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Tirrenia ’82 e non solo. Le feste dell’Unità negli anni Ottanta

La festa nazionale de l’Unità che si tenne a Tirrenia dal 3 al 19 settembre 1982, della quale Oriano Niccolai, “Rossocreativo”, creò il manifesto portante, si inscrive nella serie di grandi eventi politico-culturali che il Pci mise in campo a partire dalla metà degli anni ‘70 del Novecento, in un crescendo che percorse tutto il decennio successivo, divenendone forse una delle più caratterizzanti. Frequentate da artisti e intellettuali, percorse da politici di tutti i partiti che facevano a gara per ottenere visibilità (non solo italiani, ma anche europei, americani o altro), rilanciate dagli inviati della grande stampa e da televisioni nazionali e locali, le Feste de l’Unità in quel periodo furono eventi cruciali nei quali veniva propagandata, discussa e diffusa in forma allargata la “linea” politica. Una sorta di congressi non formalizzati, aperti e all’aperto.

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Il Manifesto di Tirrenia 1982 di Oriano Niccolai

Si trattava di una strategia politica e comunicativa che non nasceva per caso e i cui prodromi possono intravedersi già alla fine degli anni ’60. Parallelamente all’incremento dei consensi politici registratosi negli anni ’70, anche le feste crescevano, conquistandosi diffusione e consenso. Secondo i dati riportati da Anna Tonelli, la progressione è la seguente: 4607 nel 1972, 5724 nel 1973, 6563 nel 1974, 7059 nel 1975.

Come mai – ci si chiedeva negli organismi dirigenti – le Feste de l’Unità sono sempre pienissime mentre le sezioni spesso sono vuote? Il Pci rifletteva sia sul successo di forme nuove di comunicazione, sia, soprattutto, su possibili forme nuove di aggregazione. E mentre si approntavano importanti momenti di studio come i seminari tenuti alle Frattocchie nel ’75 e ad Ariccia nel ’76, restava forte la volontà politica di proiettarsi all’esterno e di coinvolgere non solo gli iscritti e neanche solo i propri votanti, ma di tendere a parlare anche a quei ceti che non avevano tradizionalmente il Pci come referente politico, con l’idea di realizzare una comunicazione, si potrebbe dire, di massa. Per questa ragione si affinava e si differenziava anche l’offerta culturale, con il coinvolgimento di artisti di rilievo internazionale.

La segreteria di Berlinguer, iniziata nel 1972, dette un impulso indubbio all’operazione feste; e, dal momento in cui nel 1976 il Pci acquisì tanti consensi elettorali da far intravedere il sorpasso sulla DC, le feste dell’Unità cominciarono ad acquistare il carattere di “prove di democrazia diffusa” e di prove di governo; ovvero, situazioni in cui la perfetta organizzazione, culturale, politica ed economica, la chiarezza cristallina dei bilanci, l’efficienza dei servizi e la qualità complessiva dell’offerta politica, culturale e di intrattenimento diventava la dimostrazione palpabile che il Pci sapeva e poteva governare. Subito.

In questo filone si può ben collocare la Festa nazionale di Tirrenia, realizzata in una situazione di enorme difficoltà ambientale da migliaia di volontari, guidati da una dirigenza politica giovane ed efficiente, contornata dall’impegno sentito di molti intellettuali, locali e nazionali.

Nel comizio di chiusura tenuto il 19 settembre davanti a almeno 500 mila persone Enrico Berlinguer affermò: “I compagni di Pisa hanno realizzato un’impresa straordinaria… un Festival letteralmente inventato in un’area brulla e nulla hanno chiesto al partito ma gli hanno dato la loro abile ed esperta opera sacrificando le ferie e spesso parte del loro salario… I compagni di Pisa, ben diretti dalla Federazione, hanno dato una testimonianza di come bisogna lavorare”.

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Foto di Daniele Altamore (fonte: Tirrenia82.com)

Ma la festa (e non a caso siamo partiti dal suo responsabile grafico, Oriano Niccolai) si caratterizzò anche per una immagine innovativa, colorata, fantasiosa e gioiosa. Scriveva Giulio Borrelli, inviato nazionale del TG1: “A Tirrenia c’è stato lo sforzo di introdurre forme di incontro e di partecipazione maggiormente in sintonia col modo, più laico e meno ideologico, con il quale oggi la gente si avvicina alla politica”. E si chiedeva cosa mai ci facessero, in una festa così vivace moderna e colorata “i padiglioni trionfalistici dei paesi dell’est”, anni luce diversi.

Cosa fu dunque Tirrenia 1982? La prima caratteristica che salta agli occhi è che a portare avanti un impegno colossale furono dirigenti, nazionali e locali, molto giovani, trentenni già selezionati e sperimentati; 29 anni aveva il responsabile del cantiere Paolo Fontanelli, 29 il responsabile stampa e propaganda Massimo Baldacci, 29 Fausto Valtriani che gestì l’accoglienza e del turismo, 35 il segretario della Federazione Luciano Ghelli, 27 anni Walter Veltroni, responsabile della comunicazione a Tirrenia e viceresponsabile nazionale stampa e propaganda, 36 Vittorio Campione, meno che trentenni erano i ricercatori di storia che realizzarono una delle mostre più visitate.

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(fonte: Tirrenia82.com)

La seconda caratteristica è che essa fu una festa per la città e non solo di partito. Lavorarono per la festa gli intellettuali dell’Università, ma offrirono gratuitamente alcune loro opere artisti come Guttuso (con le cui stampe firmate furono pagate molte imprese edili).

Vediamo qualche numero: dall’8 maggio al 1 settembre 1982 furono bonificati 28 ettari di terreni abbandonati, con oltre 50mila ore di lavoro volontario; mille volontari al giorno nei week end, qualche centinaio nei giorni di lavoro, 12mila persone in tutto, il 20% donne. Furono costruiti 6 km di strade, una rete idraulica di 4 km, una rete elettrica, approntati 291 servizi igienici in muratura, impiegati 85 km di tubi innocenti e 29mila metri cubi di legna, furono acquistate imponenti tensostrutture bianche e molte cucine complete per i ristoranti. L’architetto Francesco Tomassi curò il progetto urbanistico, l’organizzazione operativa fu di Enzo Cini, segretario Cgil Edili.

Furono realizzate in loco 5 Mostre inedite (La Pace prima di Tutto, La Toscana, una regione rossa, Scienza Tecnologia, sviluppo, I Parchi naturali, Maiakowskij giornalista, Mostra d’arte figurativa), e ci furono due mostre d’arte in città.

Negli spazi dibattiti si svolsero in media 5 iniziative politiche al giorno con politici di alto rango; nello spazio cinema vennero proiettati dai 3 ai 5 film al giorno; ci furono una ventina di spettacoli teatrali , vari spettacoli di altro genere, grandi concerti come quello dei Genesis e quello di Baglioni, uno spazio giovani sempre attivo, varie manifestazioni sportive; i ristoranti furono in tutto 19, 21 i bar-pizzerie, alcune enoteche, due punti telefono, una tabaccheria; furono installati tre sportelli bancari, uno dei quali automatico (il primo nella città). La festa ebbe un bilancio e un magazzino informatizzato, che consentiva il controllo in tempo reale dello stato delle forniture.

I visitatori furono oltre 2 milioni; l’incasso superò i 7 miliardi di lire, con un guadagno di circa 400 milioni di lire; rimasero di proprietà del partito molte strutture, riutilizzate negli anni successivi e date alle sezioni.

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Berlinguer a Tirrenia 1982 (fonte: Tirrenia82.com)

I Giornalisti inviati furono 200, le Delegazioni estere 30, e 110 l’ultimo giorno; ai dibattiti politici, oltre a tutti i dirigenti nazionali e toscani del Pci, partecirono personaggi del calibro di Franco Bassanini, Giulio Andreotti, Giorgio Spini, Tina Anselmi, Maria Eletta Martini, Luciano Lama, Bruno Trentin, Ottaviano Del Turco, Gianni De Michelis, Rino Formica, Sergio Zavoli, Tullio De Mauro, Felice Ippolito, Luigi Cancrini, Luciano Terrenato, Italo Insolera, Carlo Bernardini, Franco Della Peruta, Nicola Badaloni, e molti altri.

Nelle conclusioni Enrico Berlinguer, rilanciando quanto aveva da poco esternato nella nota intervista a Eugenio Scalfari, riprese il tema della diversità del Pci e della necessità che il Pci fosse un partito diverso. Lui che già aveva contrapposto le feste dell’Unità ai partiti, diventati, diceva, “macchine di potere e di clientela che gestiscono interessi disparati, anche loschi senza perseguire il bene comune, a Tirrenia affermò: “Il paese è stanco di vedere la politica ridotta a giochi meschini, a loschi intrighi, al mercato dei posti. I comunisti rappresentano – non da soli, ma nel modo più rigoroso e coerente – l’aspirazione del popolo e del paese a che si respiri un’aria pulita e possano risolversi i problemi lasciati incancrenire da anni di malgoverno”.

E forse prendendo spunto da queste parole, l’editoriale dell’opuscolo pubblicato a fine festa chiosava: “Chi crede che la politica sia soltanto gioco delle parti e trattativa di vertice fatta sopra la teste di uomini e donne non è evidentemente mai stato a Tirrenia. Anche rivista dopo molti anni, lungi dal sembrare trionfalistica, la frase appare cogliere in pieno il senso di un impegno collettivo in quel momento fortemente sentito e generosamente vissuto.

* Cristiana Torti è ricercatrice presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa. Insegna Storia del Patrimonio industriale e storia dell’Ambiente e del Territorio. E’ vicepresidente del Corso di Dottorato in Storia e Orientalistica. Su questo tema ha svolto una relazione più dettagliata in apertura della Giornata di testimonianze, riflessioni, fotografie e video, a trent’anni dalla festa, tenutasi il 13 ottobre 2012 presso il Centro Maccarrone di Pisa. [Si ringrazia anche Andrea Bianchi della Fondazione La Quercia Pisana-Rami del Sapere, per la collaborazione]




La liberazione di Pisa, 2 settembre 1944

«S’accompagnarono l’ameriani noi fino a Ripafratta, poi a Ripafratta si girò e si andò diretti a Pisa, a Pisa si andò a Piazza del Duomo e ameriani non c’era nessuno, i primi […] s’arrivò prima noi e poi arrivarono l’ameriani. […] A Pisa non erano ancora entrati». Questa è la testimonianza di Duilio Cordoni, allora diciassettenne partigiano della formazione “Nevilio Casarosa”, su ciò che successe il giorno della liberazione di Pisa, il 2 settembre 1944. Il brano è tratto da un colloquio che ho avuto la scorsa estate presso la sua abitazione, per la preparazione di un libro sulla guerra a San Giuliano Terme.

A distanza di tanti anni da quel periodo, il racconto di Cordoni ripropone un preciso intento polemico, che nel corso dell’intervista è emerso in maniera esplicita: smentire una versione dei fatti che vuole che furono invece gli Alleati ad arrivare per primi sotto la torre, seguiti solo in un secondo momento dalle forze organizzate della Resistenza. Dietro alla contesa sul primato dell’arrivo in città, questione che in sé rivestirebbe un interesse marginale, c’è in gioco la discussione sul ruolo che i partigiani e il CLN locale ebbero in occasione della liberazione di Pisa. Al momento dell’arrivo degli Alleati quali erano a livello locale le forze organizzate che potevano credibilmente rivendicare il ruolo di interlocutori privilegiati per la costruzione di una Pisa non più fascista?

Il problema è certamente complesso e per affrontarlo correttamente sarebbe necessaria una riflessione ben più articolata. Proviamo però a fornire rapidamente una fotografia della condizione in cui si trovavano le strutture della Resistenza nella fase finale dello stallo del fronte sul fiume Arno, nella seconda metà dell’agosto 1944, settanta anni fa.

 La “Nevilio Casarosa” si era disarticolata dopo l’attacco a sorpresa dei tedeschi al campo base, all’alba del 10 agosto 1944: i suoi componenti si erano dispersi in vari gruppi, senza più un’organizzazione paragonabile a quella avuta in precedenza. L’obiettivo immediato dei partigiani divenne la mera sopravvivenza, in primo luogo evitare di cadere nuovamente nei rastrellamenti tedeschi, come quello condotto il 24 agosto 1944 dalla 16ª Divisione SS sul monte Faeta: a partire dal versante lucchese, con l’aiuto di alcuni italiani della Brigata Nera “Mussolini” forniti di mascherine per coprire il volto e giacche mimetiche tedesche, una cinquantina di militari perlustrarono le baracche degli sfollati, fucilarono una decina di sospetti e arrestarono una sessantina di uomini. Proprio in una di quelle baracche, in località San Pantaleone, la moglie del comandante della Casarosa Ilio Cecchini stava dando alla luce una figlia, mentre intorno «si avvertivano spari e raffiche sempre più frequenti e grida»: lo stesso Cecchini «aveva lasciato la formazione partigiana nella notte sperando di poter assistere alla nascita della nostra creatura ma le urla disperate della gente terrorizzata per la cattura dei loro uomini e l’avvicinarsi degli spari lo indussero a lasciarci improvvisamente» (le citazioni sono prese da un dattiloscritto redatto dalla stessa moglie di Cecchini, Anna Maria, conservato presso l’archivio familiare).

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Addestramento della formazione “Nevilio Casarosa”. Luigi Salani detto “il Biondo” in primo piano con la pistola, a destra Uliano Martini. (Proprietà Adriana Salani)

Se sul Monte Pisano dunque la situazione era drammatica, in condizioni non migliori si trovava la cittá di Pisa, dove poche migliaia di abitanti si erano concentrate nelle case tra il Duomo e Porta a Lucca, intorno all’Ospedale Santa Chiara e all’Arcivescovado, le uniche strutture che riuscirono con enormi sforzi a offrire un minimo di assistenza a una popolazione stremata. Qui faceva quotidianamente la spola con il Comando Tedesco il responsabile dell’amministrazione comunale di Pisa, il cattolico antifascista Mario Gattai, nominato dopo la fuga del prefetto alla fine di giugno dal vice prefetto, di comune accordo con l’arcivescovo Gabriele Vettori. Mentre Gattai cercava disperatamente di organizzare un comitato di alimentazione efficiente e provava a trattare con i nazisti per permettere un minimo di agibilitá alla vita in cittá, i rapporti con l’organizzazione antifascista clandestina guidata dai comunisti non erano semplici. Nelle pagine del suo diario, Gattai scriveva il 16 agosto 1944: «non sono nemmeno in contatto con quelli del Comitato di Liberazione; non già perché io non voglia, ma perché questi illustri anonimi che vivono nelle cantine non hanno sentito la necessità di farsi avanti. […] Mi sento sempre più solo ad affrontare la situazione». Pochi giorni dopo, il 23 agosto, un giornale clandestino antifascita – probabilmente redatto dai comunisti – lo accusò di essere responsabile delle deportazioni degli uomini avvenute in quei giorni, proprio per i suoi contatti continui con il Comando tedesco. Lo sfogo di Gattai diventava qui virulento: «la redazione del foglio deve stare in una cantina, ove non batte il sole e ove i trogloditi che la abitano ignorano che i tedeschi hanno il potere di prendere uomini e donne e chi vogliono e cosa vogliono, e che se non ci fossi io – con l’aiuto di alcuni sacerdoti e dei pochi miei compagni di lavoro – ad attutire con molta politica e molta fatica le loro prepotenze e a pensare ai bisogni della popolazione, questa avrebbe dovuto soffrire ben più di quanto ha sofferto finora. Fuori dalle cantine, prendetevi il vostro lavoro e la vostra responsabilità e poi parlate!».

 Credo che si possa affermare che la fine di agosto segnò da molti punti di vista il momento più difficile nella vita della città di Pisa, non ultimo per la confusione politica in un contesto in cui i margini di azione non andavano oltre il tentativo di sopravvivere. Chi ebbe le idee più chiare a proposito furono i responsabili regionali del partito comunista in clandestinità. Il gappista fiorentino Alvo Fontani riferì ai militanti pisani le direttive impartite dal centro regionale in vista dell’arrivo degli Alleati: «fare il possibile per affermare comunque una presenza della resistenza alla liberazione di Pisa, facendo di tutto per evitare uno scontro con le truppe di copertura della ritirata tedesca». In città però non erano presenti gruppi capaci di svolgere questo compito; era necessario quindi rivolgersi ai partigiani che stavano sul Monte Pisano e «chiedere che almeno cinquanta o sessanta […] si preparino e siano pronti al momento opportuno a marciare su Pisa». Fontani si trasferì sui monti insieme a Ruggero Parenti, responsabile della federazione comunista di Pisa, «sotto una tenda, in una posizione che ci permette, per quanto possibile, di controllare almeno parzialmente la situazione» (le citazioni sono tratte dalle memorie di Fontani). I giorni seguenti furono impiegati per organizzarsi in vista del momento della liberazione.

La mattina del 2 settembre, una volta iniziato l’attraversamento dell’Arno all’altezza di Cascina da parte delle truppe angloamericane, i partigiani inquadrati da Fontani e Parenti scesero dal Monte: alcuni, tra cui Duilio Cordoni, guidarono i soldati alleati in un territorio ormai abbandonato dai tedeschi verso Ripafratta, altri proseguirono su Pisa, dove attesero con pazienza l’allontanamento delle ultime squadre di occupanti. Quando poi arrivò il grosso delle truppe alleate, nel pomeriggio del 2, la Prefettura, la Questura e il Palazzo del Comune erano già nelle mani del Cln di Pisa e dei partigiani. Molti di loro in seguito si arruolarono nelle truppe di liberazione, all’interno del Corpo di Volontari della Libertà, e continuarono la guerra verso Nord. Solo allora si poterono ricomporre le forze di chi aveva scelto il compito della organizzazione clandestina armata e chi invece si era votato alla missione di assistere la popolazione, che poco avevano comunicato nei giorni precedenti. Questo dualismo fu riconosciuto e formalizzato nella prima Giunta comunale nominata dagli Alleati, che ebbe come sindaco Italo Bargagna, comunista partigiano, e come vicesindaco proprio Mario Gattai.




Molina di Quosa e S. Anna di Stazzema, due stragi legate

Tra il maggio e il giugno del 1947, a Padova, un tribunale britannico celebra per conto delle Nazioni Unite un processo per crimini di guerra contro il generale Max Simon, comandante della 16ª Divisione Panzergrenadier «Reichsführer-SS».

Inizialmente il procedimento prevede che i capi d’accusa riguardino cinque grandi eventi di sangue, avvenuti per lo più in territorio toscano: le stragi di Sant’Anna di Stazzema (12 agosto 1944, oltre 430 vittime), di Bardine di San Terenzo Monti (19 agosto 1944, 159 vittime), eccidi vari avvenuti lungo le Alpi Apuane (23-27 agosto 1944, 171 vittime solo a Vinca), la strage di Bergiola Foscalina (16 settembre 1944, 71 vittime) e il massacro di Monte Sole (29-30 settembre 1944, quasi 800 vittime).

Nel corso dell’estate del 1944 la 16ª Divisione SS comandata da Simon aveva lasciato dietro di sé un’impressionante striscia di sangue, che dalle vette sopra la Versilia era proseguita lungo l’arco appenninico fino ad arrivare ai valichi tra Firenze e Bologna: il processo vuole ora provare la condotta criminale di Simon e dei suoi uomini a partire da questi cinque episodi luttuosi.

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Max Simon

A pochi giorni dall’inizio del dibattimento, il 15 maggio 1947, la Procura militare inglese chiede ed ottiene di aggiungere anche un sesto evento, avvenuto prima degli altri: la strage della Romagna, località montuosa sopra Molina di Quosa, frazione del comune di San Giuliano Terme (Pisa), che aveva contato 69 vittime. Per ragioni di precedenza cronologica (l’episodio è avvenuto l’11 agosto 1944), diventa il primo capo d’accusa nei confronti del generale Simon.

Al processo di Padova vengono quindi ascoltati due sopravvissuti alla strage, Oscar Grassini e Generoso Giaconi, che raccontano di un rastrellamento avvenuto la notte tra il 6 e il 7 agosto 1944 in località Romagna, dove si erano rifugiate centinaia di famiglie. I tedeschi avevano emanato un bando di sfollamento che obbligava gli uomini adulti a evacuare la zona entro i primi del mese; nella zona inoltre erano stati avvistati dei partigiani. Queste le cause di un’operazione che terminò con la cattura di 300 uomini e di una donna, Livia Gereschi, insegnante di tedesco che si era offerta di mediare con i tedeschi.

Il gruppo era stato diviso in due, tra chi si era dichiarato abile al lavoro e chi no: i primi erano stati inviati a Lucca, per essere smistati nei campi di lavoro; i secondi rinchiusi nella scuola-prigione di Nozzano, poco distante. Dopo alcuni giorni di prigionia, l’11 agosto, i reclusi della Romagna erano stati caricati quattro alla volta su delle camionette e portati in diverse località a qualche chilometro di distanza, verso sud oppure nord-ovest, quindi fucilati. Alla fine furono 69 i morti, uccisi probabilmente per fare posto nelle carceri di Nozzano ai prigionieri dei rastrellamenti che i tedeschi stavano conducendo intorno a S. Anna di Stazzema.

La formulazione del giudizio finale del processo di Padova del 1947 non prende però in considerazione l’episodio della Romagna, forse a causa della povertà dei materiali documentari raccolti in fretta e furia. Più di 60 anni più tardi, il 10 ottobre 2011, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale militare di Roma riapre il procedimento penale a carico della 16ª Divisione Panzer-Grenadier «Reichsführer-SS» per la strage perpetrata l’11 agosto 1944, nella persona del maresciallo Josef Exner. Rovesciando la richiesta di archiviazione presentata dal pubblico ministero, il Gip restituisce alla strage della Romagna la dignità di un percorso giuridico, grazie anche all’Amministrazione comunale di San Giuliano Terme, costituita parte civile.

Il processo si conclude con un’archiviazione, per l’accertato decesso dell’imputato. Intanto però è stato dato un segnale forte e inequivocabile: la storia della guerra non è materia inerte e dimenticata, ma è un periodo che interessa ancora ai cittadini del terzo millennio, da interrogare e sollecitare. È una storia che riguarda il nostro presente.

*Stefano Gallo è assegnista di ricerca presso l’ISSM-CNR di Napoli. Il suo principale campo di ricerca è la storia delle migrazioni e del lavoro, ma si dedica anche alle vicende della Seconda guerra mondiale e della Resistenza. Collabora con l’Istoreco di Livorno ed è socio fondatore della SISLav (Società Italiana di Storia del Lavoro), di cui copre attualmente il ruolo di segretario coordinatore.

Articolo pubblicato nell’aprile 2014.