, arrangiarsi, ingegnarsi, destreggiarsi, adattarsi ma lavorare finalmente in pace e vivere in attesa di tempi migliori. Le migrazioni cambiano e arricchiscono la storia di un Paese, trasformano la composizione sociale e politica di un luogo, incrementano l’economia locale ma la transizione non è così immediata, lineare e pacifica e, sicuramente nella fase iniziale, non è mai semplice inserirsi nel nuovo tessuto sociale. Così, spesso, gli eventi sfociavano in importanti divergenze culturali anche se, nel caso di Valbonne, non ci sono state mai vere e proprie discriminazioni da parte francese[7]. L’integrazione, anche solo lavorativa, non sembrava essere facile salvo sfruttare liberamente le risorse naturali del territorio: i boschi, rendendo vitale questo settore. I martigiani si specializzarono nel taglio del bosco e nella produzione del carbone, realizzavano fascine per venderle nei ristoranti, nei panifici o nei forni di cottura della celebre ceramica di Vallauris dove si installerà Picasso dal 1948 al 1955[8].

unnamedParisina Bottai con il primogenito Rigoletto, 10 anni,  Alfio, 5 anni e Cosetta, di soli sei mesi[9], arrivarono a Valbonne un anno più tardi, nell’estate del 1925, quando ormai in Italia erano state parzialmente approvate le leggi fascistissime trasformando, progressivamente, la monarchia parlamentare in una dittatura totalitaria. Arrivarono con il treno con un biglietto di terza classe fino a Ventimiglia dove Primo li raggiunse e li aiutò a passare la frontiera. Lanini era un socialista non interventista (aderente in un successivo momento al comunismo) che, suo malgrado, fu coscritto quattro anni nel corpo degli alpini e inviato sul fronte orientale in Trentino Alto Adige per combattere durante la Prima Guerra mondiale[10]. Tornato a casa, scioccato da quanto aveva visto e vissuto, demoralizzato e amareggiato per il trattamento riservato loro al rientro dalla guerra, cercava, come tutti i reduci, di reinserirsi nel tessuto sociale e riprendere stabilmente il suo lavoro di boscaiolo che gli consentisse di mantenere la famiglia. Così quando le camice nere andarono a cercarlo a casa per ingaggiarlo nelle loro spregiudicate imprese intimidatorie, Primo non ne volle sapere: era stanco della violenza e del dolore. Era un uomo giusto, dignitoso, le sue pretese erano semplici e lecite:  voleva solo ricominciare a lavorare e dimenticarsi dell’orrore della vita delle trincee e della disillusione delle promesse fatte. Lanini non condivideva l’ideologia fascista pertanto si rifiutò con fermezza di partecipare anche alla Marcia su Roma. Considerato un sovversivo, divenne vittima delle vessazioni delle cosiddette squadracce e a seguito di un’aggressione fisica grave decise di mettersi in salvo con la famiglia da un paese ingrato e illiberale.. Vi erano già state nel Comune di Palaia situazioni di tensione alcune delle quali trasformarsi in tragedia. Una sera durante una veglia clandestina, un gruppo di camicie nere provenienti da Pontedera fece irruzione nella casa dove si erano riuniti clandestinamente alcuni esponenti antifascisti e cominciarono a colpire all’impazzata con il manganello tutti i partecipanti alla riunione. Emilio Doni (1886-1954) attivo sindacalista e autorevole sindaco di Palaia già dal 1920 si mise miracolosamente in salvo saltando velocemente fuori dalla finestra e nascondendosi dentro il forno per il pane. Doni fu costretto a dimettersi dal ruolo di sindaco a causa dell’avanzamento dell’ondata nera guidata dai proprietari terrieri della zona tra tensioni e tumulti che sfociarono in feroci aggressioni e atti di sangue. Ma l’evento determinante che fece maturare definitivamente la scelta di Primo Lanini di trasferirsi in Francia fu l’aggressione e l’omicidio di un compaesano. Primo, che da qualche tempo aveva già preso in considerazione l’ipotesi della fuga all’estero, ne fu convinto soprattutto dopo l’assassinio di Alvaro Fantozzi[11]  segretario della Camera del lavoro di Palaia di soli 29 anni avvenuto sulla strada di Castel del Bosco al mattino del 2 aprile 1922 mentre si recava a un comizio a Marti per cercare di ripristinare la Lega mista contadini-operai. Lanini comprese che la situazione stava degenerando, accelerò dunque i tempi passando velocemente all’azione avvalendosi delle indicazioni di altri martigiani che anni prima avevano già tentato l’avventura in cerca di fortuna e che nel frattempo, grazie a scelte oculate, erano diventati abbienti. Infine, la realtà nella quale questo giovane toscano dovette, suo malgrado, vivere gli prospettò un avvenire tranquillo e agiato, così quando, al termine della Seconda Guerra Mondiale si paventò l’idea di ritornare a casa a Marti, la scelta fu quella di restare in Oltralpe, a Valbonne dove morirà nel 1973[12]. Nonostante un forte senso esistenziale lo legasse ancora alla Toscana, la sua vita era ormai orientata a Valbonne e la Francia gli aveva procurato protezione e benessere economico.

[1] Famiglie provenienti da Marti: Bottai, Balducci, Bagnoli, Bandini, Banti, Doni, Trinti, Monti, Catalini, Giglioli, Ciampini, Cenci, Corti, Costagli, Ceccarelli, Giannini, Marmeggi, Gorini, Lanini, Nardi, Pretini, Pitti, Telleschi, Ulivieri, Regoli, Pistolesi, Pupeschi, Vanni. Famiglie originarie di Ponte a Egola : Billeri, di Forcoli : Doveri, di Massa : Trietti, di Pontremoli : Biasini e Valenti. Infine, famiglie provenienti da Pistoia: Vivarelli e Bizzarri.
[2] Il fascismo aveva provato a più riprese a incunearsi nelle società ospiti sebbene le forza del regime sia stata riconosciuta, soprattutto in Francia, con maggiore reticenza, sebbene tutti gli studiosi abbiano sempre concordato sul fatto che solo una minoranza degli italiani avesse aderito alle organizzazioni antifasciste all’estero.
[3] La penetrazione del fascismo nelle comunità italiane all’estero è stata per lungo tempo sottovalutata dalla storiografia, tanto in Italia quanto nei paesi d’arrivo. La storia del fascismo all’estero si è arricchita, nel corso degli anni, di diversi contributi che hanno ricostruito la penetrazione del regime in svariati contesti nazionali e regionali. Nell’ambito della storiografia italiana, il contributo recente più interessante appare quello di Matteo Pretelli.
[4] Demografia di Valbonne village: 1891 = 1015 , 1896 = 1138, 1901 = 1067, 1911 = 1045, 1921 = 831, 1926 = 949, 1931 = 1063. Nel periodo di cui stiamo parlando Valbonne contava 949 abitanti. Ultimi dati aggiornati al 2017 = 13 325 abitanti.
[5] Il Comune di Valbonne si era già dimostrato accogliente nei confronti degli italiani che svolgevano lavori stagionali poiché aveva già ospitato altri migranti toscani, provenienti da Marti primo su tutti Amerigo Balducci giunto nel villaggio nel 1895 con la moglie Zaira Nardi, seguiti, in ordine sparso, da altre 6 famiglie di cui il nucleo di Armando Nardi e Ida Petrini arrivati a Valbonne nel 1904 che rappresentano un’importante testa di ponte per la successiva migrazione politica.
[6] Occorre ricordare, a titolo di esempio, la famiglia di Amleto Gorini martigiano installatosi a Draguignan e Danilo Gorini che fu a lungo sindacalista nella CGT e che partecipò alla Resistenza francese.
[7]  Le condizioni di vita erano piuttosto favorevoli e la comunità locale dimostrava quanto meno una certa tolleranza nei loro confronti. Nel censimento del 1936 si contano in Francia 720.000 italiani tra esuli antifascisti e comunità di lavoratori immigrati di cui 11.000 aderenti ai partiti politici antifascisti.
[8] Studi antropologici mostrano che la catena di immigrazione si organizzava per via familiare, così che le nuove comunità che si formavano erano omogenee per area di provenienza; la stabilità di tale flusso migratorio è confermata dall’esiguo numero di ritorni in Toscana.
[9] L’ultima figlia della famiglia Lanini, Angel, nascerà in Francia nel 1931.
[10] Primo Lanini fu insignito dal capo della Repubblica dell’Ordine di Vittorio Veneto dell’Onorificenza di cavaliere al valore militare (Numero d’ordine 315). L’onorificenza commemorativa fu istituita in Italia nel 1968 dall’allora presidente Giuseppe Saragat.
[11] Alvaro Fantozzi, Segretario della Camera del lavoro di Palaia e Assessore comunale a Pontedera, fu un infaticabile organizzatore di leghe bracciantili. Il giovane fu assassinato con armi da fuoco la mattina del 2 aprile 1922 da tre fascisti di San Miniato rimasti poi impuniti. Dopo l’omicidio Fantozzi, che scosse per la sua cruenza tutta la Valdera, i comunisti aggredirono due fascisti a cui seguì una pronta rappresaglia delle camicie nere che, in varie località della Provincia di Pisa, bastonarono gli avversari.
[12] Solo due famiglie dell’ondata migratoria tornarono a Marti dopo la fine della seconda guerra a causa di lutti e della necessità di fornire un aiuto materiale ai propri cari. Gli altri rimasero tutti in Francia dove nel frattempo avevano preso la nazionalità.




Livorno 1920: maggio di sangue

I primi giorni del maggio 1920, cento anni fa, Livorno fu teatro di un episodio a carattere insurrezionale che, seppur di breve durata e di relativa intensità, fu comunque sintomatico di una situazione di elevata tensione politica e sociale, tanto che, come annotò il console inglese, “la città era stata per due giorni quasi completamente in mano ai rivoltosi”. La prima, circostanziata e puntuale, ricostruzione di quei fatti la dobbiamo, ancora una volta, al fondamentale saggio di Tobias Abse.

    A differenza di Torino, Pola e Vicenza dove le forze dell’ordine avevano ucciso sette lavoratori, la giornata del Primo Maggio in città era appena trascorsa senza incidenti, tanto che «Il Telegrafo» aveva parlato di “Esempio luminoso di calma e moderazione”, esaltando “l’istintivo buon senso” e “l’innata avversione per tutto ciò che è ingiustificato disordine e inutile violenza” degli operai livornesi.

   Partito da Piazza Vittorio Emanuele  – l’attuale Piazza Grande – il corteo sindacale di 1.500 persone (secondo la stima non benevola de «Il Telegrafo»), con una quindicina di vessilli, aveva percorso le vie del centro e si era concluso con un comizio al teatro Politeama, “con grande sfoggio di bandiere rosse e nere e di garofani fiammanti”. Oltre ai rappresentanti delle diverse categorie, erano quindi intervenuti il socialista mas­simalista Nicola Bombacci, appena “reduce dalla Russia”, e il segretario della Camera del Lavoro, Zave­rio Dalberto.

   All’Ardenza invece era stato tenuto il comizio indetto dagli anarchici con la partecipazione del sindacalista valdarnese Attilio Sassi dell’Unione Sindacale Italiana. Inoltre, nel pomeriggio, un’altra adunata sindacale, con i mede­simi oratori della mattinata, si era pacificamente svolta a Colline.

   Dietro a tale apparente calma però, la tensione sociale in quel perio­do era già molto alta in città a seguito delle agitazioni dei disoccupati e degli scioperi dei lavoratori portuali contro il potere padronale e la poli­tica governativa; bastò infatti la notizia degli imprevisti fatti di Viareggio a far sfociare tale tensione in aperta rivolta.

   A Viareggio una banale rissa sportiva, seguita alla partita di calcio tra la Lucchese e la squadra di casa, era degenerata in gravi disordini e quindi aveva assun­to i caratteri di uno sciopero generale e di una sollevazione popolare che è possibile ricostruire attraverso le cronache pubblicate sui quotidiani: «Il Telegrafo» del 4 maggio; «La Gazzetta Livornese» del 7-8 maggio; «Umanità Nova» del 6, 7, 8 maggio 1920.

  Tutto era iniziato il 2 maggio quando, durante una zuffa scoppiata dopo il derby calcistico, i carabinieri avevano sparato e ucciso Augusto Morganti, un guardalinee con un passato di ex-tenente degli arditi di guerra che si era messo a capo della tifoseria viareggina.

    Di fronte a tale uccisione, la rabbia dei proletari viareggini tra i quali era forte la presenza anarchica dette vita ad un vero e proprio moto insurrezionale, tale da costringere i riottosi riformisti della Camera del lavoro e del Parti­to socialista a dichiarare lo sciopero generale cittadino, mentre venivano disarmati i carabinieri ed assaltate le caserme dell’Arma. In particolare, secondo quanto riferito dal corrispondente de «Il Telegrafo»: “Le donne, non tutte, si capisce, sono le più agitate, le più infuriate. Ne vedo a frotte, scarmigliate e discinte presso la Camera del lavoro, ove sono esposti due vessilli, uno nero e l’altro rosso”.

   Una volta che l’eco dei moti viareggini giunse a Livorno, immedia­tamente accese e fece dilagare il risentimento popolare, tanto da indurre la Camera del lavoro a indire uno sciopero di protesta per il 4 maggio, aderendo all’invito del Sindacato ferrovieri e vedendo la convergenza del segretario, massimalista, Dalberto, con le consistenti componenti anar­chica e repubblicana della Camera del lavoro.

    La città, intanto, era già attraversata da pattuglie armate delle forze dell’ordine, dopo che la Questura aveva ordinato il divieto di circolazione per ogni mezzo – biciclette comprese – nonché la vendita della benzina.

    Lo sciopero risultò esteso e compatto e, nel pomeriggio, una folla di lavoratori e sovversivi si radunò sotto la Camera del lavoro in via Vitto­rio Emanuele (oggi via Grande), nei pressi di piazza Colonnella, in attesa di notizie dalla Versilia e delle conseguenti decisioni del Consiglio delle Leghe ivi riunito. Nonostante la comunicazione che a Viareggio era stata decisa la cessazione del movimento, peraltro rimasto circoscritto, i di­mostranti continuarono a rimanere in strada, mentre dalle finestre della Camera confederale, gli esponenti socialisti invitavano a tornare a casa, contraddetti dagli anarchici – presenti in circa trecento – che sollecitavano i presenti a non fidarsi del governo e a continuare l’agitazione contro le continue violenze poliziesche.

La situazione era ancora relativamente calma, con capannelli di gente impegnata a discutere sul da farsi; fin quando carabinieri e militari pre­senti in forze circondarono la zona effettuando diversi fermi e bloccando le vie adiacenti, anche se la motivazione poi addotta dalla Questura, e riportata su «Il Telegrafo», fu che venne deciso di inviare un plotone di soldati (presumibilmente bersaglieri), al comando del commissario Ruggiero, per difendere la Camera del lavoro “dai facinorosi” e “dalla teppa”.

A quel punto i presenti reagirono inveendo contro la presenza della “sbirraglia”, mentre sconosciuti assaltavano l’antistante armeria Soldaini e l’armeria Bertelli in via della Tazza (l’odierna via Piave), pur facendo uno scarso bottino consistente in rivoltelle per lo più inservibili, qualche fucile da caccia e alcuni coltelli.

Recatisi nella vicina Regia Questura in piazza Vittorio Emanuele, i sindaca­listi socialisti Dalberto e Capocchi riuscirono, faticosamente, a ottenere il rilascio degli arrestati, ma la tensione rimase alta, alimentata dall’atteggiamento aggressivo della forza pubblica.

Un drappello di carabinieri – una cinquantina – continuarono nella provoca­zione e in via Vittorio Emanuele alle sassate dei manifestanti risposero sparando – ginocchio a terra – coi moschetti e le rivoltelle sui manifestanti. Presi tra due fuochi, le vittime furono numerose: il socialista Flaminio Mazzantini, operaio ebanista di 48 anni e padre di otto figli, fu mortal­mente colpito da due proiettili e Vittorio Volpini venne ferito in modo grave tanto da rimanere a lungo in pericolo di vita, ma si contarono al­meno altri 14 lavoratori feriti dal piombo regio.

Telegrafo7maggio20Seguì una prima, immediata, reazione che vide alcuni dimostranti sparare alcune rivoltellate e lanciare un piccolo ordigno verso la Questura dove, dietro ai cancelli, “si trovavano reparti in pieno assetto di guerra”, ferendo alcuni carabinieri. Quasi con­temporaneamente al porto, nei pressi del “Ponte dei sospiri” sbarrato con cavalli di frisia e reticolati, venne tirata una bomba a ma­no “Sipe” all’indirizzo del presidio composto da carabinieri e soldati che difendevano la caserma “Malenchini” e quella della Guardia di Finanza, ferendo un carabiniere.

Ancora, attorno le ore 21, nonostante la pioggia, un folto gruppo di sovver­sivi provenienti da via dei Cavalieri (probabilmente attraverso via del Traforo) lanciò altri tre ordigni esplosivi contro la Questura.

A seguito dell’eccidio (così sarà definito anche su «Il Telegrafo»), la giunta esecutiva della Camera del lavoro decideva, a tarda notte, la ripresa dello sciopero per l’indomani, mentre le forze di polizia eseguivano molti arresti, soprattutto tra gli anarchici ritenuti, senza alcuna prova, responsabili dell’assalto alla Questura. Così come a Viareggio, nel porto mediceo entrava un cacciatorpediniere della marina militare, mentre venivano fatti affluire, via mare, circa un migliaio di carabinieri e guardie regie.

I funerali di Mazzantini si trasformarono in un’enorme manifesta­zione proletaria di almeno diecimila persone, con la partecipazione di tutte le organizzazioni di classe, oltre a socialisti, repubblicani e anarchi­ci. Molti negozi avevano esposto la scritta “Chiuso per lutto proletario”. Il feretro era fiancheggiato da aderenti alla Lega proletaria dei reduci di guerra, con fascia rossa al braccio, e seguito anche dai “Ciclisti rossi” di cui Mazzantini era caposquadra.

Nel nutrito spezzone libertario, «La Gazzetta Livornese» riferì della presenza del gruppo di Ardenza, della se­zione femminile anarchica, del Fascio operaio di via dei Cavalieri e dell’asso­ciazione anticlericale “I nemici di Dio”. Alcuni incidenti si registrarono durante il corteo, soprattutto al passaggio davanti alla Questura, tanto che al termine della giornata si contò un’altra quindicina di feriti, tra i quali otto donne.

Alla luce degli eventi e dei diffusi sentimenti di riscossa, sul piano politico e sindacale, l’esito della sollevazione, come sottolineato dallo storico Luigi Tomassini, determinò “una grave frat­tura fra movimento anarchico e Partito socialista […] dato lo stretto coinvolgimento degli organismi camerali nello svolgimento degli avve­nimenti”, tanto che nei mesi seguenti si andò rafforzando il progetto di dare vita a una Camera del lavoro d’impronta sindacalista rivoluzionaria. Questa infatti sarebbe nata nell’autunno seguente, dopo l’Occupazione delle fabbriche, con sede in viale Caprera, coinvolgendo oltre al “vecchio” Fascio operaio la cui fondazione risaliva alla prima Internazionale e i lavoratori già aderenti all’Unione Sindacale Italiana, anche settori intransigenti repubblicani e socialisti, più inclini all’azione diretta che alla mediazione.

Post scriptum
Un aspetto significativo di quelle settimane è il coinvolgimento diretto dei ferrovieri organizzati nel SFI nell’opposizione concreta alla repressione statale. Il 17 aprile 1920, i ferrovieri a Livorno si erano rifiutati di far partire un treno carico di Guardie Regie che dovevano raggiungere Torino per contrastare lo sciopero generale. Nei giorni della rivolta a Livorno, furono invece i ferrovieri di Genova a bloccare un treno di Guardie Regie dirette a Livorno, tanto che si rese necessario far affluire via mare le forze dell’ordine (circa un migliaio tra Guardie Regie e Carabinieri) nel porto labronico, e un altro contingente di circa cinquanta Guardie Regie giunse in città ai primi di giugno su camion militari da Firenze, onde evitare ulteriori problemi ferroviari.




Febbraio 1920: Livorno in sciopero per la libertà di Malatesta

«Tombolo! Lo ricordiamo più? Nitti tentò il colpo. Ma dovette rendere gorge. Fu nel febbraio del 1920. Erano appena due mesi che era in Italia. Quella piccola borgata presso Livorno, dove un commissario con qualche poliziotto lo dichiarò in arresto divenne presto celebre. Tombolo! Le maggiori città della Toscana scioperarono in segno di protesta» (Armando Borghi)

L’importante sciopero a Livorno del 2 e 3 febbraio 1920 – cento anni fa – attuato per reclamare la liberazione dell’anarchico Errico Malatesta, difficilmente si trova ricordato nei libri di storia locale; ma soprattutto è scomparso dalla memoria cittadina, nonostante la rilevanza della figura di Malatesta nella storia del movimento operaio. Le prime, e probabilmente uniche, ricostruzioni di tale sciopero risalgono al 1990, con il saggio di Paolo Finzi (La nota persona), dedicato alla biografia di Malatesta in Italia tra il dicembre 1919 e il luglio 1920, e il fondamentale lavoro di Tobias Abse,“Sovversivi” e fascisti a Livorno, 1918-1922.

Per cui, oltre a questi due libri e alle informazioni contenute nel fascicolo del Casellario politico centrale intestato a Malatesta, per scrivere le seguenti note sono state utilizzate soprattutto le notizie estrapolate dalla stampa dell’epoca, in particolare dalla testata cittadina «La Gazzetta Livornese» e dai giornali «Avanti!», «L’Avvenire anarchico» e «Il Libertario».

«La Gazzetta Livornese», con classico spirito liberale, racconta i fatti persino con un certo rispetto nei confronti di Malatesta, allora sessantasettenne, definito «vecchio rivoluzionario», «irriducibile ribelle» e «noto agitatore», ma altresì tendendo a mettere in cattiva luce lo sciopero e a ridicolizzare gli scioperanti.

Errico Malatesta, rientrato clandestinamente dall’esilio londinese sul finire del 1919, aveva iniziato un impegnativo tour di propaganda e agitazione in mezza Italia, accolto da una grande partecipazione popolare.

A Livorno giunse in treno alle 9,20 di domenica 1° febbraio 1920, proveniente da Pisa dove il giorno precedente aveva  partecipato ad una manifestazione organizzata dalla locale Camera del lavoro sindacale (aderente all’USI) e conclusasi con un comizio in Piazza dei Cavalieri, dalla scalinata della Scuola Normale. Il prefetto di Pisa aveva informato della partenza il Ministero dell’Interno, precisando che «è partito per Livorno seguito funzionario Ps e segnalato quella questura e quella Sicurezza ferrovia».

Alla stazione di Livorno, oltre agli agenti, ad accoglierlo trovò  un centinaio di amici e compagni informati da poche ore del suo arrivo. Le ultime sue visite nella città labronica risalivano al 1913 e al 1914, prima del suo esilio in Inghilterra, quando era stato ospite del noto anarchico ardenzino Adolfo – anche se da tutti conosciuto come Amedeo – Boschi col quale aveva condiviso il soggiorno coatto a Lampedusa nel 1898 .

Dopo avergli offerta una colazione al Caffè della Posta (poi Teatro Lazzeri), i compagni livornesi accompagnarono Malatesta al Teatro S. Marco. «Già intanto si era propagata – riportava il cronista de «La Gazzetta Livornese – la voce del suo arrivo e di un comizio popolare nel quale  Malatesta avrebbe parlato al pubblico», tanto che molta folla fu costretta a rimaner fuori del Teatro.

Il comizio iniziò attorno alle 10,30 con la partecipazione di lavoratori e oratori anarchici, socialisti repubblicani e sindacalisti. Seguì infine, «salutato da clamorose acclamazioni», l’atteso intervento di Malatesta: «La borghesia non sa più come risolvere le cose e gli eventi che precipitano ed il governo, il quale si trova a difesa di questa borghesia ormai pericolante sui piedistalli corrosi non è più sicuro della propria forza: neppure di quella dell’esercito che al momento della lotta decisiva, certamente non rivolgerebbe le armi contro la forza soverchiante rivoluzionaria […] il proletariato produttore sente che è l’ora di sovvertire il sistema capitalistico borghese: l’unica  forza che sostiene la borghesia è basata sulla disgregazione delle forze proletarie: occorre perciò la concordia. Anarchici, socialisti, repubblicani tendono ad un fine unico, sebbene per vie diverse: l’intendimento è unico […] È quindi necessaria la collaborazione sincera e concorde delle varie tendenze al fine unico: la rivoluzione […] La Rivoluzione non si fa però coi rosari…(a questo punto il cannone annunzia mezzogiorno. Tra le risa generali, per la conferma del cannone intelligente, dal pubblico, un ignoto, dal basso, grida di rimando: «Si fa col cannone!»). Ora la Rivoluzione è possibile. Soltanto bisogna prepararvisi militarmente e economicamente. Nitti dice agli operai: “Producete! Producete!…”. Gli operai hanno ragione di produrre poco e male, oggi, in regime capitalista, e di esigere salari più alti […] Così per le abitazioni. Ci son cave, pietre, sabbia, cemento, muratori e tecnici, e non ci son case e abitazioni. Il male è nel regime capitalista, che bisogna abbattere…».

Terminato il comizio, continua la cronaca su «La Gazzetta Livornese», un folto gruppo di anarchici e socialisti con le bandiere in testa si avviarono verso il centro della città e per via del Porticciolo e Piazza Vittorio Emanuele, cantando l’«Internazionale» e altre canzoni… affini, si diressero alla Camera del Lavoro, e deposti i vessilli rossi e neri subito si sciolsero.

Intanto Malatesta, assieme ad alcuni compagni, si diresse in carrozza ad Ardenza Terra, a casa dell’amico Boschi, in attesa del comizio che tenne nel pomeriggio. In quella che «L’Avvenire anarchico» ebbe a definire «cittadella dell’Anarchia», il secondo comizio iniziò alle ore 16 in un vasto cortile in via del Litorale, alla presenza di un migliaio di persone (lo afferma «La Gazzetta Livornese»).

Dopo l’introduzione di Natale Moretti, seguito dagli interventi di Renato Siglich, Primo Petracchini e Dante Nardi per i giovani socialisti di Ardenza, Malatesta, si rivolse infine ai convenuti, dichiarandosi contrario ad ogni azione di parlamentarismo e chiamando a raccolta anarchici, socialisti e repubblicani e tutte le masse del proletariato, ormai insofferenti di ogni sfruttamento economico e politico. Il comizio terminò senza il minimo incidente e un corteo attraversò via del Litorale al canto di inni rivoluzionari.

Dopo una breve visita a casa di Boschi, secondo la minuziosa cronaca de «La Gazzetta Livornese», Malatesta «e i maggiorenti prendono posto in due vetture che fiancheggiate da agenti ciclisti riprendono alle 18 la via della città». Dopo le fatiche dell’intensa giornata, i compagni offrirono una cena conviviale a Malatesta.

All’indomani, lunedì 2 febbraio, alle ore 5 circa Malatesta, accompagnato dall’anarchico ardenzino Ferdinando Bacci  prendeva il treno per Milano, ma poco dopo la partenza – attorno alle 5,25 – mentre era in sosta presso la piccola stazione di Tombolo, tra Livorno e Pisa, alcuni carabinieri e funzionari in borghese della Questura di Livorno guidati dal commissario di Ps, dott. Dino Fabbris, salivano sul treno e traevano in arresto l’anarchico. Prima di essere fatto salire su un’auto che l’attendeva nei pressi, Malatesta – mostrando la massima calma – nel salutare l’anarchico Bacci gli chiedeva di avvertire i compagni dell’accaduto.

Quindi l’auto partì alla volta di Firenze; secondo una successiva testimonianza dello stesso Malatesta, durante il tragitto, al passaggio d’ogni paese, i questurini gli coprivano il viso, affinché qualcuno non lo riconoscesse e l’auto fosse bloccata a furor di popolo. Giunti nel capoluogo toscano, entrando da Porta S. Frediano, dopo un breve interrogatorio in Questura, Malatesta venne rinchiuso nel carcere delle Murate nella cella n. 32 destinata normalmente ai detenuti per reati comuni dove, attorno alle ore 14, venne interrogato dal giudice istruttore cav. Casentino.

Su Malatesta, infatti, pendeva una denuncia «per eccitamento all’odio di classe e all’insurrezione armata» presentata dal deputato liberale Dino Philipson presso l’autorità giudiziaria fiorentina, con riferimento al comizio tenuto da Malatesta a Firenze, in piazza Cavour, il 19 gennaio che aveva visto la partecipazione di circa temila persone, ma conclusosi con  incidenti in cui era stati ucciso un manifestante.

Appreso della denuncia dello zelante parlamentare, il governo aveva perentoriamente telegrafato al Prefetto di Firenze: «Pregasi far conoscere massima urgenza se Malatesta fu denunciato autorità giudiziaria per parole pronunciate comizio ieri costituenti reato. Se non ancora denunciato dovrà esserlo subito sollecitando autorità giudiziaria emettere immediatamente mandato cattura che vorrà comunicarmi».

Per motivi di ordine pubblico – dato che la situazione sociale era già estremamente tesa per lo sciopero dei ferrovieri – il mandato era rimasto chiuso in qualche cassetto per una decina di giorni, tanto da indispettire l’assai poco liberale on. Philipson che peraltro, pochi anni dopo, avrebbe ammesso di aver finanziato lo squadrismo fascista con «varie centinaia di migliaia di lire».

Conclusosi lo sciopero dei ferrovieri che lo aveva bloccato a Roma, il  31 gennaio Malatesta aveva ripreso il suo giro di propaganda anarchica e agitazione sociale, partecipando alla citata manifestazione a Pisa.

Il 1° febbraio il governo giunse quindi alla decisione d’arrestarlo e tramite il Ministero dell’Interno l’aveva comunicata con telegrammi ai prefetti di Livorno e Firenze, non senza preoccupazione per le prevedibili reazioni.

A quello di Livorno veniva consigliato di procedere al fermo in una  «piccola stazione intermedia lungo tragitto», mentre a quello di Firenze si raccomandava «vivamente» di interrogarlo e scarcerarlo in giornata. Così infatti avvenne e il giudice istruttore incaricato dispose la libertà provvisoria, con l’obbligo di rimanere «a disposizione dell’autorità giudiziaria di Firenze».

Appena uscito dalle Murate, Malatesta incontrava gli anarchici fiorentini coi quali si intrattenne in un caffè di piazza Santa Maria Novella per festeggiare la liberazione ma anche per fare il punto della situazione; la sera stessa parlò presso la Camera del Lavoro sul tema «Il proletariato nel momento attuale».

Di certo, anche se la sua scarcerazione era stata decisa in anticipo, il governo aveva dovuto registrare una risposta istantanea e di massa: nel giro di poche ore scioperi e manifestazioni si erano allargati da Livorno a Piombino, a Pisa, alla provincia di Massa-Carrara e alla Versilia, a La Spezia, sino a Perugia dove i lavoratori senza attendere la riunione serale della Camera del Lavoro confederale erano entrati in sciopero.

A Livorno, la notizia dell’arresto di Malatesta si sparse velocemente, diffusa sia dall’anarchico Bacci che dai ferrovieri. La prima notizia era stata data al mattino dal quotidiano «Il Telegrafo», ma i particolari  dell’arresto furono forniti da «La Gazzetta Livornese» che «andò a ruba». Fin dalla tarda mattinata, riferisce quest’ultima: «Gli elementi anarcoidi erano in gran fermento […] Buona parte dei lavoratori del Porto, che non sono ascritti alla Camera del Lavoro, volle disertare subito il lavoro. Nelle officine e negli stabilimenti corse la parola d’ordine e  le staffette ebbero in gran da fare». In pratica lo sciopero generale era già stato deciso, ma la Camera del lavoro convocò il Consiglio generale delle Leghe per la sera stessa, in cui prevalse la linea più combattiva sostenuta da massimalisti e anarchici.

Attorno alle 22, i vice-commissari della Questura Ruggero e D’Ambrosio si recarono nei pressi della Camera del lavoro portando la notizia della scarcerazione e quindi accompagnarono una commissione, capeggiata dall’anarchico Bacci e seguita dai giornalisti della stampa locale, dal Prefetto Gasperini che confermò ufficialmente la notizia. La commissione fece quindi ritorno alla Camera del lavoro, mentre fuori, in via Vittorio Emanuele, sostava una folla impaziente di lavoratori; da una finestra della sede sindacale intanto un giovane sventolando una bandiera «inneggiò allo sciopero generale, a Errico Malatesta e gridò abbasso alla polizia e al Niccoletti» funzionario della squadra politica presente sul luogo.

La notizia della liberazione non fu ritenuta abbastanza credibile, d’altra la maggioranza (e non certo una «minoranza turbolenta» come ebbe a scrivere «La Gazzetta Livornese») del Consiglio evidentemente ritenne necessario dare comunque un segnale politico forte al governo, quale monito contro la sua politica repressiva. Quando il segretario della Camera del lavoro Zaverio Dalberto annunciò la proclamazione per l’indomani dello sciopero «suscitò tra la folla molto entusiasmo e gran clamore di applausi».

Il 3 febbraio lo sciopero risultò compatto e la città apparve pressoché paralizzata: «niente trams, niente carrozze, botteghe aperte nelle strade secondarie e botteghe e negozi sprangati nelle vie del centro», registrava «La Gazzetta Livornese». Nel pomeriggio si tenne un comizio nella piazza davanti al Palazzo Comunale, dalla cui scalinata parlarono Dalberto, l’anarchico Augusto Consani – particolarmente applaudito – e il repubblicano Gualtiero Corsi.

La manifestazione e lo sciopero si conclusero alle 17. Il giorno seguente, 4 febbraio, Malatesta decise di tornare a Livorno, per sottolineare l’importanza della mobilitazione dei lavoratori  livornesi a favore della sua libertà. Partito da Firenze in automobile – la stessa con cui la polizia l’aveva sequestrato – e accompagnato da alcuni compagni, si diresse alla volta del porto tirrenico; lungo la strada dovette fermarsi a Signa, Empoli, Santa Croce sull’Arno, Pontedera e Fornacette per tenere, in piedi sull’auto, brevi discorsi a quanti lo stavano aspettando per festeggiarlo.

GazzettaLivorneseFinalmente giunto nel pomeriggio a Livorno, accolto dal segretario camerale Dalberto, da Bacci e da altri compagni, dopo una breve visita a Boschi e un “ponce” presso il Caffè della Posta, verso le 17,30 uscendo dal Caffè su via del Fante s’incamminò verso piazza Goldoni, seguito da numerosi manifestanti e poliziotti, dove era previsto un suo comizio presso la palestra “Sebastiano Fenzi”. Dato che i presenti nella piazza erano migliaia, il comizio fu tenuto sotto il loggiato del Regio Teatro Goldoni; il commissario di Ps presente, da parte sua, ritenne saggio non impedire tale manifestazione pubblica.

In piedi su un tavolo accanto a una delle colonne del loggiato, l’anarchico livornese Natale Moretti aprì il comizio sottolineando che il proletariato livornese aveva mantenuto «l’impegno manifestato domenica al teatro S. Marco di opporsi con ogni mezzo all’arresto di Malatesta». Toccò quindi a Malatesta salire sul tavolo, salutato da intensi applausi e da grida d’entusiasmo; l’anarchico esordì quindi dicendo «Non viva Malatesta, ma viva Livorno, viva l’Unione Sindacale anarchica».

Il suo discorso – annotato in modo sommario nei rapporti di polizia  – risulta attendibilmente riportato su «La Gazzetta Livornese»: «Ed il Malatesta entra in argomento sostenendo che la sua scarcerazione fu grande vittoria non per lui ma per l’idea. Vittoria di grande importanza,  poiché gli anarchici premendo collo sciopero salvarono – come i ferrovieri –  la libertà di propaganda ed ogni volta che si arresterà qualcuno reo solo sia pure di propaganda, il proletariato lo appoggerà […] Certo che Modigliani con tutto il suo parlamentarismo non avrebbe ottenuto quello che in poche ore collo sciopero immediato il proletariato ottenne». Malatesta soggiunse che però, per quanto animato da idealità anarchiche, simpatizza pure per le masse dei socialisti che sono lavoratori, ma non per i deputati che seggono a Montecitorio.

Cessati gli applausi, intervenne il segretario camerale Dalberto, che si scagliò «ferocemente contro la stampa borghese, di quella borghesia pavida che da quando Malatesta rientrò in Italia fu invasa dalla tremarella». Aggiunse pure che Malatesta era «di tutta la gente che lavora» e «disopra di ogni partito» in quanto era «il campione della emancipazione del popolo».

Parlarono quindi Pratali dell’Unione anarchica fiorentina, e Gentili a nome dei comunisti fiorentini. Dopo un applauso accompagnato dal canto di «Bandiera rossa», il comizio si andò sciogliendo, mentre Malatesta tornò in carrozza ad Ardenza a casa Boschi; «più tardi rientrava in città per una bicchierata al Circolo repubblicano in via Pellegrini».

L’indomani mattina Malatesta riprendeva il suo giro di propaganda, partendo alla volta di Bologna, dove lo attendevano Armando Borghi e gli anarchici bolognesi. Nella stessa serata tenne un comizio presso la Vecchia Camera del lavoro di Porta Lame durante il quale, riferendosi a quanto avvenuto, affermò che l’articolo 246 del Codice Penale, all’origine del suo arresto a Tombolo, era stato di fatto cancellato grazie all’azione diretta del proletariato e alla forza dimostrata dalle forze sindacaliste. In tale valutazione apparentemente trionfalistica, c’era invece molta più verità di quanto potrebbe apparire; lo dimostrano le motivazioni del Direttore generale della Ps in una comunicazione del 7 febbraio al Sottosegretario degli Interni, attorno al ritardo di dieci giorni con cui era stato effettuato l’arresto di Malatesta. L’alto funzionario di polizia sostenne infatti che ciò era stato determinato dalle «continue peregrinazioni» di Malatesta, quando questi invece, a causa dello sciopero ferroviario, in tale periodo era sempre rimasto a Roma, partecipando a una festa di finanziamento per il giornale «Umanità Nova» il 25 gennaio e ad altre iniziative pubbliche, tra le quali un grande comizio presso la Casa del Popolo alla presenza di settemila persone.

Evidentemente quindi, le autorità di governo e di polizia, anche se non potevano ammetterlo, prima avevano rimandato e poi deciso di procedere all’arresto prevedendo già un rapido rilascio, nel timore delle conseguenze per l’ordine pubblico che tale provvedimento avrebbe innescato.

A distanza di un anno, nel 1921, davanti alla Corte di Assise di Milano, Malatesta, nuovamente accusato di istigazione all’odio di classe, avrebbe risposto ironicamente: «Ora, signori giurati e signori della corte, dirvi che io ammetto la lotta di classe, è come dirvi che io ammetto il terremoto o l’aurora boreale».

Articolo pubblicato nel febbraio del 2020.




Luglio 1919: lo “scioperissimo” di Livorno.

Dopo i moti popolari del caroviveri esplosi anche a Livorno dal 5 all’8 luglio 1919, la situazione degli approvvigionamenti in città si mantiene, ancora per settimane, problematica, pur senza registrare ulteriori gravi incidenti.

D’altronde lo stato, endemico, di tensione era stato segnato, all’inizio del mese, dal Prefetto Gasperini al ministero dell’Interno (P. Ciccotti, 2014):

Devesi poi tenere presente che Livorno conta oltre centocinquemila abitanti tutti rinchiusi nel ristretto territorio della città, che si tratta di una popolazione impulsiva e facile a trascendere, che vi sono oltre ventimila operai, che vi è una Camera di Lavoro in piena balia degli estremisti, che vi è un partito di anarchici numeroso e vi sono associazioni, sodalizi e partiti in contrasto tra loro per fini e tendenze diverse .

Nelle cronache giornalistiche di quei giorni, si continua a leggere l’elenco aggiornato degli esercizi saccheggiati assieme alle disposizioni del calmiere istituito dalle autorità cittadine.

Da parte delle istituzioni, infatti, si opera per abbassare la tensione mentre la Prefettura cerca di vigilare sui prezzi e promuove la costituzione di una Commissione annonaria, alla quale però la Camera del lavoro non aderirà («La Gazzetta livornese», 29-30 luglio; «La Parola dei Socialisti», 2 agosto 1919).

Passata la burrasca, il Partito Socialista e la Confederazione Generale del Lavoro, dopo aver profuso i propri sforzi nel ”governare” tumulti ed espropriazioni, dedicano il proprio attivismo e cercano d’indirizzare il malcontento popolare verso l’atteso sciopero internazionale del 20-21 luglio «in difesa delle repubbliche sovietiche ed ungherese», sciopero “rivoluzionario” al quale aderisce anche l’Unione Sindacale Italiana.

Sull’«Avanti!» del 7 luglio viene annunciato in prima pagina: «Tutto il mondo del lavoro incrocierà le braccia il 20 e il 21 corrente. Il movimento popolare induce finalmente il governo a provvedere contro il caro-viveri» e, nell’articolo a commento della proclamazione dello sciopero, è possibile leggere un tentato collegamento tra la questione – sociale – dei moti contro il carovita e le motivazioni politiche internazionali dello sciopero, presentandolo come un momento di riscossa «verso la totale emancipazione».

Le aspettative per l’inizio di una sollevazione sociale vengono però escluse dal Consiglio generale della CGdL tenutosi a Bologna il 13 e 14 luglio e, quando a Livorno la decisione confederale di non dare carattere insurrezionale allo sciopero viene riportata nel Consiglio delle Leghe, «parecchi anarchici e socialisti ufficiali [massimalisti], nonché un repubblicano, inveirono violentemente contro i capi della Camera del lavoro, perchè essi ritenevano che fosse giunto il momento dell’azione» (L. Tomassini, 1990).

Ad ogni buon conto, il Prefetto si prepara al peggio, temendo che la piazza sfugga di nuovo al controllo riformista, e con un manifesto alla cittadinanza comunica il suo «fermo intendimento di reprimere ogni violenza, ogni eccesso, ogni attentato alla libertà e alla sicurezza civile» («La Gazzetta Livornese», 19-20 luglio 1919).

Nello stesso giorno, il rappresentante del governo sospende la circolazione di auto, camion, motociclette, così come la vendita di benzina. Inoltre, l’autorità di PS esegue una «retata» di circa ottocento (800!) «individui sospetti di ambo i sessi», preventivamente arrestati e internati in Fortezza Vecchia e in Fortezza Nuova («La Gazzetta Livornese», 22-23 luglio 1919).

Pochi giorni prima, nella notte tra il 18 e il 19 luglio, erano stati già arrestati sette noti militanti anarchici (Aristide Colli, Oreste Piazzi, Augusto Consani, Libero Masnada, Turiddo Giuseppe Carlotti, Dante Nardi) per «procedimenti politici» in relazione ai moti del caroviveri («Il Telegrafo», 23 luglio). Considerata la vicinanza al Mercato centrale della sede del Fascio operaio di via dei Cavalieri, è presumibile che si volesse criminalizzare i suoi aderenti, anarchici e sindacalisti rivoluzionari, indicandoli come i responsabili dei saccheggi.

Alla vigilia alla mobilitazione, i diversi sodalizi politici e sindacali si riuniscono e prendono posizione, per lo più a favore dello sciopero. Particolarmente animata deve essere stata l’assemblea dell’Unione repubblicana livornese dopo che, fin dal marzo precedente, si erano registrate forti divergenze verso l’atteggiamento da assumere nei confronti degli scioperi socialisti, fermo restando l’«essere all’avanguardia di qualsiasi movimento per incanalarlo ai fini politici e sociali del partito stesso» (C. Scibilia, 2012).

Anche la Società di Mutuo Soccorso fra il personale della Regia Accademia Navale, pur non aderendo allo sciopero politico, «dichiara altresì di rendersi solidale con i compagni per quei movimenti di carattere economico, essendo questo lo scopo principale della Società» («Il Telegrafo», 19 luglio 1919).

Così come quasi ovunque, le due giornate trascorrono in relativa tranquillità, con la città paralizzata dallo sciopero e pattugliata dai militari. Il comando del Distretto militare alcuni giorni prima aveva invitato «gli arditi in congedo e in licenza o comunque presenti nel Comune di Livorno […] a presentarsi subito» per un presumibile impiego in funzione d’ordine pubblico, così come avvenuto in altre città, tra le quali Piombino dove avevano affiancato carabinieri e bersaglieri («La Gazzetta Livornese», 19-20 luglio 1919).

Le banche vengono presidiate, cinema e teatri chiusi, sospeso il servizio telegrafico: «anche la passeggiata a mare, e gli stabilimenti a mare, non videro quella folla chiassosa e spensierata di belle signorine, che nei giorni trascorsi mettevano, con i loro graziosi sorrisi e con le loro seducenti toilettes, la nota gaia  in quell’ambiente mondano» («Il Telegrafo», 22 luglio 1919).

Mentre i sovversivi sono detenuti nelle due Fortezze, al Politeama si tiene il comizio del segretario della Camera del lavoro e dell’on. Modigliani, davanti a circa cinquemila persone, ma senza particolari tensioni ed anche la consistente partecipazione non fa notizia.

«Dell’entusiasmo e del protagonismo creativo delle folle in azione durante i recenti moti annonari sembrava rimanere poco o niente, e i tentativi di razionalizzazione politica attuati dagli organizzatori dello sciopero parvero paradossalmente stamparsi al di sopra  dei linguaggi e degli slogan che avevano dominato nelle strade e nelle piazze in tumulto, rendendoli quasi invisibili» (R. Bianchi, 2006).

Lo sciopero, in tutta evidenza, sconta infatti la mancata saldatura tra lo spontaneismo delle insorgenze per il caroviveri  e lo svolgimento dello sciopero politico, tanto da far parlare di fallimento la stessa stampa che aveva paventato lo sciopero; laconico invece il commento de «Il Libertario» del 31 luglio: «l’astensione dal lavoro è stata generale; la vita normale nelle città è stata per due giorni paralizzata, non solo, ma sconquassata dalle disposizioni di prevenzione e di difesa prese dalle autorità contro lo stesso sciopero».

Di fatto, comunque, la sottovalutata rilevanza dei moti livornesi dei caroviveri sembra essere, a posteriori, colta – forse anche autocriticamente – dagli stessi socialisti labronici che scrivono, rivendicando politicamente – compresi i deprecati eccessi – quanto accaduto venti giorni prima:

la storia è piena di questi crimini, i grandi sommovimenti sociali sono tutti pieni di questi crimini, le rivoluzioni vivono tutte di questi crimini sociali. Lo storico ufficiale riderà scettico e sardonico dal suo palazzo dorato battendosi il ventre ben panciuto finchè la verità storica nuova non lo desterà dalla sua visione del vecchio mondo. Cinque anni di storia sanguinosa ci precedono atroci come tanti rimorsi […] Dai trivi, dalle piazze, dalle strade, dai bassifondi, questa cloaca dirompente […] avanza scalzando le basi di una società caduca e sanguinaria […]. Sgorga e dilaga come un fiume limaccioso […] il crimine della folla multicolore e multiforme. Signori della vecchia coscienza sociale, filosofi dell’aristocrazia politica, mummie della diplomazia, fate largo e inchinatevi. Passa Gravoche [recte: Gavroche]! («La Parola dei Socialisti», 27 luglio 1919).

La battuta d’arresto sarà però destinata a durare poco; nei mesi seguenti, il conflitto sociale riprenderà esprimendo posizioni e pratiche sempre più radicali. Infatti, il Biennio rosso livornese vedrà l’occupazione generalizzata delle fabbriche locali e la comparsa delle Guardie Rosse; la nascita della Camera sindacale del lavoro, aderente all’USI; lo sciopero politico in solidarietà con l’anarchico Errico Malatesta nel febbraio 1920 e la sommossa contro la questura del maggio 1920.

Articolo pubblicato nel luglio del 2019.




Livorno 1919: fra tumulti e rivoluzione

La Grande guerra è finita da pochi mesi ma, nella primavera del 1919, il precipitare del disagio economico sembra riportare la conflittualità di larghi settori popolari alla rivolta per la mancanza di viveri avvenuta a Torino nell’agosto 1917. Il prezzo di tutti i generi di prima necessità, dal cibo al vestiario, è rapidamente salito a livelli insostenibili per la classe lavoratrice che avverte l’inadeguatezza delle rivendicazioni salariali nella rincorsa del valore di acquisto del danaro. In particolare, nei primi mesi del 1919, avviene un ulteriore brusco rialzo dei prezzi; rispetto al 1914, i prezzi dei generi di consumo popolare  risultano aumentati in tre anni del 300%.

Persino la neonata Confederazione Generale dell’Industria Italiana, presagendo che tale questione può innescare gravi conseguenze, all’inizio di giugno presenta al governo una richiesta affinchè fornisca i più importanti generi alimentari, come il pane, a prezzi popolari senza tener conto del costo di produzione (cfr. R. Sarti, 1977). Nel mese di giugno, da La Spezia si estende ed esplode una prima ondata di moti contro il caroviveri, dalla Liguria alla Lunigiana e alla Versilia; quindi l’agitazione si riaccende alla fine del mese, a partire dalla Romagna, raggiungendo la sua massima intensità nella prima settimana di luglio.

In Toscana è il tempo del bolscevismo o del Bocci-Bocci, deformazione linguistica popolare che unisce il termine bolscevismo con l’espressione fiorentina «fare i cocci» che sta per rompere tutto (cfr. A. Pescarolo,  G.B. Ravenni, 1991; R. Bianchi, 2001). Nonostante tale richiamo rivoluzionario e gli intenti delle “avanguardie”, in realtà, «massimalisti e anarchici si trovano piuttosto a “rincorrere” le azioni di folla per tutto l’anno» (cfr. R. Bianchi, 2006). Infatti, i socialisti ne prendono le distanze; se per Amedeo Bordiga, a capo della frazione intransigente del Partito socialista: «il concetto dell’espropriazione simultanea all’insurrezione ed attuata capricciosamente da individui o gruppi, implicito nella frase di “sciopero espropriatore” è un concetto anarcoide, che nulla ha di rivoluzionario» («Avanti!», 20 luglio 1919), per la corrente riformista, per bocca di Claudio Treves al Congresso socialista di Bologna, «si tratta di masse guidate più dallo spirito di Masaniello che da quello di Marx».

Tabella (2)Anche a Livorno, da settimane, agli scioperi riguardanti diverse categorie – tipografi, portuali, scaricatori, tessili, impiegati del settore privato, insegnanti, dipendenti comunali… – si andava sommando l’agitazione sociale, a partire dal prezzo dei beni essenziali per l’alimentazione delle famiglie proletarie, in una sovrapposizione di linguaggi e pratiche (cfr. R. Bianchi, 2014). La protesta contro il carovita fuoriesce dalle fabbriche e dagli altri luoghi di lavoro. È opinione diffusa che l’attesa operaia per una sorta di scala mobile sia insufficiente e si ritengono inadeguate le rivendicazioni sindacali, mentre le tensioni scoppiate al mercato centrale confermano la rilevanza di settori di classe con una cultura politica segnata più dal sovversivismo di origine repubblicana e anarchica, che dal socialismo riformista di Modigliani. Cominciano i repubblicani con una riunione, alla fine di maggio, del loro Comitato di azione sociale, presso la sede della Unione Magistrale, presieduta da Cesare Tevené. Vi partecipano i rappresentanti delle leghe operaie e di numerose organizzazioni popolari. Viene decisa la costituzione di un Comitato d’agitazione contro il caro viveri, formato dai rappresentanti dei sodalizi locali di ogni tendenza politica. Si mira ad un prestito, da chiedere al governo per l’acquisto di derrate alimentari da lanciarsi sui mercati e si prospettano vendite senza intermediari. Qualche giorno dopo, si tiene una nuova riunione per nominare il comitato direttivo coi rappresentanti di ogni struttura aderente e per designare una giunta esecutiva di sette persone: Adolfo Minghi, Amleto Bazzoni, Francesco Silici, Ezio Cagliata, Alfredo Fiorini, Gualtiero Corsi e Gastone Mannucci (cfr. V. Marchi, 1973). Particolarmente significativa appare la figura di quest’ultimo: classe 1874, facchino, repubblicano intransigente e affiliato alla massoneria, detto Libeccino, abitante in via Eugenia; già attivo interventista nel 1915, poi dal 1923 esule antifascista con la famiglia in Francia (ACS, CPC, fasc. 58576).

Intanto nella cittadinanza cresce il malumore, ma la Camera del lavoro tarda a comprendere l’evolversi del risentimento popolare e stenta a reagire di fronte alle drammatiche notizie provenienti da La Spezia dove ci sono stati due morti e sette feriti tra i manifestanti. Scoppiano quindi, spontaneamente, i primi tumulti al mercato centrale, detto “delle vettovaglie”: le donne protestano clamorosamente davanti ai banchi, anche con colluttazioni con gli esercenti.

Il neonato Comitato di agitazione contro il caro-viveri è presto abbandonato dalle Leghe operaie di orientamento socialista che spingono per una più decisa «azione politica» a livello nazionale.

Malgrado la scissione, il Comitato repubblicano d’azione sociale prosegue la sua attività. Il 14 giugno c’è una adunanza alla “Fratellanza Artigiana” presieduta dal ferroviere Gino Reggioli – segretario Gastone Mannucci – «per una azione energica che, al di sopra di tutti i partiti, unisca tutti i consumatori nella lotta santa contro gli affamatori» («La Gazzetta Livornese», 13-14 giugno 1919). Vi aderiscono il sindacato ferrovieri, la cooperativa ferroviaria, la cooperativa mutuo soccorso operai cementisti, i pensionati ferrovieri, la Federazione nazionale ufficiali della riserva, l’Associazione nazionale dei combattenti, la cooperativa Alleanza, la Garibaldini e reduci, la Società cooperativa maestri d’ascia e calafati, il Fascio d’azione sociale, le cooperative Attività, Unione ferroviaria, Indipendenza, Mercantile, Privativa, la Società scaricatori dei marmi della stazione marittima, la cooperativa Ordine e Lavoro, la Società infermieri e infermiere, il Sindacato tramvieri, l’Associazione mutilati ed invalidi, gli avventizi ferroviari, la Società mutuo soccorso navicellai, la Lega lavoranti fornai, la Lega spazzini municipali, la Cooperativa tiraggio e rinfusi, la Federazione operaia farmacisti. Nella riunione si nomina una commissione di venti persone per la stesura di un programma «di azione radicale ed energica» e una decina di giorni dopo il Comitato viene ricevuto dal Prefetto, ottenendo l’impegno per un ribasso dei prezzi e l’adozione di un tariffario con i massimali per i generi alimentari. Viene anche annunciata l’attivazione di un calmiere su ortaggi e frutta («La Gazzetta Livornese», 27-28 giugno 1919).

Intanto l’assemblea delle Leghe operaie in un suo ordine del giorno ritiene ancora «non opportuno lo sciopero generale per protesta contro il caro-viveri, mentre il consiglio delle Leghe è pronto a rispondere all’appello della Confederazione del lavoro per uno sciopero politico». Intanto, alla fine di giugno i tramvieri entrano in sciopero contro il rialzo dei prezzi. Viene istituito il «calmiere del popolo»: consumatori ed acquirenti stabiliscono spontaneamente il prezzo che dovranno avere le merci giorno per giorno; ma i negozianti cominciano a sottrarre i prodotti, oppure, quando accettano il prezzo del calmiere, subito rimangono senza scorte.

 5 LUGLIO

 telegrafo_5LuglioNella Cronaca della città, su «Il Telegrafo» del 4 luglio 1919, si apprende che presso i Regi Bagni Pancaldi sono cominciati i concerti diurni e notturni, senza alcun aumento del prezzo d’ingresso. Poco sopra questo rassicurante trafiletto viene però riportata la notizia che «l’ufficio municipale annonario fa del suo meglio onde arginare l’ingordigia degli speculatori e per imporre l’obbedienza ai regolamenti e ai calmieri» e che sette esercenti sono stati «denunziati all’Autorità giudiziaria» per aver venduto merce a prezzi superiori a quelli previsti e per altre irregolarità. Nello stesso giorno, il Prefetto informa che il governo ha disposto una risibile riduzione del prezzo della carne congelata di Lire 1,50 al chilo. Si arriva così a sabato 5 luglio, in una situazione già tesa, mentre giungono notizie di sommosse in altre città.

Come nel maggio 1898, quando popolane e cenciaine avevano dato l’assalto ai forni, di nuovo le donne sono le prime a prendere l’iniziativa, affiancate da alcuni soldati: attorno a mezzogiorno c’è una prima irruzione nel negozio di calzature di lusso “Varese” di via Vittorio Emanuele [l’attuale via Grande], dove i prezzi non erano stati ribassati: «direttore e commessi del negozio, impossibilitati a contenere la valanga umana, sono rimasti muti e tremanti spettatori della scena» («Il Telegrafo», 6 luglio 1919). Al diffondersi della notizia dell’accaduto, nel pomeriggio sono prese d’assalto le botteghe di Borgo Cappuccini: «erano gruppi di uomini decisi a tutto, erano donne e ragazzi che si pigiavano dinanzi alle saracinesche e agli usci», mentre «molte persone assistevano passivamente ai saccheggi a breve distanza». Le forze dell’ordine evitano d’intervenire, anche per la presenza di soldati tra la folla, attenendosi alle disposizioni del Prefetto che, evidentemente, ritiene controproducente un’immediata repressione. Da Borgo Cappuccini, la sommossa si sposta sul lungomare, in direzione dell’Ardenza, con «saccheggi e requisizioni in ogni arteria, in ogni strada»; i negozianti reagiscono chiudendo le botteghe, ma avvengono anche incidenti, sassaiole e sparatorie: «sarebbe opera vana e… ciclopica diffonderci ad enumerare tutti i negozi assaltati e razziati. Il numero è di essi assai alto»; almeno una trentina solo quelli segnalati nelle cronache cittadine («La Gazzetta Livornese», 7-8, luglio 1919). Alla fine della giornata si contano una quindicina di feriti, tra cui quattro fra le forze dell’ordine.

Nel tentativo di arginare e gestire la situazione la Camera del lavoro – in contatto col sindaco Rosolino Orlando – si assume la responsabilità della requisizione collettiva. Tra l’una e le cinque del pomeriggio, mentre uno sciopero non-dichiarato sta bloccando la città, squadre di giovani aderenti, seguendo le direttive camerali, rastrellano merci nei negozi, immagazzinandole nei vari centri di raccolta allestiti presso il Teatro S. Marco, già ridotto a deposito durante la guerra; il mercato centrale; la Camera del lavoro, la sede dell’Unione repubblicana e la sezione socialista in piazza S. Jacopo, per ridistribuirli alla popolazione a prezzi calmierati. All’Ardenza si registrano alcuni espropri, ma nel borgo sovversivo l’agitazione appare sostanzialmente in mano alla sezione socialista e al gruppo anarchico, nonché della sezione della Camera del lavoro che stipula direttamente con i commercianti ardenzini, disponibili ad un «concordato collettivo» per il ribasso dei prezzi, in linea con l’ordinanza del Comune di Livorno. Nella serata, si tiene un comizio in via del Pastore tenuto dal muratore socialista Giovanni Cerri e dal noto esponente anarchico “Amedeo” (Adolfo) Boschi; viene approvato un ordine del giorno nel quale sta scritto: «Il popolo dell’Ardenza […] mentre saluta il risorgere della energia proletaria, che sembrava fiaccata dall’orribile guerra […] e mentre manda il saluto augurale ai rivoluzionari di Russia, di Ungheria e di Germania, rileva che la crisi economica che oggi affama i popoli non dipende dalla sola ingordigia dei ladri grossi e piccoli del commercio, ma è insita in tutto il sistema sociale vigente, che trova la sua base sulla proprietà privata, e invita perciò i fratelli operai a pensare che la totale emancipazione dei lavoratori non avverrà finchè tutto non sarà di tutti, finchè non si effettuerà il motto «chi non lavora non mangia» (R.Bianchi, 2001). La stessa risoluzione viene approvata a Piombino il giorno seguente in un comizio organizzato dall’Unione Sindacale Italiana (cfr. P. Bianconi, 1970), nel tentativo anarco-sindacalista di indirizzare il malcontento popolare verso uno sciopero che sviluppi un movimento rivoluzionario per rovesciare l’ordine economico e politico del paese.

 6 LUGLIO

 «L’insurrezione contro gli affamatori si va estendendo in tutta Italia»: questo il titolo in prima del quotidiano socialista «Avanti!» di domenica 6 luglio.

A Livorno, «gli eventi sfuggirono [anche] dalle mani di Boschi, in quanto la folla dimostrò di non essere disposta a sottomettersi alle direttive politiche degli anarchici più di quanto lo fosse a quelle socialiste […] Il Mercato centrale, nel quale erano state depositate le derrate alimentari per essere vendute al pubblico, venne saccheggiato soprattutto da donne e bambini e le merci, invece che vendute, vennero trafugate» (T. Abse, 1990). Nella notte, invece, era stata invasa l’elegante trattoria “La Casina Rossa” nella centrale via Vittorio Emanuele; tra i diversi denunciati per tale espropriazione figura anche Bruno Piccioli, un caporal maggiore fiorentino che aveva disertato dalla caserma di marittima, sede dell’88° reggimento fanteria.

Nel pomeriggio, la presenza in città di polizia, carabinieri e militari si fa più consistente, anche se prudente: «reparti di truppa dislocati nei vari punti della città, un via vai di camions colle mitragliatrici» («La Gazzetta Livornese», 7-8 luglio 1919). La stampa locale riferisce di un primo gruppo di 36 arrestati (25 per saccheggio, 1 per porto di coltello, 4 per eccitamento alla disobbedienza alla legge, 5 per oltraggio e resistenza alla forza pubblica), «tra cui noti ladri e altrettanto noti sovversivi» (T. ABSE). Viene riferito che vi sono «tra gli arrestati individui accusati di grida sediziose di propaganda sovvertitrice. Fra essi è un giovanotto che sabato sera mostrava un cencio rosso ai militari invitandoli a inneggiare al comunismo e bolscevismo». Tale Goffredo Angarelli è accusato di «oltraggio con vie di fatto nei confronti del capitano comandante il corpo delle Guardie di città» («La Gazzetta Livornese», 7-8, 8-9 luglio 1919). Si apprende pure dell’arrivo in città, proveniente da Udine, di un battaglione di “Bersaglieri mitragliatori”, temporaneamente acquartierati presso le scuole Benci.

Nelle stesse ore, si tiene una riunione allargata in Municipio. Da parte sua il Comune ordina la riduzione del 50% sui prezzi dei generi compresi nel calmiere e del 70% sugli altri. Nei fatti è la Camera del Lavoro che, dal giorno prima, cerca di coordinare la requisizione e la vendita a prezzi calmierati dei prodotti, fornendo ai negozianti cartelli informativi da affiggere fuori dai loro esercizi, al fine di proteggerli dall’esasperazione popolare. Molti negozianti decidono volontariamente di consegnare le chiavi alla Camera del lavoro. Quando i cartelli affissi non recano il timbro camerale i negozi vengono depredati o requisiti, ma talvolta non c’è avviso o timbro sufficienti per fermare gli espropri più o meno selvaggi, come avviene per una salsamenteria in via Cairoli, pur aderente al calmiere.

Carabinieri e bersaglieri intervenuti sul posto eseguono 14 arresti; risultano asportati prosciutti, salami, formaggi, scatolame ed anche soldi, per un danno denunciato di L. 20.000 («La Gazzetta Livornese», 24-25 luglio 1919). Svuotati sono pure i magazzini sugli Scali del Pesce, quelli dei Bottini dell’Olio, affittati dal municipio ai grossisti e agli importatori, i fondi dei grossisti di via della Posta, i depositi di vino e liquori di via Cairoli, nonostante la vicinanza della caserma di PS. Saccheggiato anche il magazzino comunale dell’Ente autonomo dei consumi in via del Vescovado, già requisito per depositi. Impossibile fermare la moltitudine: «gli addetti della Camera del lavoro invano si opposero allo scempio». Secondo un primo rapporto del Prefetto «furono vuotati 53 magazzini, contenenti in maggior parte vini, oli, formaggi e qualcuno tessuti, calzature e simili, per un valore complessivo approssimativo di circa 800.000 lire, a quanto hanno dichiarato i danneggiati». Prosegue intanto la requisizione gestita dalle organizzazioni politiche e sindacali: per il trasporto della merce vengono usati camion, barrocci ed anche auto private requisite a ricchi imprenditori, quali Orlando, Corradini, Rosselli, Folena, Guidi. Davanti alla Camera del lavoro, «c’è grande animazione. Sono squadre di giovani muniti di bracciale rosso che vanno e vengono e che salgono e che scendono da automobili e camions. Le squadre ricevono ordini e si allontanano sulle locomobili». Al teatro S. Marco, dove i giornalisti non sono graditi, sventolano la bandiera rosso-nera della Federazione Socialista e un drappo nero degli anarchici (R. Marchi, 1973); su l’«Avanti!» si legge, non senza enfasi, che «Livorno è in mano ai soviet del popolo». Molte trattorie “alla carta” e caffé di lusso continuano ad essere depredati da una folla eterogenea, nonostante che la Camera del lavoro cerchi di mantenere il controllo nelle strade per evitare altri atti di vandalismo.

 7 – 8 LUGLIO

telegrafo_8luglioPrendendo atto della situazione, per l’indomani, la Camera del lavoro proclama lo sciopero generale e sollecita l’intervento delle autorità governative per un urgente approvvigionamento di viveri. Lo sciopero, secondo la CdL, deve però terminare a mezzanotte del 7 luglio, anche se i portuali, tra i quali è forte la presenza anarchica, lo prolungano sino a martedì 8. Nello stesso giorno sui muri appare un manifesto ai cittadini della Giunta esecutiva della CdL nel tentativo di riprendere in mano la situazione:

Le organizzazioni operaie vi approvano e sono al vostro fianco ed in vostro nome i rappresentanti della Camera del lavoro hanno fatto sentire la vostra parola e fatto valere i vostri propositi di fronte all’autorità. Così è stato deliberato che le merci dei negozi, le cui chiavi sono state consegnate alla Camera del lavoro ed al municipio, debbono essere considerati requisiti […] Voi potete essere contenti di quanto avete ottenuto ed appunto perciò dovete vigilare che gli impegni dell’autorità siano eseguiti subito ed interamente e che elementi spuri non sfruttino per privata ingordigia il grandioso movimento del popolo.
Quindi sospendete le requisizioni!

Al termine dell’agitazione si fa sentire anche il movimento popolare cattolico: l’esecutivo del PPI  commenta che «la sommossa recente è diretta e logica conseguenza di una colposa diuturna trascuratezza del governo». Aggiunge che «lo sciopero non può bastare nello scatto del risentimento popolare per quanto giustificato […] Questo del caro-viveri è problema complesso determinato da cause e fattori molteplici che non hanno carattere locale ma nazionale ed internazionale». I cattolici non vanno oltre questa genericità e l’indicazione di alcuni rimedi di ordine generale, «ad onta e al di sopra di tutte le resistenze burocratiche e dei gruppi interessati che sono i veri affamatori del popolo».

I repubblicani, vedendo il loro operato sconfessato dalle pratiche collettive illegali, accusano le «autorità governative e comunali», deplorando che «il giusto malcontento popolare si trasformi in semplici tumulti caotici, che i saccheggi e le devastazioni allontanino il trionfo della rivoluzione» («Il Dovere», 6 luglio 1919).

I dirigenti della Camera del lavoro e del Partito socialista, da parte loro, più pragmaticamente, hanno cercato di controllare e politicizzare la spontanea ribellione popolare «livellando così il movimento per rappresentarlo, garantire un nuovo tipo di ordine pubblico, governare la politica annonaria» (R. Bianchi, 2001).

La Camera del lavoro, in un manifesto rivolto ai lavoratori, cerca quindi di far rientrare i moti in una prospettiva emancipatrice di lungo periodo: «Ricordatevi della vostra forza; se pensate anche, che se vorrete essere gli eredi della società che vi opprime bisognerà che sappiate essere non solo forti, ma anche capaci di dirigere il nuovo ordinamento sociale» (cfr. N. Badaloni, F. Pieroni Bortolotti, 1977).

Anche la Federazione Socialista, con evidente allusione polemica con i repubblicani per il loro recente interventismo, appare sulla stessa linea “di responsabilità”:

Lavoratori, il caroviveri è una conseguenza della guerra; quelli che si fanno paladini dei vostri interessi esigendone la diminuzione immediata, sapendo che tale rimedio esula dalle loro possibilità, vi tradiscono. Essi che furono i maggiori responsabilità del macello immane e della rovina della ricchezza sociale, devono tacere. Il rimedio a tutti i mali non si trova assaltando i negozi, che è effimero,, ma assaltando la diligenza borghese che già corre traballando verso la perdizione («La Parola dei Socialisti», 13 luglio 1919).

In altre parole, la dirigenza socialista – locale e nazionale – dopo aver sottovalutato l’occasione dei moti ed anzi operato per il ritorno alla legalità, depotenziando il movimento di protesta, mira ad incanalare politicamente le residue tensioni, a partire dallo sciopero generale internazionale indetto per il 20 e 21 luglio contro la posizione ostile del governo italiano nei riguardi delle rivoluzioni socialiste.

Significativo anche il comunicato della sezione livornese dell’Associazione nazionale fra mutilati e invalidi di guerra in cui viene promesso tutto l’appoggio «ad ogni buona, giusta e pratica azione popolare, che sia di riparo al mal Governo dei pubblici poteri» («La Gazzetta Livornese», 8-9 luglio 1919).

Il Fascio liberale rivolge invece ai cittadini un appello interclassista: «il male prodotto dai disordini di questi giorni chiede rimedio urgente, mentre si impone la necessità di scongiurare l’approssimarsi dello spettro della fame che colpirebbe poveri e ricchi, borghesi e proletari» (cfr. V. Marchi, 1973); ma finanche il direttore de «Il Telegrafo», quotidiano di notoria impostazione borghese, deve ammettere:

Anche il popolo di Livorno – seguendo l’esempio di altre città consorelle – ha tentato di sciogliere da se stesso il problema spasmodico del caro viveri, visto e considerato che il Governo nuovo, come il vecchio, continuava a trastullarlo con le solite promesse ed a consentire agli affamatori i più ignobili arbitrî e le più sfacciate sfide alla longanimità collettiva (cfr. R. Cecchini, 1993).

Il 10 luglio – giovedì – il Prefetto ordina la requisizione dei generi alimentari e il Questore  l’arresto dei commercianti che l’ostacolano o che vendono a prezzi non concordati. Ai proprietari vengono rilasciate “ricevute” firmate da sindaco e Prefetto che si assumono la responsabilità della requisizione e della vendita alla cittadinanza a prezzi fissi, resi noti tramite un manifesto.

Al fine di prevenire nuovi tumulti, il governo – su sollecitazione dell’on. Modigliani e tramite il ministro Murialdi – ordina al Prefetto di Pisa di far destinare parte dei viveri disponibili nella sua provincia a quella di Livorno per le più critiche condizioni in cui versa.

Articolo pubblicato nel maggio del 2019.




Una protesta piccola piccola: i disordini per l’imposta sul vino a Barberino Val d’Elsa (1919-20)

Il 1919, primo anno di pace dopo «l’inutile strage», si presentò agli occhi della popolazione italiana carico di aspettative e speranze. La guerra si era conclusa vittoriosamente ma aveva aperto e rivelato notevoli problematiche tra le maglie del tessuto sociale del Paese. In particolare, nell’immediato dopoguerra i problemi posti dalla riconversione economica si sovrapposero alle richieste della popolazione facendo emergere la fragilità dello Stato liberale sia sul piano delle relazioni interne, con una vera e propria crisi istituzionale, sia nel più generale rapporto tra istituzioni e società. L’apice della tensione sociale prodotta dalla fine della guerra mostrò la sua immagine nell’estate di quel primo e tanto agognato periodo di pace. La questione annonaria, ancora una volta, costituì uno dei temi principali dello scontro politico-sociale nelle vie e nelle piazze di un paese uscito altresì vincitore dalla guerra. In questo contesto la Toscana si distinse proprio come la regione dove i moti si manifestarono con un’intensità e un vigore unico nel panorama della penisola sconvolta dalle rivolte[1].

A Barberino Val d’Elsa – piccolo centro valdelsano che all’indomani della Grande guerra poteva contare una popolazione di 5.862 abitanti, situato a metà strada tra Firenze e Siena, tra le valli d’Elsa e di Pesa –, le prime avvisaglie del malcontento sociale si manifestarono verso la fine dell’estate 1919. Alfredo Bazzani, agente della locale fattoria Guicciardini – che due mesi prima, nel pieno delle proteste del «bocci-bocci», si era compiaciuto per il fallimento dello “scioperissimo” indetto in difesa delle rivoluzioni in Russia e Ungheria –, il 17 settembre, scrivendo alla contessa Guicciardini, esprimeva le sue più vive preoccupazioni perché «i contadini colla nuova tassa sul vino sono agitatissimi, e male si giunge a persuaderli»[2].

Barberino 1908

Barberino Val d’Elsa ai primi del Novecento (Archivio Mario Forconi)

La tassa sul vino a cui l’agente faceva riferimento era rappresentata dal Regio decreto n. 1635 del 2 settembre 1919. L’Imposta straordinaria sul vino prevedeva che ogni «piccolo proprietario coltivatore, colono, mezzadro od affittuario[3] del fondo da cui il vino stesso prov[enisse]» ne avrebbe dovuto fare denuncia al comune di residenza in modo tale che questo avesse poi provveduto ad applicare l’imposta sullo stesso prodotto. Già duramente colpite da un’invasione di fillossera – un piccolo parassita della vite che provoca in breve tempo gravi danni alle radici e la conseguente morte della pianta attaccata – che aveva danneggiato irrimediabilmente la produzione vinicola, le comunità rurali iniziarono a osteggiare fortemente la tassa, nonostante questa prevedesse l’esenzione di 3 ettolitri per famiglia – quantitativo tuttavia ritenuto insufficiente per il fabbisogno annuo delle famiglie. A Barberino il turbamento della popolazione iniziò a farsi più evidente verso la fine di quell’anno quando Cesare Cianferoni, assessore anziano del comune e membro della locale commissione annonaria, comunicò al sindaco Giovanni Chiostri che, in occasione della riscossione dell’imposta, «contadini tutti ed agenti del Comune si riuniscono nel Capoluogo per fare protesta solenne energica contro [il] provvedimento [di] requisizione e [la] tassa [sul] vino»[4].

La protesta assunse una caratteristica peculiare per la sua capacità di coinvolgere verticalmente strati diversi della popolazione: in un primo momento infatti – visto il danno economico che inevitabilmente si sarebbe ripercosso sulle casse dei grandi proprietari terrieri – fu spalleggiata dalla classe dirigente locale, tanto che la stessa Commissione rappresentante le autorità municipali del mandamento di San Casciano, i proprietari e i coloni produttori, deliberò di «opporsi con energia» alla disposta requisizione del 50% del vino prodotto[5]. Va sottolineato però che il connubio tra élite locali e popolazione durò poco. Il protrarsi della protesta, con l’inedita partecipazione dei coloni che fino a quel momento erano rimasti assolutamente ai margini della vita politica – spinti probabilmente dalle agitazioni contadine che nella zona stavano contestando gli agrari per i ritardi nell’attuazione dei nuovi patti colonici[6] –, fece mutare radicalmente gli atteggiamenti della classe dirigente, e se in un primo momento il malcontento della popolazione fu quantomeno spalleggiato, quando questa diede adito nel marzo 1920 ad una

agitazione gravissima restituendo in segno di protesta le cartelle relative al pagamento dell’imposta stessa, appendendole alla porta dell’esattoria municipale in presenza di tre impotenti agenti di pubblica sicurezza[7]

IMG_0455

Fascicolo contenente documentazione riguardante affari annonari (Archivio storico del Comune di Barberino Val d’Elsa)

l’amministrazione comunale decise di passare a politiche più energiche. Ciò che colpì di questa prima protesta a Barberino Val d’Elsa fu l’ostinatezza dei coloni che, anche se ammoniti dal sindaco – «nessuno dimentichi i propri doveri, ciascuno ricordi la necessità di mantenere la calma e di rispettare la legge»[8] –, e sotto la minaccia d’attuare «atti esecutivi»[9], proseguirono nelle agitazioni adducendo come principale motivazione la seguente istanza

Venuti a conoscenza della imposta sul vino protestano contro quale tassa ingiusta, facendo osservare alla S. V. Ill.ma che il raccolto del vino non è capitale ricavato dal commercio, ma è retribuzione ricavata dal lavoro manuale di tutta la famiglia colonica, facendo osservare a questa imposta si aggiunge ancora maggiore lamento su la requisizione del vino a prezzo di calmiere anch’esso gravato dalla tassa succitata. È puramente ingiusto quel Decreto Prefettizio ove vieta il libero commercio sul vino[10].

Vedendosi, per la prima volta, esautorato nella propria “autonomia politico-gestionale”, e temendo un degenerare delle azioni di protesta che altrove stavano infiammando la regione[11], il sindaco decise di richiedere al prefetto l’invio dei carabinieri per ripristinare la «quiete pubblica continuamente turbata»[12] e l’insediamento di uno «sbarramento». Ancora nell’ottobre 1920 c’erano «circa trecento morosi»[13] e si organizzavano opposizioni collettive ai pignoramenti previsti, per la verità poi mai attuati visto lo stanziamento di un presidio fisso di «sbarramento» dei carabinieri[14] che verso la fine dell’anno portò al «rinsavimento dei morosi»[15].

[1] Cfr. R. Bianchi, Pace, pane, terra. Il 1919 in Italia, Odradek, Roma 2006; Id., Bocci-Bocci. I tumulti annonari nella Toscana del 1919, Olschki, Firenze 2001.

[2] Archivio Massimiliano Majoni, Fondo aggregato Marcella Guicciardini Majoni, b. 135.1, Alfredo Bazzani alla Contessa Marcella Guicciardini, 17 settembre 1919.

[3] Si consideravano «piccoli proprietari coltivatori, coloni, mezzadri o affittuari, agli effetti del presente decreto, tutti coloro che attendono personalmente alla coltivazione dei vigneti propri o presi a colonia, a mezzadria o in affitto»: cfr. Regio decreto n. 1635, 2 settembre 1919, Che istituisce un’imposta straordinaria sul vino prodotto nella raccolta dell’anno 1919 e su quello delle annate precedenti.

[4] Archivio Storico Comunale di Barberino Val d’Elsa (d’ora in poi ASCB), b. C-73, f. Cat. 2, Cesare Cianferoni al Sindaco Chiostri, 29 dicembre 1919.

[5] Ivi, b. C-75, f. Cat. 2, Delibera di una Commissione del mandamento di San Casciano Val di Pesa, 2 gennaio 1920; Sulle polemiche che opposero produttori, commercianti ed industriali della provincia alle autorità prefettizie in merito ai vari provvedimenti sul vino cfr. Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Guerra europea 1915-1922, b. 149, f. Firenze.

[6] Ivi, Ministero degli interni, Direzione generale di Pubblica sicurezza, Affari generali e riservati, Ordine pubblico, C-1, 1920, b. 51-A, f. Firenze e provincia, sf. Agitazione agraria.

[7] Cfr.ASCB, b. C-75, f. Cat. 6, n. 1162/6, Sindaco di Barberino al Questore, 29 marzo 1920.

[8] Ivi, Comune di Barberino al Prefetto, 22 marzo 1920; Sindaco Chiostri alla cittadinanza, 23 marzo 1920.

[9] Ivi, n. 1162/6, Sindaco di Barberino al Questore, 29 marzo 1920.

[10] Ivi, b. C-75, f. Cat. 6, istanza presentata dai coloni del Comune all’Intendenza di Finanza di Firenze, 22 aprile 1920.

[11] Per un quadro della situazione cfr. M. Toscano, Lotte mezzadrili in Toscana nel primo dopoguerra (1919-1922), «Storia contemporanea», 8 (1978), n. 5-6, pp. 877-950.

[12] ASCB, b. C-76, f. Cat. 18, n. 1914/18, Sindaco Chiostri al Prefetto di Firenze, 31 maggio 1920.

[13] Ivi, n. 3563/6, Sindaco di Barberino a destinatari vari, 22 ottobre 1920.

[14] Ivi, b. C-80, f. Cat. 11, Maresciallo dei Carabinieri di Tavarnelle a Sindaco Chiostri, 7 luglio 1922.

[15] Ivi, n. 4104/18, Sindaco di Barberino al Cavalier Barile, Commissario di Pubblica Sicurezza di Firenze, 7 dicembre 1920.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2019.




Il conflitto di Cecina

Sul finire del gennaio 1921 Cecina, modesta ma vivace cittadina allora facente parte della provincia di Pisa, fu teatro di un duro scontro che coinvolse squadristi livornesi e socialisti locali, tra i quali il sindaco e alcuni membri della giunta comunale. Lo scontro, in cui venne ferito mortalmente il fascista Dino Leoni, si colloca al centro di intricate vicende che portarono alla prematura fine della neoeletta amministrazione socialista.

Gli anni che separano il primo conflitto mondiale dall’avvento del fascismo sono per l’Italia una fase di grande instabilità politica e agitazione sociale. Sulla scena pubblica del Paese si affacciano movimenti di massa contrapposti, impegnati fin da subito in una lotta violenta a tal punto da ricordare i toni di una guerra civile. Ai frequenti scioperi e disordini di piazza agitati dalle rivendicazioni delle classi lavoratrici rispose ben presto un fenomeno del tutto nuovo ma destinato a condizionare profondamente la storia italiana degli anni successivi: lo squadrismo fascista. La tensione sociale raggiunse il suo apice a seguito delle elezioni politiche del 1919 e, specialmente, di quelle amministrative del 1920, che videro una netta affermazione del Partito Socialista in numerosissimi comuni. In Toscana, su un totale di 290 comuni, ben 151 andarono ai socialisti, seguiti a grande distanza dai conservatori. Questo risultato elettorale portò a un intensificarsi delle azioni squadriste in tutta la regione, volte a colpire le amministrazioni passate agli odiatissimi “nemici rossi”.

Anche a Cecina le amministrative del 1920 segnarono l’affermazione di una maggioranza socialista. La nuova giunta era guidata da Ersilio Ambrogi, personalità di spicco della scena politica tirrenica, deputato nella Circoscrizione Livorno-Pisa e successivamente aderente al neonato Partito Comunista d’Italia. Il 9 dicembre 1920, in una delle sue prime sedute, l’amministrazione comunale votò una deliberazione con cui si decideva di rimuovere dalle sale del municipio la targa in bronzo che riportava il celebre Bollettino della Vittoria, ovvero il documento ufficiale con cui il generale Armando Diaz aveva annunciato la resa dell’Impero austro-ungarico e la fine delle ostilità sul fronte italiano. Le ragioni che spinsero la giunta a prendere questa decisione non sono totalmente chiarite dalle fonti, ma il gesto – forse dovuto all’euforia seguente il trionfo elettorale – non è certamente un caso isolato nelle turbolente cronache di quegli anni. Un indizio si può trarre dalle parole dello stesso Ambrogi il quale, interpellato in più occasioni al riguardo, dichiarò sempre che le motivazioni della rimozione della targa furono politiche, così come politica era stata, a suo dire, l’affissione della stessa. Lasciando da parte le considerazioni sulla felicità del gesto, quel che è certo è che questo costituì il casus belli dei disordini successivi.

•Perizia topografica del tratto della Via Emilia teatro del conflitto (Archivio di Stato di Padova) (img2).

• Perizia topografica del tratto della Via Emilia teatro del conflitto (Archivio di Stato di Padova).

Un primo scontro, seppur a parole, fu cominciato dall’articolo Intelligenti pauca, uscito sul settimanale cecinese Vita Nuova il 12 Dicembre 1920. L’articolo, firmato «C.», molto probabilmente è da attribuirsi a Renato Cambellotti, esponente di spicco del fascismo locale che guiderà la 23° Legione Maremmana nella Marcia su Roma. Con un tono decisamente aggressivo, l’autore intima ai membri della giunta comunale – i «signori bolscevichi» – di non procedere con la loro deliberazione e promette che la targa sarà comunque rimessa al suo posto da «coloro che seppero tutte le ansie, i disagi e i dolori della trincea». La risposta della controparte arrivò il 26 dicembre sulle pagine de La Fiamma, settimanale della Federazione Socialista di Pisa. Nel suo articolo intitolato CONIGLI!!!, Pierino Cateni, personaggio vicino al sindaco Ambrogi, difende vigorosamente la rimozione della targa – vista come simbolo della guerra in cui «si spinse il proletariato al macello» – e conclude provocando il suo anonimo interlocutore, senza risparmiarsi: «È già molti giorni, che è stata tolta la targa, e coloro che ci minacciavano di rimetterla immediatamente, non si sono ancora mostrati. Vigliacchi! Vigliacchi! Vigliacchi!».

La promessa controffensiva ebbe luogo un mese più tardi: nella notte tra il 24 e il 25 gennaio 1921, un gruppo di fascisti penetrò nel municipio e rimise al suo posto la targa. Non si conoscono con certezza i nomi dei componenti del gruppo, si sa solo che a prendere parte alla spedizione furono fascisti locali supportati da squadristi appartenenti ai Fasci di combattimento di Livorno, Pisa e, forse, Firenze. La partecipazione di fascisti provenienti da città, come il capoluogo toscano, anche piuttosto distanti da Cecina, non deve sorprendere. I Fasci operavano in stretta collaborazione ed erano organizzati in una ben definita struttura gerarchica; le azioni venivano decise nelle sezioni dei centri maggiori, dove erano definite anche forze e strategie da mettere in campo, mentre quelle dei centri minori rappresentavano una sorta di presidi, utili a fornire supporto durante le incursioni nella provincia. La mattina del 25, il sindaco e gli assessori vennero a conoscenza dei fatti della notte precedente e, dopo aver ordinato che la targa fosse nuovamente rimossa, proclamarono lo sciopero generale. La tensione era altissima.

La sera stessa, con il pretesto di difendere i commercianti – che a loro dire erano stati costretti con la forza a tenere chiusi i negozi – giunse a Cecina una seconda spedizione di fascisti, stavolta provenienti da Livorno. I leader della spedizione richiesero al vicecommissario di polizia che le autorità tutelassero gli interessi degli esercenti e rimettessero definitivamente al suo posto la targa. Dall’altro lato, ricevuta la notizia dell’arrivo dei fascisti, il sindaco Ambrogi si recò dal maresciallo dei carabinieri per sincerarsi che lo stesso avesse forze sufficienti alla tutela dell’ordine pubblico. Entrambe le parti furono rassicurate dalle autorità, così gli squadristi dissero che sarebbero tornati indietro col primo treno mentre il sindaco, atteso da numerosi compagni nella locale sezione socialista, decise di far rincasare tutti. Gli eventi successivi non sono definiti con assoluta chiarezza dalle fonti. Sicuramente i fascisti non tornarono subito a Livorno – pare per un ritardo del treno – e si avviarono sulla via Emilia, la strada principale del paese, strappando dai muri i

•Targa commemorativa dell’amministrazione eletta nel 1920, affissa sul municipio vecchio di Cecina (foto T. Barsotti)

• Targa commemorativa dell’amministrazione eletta nel 1920, affissa sul municipio vecchio di Cecina (foto T. Barsotti)

manifesti rossi affissi per lo sciopero e improvvisando una parata. Giunti i fascisti sotto il balcone della sezione socialista, dove ancora si trovavano il sindaco e altre persone, scoppiò uno scontro a fuoco tra i due gruppi, terminato solo dopo l’intervento delle forze dell’ordine. Nello scontro – non è possibile dire con certezza quale delle due fazioni abbia sparato per prima – rimasero feriti Arsace Bertelli, un giovane cecinese colpito accidentalmente, e Dino Leoni, capitano della Marina Mercantile e fascista livornese, che morirà il 19 febbraio seguente a causa delle ferite riportate.

Le indagini vennero avviate negli istanti immediatamente successivi ai fatti. Una perquisizione della sezione socialista, alla presenza del vicecommissario di polizia e del maresciallo dei carabinieri, rinvenne nei locali e sul balcone numerose pietre, dei bossoli di rivoltella e alcune munizioni inesplose. L’unica arma sequestrata fu trovata addosso a uno dei fascisti. La mattina del 26 il sindaco Ambrogi e alcuni amministratori – tra i quali spicca Alfredo Bonsignori, colui che aveva proposto la rimozione della targa – vennero arrestati e subito trasferiti nelle carceri di Volterra. La fase istruttoria si concluse un anno più tardi e portò alla sentenza del 1923 presso la Corte di Assise di Padova, che condannò quasi tutti gli imputati a scontare diversi anni di carcere. Il sindaco Ambrogi venne condannato in contumacia in quanto, eletto alla Camera dei deputati per il PCd’I, era stato scarcerato nel giugno 1921 ed era espatriato pochi mesi dopo. A nulla valse il ricorso in Cassazione dei rimanenti imputati, che risultò semplicemente in alcuni aggiustamenti della pena.

Il procedimento penale, pur giungendo alle sentenze di condanna, non servì a gettare definitivamente luce sui fatti del 25 gennaio. La difesa lamentò varie irregolarità sia nel corso delle indagini sia durante il processo, ottenendo pressoché nessuna risposta. Dalle fonti appare evidente l’accanimento delle autorità nei confronti degli imputati. Gli atti, infatti, sembrano far trasparire un piano – impossibile dire se anteriore o posteriore ai fatti – volto a rovesciare la giunta. In questo senso, è utile ricordare le vicende immediatamente successive. Dopo la rimozione dalla carica del sindaco Ambrogi, stabilita con decreto reale il 30 gennaio 1921, prese il suo posto l’assessore anziano Dante Vannozzi. Quest’ultimo scrisse ripetutamente al prefetto di Pisa e al sottoprefetto di Volterra per denunciare le minacce di morte a lui indirizzate dai fascisti locali, senza ottenere dalle autorità nessun provvedimento concreto. Perciò, il 25 aprile successivo Vannozzi si dimise assieme a tutti gli assessori e i consiglieri di maggioranza. L’episodio, come numerosi altri emergenti dagli atti, avvicina le vicende di Cecina a quelle dei tantissimi comuni italiani nei quali l’azione fascista rappresentò il perno su cui rovesciare quelle amministrazioni comunali ritenute “scomode”.

Tommaso Barsotti, laureando in Storia dell’Università di Firenze, svolge il servizio civile regionale presso l’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea (ciclo 26 giugno 2018 – 25 febbraio 2019).

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2018.




Ebrei in Toscana XX-XXI secolo

Ebrei in Toscana XX-XXI secolo è il titolo di una Mostra tutta concentrata sull’età contemporanea. Perché questa scelta? Le ragioni sono molte e di diversa origine. Intanto perché è il periodo più vicino, quello che storicamente ci coinvolge di più. Ma, e non secondariamente, perché sentiamo il bisogno di ampliare sia la possibilità di una conoscenza più articolata cronologicamente che quella di affrontare questo tema per un pubblico non solo specializzato. L’idea è quella di analizzare la storia della comunità ebraica, così importante per la nostra regione e non solo, focalizzando l’attenzione su quegli avvenimenti più direttamente coinvolti, nel bene e nel male, con il nostro presente. Tale necessità si è particolarmente fatta urgente perché a partire dalla Legge sulla Memoria, istituita nel 2000, la vicenda ebraica toscana e nazionale è stata in qualche modo risucchiata e appiattita sulla tematica delle leggi razziali, della persecuzione e della deportazione. Ci sembra giusto ed opportuno uscire da quel periodo e narrare la storia di una minoranza in un quadro più articolato, più complesso di avvenimenti, un quadro capace di ridare evidenza alle caratteristiche sociali, culturali, politiche di questo gruppo. Evidenziare la loro capacità di collocarsi dentro il panorama delle idee non solo nazionali ma anche internazionali, di partecipare al farsi del destino politico e morale del paese.

famiglia Castelli con figli e nipoti1

La famiglia Castelli con figli e nipoti (Fonte: Archivio privato famiglia Castelli)

L’idea progettuale nasce all’interno di un Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea, quello di Livorno, l’ultimo nato nella rete degli istituti regionali. Può darsi che ad un osservatore esterno questa appaia anche come una decisione piena di arroganza. Noi pensiamo di no. Forti della nostra esperienza di gestione, nella città di Livorno, della grande Mostra della Fondazione Gramsci di Roma su: Avanti popolo. Il Pci nella storia d’Italia. Forti dell’esperienza dell’allestimento della Mostra sui manifesti politici: Rosso creativo. Oriano Niccolai 50 anni di manifesti, abbiamo deciso di affrontare una nuova sfida. L’idea che soggiaceva a questa nostra intenzione poi concretizzatesi era che gli Istituti come il nostro sono a pari dignità di altri enti culturali, sia pubblici che privati, soggetti produttori di cultura, e anche di cultura alta.

L’idea però è divenuta realtà concreta perché si è incontrata con la sensibilità della Regione Toscana che ha accolto il nostro progetto e l’ha sostenuto con generosità sia finanziaria che collaborativa, sia da parte della Presidenza, sia da parte dell’Assessorato alla Cultura. Non solo, durante tutto il periodo di realizzazione abbiamo sempre avuto al nostro fianco gli uffici della Cultura della Regione, in particolare, Massimo Cervelli, Claudia De Venuto, Floriana Pagano, Elena Pianea e Michela Toni e l’appoggio morale e intellettuale di una figura fondamentale per le politiche della Memoria, Ugo Caffaz. E dall’inizio abbiamo avuto a fianco le competenze della Scuola Normale Superiore di Pisa.

Il tema della Mostra si è fatto strada in noi anche perché la città di Livorno era ed è una delle sedi più significative della presenza ebraica in Italia e il nostro Istituto, sin dal suo nascere, ha collaborato e collabora con la Comunità ebraica locale. Questa stessa vicinanza amplia il bisogno di raccontare una memoria dentro la cornice vasta della storia novecentesca, dare la possibilità ai cittadini tutti e in particolare ai giovani, di approfondire i motivi che conducono alla tragedia della Shoah ma anche di raccontare come si esce da quella esperienza e come ci si ricostruttura, sia come comunità, che come singoli.  Il momento in cui comincia a prendere forma questa proposta, non era un momento ancora così tragico come quello che stiamo adesso vivendo. Se ne vedevano però tutte le avvisaglie all’orizzonte. Forse tutti ricordano l’uccisione di tre bambini davanti ad una scuola ebraica di Tolosa, nel marzo del 2012.

Eravamo consapevoli poi che il gruppo di lavoro che avremmo messo insieme avrebbe avuto a sostegno una ricca bibliografia frutto di lavori ultradecennali particolarmente vivaci, come quelli promossi dalla stessa regione Toscana sotto la guida di Enzo Collotti, così come tutto il materiale preparatorio per i viaggi della Memoria che la stessa Regione ha realizzato nel corso degli anni. Eravamo cioè sicuri di essere in buona compagnia.

La volontà di raccontare oltre cento anni di storia con un allestimento espositivo viene dal desiderio di utilizzare una modalità d’approccio capace di parlare anche al mondo dei non addetti ai lavori, e soprattutto ai più giovani. L’utilizzazione nel corpo della Mostra di riproduzioni di carte d’archivio, di copertine di libri, di disegni ma soprattutto di un apparato di riproduzioni fotografiche risultato delle donazioni di famiglie e di fondazioni culturali, arricchisce i testi, già di per sé particolarmente densi. Testi che abbiamo scelto di fare bilingui: in italiano e in inglese, in modo da aprirli alla fruizione di un pubblico potenzialmente molto più vasto di quello italiano. Sono testi che si prestano ad una possibilità di letture trasversali, di arricchimenti di senso, di interconnessioni e di suggestioni. Il team di lavoro che si è raggruppato attorno all’Istoreco, formato da specialiste della tematica come Barbara Armani, Ilaria Pavan, Elena Mazzini oltre alla direttrice dell’Istoreco, Catia Sonetti, si è poi arricchito di altri due narratori che hanno elaborato due pannelli specifici: Enrico Acciai, che ha curato quello sullo sfollamento degli ebrei livornesi, e Marta Baiardi, che ha scritto quello sulle memorie della deportazione. Un materiale esteso, coeso, uniformato da alcune scelte di scrittura condivise e rispettate con acribia che hanno, a nostro parere, dato il tono giusto alla Mostra. La traduzione è stata assegnata ad una specialista, la dottoressa Johanna Bishop, che ci ha garantito la qualità del lavoro. Tutti i nostri sforzi sono stati sorretti dalla volontà di far arrivare l’allestimento sui diversi territori regionali e anche esterni alla Toscana. Perché questo nostro piano si concretizzi, si dovrà incontrare con la volontà degli amministratori locali e con la possibilità di reperire altre risorse per i nuovi allestimenti, ma siamo fiduciosi che il desiderio di compartecipare a questa avventura renderà tutto ciò realizzabile. Del resto questa scelta è anche la strada più sicura per una reale e completa valorizzazione dello sforzo compiuto sia in termini finanziari che in termini scientifici.

Il risultato, di cui solo noi siamo responsabili, è anche il frutto della collaborazione con le diverse comunità ebraiche presenti sul territorio, collaborazione che è stata sempre continua e proficua. I loro presidenti, i loro archivisti e bibliotecari sono venuti incontro alle nostre richieste concedendoci materiali d’archivio e fotografici, sia delle Comunità stesse che dei componenti le medesime, in un rapporto di totale e rispettosa autonomia. Non solo. Abbiamo potuto realizzare alcune videointerviste a esponenti del mondo ebraico, che saranno riversate con un montaggio ad hoc in alcuni video che vanno ad arricchire il materiale documentale della Mostra.

Dal punto di vista del percorso seguito, dopo la stesura del progetto, si passa alla sua realizzazione che vede per oltre un anno tutti gli interessati coinvolti impegnarsi nello studio, nella ricerca archivistica e bibliografica, nella raccolta delle fonti iconografiche. Superata questa prima fase, ci siamo dedicati alla stesura vera e propria dei pannelli e poi alla sua realizzazione digitale con le professionalità specifiche dell’Agenzia Frankenstein di Giuseppe Burshtein di Firenze, in particolare con Cristina Andolcetti, Maddalena Ammanati, Stefano Casati, Federico Picardi e Isabella d’Addazio Quest’ultima fase è quella che ci ha permesso in itinere l’anteprima visiva di quello che andavamo facendo. Occorre dire che il controllo dei contenuti non è mai stato piegato alle esigenze della comunicazione anche se questa ha costretto tutti ad una sintesi espressiva, non proprio consueta per delle storiche e storici italiani. Vogliamo dire però che non ci siamo fatti prendere la mano dalla necessità della “leggerezza”, che nel nostro caso rischiava di farci dimenticare il forte sentimento divulgativo che ci animava. Siamo però stati attenti a tutti i suggerimenti degli addetti ai lavori che ci hanno consentito, perlomeno in parte, di superare certe difficoltà dei temi trattati per veicolare i nostri contenuti nel modo più accessibile possibile. Perlomeno questo era il nostro scopo.

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni '30 - Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni ’30 – Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

La Mostra si sviluppa secondo un arco cronologico che va dalla Grande Guerra ai giorni nostri. Presenta anche alcuni pannelli introduttivi, uno sul perché questa Mostra, uno generale sulla presenza ebraica nella regione a partire dal periodo tardo medioevale, e l’altro specifico per l’età liberale, anteprima al secolo XX. Dopo aver analizzato la Grande guerra, la prima vera manifestazione dell’avvenuta emancipazione, ed esserci soffermati sul tema del sionismo, affronta in una sezione di grandi dimensioni, per forza di cose, il ventennio fascista con le colonie e l’impero, analizza sia il fronte degli antifascisti che quello dei sostenitori del regime, le leggi razziali del ’38, la persecuzione del 1943-1945. La Mostra si chiude infine con il secondo dopoguerra, toccando la problematica della ricostruzione dopo il ritorno dai campi, la battaglia per riavere i beni che erano state requisiti, il lento ricollocarsi dentro lo scenario postbellico, i rapporti con Israele. Questa è la sezione per la quale l’apparato storiografico al quale guardare, soprattutto in lingua italiana, è risultato più debole e carente. In ogni sezione analizzata emerge come il gruppo degli ebrei si collochi esattamente alla stessa maniera di tutti gli altri cittadini italiani del momento. Appoggia Mussolini con entusiasmo o perlomeno con un atteggiamento di condiviso conformismo alle opinioni della maggioranza oppure si schiera contro in una opposizione lucida ed eroica con quei pochi che vedono e capiscono prima degli altri il significato del regime e il futuro di guerra e di persecuzione che si intravede all’orizzonte. È possibile comprendere attraverso i nostri testi, e soprattutto con le fotografie a corredo, come fino all’ultimo la consapevolezza di quello che stanno rischiando, la possibilità di perdere i beni e le vite, non sia particolarmente radicata. O forse, accanto a questa sottovalutazione del pericolo, si nasconde l’abitudine plurisecolare a sopravvivere nelle disgrazie, a ridere nel bisogno, ad affrontare con allegria ed ironia le sorti peggiori, carattere che emerge proprio nei frangenti più drammatici. Così si spiega ad esempio la fotografia della famiglia Samaia che mentre sta per uscire dal paesino di Monte Virginio, vicino Roma, il 25 marzo 1944, di nuovo in fuga per trovare salvezza, trova il modo di farsi fotografare e a commento della foto scrive: Via col vento!

Le immagini, a corredo, nell’insieme, racconta più dei testi scritti la “religione” della famiglia che pervade queste comunità. Non viene sprecata nessuna occasione per fotografarsi in gruppo ed il gruppo si sviluppa e si espande attorno alla coppia degli anziani. Particolarmente indicative in questo senso sono le foto a corredo donateci dagli eredi della famiglia Castelli. Ma non sono da meno quelle, più vicine a noi nel tempo, della famiglia Cividalli, Orefice, della famiglia Levi, dei Viterbo o dei Caffaz, della famiglia Samaia, e molte altre ancora. Certo l’amore per la famiglia pervade anche tutti gli altri italiani. Nessuno o quasi ne è escluso. Quello che qui vediamo è la documentazione fotografica dei passaggi importanti: le nozze, le feste di purim, il bar mitzvah per i ragazzi o il bat mitzvah per le ragazze, perché anche se l’adesione alla religione dei padri è, perlomeno fino alle leggi razziali, piuttosto debole, fatta più di consuetudine che di una adesione forte e vissuta con convinzione, importante è attraverso la ripetizioni di ritualità, come la preparazione di alcuni dolci tipici o il pranzo in comune in certi momenti, mantenere la coesione del gruppo. Gruppo nel quale molto spesso vengono inseriti, senza particolare travaglio, anche gli elementi “gentili” assorbiti con i matrimoni misti. Questo come dicevamo sopra fino alle leggi razziali.

Nel secondo dopoguerra, la scoperta della tragedia che si è abbattuta sul popolo ebraico rinsalda le tradizioni, aumenta i viaggi in Israele e la scelta di andare a viverci, riavvicina alla religione dei padri anche chi se ne era distaccato, fino ad arrivare al nostro presente, fatto di piccole e piccolissime comunità orgogliose della propria specificità, molto presenti sul piano culturale e molto attive nel dialogo interreligioso.

La Mostra è arricchita di diversi video in cui scorrono i montaggi tratti da alcune videointerviste realizzate nel corso della preparazione della Mostra. Si vedono donne e uomini ragionare sulla loro appartenenza, sulla storia della loro famiglia, sul loro sentimento religioso, sui conti che hanno fatto come singoli rispetto alla loro maggiore, o minore, o assente, appartenenza alla comunità ebraica.

Naturalmente nella Mostra non c’è affatto tutto quello che si può raccontare su questa minoranza, mancano alcuni pezzi importanti come le vicende, fra l’altro segnate da numerosi episodi di antisemitismo, della minoranza ebraica italiana, quasi tutta di provenienza labronica, in Algeria o in Marocco. Non c’è stata la possibilità di raccontare nessuna storia di genere, anche se attraverso il materiale raccolto, tra cui molte lettere e molti diari inediti, ci siamo fatti un’idea piuttosto articolata delle condizione della donna dentro la comunità ebraica. In qualche modo sicuramente privilegiata perché istruita e capace di saper leggere e scrivere, conoscere una lingua straniera, suonare uno strumento musicale ma assolutamente ostacolata nel suo desiderio di intraprendere libere professioni o attività lavorative vere e proprie. Questo perlomeno fino alla conclusione del secondo conflitto. Come succedeva nelle famiglie non ebree dell’Italia liberale e fascista del secolo scorso. Non abbiamo potuto approfondire il tema dei rapporti con lo Stato italiano sul versante della restituzione dei beni sottratti, né quello dei processi intentati contri fascisti e delatori.

La Mostra poteva chiudersi con l’immagine di una svastica disegnata in anni recenti sulla facciata della sinagoga di Livorno. Abbiamo deciso di no. Non era il caso. Tutto il nostro lavoro ha senso anche perché sottintende il desiderio di un rispetto reciproco nelle riconosciute diversità che all’interno del nostro orizzonte odierno, che non è più quello nazionale, ma perlomeno europeo, vedono di nuovo muri che si ergono, leggi di discriminazione strisciante farsi avanti e ancora rumore di bombe e sangue versato contro istituzioni e luoghi Kasher. Noi pensiamo e percepiamo il nostro lavoro solo come piccolo tassello per un dialogo di pace e ci siamo rifiutati di chiudere con un’immagine senza speranza.

Livorno, 24 ottobre 2016