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L’addio alla terra

Nei venti anni compresi fra il 1950 e il 1970, nelle campagne senesi come nel resto della Toscana, venne a termine la secolare vita del rapporto di produzione mezzadrile, o di colonia classica come era anche definito.
La mezzadria che intorno all’anno 1947 copriva il 59,2% della superficie produttiva della provincia di Siena, scese al 39,5% nel 1961 e all’11,48% nel 1970, divenendo una sorta di relitto contrattuale. E i mezzadri, che con le loro famiglie patriarcali estese costituivano il 69% della popolazione rurale e il 49% di quella residente, si ridussero a poche unità, costituite in prevalenza da anziani e confinate in genere su piccoli appezzamenti vicini ai centri urbani, la cui produzione serviva ad integrare l’alimentazione e il reddito di nuclei familiari che avevano trovato la loro principale fonte di impiego in settori diversi da quello agricolo.

Scena di lavoro nei campi

Scena di lavoro nei campi

Al tempo stesso anche la grande proprietà, imperniata dall’Ottocento sul sistema di fattoria (numerosi poderi con una direzione e un’amministrazione centralizzata) subì un ridimensionamento ed un rimescolamento – quasi il 60% delle proprietà superiori ai 50 ettari venne messo in vendita, in blocco, oppure per frammentazioni successive – sotto il peso combinato degli effetti causati dal diffuso assenteismo padronale, dai timori di esproprio innescati dalla pur moderata riforma agraria, dal venir meno, anche a causa della vertenzialità sindacale e dell’adesione di gran parte del mondo contadino ai partiti di sinistra, sia delle rigide, tradizionali gerarchie (prima fra tutte quella personale fra padrone e mezzadro), ma anche quelle interne alla famiglia patriarcale contadina fra vecchi e giovani, uomini e donne, dal ridursi della flessibilità del lavoro che aveva costituito il vero “tesoro”, la vera “risorsa segreta” della colonia classica, ed infine, nei casi migliori – in verità non pochi – dalla necessità di razionalizzare e di trovare i capitali da investire per un’agricoltura specializzata sui terreni non venduti.
Il mutamento fu dunque epocale e conobbe tensioni forti e laceranti, prima fra tutte la lunga ed estenuante vertenza contrattuale iniziata subito dopo la fine della guerra e proseguita per anni fra contenziosi sul riparto dei prodotti, sfratti, assedi alle fattorie, manifestazioni nelle aie e nei paesi, cariche della celere e dei carabinieri, difficili trattative condotte dai Consigli di fattoria. Di portata non minore fu la fine dei grandi aggregati familiari che, lasciando i poderi e la campagna per urbanizzarsi o avvicinarsi alle periferie urbane, si frammentarono in famiglie nucleari sotto la spinta delle esigenze di quella modernità – esigenze espresse dai giovani, e dalle femmine prima ancora e più che dai maschi – che offriva la nuova situazione dell’Italia del miracolo economico, nella quale, di fronte al richiamo di un nuovo stile di vita incardinato non più sull’atavico binomio lavoro-sopravvivenza, bensì su un più allettante circuito lavoro-consumo, la condizione di contadino era avvertita come emarginata e emarginante e la terra sembrava ancora più bassa e più dura.
Eppure il segno di questa grandiosa trasformazione, che la distinse dalle migrazioni di massa che caratterizzarono altre regioni, non fu quello di un crollo, di una catastrofe demografica e sociale, bensì di un graduale, per quanto possente, slittamento. Con i mezzadri dei poderi più fertili e più vicini ai centri abitati che per primi si inurbarono per essere rimpiazzati da quelli delle terre più difficili e più isolate, i quali, dopo un po’, seguirono le medesime orme, ma quasi sempre con il supporto di varie opportunità lavorative incontrate per via. E comunque con punti di approdo definitivi che, collocandosi in prevalenza entro i confini provinciali e regionali, consentirono ai giovani di portare con sé, o vicino a sé, molti dei loro anziani.

Operai "a trebbiatura" con la bandiera della pace issata sullo stollo del pagliaio

Operai “a trebbiatura” con la bandiera della pace issata sullo stollo del pagliaio

Un processo “dolce”, dunque, quasi in sintonia con la dolcezza, solcata da asprezze, del paesaggio mezzadrile toscano. A conferma, senza entrare nel merito della questione sul ruolo sociale dei mezzadri una volta che smisero di essere tali – dico solo che nel senese, almeno per vari anni, gli ex mezzadri fornirono mano d’opera salariata e soltanto dopo, magari con la generazione più giovane, alcuni di loro divennero piccoli imprenditori – e senza affrontare l’altra questione del perché soltanto in pochi comprarono le terra con la legge sulla piccola proprietà contadina, mi soffermo su quanti – una minoranza -, magari dopo essersi trasferiti con moglie e figli in un centro urbano, continuarono, in condizione di salariati, a lavorare sui campi, spesso gli stessi che avevano coltivato come mezzadri.
Alcuni proprietari terrieri hanno raccontato che furono proprio costoro, in virtù di conoscenze e di abilità lavorative uniche, ad aiutarli a compiere il difficile passaggio verso un’agricoltura specializzata nel settore del vino e non solo, nonostante che fossero stati, nel periodo precedente, dei duri avversari della classe padronale e rimanessero comunisti convinti.




Le industrie di Colle Val d’Elsa tra Ottocento e Novecento

Pur essendo al centro di un’area a vocazione agricola, la città di Colle Val d’Elsa, posta nel nord della campagana senese, tra Otto e Novecento si presentava come una realtà industriale ormai talmente solida da essere denominata la Biella di Toscana. Un censimento effettuato nel 1927 ci dice che, pur avendo vissuto lo shock della Grande Guerra, a quell’epoca erano ancora attive in città 350 ditte, per la maggior parte piccoli artigiani e commercianti, ma tra queste si trovavano anche quarantotto industrie, delle quali ben ventisette definite grandi e ventuno minori; un numero di tutto rispetto.

Ma come era stato possibile uno sviluppo del genere? I fattori furono fondamentalmente tre: la presenza di un microtessuto di artigiani, imprenditori e maestranze specializzate attive fin dal medioevo (realtà legata alla produzione della carta), la favorevole posizione viaria, posta sulla strada volterrana e a ridosso dell’asse viario Firenze-Siena e infine, ultima ma fondamentale, la presenza di risorse naturali a buon mercato come le acque del fiume Elsa (da secoli regimate per permetterne lo sfruttamento manifatturiero a mezzo canali -le gore-), il legname della Montagnola e delle Colline Metallifere, nonché un certa potenzialità mineraria.
Lo sviluppo industriale decollò definitivamente nel XIX secolo con la nascita della prima vetreria della città, fondata dal francese Françoise Mathis nel 1820 e della ferriera impiantata dal savoiardo Stefano Masson nel 1863, realtà accanto alle quali si era conservata attiva l’industria cartiera e si erano sviluppati altri comparti come quello della ceramica.
L’esplosione della seconda rivoluzione industriale a Colle Val d’Elsa, legata anche ad una certa lungimiranza da parte delle amministrazioni comunali dell’epoca, portò ad un deciso incremento del tessuto imprenditoriale, sviluppo, quest’ultimo, parzialmente fondato sulla scommessa, da parte degli investitori, della costruzione di un nuovo ramo della strada ferrata, ossia la tratta Poggibonsi, Colle Val d’Elsa, Saline di Volterra, Cecina.

Come è noto la ferrovia per il mare non venne mai ultimata, tuttavia lo sviluppo industriale della città valdelsana, tra alti e bassi, continuò a fare il suo corso portando, da un lato ricchezza e sviluppo ma dall’altro un brutale sfruttamento nei confronti della manodopera; le condizioni di miseria di quest’ultima generarono varie forme di protesta, come agitazioni e scontri e scontri di piazza, ma dettero un segnale ancora più forte quando nel 1897 portarono a sedere sullo scranno di sindaco il pittore socialista Antonio Salvetti, uno dei primi sostenitori di questo forza politica ad occupare tale carica nel nostro Paese.

Schizzo della città di Colle val d'Elsa

Schizzo della città di Colle val d’Elsa

Va detto infine che dopo il vertiginoso aumento di popolazione degli ultimi trent’anni dell’Ottocento (il periodo in cui il ministro Luzzatti aveva definito la cittadina valdelsana la Biella di Toscana), dovuto alle iniziative imprenditoriali richiamate poco sopra, nel ventennio successivo il numero degli abitanti di Colle Val d’Elsa rimase sostanzialmente stabile (eccettuati due sensibili shock, uno nel 1901, probabile conseguenza della crisi della ferriera, destinata a chiudere di lì a poco, e un secondo negli anni della Grande Guerra) segnando un modesto incremento, costante, dovuto al saldo attivo delle nascite rispetto ai decessi.

Del tutto ininfluente era il flusso migratorio, composto in massima parte dal tradizionale spostamento da e verso i territori dei comuni vicini delle famiglie mezzadrili e in parte marginale da lavoratori del mondo industriale e manifatturiero (vetrai, operai metallurgici, cartai, ceramisti e calzolai) che si spostavano in altri distretti produttivi (Murano, Pozzolo Formicaro, Milano, Genova, Terni, Livorno, Empoli) per periodi di tempo spesso limitati, facendo, nella maggior parte dei casi, ritorno al paese natale dopo pochi anni.
I residenti del comune valdelsano, in questo periodo superavano di poco le diecimila unità, equamente ripartite tra abitanti della campagna e borghigiani; buona parte di questi ultimi si guadagnavano da vivere nelle industrie e nei laboratori manifatturieri ad esse connessi.




La tubercolosi a Siena fra XIX e XX secolo

Tra le gravi patologie infettive che colpivano gli abitanti della città di Siena, tra la fine dell’ ‘800 ed i primi del ‘900, quella più letale fu senz’altro la tubercolosi.

Particolarmente falcidiato era il proletariato urbano, composto soprattutto da operai e artigiani, anche se il morbo colpiva in percentuali non irrilevanti anche le classi più abbienti.
Le zone più esposte all’infezione erano i quartieri popolari fatiscenti e sovraffollati nonché le aree manifatturiere caratterizzate dalla presenza di numerosi magazzini umidi e malsani; man mano che ci si spostava verso le zone più aperte del suburbio o verso i quartieri ricchi, il numero dei contagiati diminuiva gradualmente.
Maglia nera, in questa poco invidiabile classifica del dolore, spettava alle zone più miserabili e sovraffollate come Salicotto, i Pispini, i Servi, Malborghetto, Castelvecchio, Vallepiatta, Fontebranda, Vallerozzi e la contrada del Bruco.

La prima a tentare un pur parziale intervento contro questo atavico problema fu, a fine ‘800, l’Associazione dei bambini poveri scrofolosi, la quale offriva un certo numero di soggiorni marittimi presso Talamone a dei bambini della città affetti da tubercolosi linfatica. Nel 1898 nacque in città il “Comitato Antitubercolare”, istituzione tra le prime in Italia, sorta per affrontare il problema con determinazione, ma quest’ultima, a causa degli scarsi mezzi, si limitò ai buoni propositi.
Sempre un impatto limitato ebbe la costituzione di un reparto di isolamento all’ospedale S. Maria della Scala: tale sezione risultò immediatamente troppo piccola per il fabbisogno effettivo, ma anche i pregiudizi delle famiglie degli ammalati giocarono un ruolo decisivo: il ricovero in isolamento era visto come l’anticamera della morte e quindi evitato nel modo più radicale contribuendo ad azzerare l’efficacia del provvedimento.

Lo scoppio della prima guerra mondiale aumentò in modo consistente la diffusione del morbo: soltanto nel 1917, a Siena, i decessi certificati per tubercolosi aumentarono del 41,5% rispetto alla media del triennio 1912-1914.
Di fronte a questi dati, assai simili su buona parte del territorio nazionale, il Governo e le gerarchie militari, a partire dal 1917, misero in cantiere provvedimenti meno duri nei confronti dei combattenti e della popolazione civile.
Nacque pertanto l’Opera nazionale per la Protezione e l’Assistenza degli Invalidi di Guerra, vennero approvati dei decreti sulle pensioni per le malattie derivanti da cause belliche, si stabilì che coloro che avevano contratto la tubercolosi nell’esercito fossero ricoverati a carico dello Stato e ricevessero un sussidio.

Il problema venne tuttavia affrontato in modo incisivo soltanto a partire dal 1919, quando una nuova normativa gettò le basi per la creazione di una rete di istituti di profilassi antitubercolare; proprio in virtù di questa normativa nacque a Siena l’Associazione Senese Antitubercolare, la quale poteva contare su quattro medici, un assistente radiologo, due segretarie, cinque dame visitatrici ed una infermiera delegate queste ultime a ‘dare la caccia’ ai malati per la città.
Nel primo anno di attività, l’Associazione effettuò 63 visite e 26 richiami, eseguì 32 esami di laboratorio e accertò 15 casi di malattia: era l’inizio. Nel 1920 venne aperto un piccolo dispensario, nella cripta della chiesa di S. Sebastiano, nel Fosso di S. Ansano.
Già nel 1920 gli accertamenti diagnostici, compresi quelli di richiamo, salirono a 776 (casi accertati 50), per arrivare a 1.092 tre anni dopo (casi accertati 71) e a 2.285 nel 1930 (casi accertati 125). In queste cifre rientravano anche le 898 prestazioni – visite, terapie, distribuzione di medicinali, promozione di pratiche per la pensione di guerra – fornite ai 178 militari senesi riconosciuti invalidi per tare tubercolari.

Ormai la strada era segnata: la successiva nascita di strutture sanitarie sempre più idonee e la riqualificazione edilizia delle zone degradate della città, intrapresa durante il ventennio fascista, portò, nei decenni successivi, alla progressiva scomparsa della malattia all’interno delle mura di Siena.

Il quartiere Salicotto dopo il "risanamento" compiuto nel 1928-1933. Voluto anche per ridurre il sovrappopolamento e diradare i focolai di tubercolosi.

Il quartiere Salicotto dopo il “risanamento” compiuto nel 1928-1933. Voluto anche per ridurre il sovrappopolamento e diradare i focolai di tubercolosi.




Casa Giubileo sul Montemaggio

Sulla traversa Monteriggioni-Casole d’Elsa, in direzione di quest’ultima, all’altezza di Abbadia Isola, si apre una strada bianca che si inerpica tra le pendici boscose del Montemaggio lambendo di quando in quando dei casolari. Soltanto di recente è stata apposta una segnaletica a ricodare che quel tracciato conduce ad uno dei luoghi simbolo della Seconda Guerra Mondiale sul territorio senese, ossia Casa Giubileo.

Presso questo casolare, il 28 marzo 1944, un contingente di oltre trecento militari fascisti repubblicani ingaggiò battaglia contro un gruppo di combattenti per la libertà, che avevano con loro dei prigionieri, un capitano della forestale e un tenente tedesco. Alcuni partigiani riuscirono a darsi alla fuga durante le concitate fasi dello scontro a fuoco, uno rimase ucciso quasi subito, un altro rimasto a terra, dopo che gli assediati si furono arresi, venne trascinato dietro un muretto e finito a colpi di pistola.

Rimasero nelle mani dei fascisti diciotto ragazzi, tutti di età intorno ai vent’anni, e qui avvenne l’eccidio più famigerato che i militi della Guardia Repubblicana di Mussolini abbiano perpetrato sul territorio senese. In un primo momento i superstiti vennero portati presso un altro podere, Campo ai Meli, distante circa un chilometro dal luogo dello scontro. Le intenzioni dei fascisti furono immediatamente chiare ad una vecchia contadina del posto, Maria Barbato, che con il proprio energico e coraggioso intervento (Son mamma anch’io! Andate a farli da un’altra parte queste lavori! Le parole pronunciate dalla donna) convinse i militi a ripartire per un’altra destinazione.

img_1260aIl luogo prescelto, questa volta, fu la Porcareccia, uno spiazzo posto esattamente a metà tra Abbadia Isola e Casa Giubileo. Qui i partigiani vennero fatti schierare contro un muretto ed iniziò il triste rituale dei preparativi per l’esecuzione. Uno dei prigionieri, Vittorio Meoni (oggi Presidente dell’Istituto Storico della resistenza Senese e dell’età Contemporanea) con la forza della disperazione, riuscì a slanciarsi in un sentiero nella boscaglia, venne gravemente ferito ma riuscì a trascinarsi per un chilometro fino ad una casa di contadini che gli salvarono la vita. Per i suoi diciassette compagni non ci fu scampo. Vennero massacrati e abbandonati sul posto dell’esecuzione. Soltanto molte ore più tardi i corpi vennero raccolti, riconosciuti dai familiari e inumati provvisoriamente nel piccolo camposanto di Abbadia Isola.

Nel dopoguerra i comuni di provenienza dei caduti traslarono le salme nei loro cimiteri, tuttavia la Porcareccia, dov’era avvenuto l’eccidio, divenne un luogo di ricordo e commemorazione, dove venne apposta un’epigrafe con i nomi dei caduti ed un monumento realizzato dallo scultore Nelson Salvestrini.

A tutt’oggi, Il 28 marzo, anniversario dell’eccidio, i rappresentanti delle Amministrazioni Comunali della Valdelsa e non solo, insieme a centinaia di semplici cittadini, salgono a piedi alla Porcareccia ed a Casa Giubileo per ricordare chi morì combattendo per la Libertà e la Democrazia. Da alcuni anni la stessa Casa Giubileo è stata trasformata in centro didattico e documentaristico gestito dall’A.N.P.I. Valdelsa, dall’U.I.S.P. E dall’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea.




“Non uscire prima dell’alba e non rincasare dopo l’Ave Maria”

Veduta di Colle alta

Solo a partire dagli anni ’80 una storiografia più attenta e consapevole ha iniziato ad occuparsi in maniera approfondita dell’internamento attuato dalla dittatura fascista nei confronti dei cittadini di stati nemici e di oppositori interni, sia compiendo finalmente un’analisi della sua specificità (ovvero non più solo in relazione al sistema concentrazionario nazista), sia inserendolo nella politica di repressione del regime. Oggi non mancano studi sui campi di internamento (che furono circa 50 in Italia, di cui 3 in Toscana), mentre meno analizzate sono le località (circa 600 in Italia e circa 50 in Toscana) dell’internamento: esso rimane comunque un fenomeno misconosciuto all’interno del complesso apparato repressivo del fascismo e stenta ad entrare nella memoria collettiva.

La ricerca effettuata presso l’archivio del Comune di Colle di Val d’Elsa, conservato presso la Biblioteca comunale, ha consentito di ricostruire le vicende dell’internamento – tra settembre 1941 e giugno 1943 – di 3 uomini e 7 donne: “sudditi di paesi nemici” (Betsy Margaret Armstrong, Gladys Violet Archbutt, Kathleen Campbell, Hilda Chapman, Joan Annie Rennie, Giorgio Bellotto), ebrei stranieri (Emil Ullmann, Ottilie Feder, Edzia Stecher), e italiani (Renzo Cabib).

Il primo adempimento cui, al loro arrivo, gli internati dovettero ottemperare fu la sottoscrizione del “Verbale delle prescrizioni”, contenente, tra gli altri, i seguenti obblighi e divieti: non tenere presso di sé documenti di identificazione, denaro oltre le cento lire, gioielli; non occuparsi di politica; non allontanarsi dall’abitato; non uscire prima dell’alba e non rincasare la sera dopo le 18; presentarsi tre volte al giorno presso il Comune o la caserma dei carabinieri; non avvicinare nessuno senza autorizzazione. Dall’analisi dei documenti si rimane colpiti dalla ripetitività e macchinosità di tutte le procedure amministrative che li riguardarono, anche di quelle concernenti problemi di ben scarso rilievo, che dovettero seguire la catena burocratica: Ministero dell’Interno (talvolta) → Questura o Prefettura → Comune → internato, catena che ovviamente valeva anche, alla rovescia, per le loro richieste.

Il primo e più traumatico aspetto dell’internamento fu il forzato sradicamento dal proprio ambiente familiare e dalla realtà di provenienza, la separazione da parenti e amici, cui si aggiunsero il soggiorno in un luogo fino ad allora sconosciuto, dove fu proibito ogni contatto con gli abitanti, la possibilità di lasciare l’abitazione solo di giorno, il rito della presentazione alla stazione dei carabinieri più volte al giorno e a determinati orari, la censura sulla corrispondenza, recapitata al Podestà, che gliela consegnò solo dopo averla controllata. La trafila amministrativa sopra ricordata fu valida per tutto: richieste di trasferimento, ricongiungimenti familiari, sussidio (una volta accertato lo stato di indigenza), ricoveri in ospedale, visite e cure mediche, prelievi di somme dal deposito presso il Comune. Le richieste di uscire dal territorio comunale dovettero essere sottoposte a specifica autorizzazione: una volta ottenuta, fu consegnato il foglio di via obbligatorio e si dovettero presentare alla Questura o al comando dei carabinieri della località di destinazione. Al loro rientro a Colle di Val d’Elsa il Comune ne dette assicurazione alla Questura.

Gli internati ricevettero per il loro mantenimento un sussidio giornaliero, pari, nel 1940, a 6,50 lire per gli uomini e le donne senza famiglia, ma per il nucleo familiare alla moglie spettarono solo 1,10 lire e a ciascun figlio 0,55 lire; si aggiunse un contributo per le spese di affitto di lire 50 mensili: a una famiglia con figli la cifra non bastava neppure a vivere di solo pane. Le condizioni materiali della vita divennero il problema più importante da affrontare quotidianamente per gli internati privi di altre fonti di reddito o di un aiuto dalle autorità dei loro paesi di origine, per cui chi ebbe il sussidio avanzò anche la richiesta di poter svolgere un lavoro, non sempre accolta.

Le modalità dell’allontanamento da Colle di Val d’Elsa degli internati furono diverse. Archbutt fu trasferita a Siena nel gennaio 1942 e Campbell a San Casciano dei Bagni nell’aprile 1942; Stecher ebbe nel maggio 1942 il permesso di recarsi a Roma per delle cure e non rientrò più nella cittadina valdelsana; Armstrong, Chapman, Rennie furono autorizzate ad espatriare nel gennaio 1943; Bellotto, Cabib, Ullman, Feder furono trasferiti a San Giovanni d’Asso nel giugno 1943.

La copiosa documentazione presente nell’archivio insomma ci restituisce uno spaccato della quotidianità di queste persone, delle loro “vite di carta”, per riprendere il titolo del volume di Anna Pizzuti (Vite di carta. Storie di ebrei internati dal fascismo, Roma, Donzelli, 2010): anche per gli internati di Colle di Val d’Elsa può valere la riflessione dell’autrice: “non è tutta la loro storia, è la storia che i documenti ci presentano”.

* Il presente articolo è un’estrema sintesi di quello dal titolo Non avvicinare alcuno senza particolare autorizzazione. Le “vite di carta” degli internati civili a Colle di Val d’Elsa (1941-1943), apparso sulla “Miscellanea Storica della Valdelsa” (2015, fasc. 1-2, pp. 113-182). Si ringrazia il prof. Fabio Dei, Presidente della Società Storica della Valdelsa, per averne autorizzato la pubblicazione. 




“Caterina la Santa”. Il film “fascista” che non vide mai la luce

Nelle ultime settimane del 1934, poco tempo dopo il suo approdo alla Direzione generale della cinematografia fascista, Luigi  Freddi, scrisse a Galeazzo Ciano, allora sottosegretario di Stato per la stampa e la propaganda, prospettandogli la realizzazione di un nuovo film. «Il tema per un film su Caterina la Santa, – spiegava Freddi – […] è enormemente suggestivo. Si è in piena atmosfera di italianità, di poesia, di sacrificio, di passione, di fede. Un soggetto cinematografico di tal natura porterebbe sullo schermo un magnifico materiale, universalmente ammirato (Siena e tutta la pittura religiosa dei primitivi italiani) ed esprimerebbe sentimenti di alta portata spirituale, oltre a mettere in particolare rilievo la coscienza di italianità professata dalla Santa e ad elevare il sentimento della massa in un’atmosfera di bontà e di volontà». Freddi completava il quadro, aggiungendo dettagli tesi a esaltare col film il patrimonio artistico italiano e il ruolo di Siena come custode d’arte. «Alle opere d’arte figurative dei primitivi (di cui la Pinacoteca di Siena può fornire gli spunti più impensati e commoventi) – scriveva il “gerarca di celluloide” – dovrebbe essere unito, quale commento fonico, il patrimonio dell’arte musicale della nostra Rinascenza, tipica creazione della nostra razza che dal canto gregoriano si umanizza attraverso il Palestrina per giungere poi alle melodie inarrivabili del Carissimi, fornendo quindi tutti gli elementi intimi e poetici necessari ad un commento musicale adeguato».

patrona giovani

Immaginetta devozionale di Santa Caterina, patrona delle Giovani italiane (foto tratta da www.biagiogamba.it)

Tra i molti risvolti della Conciliazione del 1929 tra l’Italia fascista e la Santa Sede, tra i meno conosciuti c’è probabilmente il processo che portò all’affermarsi di una santità nazionale al servizio della ritualità di regime. Un processo composito, articolato in momenti di osmosi, ma anche di competizioni e concorrenze tra le forme di costruzione degli apparati simbolici e rituali di cattolici e fascisti. L’idea di una santità italiana, già comparsa nel cattolicesimo liberale di metà Ottocento, aveva trovato nel periodo fascista l’humus più adatto per proliferare, sull’onda lunga del suo rilancio col nazionalismo di inizio Novecento. Forte di potenti gruppi di pressione Caterina da Siena occupò il posto più alto nella gerarchia della santità nazionale nell’Italia fascista, insieme a Francesco d’Assisi e Giovanni Bosco. Non a caso per Francesco e Caterina, la parabola di santi nazionali per eccellenza doveva suggellarsi con la proclamazione a patroni d’Italia nel giugno 1939. In questo quadro non stupisce che proprio su queste tre figure si fossero concentrati fino a quel momento i più reiterati progetti di narrazione agiografica a mezzo cinema. Ma se per il santo assisiate, col film Frate Francesco di Giulio Antamoro uscito nel 1927, e per il santo di Valdocco, portato sugli schermi da Goffredo Alessandrini col Don Bosco del 1935, i progetti cinematografici trovarono uno sbocco, per la santa senese le idee di trasposizione sul grande schermo si fermarono alle battute iniziali.

Eppure Luigi Freddi, che più di tutti lavorò ad una fascistizzazione del cinema, aveva puntato molto sull’operazione agiografica legata alla santa di Fontebranda. Nelle sue intenzioni il progetto si prestava a convalidare esplicitamente l’abbraccio della cinematografia fascista con il mondo cattolico avviatosi col suo arrivo alla testa della Direzione generale per il cinema. Freddi del resto non aveva nascosto agli emissari pontifici la volontà di inserire i cattolici nel suo piano di “rivoluzione” della cinematografia di regime, incardinato su un nuovo slancio per una produzione che fosse «prettamente italiana e profondamente morale». Ai suoi occhi, santa Caterina – come rivela nelle sue memorie postbelliche – rappresentava il modello perfetto per inaugurare il nuovo corso. La svolta del Concordato aveva d’altra parte fornito anche al culto di santa Caterina – fino ad allora legato a doppio filo al papato – l’occasione per diventare un culto nazionale, di cui il fascismo fosse non solo spettatore, ma promotore attivo.

Luigi Freddi (foto tratta da: www.wolfsoniana.it)

Luigi Freddi (foto tratta da: www.wolfsoniana.it)

L’iniziativa di Freddi si inseriva in un solco già ben avviato: nel febbraio 1930 l’anniversario della Conciliazione era stata occasione per l’Ordine domenicano e per la Corporazione dei caterinati di rinvigorire la campagna per la proclamazione di Caterina patrona d’Italia, processo che avrebbe avuto un nuovo impulso in occasione dell’Anno Santo straordinario del 1933 quando a questo scopo la Società di Studi Cateriniani si fece promotrice di un voto della città di Siena. Freddi provò a dare ali al suo progetto coinvolgendo Piero Misciattelli che nella città del Palio era stato tra i promotori più ferventi di una cattedra di Studi cateriniani all’Università locale e tra i primi a intravedere le potenzialità nazionaliste del misticismo cateriniano.

Ma il vero salto di qualità culturale dell’operazione doveva essere il coinvolgimento del poliedrico intellettuale fiorentino Giovanni Papini, che, dopo la Grande Guerra, con la sua fertile penna era divenuto uno degli alfieri più intransigenti del progetto ierocratico di restaurazione della societas christiana. Come molti della sua generazione, il dirigente fascista era rimasto impressionato dalla “giravolta” di Papini consumatasi nell’arco di un decennio. L’autore blasfemo delle Memorie d’Iddio (1911), divenuto il convertito di grande successo editoriale della Storia di Cristo (1921), agli occhi di Freddi aveva il giusto profilo per partorire la sceneggiatura perfetta che ponesse il sigillo all’«italianità» della santa di Fontebranda e che, nel contempo, potesse divenire simbolica rappresentazione dell’abbraccio cattolico-fascista. Pur se Papini non rimase estraneo al fascino dell’“ideologia italiana” adottata e promossa dal fascismo, è difficile credere che si prestasse a sposare in pieno un progetto con connotati così smaccatamente ideologici. Motivi politici che influirono probabilmente anche sul fallimento definitivo dell’operazione del film su Santa Caterina nella sua fase di decollo: il primo interlocutorio contatto preso da Freddi nel novembre 1934 con Ruffo della Scaletta e Corazzin, i rappresentanti meno filofascisti dell’Ecer e della Lux Christiana —  i due enti cinematografici cattolici al centro allora di una complessa operazione di restyling  — non avrebbe avuto alcun seguito.

Giovanni Papini (foto tratta da Wikipedia)

Giovanni Papini (foto tratta da Wikipedia)

È certo però che l’idea della pellicola sulla Senese, tramite la «Minerva Film», nei mesi successivi passò nelle mani del grande regista del realismo francese Julien Duvivier, perdendo sempre più i contenuti ideologici con cui era stata battezzata, ma senza mai trovare uno sbocco produttivo. Papini continuò a rivedere il soggetto almeno fino al 1937, avendo modo di parlarne in diverse occasioni attraverso interviste concesse a giornali e riviste. In esse l’intellettuale toccava i temi al centro del delicato dibattito sulla rappresentabilità dei soggetti religiosi, tutti interni alla cultura cattolica. «Un film che abbia a protagonista santa Caterina da Siena – dichiarò Papini, nel febbraio 1937, all’intervistatore de “L’Osservatore Romano della Domenica” – non può essere concepito come uno dei moderni film di fantasia e d’avventura. La ragione d’essere della Vergine senese è la santità, e per conseguenza, ogni spettacolo che intenda rappresentare la sua vita, deve in qualche modo ricordare e arieggiare una sacra rappresentazione».

Solo nel dopoguerra l’idea di trasporre la vita della santa senese poté trovare una concretizzazione. Niente a che vedere però con le raffinate elaborazioni culturali e artistiche che avevano accompagnato i progetti Duvivier-Papini. A raccogliere il testimone fu infatti il regista Oreste Palella che in ben due film prodotti a distanza di circa dieci anni, non riuscì ad incontrare i favori di critica e pubblico. Se Caterina da Siena del 1947 fu apertamente mal giudicato dalla rivista «Intermezzo» («A certi argomenti – così la recensione – e a certi personaggi bisognerebbe accostarsi con maggiore preparazione, con mezzi meno limitati ed anche con una buona dose di rispetto. […] a vedere il film si ha l’impressione che ad un certo momento sia sorta la necessità di condurlo rapidamente a termine, bene o male»), non miglior sorte toccò a Io Caterina del 1956 stroncato senza mezzi termini dalle Segnalazioni Cinematografiche, elaborate dal Centro cattolico cinematografico che era una diretta emanazione dell’Azione cattolica italiana: «E’ un film di modesta fattura, semplicistico nel suo svolgimento, interpretato con scarsa convinzione. Ambientazione di maniera».

*Gianluca della Maggiore è dottore di ricerca in Storia. Collabora con l’Università degli studi di Milano nell’ambito del PRIN “I cattolici e il cinema in Italia tra gli anni ’40 e gli anni ’70”. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa di cinema, Resistenza e movimenti politici. Tra i suoi ultimi saggi Il Don Bosco di Alessandrini tra fascismo e universalismo cristiano, in “Immagine. Note di storia del cinema”, 10, luglio-dicembre 2014.




L’orrore dietro un bosco di betulle

Il treno della Memoria è un’iniziativa che la Regione Toscana e il Museo della Deportazione e della Resistenza di Prato organizzano dal 2009, con cadenza biennale. Nel 2015, quindi, si è svolto il quarto viaggio verso Auschwitz e Birkenau che ha permesso a 750 ragazzi delle scuole superiori e ai loro docenti di visitare i luoghi del genocidio nazifascista ai danni di ebrei, rom, omosessuali. Nel gennaio 2017 si svolgerà il quinto viaggio, in preparazione del quale è stata organizzata per circa sessanta docenti una summer school che si svolgerà dal 21 al 25 agosto presso la Certosa di Pontignano (Siena).

Sono circa 64mila i visitatori che dall’Italia raggiungono il campo di sterminio di Auschwitz, due terzi dei quali sono insegnanti e studenti. L’Italia ha addirittura più visitatori di Israele.

auschwitzPer gli studenti che partecipano al viaggio si tratta di un’esperienza molto diversa dalla gita scolastica canonica, tanto più se fatta negli ultimi due anni di scuola. Le scuole e i docenti referenti del progetto preparano con cura l’esperienza con alcuni incontri preliminari che servono a selezionare chi è realmente interessato a partecipare e a illustrare i contenuti relativi alla Shoah e all’orrore dei campi di concentramento. Al ritorno, poi, ci sono momenti di condivisione, di archiviazione e trasmissione dell’esperienza.

In questo secondo filone si inserisce un’attività che ha coinvolto lo scorso anno scolastico gli studenti dei Licei Volta e San Giovanni Bosco di Colle Val d’Elsa. Nell’ambito di un progetto sulle fonti orali per le quarte classi del Liceo delle Scienze Umane (San Giovanni Bosco), si è pensato di sfruttare la testimonianza degli studenti del Liceo Volta che erano stati ad Auschwitz, facendo così esercitare gli studenti- ricercatori confrontandosi con dei testimoni che erano loro coetanei.

Dopo aver seguito alcune lezioni teoriche su come si prepara e come si gestisce un’intervista secondo i criteri della storia orale (le lezioni sono state curate dai professori Fabio Dei e Antonio Fanelli), per la parte laboratoriale del progetto hanno avuto modo di preparare un questionario, prendere confidenza con gli strumenti e le regole tecniche per intervistare secondo i criteri di base della storia orale e di ascoltare dalla voce di sei ragazzi della loro età il racconto del viaggio, delle sensazioni, del lascito emotivo e di esperienze che il viaggio aveva costituito.

Tra gli elementi che sono emersi dai racconti davvero partecipi e maturi degli studenti, c’è la distanza forse incolmabile tra il sentito dire, l’immaginato e ciò che si vede e si avverte entrando nei campi di concentramento, qualcosa che le parole possono difficilmente descrivere. C’è poi l’immedesimarsi col viaggio delle vittime di allora, un effetto voluto da chi ha pensato l’organizzazione delle visite, un percorso sulle tracce di chi ha intrapreso quel tragitto verso l’annientamento sistematico. Gli elementi più toccanti, però, che i giovani intervistatori hanno notato sono stati i dettagli, apparentemente minimi ma illuminanti, che emergevano man mano dalle parole dei sei studenti che erano stati a Birkenau e Auschwitz; le scarpe, i cappelli, gli oggetti personali tolti ai prigionieri e ammassati insieme, così come il book of names, l’elenco di chi era passato di lì e lì aveva trovato la morte, o quel bosco di betulle placido e ordinato che sembrava stonare e stridere all’eccesso con il contesto circostante. Anche l’incontro coi testimoni, i sopravvissuti che hanno accompagnato studenti e professori nel viaggio del treno della memoria, ha lasciato una importante lezione, quella della speranza e della necessità di ricordare per sopravvivere e per vaccinarsi contro l’odio e la barbarie.

Il progetto realizzato nei licei di Colle Val d’Elsa, come tanti altri, ha quindi raggiunto un obiettivo importante, cioè condividere le esperienze e il ricordo per cercare di comprenderle nel concreto delle storie di vita e quotidianità.

Gli intervistati: Sara Tavarnesi, Sara Giannini, Letizia Forzoni, Andi Hoxhaj , Edoardo Cipriani, Roberta Provvedi.

Gli intervistatori: Maria Laura Angelini, Bianca Borgogni, Guglielmo Salvestrini, Roberta Valentino, Sara Volpini, Chiara Vannucci.




1965: la chiusura al traffico del centro storico di Siena

Tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50, a Siena si registrò una disordinata espansione edilizia, che vide la costruzione di palazzi persino a ridosso delle mura medioevali.
All’epoca il concetto di tutela era concentrato sui monumenti, le opere d’arte, i palazzi storici. Non ci si preoccupava, invece, dell’ambiente complessivo, di tutto quel tessuto di vie e vicoli, che venivano direttamente dal Medio evo, in alcuni casi dal Rinascimento.

Per frenare le costruzioni, che nascevano un po’ dappertutto in seguito all’inurbamento dalle campagne, e che cominciavano anche a minacciare le “valli verdi” del centro storico, in particolare la valle delle fonti di Follonica, nel 1956 fu affidata la redazione del piano regolatore comunale a Luigi Piccinato, urbanista noto a livello internazionale, insieme a Piero Bottoni di Milano e Aldo Luchini di Siena.

Luigi Piccinato

Luigi Piccinato

Il piano Piccinato stabilì di non edificare nel centro storico, sviluppando la periferia a nord, dove sarebbe anche stato costruito il nuovo ospedale. Per fare posto alle automobili in espansione, il piano Piccinato prevedeva due strade di circonvallazione fra piazza del Sale e Santo Spirito e fra San Domenico e il Duomo all’interno delle mura, da ottenere con lo sventramento dei palazzi esistenti.

La diffusione dell’auto aveva infatti condizionato persino il pensiero di illustri urbanisti, che cercavano di trovare soluzioni tali da consentire il transito e la sosta dei veicoli a motore, di cui non si era pienamente compresa la potenziale enorme crescita.
Con l’avanzata della motorizzazione di massa, la situazione divenne rapidamente insostenibile a partire proprio da Siena, che come poche altre città italiane aveva conservato il tessuto medioevale di vicoli e stradine.

Nel luglio 1962, il sindaco Ugo Bartalini vietò la sosta e la circolazione nell’anello superiore di piazza del Campo, oltre a limitare la circolazione dei bus turistici. Si trattava del primo provvedimento concreto preso per contenere il traffico.

Il problema delle automobili nei centri storici non era soltanto di Siena o dell’Italia, ma riguardava tutta l’Europa.
Nel novembre 1963 fu pubblicato il volume Traffic in Towns. A study of the long term problems of traffic in urban areas. Si trattava di uno studio condotto per conto del Ministero dei Trasporti inglese, che faceva una chiara analisi della problematica.

La penetrazione e la circolazione nelle città sarebbero diventate sempre più faticose e la congestione stradale avrebbe reso pericolosa la vita dei pedoni, di conseguenza l’ambiente urbano sarebbe divenuto sempre più invivibile, man mano che avanzava la motorizzazione di massa. Si doveva perciò eliminare il traffico di attraversamento nei centri storici, consentendo una circolazione limitata a livello locale.
L’Associazione Italia Nostra – fondata nel 1955 – decise di studiare il problema, affidando nel ’64 la redazione di una memoria all’arch. Achille Neri, il cui studio, intitolato Alcune proposte di sistemazione del traffico nel centro storico di Siena, venne stampato e inviato alle istituzioni.
Lo studio prevedeva la riconversione degli ambienti cittadini alla circolazione pedonale, recuperando il silenzio in città e garantendo una maggiore sicurezza per chi si spostava a piedi. Occorreva però una drastica scelta sul numero, sul tipo e sulla velocità dei veicoli ammessi nel centro, nonché una precisa scelta degli itinerari del traffico e delle strade esclusivamente destinate ai pedoni.

Fazio Fabbrini

Fazio Fabbrini

La giunta guidata dal sindaco Fazio Fabbrini, con Augusto Mazzini assessore all’Urbanistica e Bruno Guerri assessore alla polizia municipale, decise di intervenire. Il progetto per la nuova disciplina della circolazione nel centro cittadino si basava su due principi cardine:
1. creare una zona centrale riservata alla circolazione pedonale, in Banchi di Sotto, Banchi di Sopra, via di Città e via Montanini, con le vie limitrofe confluenti;
2. abolire lo scorrimento dei veicoli nel centro storico, creando anelli di circolazione separati: uno a nord da porta Camollia a piazza Indipendenza e uno a sud fra le Porte Pispini, Romana, Tufi e San Marco, con limite alle Logge del Papa, dove cominciava l’area interdetta ai veicoli.

Il 6 luglio 1965 fu emanata l’ordinanza del sindaco n. 148, intitolata Norme particolari di circolazione nel centro cittadino, in vigore dall’11 luglio, con la quale veniva creata una zona interdetta alla circolazione.
Si trattava di un provvedimento innovativo a livello internazionale, che avrebbe fatto scuola in Italia e all’estero, ma che i più non capirono.
Le porte di molti negozi si chiusero per protesta, le auto percorsero in corteo le vie cittadine, occuparono Piazza del Campo, Piazza del Mercato; i clacson suonarono per ore e ore e il telefono del Comune squillò ininterrottamente, con invettive e minacce. L’Ordine dei Medici, l’Automobile Club e il museo dell’Opera Metropolitana, insieme ad alcuni privati cittadini, promossero persino un ricorso gerarchico al ministro dei Lavori Pubblici contro l’ordinanza del sindaco, che dovette giustificare più volte il provvedimento emesso.

“Mi colpì in particolare in quei primi giorni – ha scritto Fabbrini in un libro di memorie – la presenza nelle vie chiuse di moltissime carrozzine con i neonati che le giovani mamme, spesso in coppia con i mariti, quasi a voler sfidare gli oppositori, portavano a spasso per Banchi di Sopra; i capannelli di persone che conversavano liberamente senza essere costrette ad addossarsi alle mura per evitare di essere investite e il ritorno di odori che erano stati soffocati dai fumi di scarico”.
La crisi dell’Amministrazione comunale, che portò alle dimissioni del sindaco nel maggio 1966, con l’arrivo del commissario prefettizio, determinò una “marcia indietro” e il traffico di attraversamento venne parzialmente riaperto a partire dal settembre ’66.

Roberto Barzanti

Roberto Barzanti

La chiusura del centro con la creazione dell’isola pedonale non venne però messa in discussione e anzi negli anni successivi iniziò l’estensione dell’isola stessa.
Nell’agosto 1972, dopo la lunga parentesi del commissario prefettizio, il sindaco Roberto Barzanti aumentò la zona chiusa, vietando l’ingresso alla città dall’area di San Domenico, e riprendendo un percorso che con successivi provvedimenti è arrivato fino ai giorni nostri.
Negli anni ’80 e ’90 fu istituita la ZTL su quasi tutto il resto del centro storico, diviso in settori di circolazione e di sosta riservati ai soli residenti. Ai residenti, gli unici autorizzati a parcheggiare in centro, fu chiesto un bollino di 50.000 lire al mese da destinare all’incremento del trasporto pubblico, una cifra molto alta. Anche in questo caso, si trattò di un esperimento innovativo a livello nazionale.
Fu inoltre iniziata la costruzione di parcheggi scambiatori in periferia, creando una rete di minibus.

Dal 1990, dopo diversi anni di chiusura del centro storico agli autobus, il Comune di Siena, in accordo con la società di trasporto Train, introdusse nel cuore della città un minibus denominato “Pollicino” per consentire l’accesso alle anguste vie cittadine, a partire da parcheggi scambiatori, dove avrebbe posteggiato l’auto chi veniva da fuori.
Tutti gli sviluppi successivi sono stati permessi da quel primo provvedimento coraggioso del 1965, che aveva limitato la circolazione nel cuore della città, introducendo con un atto pratico una sorta di “principio filosofico” nell’urbanistica: anziché demolire i palazzi per fare posto alle automobili, limitare la circolazione e sosta delle auto al fine di preservare l’ambiente storico.

Nelle parole di Luigi Piccinato, il famoso progettista del piano regolatore del 1956, si trova l’espressione dell’importanza di quanto fatto a Siena. In un’intervista rilasciata a Roberto Barzanti nel marzo 1983, a distanza di quasi 30 anni dall’elaborazione del piano, affermava: “L’adozione del provvedimento che fece pedonale la parte più cospicua del centro storico – poi, a quel che ne so, variamente corretto e ampliato – è stata una delle grandi conquiste di Siena. Tutta l’Italia oggi non solo la imita, ma la studia. Fu un atto che ha contribuito a salvare la struttura organica – sottolineo questa parola – di tanti altri centri urbani”.