La profuganza tra I e II guerra mondiale

Il Novecento, il secolo caratterizzato da due conflitti mondiali che, nell’arco di 30 anni, sconvolsero le nazioni e le popolazioni europee, fu anche il secolo della profuganza, dal momento che le guerre causarono importanti trasferimenti di civili che interessarono tutta l’Europa.

Alla fine del secondo conflitto mondiale, infatti, si verificò un immane spostamento di popolazioni che furono costrette dai Trattati di pace e dalle conseguenti ridefinizioni dei confini ad abbandonare i propri territori, per reintegrarsi in altri paesi. Dal Confine orientale, dall’Istria in particolare, giunsero in Italia circa 300.000 esuli giuliano-dalmati che, tra il 1943 e la fine degli anni ’50, abbandonarono le località di origine per trovare accoglienza nel nostro paese.

 In fuga da Caporetto

In fuga da Caporetto

Non molti anni prima, al tempo della Grande Guerra, si era verificato un analogo allontanamento di uomini, ma soprattutto di donne e bambini, dai paesi che si trovavano lungo il confine nord-orientale, che separava il nostro Stato dall’Impero austro-ungarico. Vennero evacuati interi paesi posti in zona di guerra e le popolazioni furono spostate in Austria, se si trovavano a nord della linea di confine, o in Italia, se vivevano a sud.

La riflessione sulla profuganza e sull’esodo che hanno caratterizzato la I e la II Guerra mondiale apre uno spaccato sul dolore di un popolo costretto a provare sentimenti quali l’abbandono, lo spaesamento, il traumatico distacco da ciò che aveva caratterizzato fino a poco tempo prima il loro vivere quotidiano. Tale riflessione ci permette di cogliere analogie e differenze tra le due esperienze.

Le zone interessate dai due esodi sono in parte le stesse: è dal Confine orientale, in particolare dall’Istria, che a partire dal 1943 iniziò l’esodo dei giuliano-dalmati, mentre il I Conflitto mondiale, con la sua guerra di trincea combattuta lungo tutto il confine nord-orientale, coinvolse nella profuganza, oltre al Friuli, anche il Veneto e il Trentino.

Ciò che fece realmente la differenza, oltre ai numeri (più di 600.000 profughi quelli della I Guerra mondiale, circa 300.000 gli esuli della II), furono le motivazioni che portarono migliaia di persone in Italia come luogo.

Nel corso della Grande Guerra le evacuazioni dai territori interessati dal conflitto furono predisposte dalle autorità italiane e da quelle austriache per motivi legati alla sicurezza delle popolazioni, ma anche per la necessità di garantire ai comandi militari libertà d’azione, nonché per la diffidenza nei confronti dei civili. Se da parte italiana si temeva il lealismo degli abitanti della Venezia Giulia nei confronti della monarchia asburgica, da parte austriaca si temevano i sentimenti filoitaliani di buona parte della popolazione.

Profughe, loro malgrado, queste popolazioni furono indirizzate e accolte in molte città italiane, da cui ripartirono alla fine della guerra per ritornare nelle loro terre di origine.

Diverso l’esodo che si verificò, a partire dal 1943, dalle terre poste al Confine orientale.

Arrivo dei primi profughi istriani a Porta Nuova a Torino, febbraio 1947 © Archivio Storico della Città di Torino

Arrivo dei primi profughi istriani a Porta Nuova a Torino, febbraio 1947
© Archivio Storico della Città di Torino

In questo caso la popolazione non dovette rispondere a nessun decreto di espulsione o a nessun piano di evacuazione che la costringesse a lasciare Pola, Trieste e le altre città dell’Istria. La guerra, in queste terre, generò violenze inaudite, nate e perpetrate all’interno delle stesse comunità in cui convivevano da anni italiani e slavi. Gli infoibamenti del 1943 e soprattutto quelli del 1945, dopo l’arrivo dell’esercito di Tito, caratterizzarono un periodo in cui venne applicata su vasta scala la pratica del terrore, volta a cancellare ogni traccia della presenza istituzionale italiana sul territorio.

Ebbero così inizio i primi esodi di massa da Fiume, a cui fece seguito l’esodo dei quasi 30.000 abitanti di Pola. Anche in questo caso la meta immediata degli esuli fu l’Italia, ma non sempre il loro inserimento nelle nuove realtà fu possibile da realizzarsi con la necessaria serenità, a causa anche delle condizioni materiali del nostro paese, devastato in ogni senso dal conflitto appena terminato.

Un filo rosso congiunge la I e la II Guerra mondiale, attraverso questo fenomeno della profuganza/esodo.

Fu con la Grande guerra, infatti, che città come Gorizia, Trieste, Fiume e tutta l’Istria entrarono a far parte del Regno d’Italia e con esse una pluralità di popoli, lingue, culture e religioni. Fu il fascismo che, con la sua politica deslavizzante e fortemente nazionalizzatrice, approfondì la frattura tra l’elemento slavo e quello italiano. Fu la seconda guerra mondiale, con il gioco delle varie ingerenze politiche che si svolse a fine guerra sulla zona del Confine orientale, che portò agli estremi una ormai insanabile frattura che causò, come risposta alla politica slava decisamente anti-italiana, l’esodo di migliaia di italiani che abbandonarono le loro terre e tutti i loro beni per affermare la propria italianità.

Pochi di questi esuli tornarono nelle loro terre, loro italiani non potevano e non volevano riconoscersi nella Jugoslavia di Tito che, così come il fascismo nei confronti degli slavi anni prima, aveva fatto propria una politica di intolleranza nei confronti dell’elemento italiano.

Profughi, dunque, quelli della I Guerra mondiale, costretti da decisioni militari a lasciare le loro terre a cui fecero poi ritorno.

Esuli quelli della II Guerra mondiale, liberi di rimanere nelle terre di origine a costo della privazione della loro italianità e che per scelta esercitarono il diritto di opzione. Il Trattato di pace, secondo quanto riportato all’Articolo 19, prevedeva infatti il ricorso al diritto di opzione: optare significò scegliere la cittadinanza e optare per la cittadinanza italiana significò di fatto lasciare le terre dove si era nati, dove si era vissuti fino a quel momento, le terre che la diplomazia internazionale aveva assegnato alla Jugoslavia, optare significò in definitiva lasciare tutto quello che si aveva: la terra, la casa, gli affetti e prendere la via dell’esodo, per non tornare più nelle loro terre.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2016.




CONFINI DIFFICILI

«Il “Giorno del Ricordo” in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale…» come recita il titolo della legge istitutiva del marzo 2004, fa parte di quel calendario civile della nostra Repubblica che ormai si è consolidato all’interno dell’insegnamento della storia contemporanea nella scuola, calendario che nel suo insieme, si pensi anche al “Giorno della memoria”, racchiude in sé temi e problemi sia di carattere storiografico che di didattica della storia.

La rete degli istituti storici della resistenza non si è sottratta all’impegno che l’istituzione del Giorno del Ricordo richiedeva e tutt’ora richiede in termini di ricerca storica, di approfondimento dei canoni interpretativi e di mediazione didattica. Di conseguenza,un approccio alle vicende del Confine orientale non celebrativo ma la costruzione di una tappa di conoscenza che, depurata dall’insidiosa tendenza all’assolutizzazione di chiavi emotive e a semplificatorie focalizzazioni chiuse in ambiti cronologici ristretti, si avvalga di modelli esegetici e di ricostruzioni storiche di lungo periodo dove le drammatiche e dolorose vicende delle foibe e degli esodi siano inserite in un contesto di storia dell’Europa, prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale. Non è un caso se, nell’ottobre dell’anno successivo all’entrata in vigore della legge, si svolgeva a Torino un Corso di formazione per insegnanti e formatori sulla Storia della Frontiera Orientale, promosso dall’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia con l’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia di Trieste e con l’Istituto piemontese per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea di Torino, primo momento di messa a punto e di verifica di un approccio di lungo periodo come si evince dal titolo del volume che ha raccolto gli atti di quell’evento (Dall’impero austro-ungarico alle foibe. Conflitti nell’area alto adriatica, Torino, Bollati Boringhieri, 2009). Ma il Confine orientale come laboratorio per la storia del Novecento con tutte quelle implicazioni sulla formazione dei docenti e di didattica sul campo che lo strumento laboratorio comporta, non può essere compreso senza far riferimento al lavoro pionieristico dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia che ben prima del 2004 si è impegnato sul terreno della promozione della ricerca, dell’attività editoriale nonché del rapporto con la scuola coniugando sul proprio territorio il nesso tra memoria, conoscenza storica e i luoghi che ne contengono le tracce (si veda il sito http://www.irsml.eu/ e per completezza dell’informazione anche il sito dell’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, Udine: http://www.ifsml.it/blog2/ ).

La condivisione di iniziative e di contenuti, tratto peculiare della rete degli istituti, è stato il presupposto che ha generato l’impegno dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana su queste tematiche, impegno stimolato dall’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea che nella nostra regione ha svolto un ruolo di apripista con un viaggio di studio ‘intorno al confine orientale’ nel 2009, preceduto da un intenso lavoro di preparazione iniziato nel 2005 (cfr.:Luciana Rocchi, La nostra storia e la storia degli altri: viaggio intorno al Confine Orientale, in Senza più tornare. L’esodo istriano, fiumano, dalmata e gli esodi nell’Europa del Novecento, Torino, Edizioni SEB 27, 2012).

Il Progetto Confini difficili. Storia e memorie del ‘900. Da Trieste a Sarajevo – partito, per la prima volta, nell’anno scolastico 2011-2012, proseguito negli anni successivi e tuttora in corso – non può essere compreso se non si tiene conto dell’esperienza maturata e del patrimonio comune prodotti dalla rete degli istituti attraverso una molteplicità di iniziative, di progetti, di strumenti didattici in circa un decennio e nasce dall’incontro tra l’ISRT e l’associazione culturale “pAssaggi di Storia” con lo scopo di proporre un percorso tematico e didattico per gli insegnanti delle scuole superiori del territorio fiorentino e toscano sulla storia e le memorie di alcuni confini difficili del secolo scorso per sostenere una cultura di pace e di dialogo. Si articola in un ciclo di lezioni, di cui per comprenderne l’importanza si elencano i titoli delle lezioni previste per marzo, aprile, maggio 2015: Balcani, stratificazioni storiche: lingue, religioni, nazioni; Proposte didattiche oltre i confini identitari aestovest; La seconda guerra mondiale tra Italia e Jugoslavia; La questione nazionale nella Jugoslavia socialista 1945–1991; Le guerre jugoslave 1991-1995, e in un viaggio-studio come riflessione e approfondimento della storia del territorio che va da Trieste a Sarajevo con particolare accento sulla questione delle memorie divise presenti nelle narrazioni del ‘900. Il prossimo viaggio, nel settembre 2015, toccherà, i seguenti luoghi: Gonars, Gorizia, Basovizza (Friuli Venezia Giulia); Lubiana (Slovenia); Jasenovac-Donja Gradina (Croazia e Bosnia Erzegovina); Prijedor, Kozara, Sarajevo (Bosnia Erzegovina).

La possibilità di conoscere direttamente i partner in Slovenia, Croazia e Bosnia-Erzegovina rappresenta un’opportunità per l’ISRT intenzionato ad allargare le collaborazioni anche a livello internazionale e per le scuole coinvolte interessate a conoscere queste realtà; quindi entra in gioco anche una valenza di scambio e cooperazione internazionale tra istituti di ricerca e associazioni che si occupano di storia e memorie.

Dopo il viaggio è previsto un convegno storico-didattico – si riportano i temi oggetto di quelli degli anni passati: Gli esodi forzati di popolazione in Europa centrale e in alto Adriatico alla metà del XX secolo (2012); Confini, identità, violenze in alto Adriatico e nei Balcani nel lungo XX secolo (2013); Nazioni in guerra, guerra in Europa. Da Sarajevo a Sarajevo: tra alto Adriatico e Balcani occidentali 1914-2014 (2014); L’alto Adriatico tra guerra e pace nel Novecento europeo (2015), destinato alla scuole e aperto alla cittadinanza. che rappresenta l’occasione per i docenti partecipanti al progetto di riportare, attraverso i materiali raccolti e rielaborati, le proprie riflessioni sulle tematiche affrontate e con il coinvolgimento attivo degli studenti delle proprie classi. L’incontro si caratterizza, infatti, non solo per la presenza di storici specialistici di queste tematiche che approfondiscono ulteriormente i temi già affrontati nel ciclo di lezioni ma per la presentazione dei lavori da parte degli studenti stessi ed è anche occasione per informare e coinvolgere nel progetto altri insegnanti.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2016.




La deportazione degli ebrei nel pistoiese

A Pistoia era presente un’esigua comunità ebraica fin dal Medioevo. All’inizio del XX secolo, queste famiglie erano perfettamente integrate nel tessuto della società. Tra loro spiccavano i Corcos, i Coen, i Piperno e i Bemporad. Quest’ultimi avevano una famosa bottega di stoffe in via del Can Bianco, dove nel 1910 avevano fatto costruire la torre “Bemporad”. I componenti di queste famiglie avevano vite normali, comuni. Israele Bemporad, dopo essersi diplomato al Liceo Classico Forteguerri nel 1937, intraprese gli studi giurisprudenziali all’Università di Pisa e poi di Firenze ma, dopo la pubblicazioni delle leggi razziali, fu espulso nel 1939. Suo nipote, Giancarlo Piperno, era soltanto un bambino quando il fascismo cominciò la persecuzione degli elementi semitici. Ricordò, in un’intervista condotta anni dopo:

Io a quell’epoca avevo dieci anni, presentandomi la mattina a scuola, a lezione facevano l’appello; quando arrivarono alla lettera P mi saltarono, arrivarono alla Z, dopo la Z mi chiamarono e quando mi alzai mi dissero che non ero più degno di rimanere in quella stanza insieme con gli altri miei compagni e mi rimandarono a casa.

Il padre, dipendente delle ferrovie, perse il lavoro e tutta la famiglia fu costretta a migrare a Pisa, dove aveva dei parenti. Qui, il genitore trovò un impiego sostituendo uno zio che aveva abbandonato l’Italia su insistenza della moglie, un’ebrea austriaca, la quale temeva che presto anche in Italia sarebbe cominciate le stesse feroci persecuzioni antisemite fatte dai nazisti a Vienna.

Quando scoppiò la guerra, il regime decise la costruzione di campi di concentramento per internare i cittadini dei paesi belligeranti e i prigionieri di guerra; presto, divennero prigioni per oppositori politici, minoranze etniche, omosessuali e ebrei stranieri. Nella provincia di Pistoia, vi erano nove località d’internamento e detenzione: Agliana, Buggiano, Lamporecchio, Larciano, Montecatini, Pistoia, Ponte Buggianese, Prunetta e Serravalle Pistoiese.

La famiglia Bemporad. Israele è il quinto da destra in alto.

La famiglia Bemporad. Israele è il quinto da destra in alto.

La situazione precipitò dopo l’8 settembre 1943, con la resa del Regno d’Italia e l’occupazione nazista del centro-nord del Paese. Le comunità ebraiche cercarono di sfuggire alle persecuzioni naziste sparpagliandosi nelle campagne e sui monti; i Piperno, ad esempio, trovarono rifugio alla Castellina, paese nel comune di Serravalle Pistoiese, dove vissero in clandestinità fino alla fine del conflitto. Il giovane Giancarlo fu tra i fondatori di una formazione partigiana, rendendosi protagonista di pericolose azioni di guerra. Così i Bemporad, che si rifugiarono con la famiglia a Cireglio, paese montano posto sulla via Modenese; qui, Israele Bemporad scelse la lotta partigiana, unendosi alla formazione Fantacci.

Tuttavia, a Firenze, Siena e Montecatini i nazisti avevano avviato le loro feroci retate già dai primi di novembre. Nella città termale fu il capitano Dannecker, lo stesso del rastrellamento del ghetto romano, a condurre le operazioni, al comando di un drappello di repubblichini. Qui erano sfollate diverse famiglie, come i D’Angeli, un nucleo di tre adulti e due bambini piccoli. Il capofamiglia, Mario, aveva deciso di abbandonare Montecatini; ma, d’accordo con sua moglie, ritardò la partenza di qualche giorno, per festeggiare il primo anno di vita del figlioletto Massimo, il 6 novembre. Nel centro avevano trovato riparo anche altre famiglie, come i Vitale, i Valobra: tutti nuclei con bambini piccoli e molti anziani. Il 5 novembre, ci fu la retata; alcuni riuscirono a mettersi in salvo, ma 21 di loro – tra cui i D’Angelo – non sfuggirono alla cattura. Caricati sui camion, furono portati a Firenze e, di qui, deportati al campo di sterminio di Auschwitz: nessuno sopravvisse.
La retata di Montecatini fu una delle poche condotte dagli occupanti nazisti; le altre deportazioni furono appannaggio delle forze di polizia italiane. Nel pistoiese, come in altre parti d’Italia, gli arresti furono fatti nella seconda metà di gennaio, un mese e mezzo dopo l’ordine del ministro degli Interni (30 novembre); questo ritardo permise ad alcuni ebrei di trovare rifugi migliori.
Furono, però, numerosi gli italiani che, sia per consapevole adesione alla RSI sia per convenienza, appoggiarono e facilitarono le persecuzioni.
Fu il caso del maresciallo Riccardo Moroni che, come ricorda Alberto Saltiel, arrestò e consegnò i suoi genitori e gli altri ebrei confinati ad Agliana, eseguendo «l’ordine con tanto zelo che nessuno degli internati poté sfuggire alla cattura». Alberto, invece, riuscì a sfuggire e non avrebbe mai più rivisto i suoi genitori. Finita la guerra, avrebbe sempre additato quel maresciallo come il responsabile della sorte dei suoi.
I carabinieri furono responsabili della cattura dei Cittone, ebrei turchi di Livorno sfollati a Serravalle Pistoiese per i bombardamenti. A compiere l’arresto e la confisca dei beni fu il maresciallo Luigi Cellai. Dell’intera famiglia, i due genitori e i cinque figli, sopravvisse soltanto Sol Cittone, all’epoca quindicenne. Rimpatriata da Auschwitz a Livorno, nel 1946, denunciò il maresciallo Luigi Cellai, usando questi termini: «Fatemi il piacere se lo vedete, denunciatelo subito e fategli torture e lavorare peggio deve anche soffrire e deve fare una fine peggio dei cani quel maledetto repubblicano. Nemmeno la cenere ci deve rimanere come lui ha rovinato me e tutta la famiglia».
A niente servì ai Beniacar l’aiuto fornitogli dal parroco: «quando vide i fascisti venuti a prenderci, cercò di opporsi, ma non ottenne niente» ricordò Matilde, l’unica sopravvissuta della famiglia. Il 25 gennaio 1944, a Borgo a Buggiano, i repubblichini, arrestarono 18 ebrei, condannandoli ai campi di sterminio. Raccontò Matilde Beniacar, anni dopo, la separazione dai suoi due fratelli: «Mi ricordo che quando siamo arrivati al campo ci hanno diviso, Perla e Giacomo mi corsero incontro, ma ci hanno separato e quella è l’ultima volta che li ho visti».
Il giorno successivo, fu la volta degli ebrei di Cutigliano. Nina Molco sfuggì alla cattura convincendo il maresciallo a lasciarla con l’anziana zia, bisognosa di cure. Tuttavia, raccontò nei suoi diari: «Tutti quelli che erano qui, e non erano pochi, sono stati presi, meno alcuni, i più abbienti, che sono riusciti a scappare». La famiglia Baruch non riuscì a scampare alla deportazione; del nucleo, due genitori e quattro figli, sopravvisse soltanto Michele Behor. Con loro fu catturato anche Gualtiero Pesaro, che sarebbe morto nei campi di sterminio; il fratello Arnaldo scampò alla retata.
Lo stesso giorno, i repubblichini arrestarono gli ebrei confinati a Prunetta. La famiglia Fiser-Weiss, originaria di Zagabria e fuggita in Italia per salvarsi dagli Ustascia croati, non scamparono alle retate italiane. Ambron Giuseppina, un’anziana vedova di guerra, era sfollata a Prunetta quando le sue due figlie furono arrestate. Inviò una supplica al ministro degli Interni, in cui assicurò il patriottismo dell’intera famiglia: «sono straziata dal dolore di vedere che le mie due povere figlie, che adorano la Patria e che hanno dato padre e fratello per salvarla, si trovano considerate alla stregua dei nemici». Probabilmente, quando inviò la supplica al ministero (marzo 1944), le sue figlie erano già morte. Sempre nella provincia di Pistoia, i repubblichini arrestarono l’anziano Enrico Menasci e i fratelli Aldo e Giorgio Moscati. Solo Aldo sarebbe sopravvissuto, riabbracciando i genitori finita la guerra. L’ultimo arresto fu quello di Ildebrando Trevi, il 27 gennaio 1944, a Lamporecchio.
I catturati furono trasferiti nel campo di Fossoli, vicino Carpi, per essere deportati nei lager nazisti. Raccontò Isacco Mario Baruch: «Lì a Fossoli non si sapeva che si doveva ancora vedere il peggio… quando siamo stati in Germania sembrava un paradiso Fossoli, ecco». Il 22 febbraio sarebbe stati tutti caricati sui vagoni bestiame e portati nei campi di sterminio.

Pochi giorni dopo la liberazione di Pistoia (8 settembre 1944), a Cutigliano, furono uccisi dai tedeschi in ritirata il professore Tullio Levi e Arnaldo Pesaro, sfuggito all’arresto durante la retata del 26 gennaio. Quest’ultimo morì, assieme ad altri quattro ostaggi, nell’esplosione del Lanificio Tronci, minato dai tedeschi. Chi scampò alle retate, visse per molti mesi in un clima di terrore, temendo le rappresaglie messe in atto dai nazifascisti in ritirata.
Il destino di chi finì nei lager fu tremendo. Numerosi furono uccisi al loro arrivo. Michele Behor Baruch raccontò, molti anni dopo:

Mentre facevamo l’appello di fronte alle nostre baracche vedevamo un’altra baracca molto grande, con una grossa ciminiera le cui fiamme uscivano dipinte di mille colori. Noi nuovi del campo non sapevamo che cosa venisse fatto là e per appagare la nostra curiosità domandammo a qualcuno più anziano del campo a cosa serviva quella ciminiera e così venimmo a sapere che quello era un forno crematorio. Poi domandai quando potevo incontrarmi con la mia famiglia, me purtroppo seppi la verità e cioè che i miei cari erano stati barbaramente stroncati nelle camere a gas ed i loro corpi fatti scomparire per sempre nel forno crematorio.

Nel pistoiese, secondo i dati desunti dal testo di Pardo Fornaciari, gli ebrei arrestati furono 88; di questi, 36 provenivano da Livorno mentre soltanto 2 erano pistoiesi. Gli ebrei livornesi erano fuggiti, come il resto della popolazione della città labronica, verso le zone appenniniche, per scampare ai bombardamenti anglo-americani sul porto.
Degli 88, soltanto in 5 sopravvissero: Michele Behor Baruch, Isacco Mario Baruch, Matilde Beniacar, Aldo Moscati e Sol Cittone; una sesta, Gertrude Loeb, pur vedendo la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz (27 gennaio 1945), morì due settimane dopo per le sue condizioni di salute. Sol Cittone, nel dopoguerra, decise di imbarcarsi per lo Stato di Israele e si ricostruì una famiglia a Haifa. Sarebbe tornata a Serravalle nel 2014, invitata dalle istituzioni. Sol ricordava ancora lucidamente quei momenti, mostrando ancora odio per quel maresciallo che li aveva consegnati alla feroce macchina di morte nazista e, finita la guerra, non aveva mai pagato per i suoi crimini.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2016.




La memoria della Shoah e la costruzione dell’Europa: percorsi e sfide dal dopoguerra ad oggi

Gentili signore e signori, consiglieri, autorità presenti, Rabbino Levi, sono molto onorato di essere stato invitato come relatore in occasione di questa importante ricorrenza e vorrei esprimere per ciò un sentito ringraziamento al Consiglio regionale, al suo Presidente Eugenio Giani e al Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi.

Lo scorso anno le celebrazioni della Giornata della Memoria furono contrassegnate dal forte impatto emotivo suscitato dagli attentati terroristici di matrice islamista condotti a Parigi contro la sede del giornale Charlie Hebdo e un supermercato di prodotti Kosher. Nel cuore dell’Europa era stato lanciato un attacco omicida ai valori della laicità e della democrazia. E quell’attacco aveva assunto anche le vesti di un virulento antisemitismo. Dodici mesi dopo il clima purtroppo non è cambiato, anzi – dopo i tragici episodi avvenuti nella capitale francese lo scorso novembre, l’emergenza profughi, i fatti di Colonia, lo stillicidio di minacce e atti terroristici riconducibili al cosiddetto Stato islamico (ISIS) – la situazione appare ai nostri occhi ancora più allarmante. Come allarmante, per altri aspetti, risulta il fenomeno correlato, ben evidente da tempo in ogni paese europeo, rappresentato dall’erompere di movimenti nazionalisti xenofobi, non privi – soprattutto ad est – di un imprinting antisemita. Un fenomeno che rischia di far saltare i cardini su cui poggia la nostra civiltà democratica.
Dunque, anche quest’anno, qui a Firenze, come in tutta Europa, celebrare la Giornata della memoria ha un sapore particolare; ci chiama ad un compito particolare. Infatti, fare memoria della Shoah non significa semplicemente ricordare lo sterminio degli ebrei e delle altre vittime del nazismo, non significa rievocare il passato, ma implica attribuire al passato – a quel passato – un significato capace di illuminare l’oggi, per aiutarci a compiere le nostre scelte in una situazione difficile.

Ma come si può svolgere questo compito? Da storico ritengo sia utile – direi necessario – riflettere sul significato della memoria della Shoah collocandola nell’ambito più ampio della memoria europea della seconda guerra mondiale, che rappresenta ancora un punto di riferimento fondamentale per la nostra memoria collettiva.
Vorrei dunque provare a tracciare, molto sinteticamente, il percorso evolutivo di questa memoria europea. Lo farò appoggiandomi alle considerazioni di un brillante storico britannico purtroppo prematuramente scomparso, Tony Judt.
Judt ha indicato due grandi fasi della memoria europea del secondo dopoguerra: la prima che ha preso forma dopo il 1945, la seconda dopo il 1989. A suo giudizio, subito dopo il crollo del Terzo Reich, l’Europa è stata ricostruita – ad ovest come ad est – su una memoria fortemente selettiva imperniata su due pilastri comuni: da un lato, il mito della Resistenza come epica e corale lotta di liberazione nazionale contro i nazisti; dall’altro, l’attribuzione alla Germania e ai tedeschi dell’esclusività della colpa per le sofferenze e i crimini della guerra. They did it! Loro l’hanno fatto!
Naturalmente dietro tale raffigurazione stava un corposo nucleo di verità: in tutti i paesi che avevano subito l’occupazione nazista (e dovremmo aggiungere anche fascista) – dalla Norvegia alla Jugoslavia, dalla Francia alla Polonia – erano sorti movimenti di resistenza che avevano coraggiosamente lottato contro l’occupante pagando un prezzo altissimo e non c’è dubbio che sulle spalle dei tedeschi gravasse la responsabilità predominante per lo scatenamento della guerra e i crimini commessi. La “soluzione finale” porta un indelebile marchio germanico. Tuttavia, la glorificazione della Resistenza e la stigmatizzazione dei tedeschi hanno finito per oscurare altri aspetti importanti: la presenza ovunque nell’Europa occupata di forze collaborazioniste che avevano attivamente spalleggiato il nazismo e il fascismo, nonché il fatto che gravi crimini di guerra erano stati commessi da tutti i belligeranti, compresi i vincitori. Basti pensare – solo per fare degli esempi – alle uccisioni di migliaia di ufficiali polacchi perpetrate dall’Armata Rossa (le cosiddette fosse di Katyn), agli stupri compiuti dal Corpo di spedizione francese in Italia (le “marocchinate”), alle foibe (per restare al caso italiano) o alla serie di bombardamenti sui civili di natura terroristica condotti dagli anglo-americani culminati nelle due atomiche lanciate su Hiroshima e Nagasaki. Secondo Judt, la rimozione dalla memoria ufficiale di questi aspetti ha marchiato il Vecchio continente con quella che egli ha definito a vicious legacy – una “eredità maledetta” – caratterizzata da “una deliberata distorsione della memoria”, dall’”oblio come stile di vita”. Oblio del collaborazionismo filo-fascista, non riducibile ad un fenomeno di pochi invasati, e oblio dei crimini compiuti dagli altri, dai non tedeschi.
Il 1989, con la fine della guerra fredda e il ricongiungimento delle due Europee, è stato contrassegnato all’opposto da un “eccesso compensativo di memoria” che le istituzioni hanno promosso in ogni paese per fondare, o rifondare, nuove identità collettive dopo il crollo del Muro di Berlino. Il processo si è indirizzato lungo due nuove direttrici. A ovest, a partire dagli anni Novanta è emersa al centro della scena la memoria della Shoah. Il ricordo dello sterminio degli ebrei era stato certamente presente anche prima, ma – potremmo dire – solo come uno degli aspetti della memoria antifascista. Gli ebrei erano stati considerati una delle tante categorie di vittime del nazismo. Solo col passare degli anni la memoria della Shoah ha guadagnato autonomia e propulsione fino a diventare “mito fondante negativo” della memoria europea. Essa rimanda infatti ad una vera e propria “frattura di civiltà”, rappresenta il “crimine per eccellenza”: “il tentativo di un gruppo di europei di sterminare tutti i membri di un altro gruppo di europei”. In una Europa scossa dal riapparire di manifestazioni di odio antisemita e razzista e dal ripetersi nei suoi confini, dopo l’implosione della Jugoslavia, di crimini atroci contro i civili (si pensi a Sebrenica), la memoria della Shoah è assurta a “narrazione unificante” con valore di monito contro il rischio del ripetersi del Male. “Mai più!”
A est, invece, i paesi usciti da oltre quarant’anni di regimi comunisti sotto il controllo dell’Unione sovietica hanno proceduto a riedificare memorie nazionali rimaste a lungo congelate e hanno coltivato la memoria ancora scottante del comunismo. Essi hanno mostrato alcune differenze fra loro ma anche alcuni importanti tratti comuni: la tendenza a esternalizzare il comunismo come mero frutto dell’imposizione attuata dall’Armata rossa; la conseguente raffigurazione delle società nazionali nei panni di vittime innocenti e l’esaltazione dell’ostinata resistenza popolare – attiva e passiva – ai regimi comunisti; la rivendicazione infine dell’assimilazione dei crimini del comunismo ai crimini del nazismo.

A partire soprattutto dalla seconda metà degli anni Novanta, nel pieno dell’accelerazione del processo unitario dopo Maastricht, anche le istituzioni dell’Unione europea sono intervenute sul terreno della memoria attraverso politiche del ricordo sempre più incisive. Alla tradizionale narrativa europea della riconciliazione e della pace fra i paesi che si erano scannati nella prima e nella seconda guerra mondiale si è presto affiancata un’azione istituzionale – promossa soprattutto dal Parlamento di Strasburgo – per la costruzione di una comune memoria europea. Questa è stata fondata su due cardini: la Shoah e l’antitotalitarismo.
Dopo la dichiarazione del Forum internazionale di Stoccolma sull’Olocausto nel 2000, l’Unione europea ha trasformato progressivamente la memoria della Shoah in una sorta di religione civile alla base dei suoi valori fondamentali di democrazia, pace e difesa dei diritti umani. Come già fatto da numerosi Stati membri, anche a livello europeo il 27 gennaio è stato scelto dieci anni fa come Giornata europea della Shoah e nel novembre 2008 il Consiglio dell’Unione europea ha approvato la Decisione quadro sulla lotta contro il razzismo e la xenofobia volta ad uniformare la legislazione comunitaria attraverso l’adozione di una normativa antinegazionista.
All’allargamento dell’Unione europea ad est nel 2004 e nel 2007 ha fatto seguito una spinta crescente dei nuovi membri dell’Europa centrale ed orientale per l’adozione a livello comunitario di politiche della memoria incentrate sull’antitotalitarismo attraverso l’equiparazione fra nazismo e comunismo. A questo ha puntato la Dichiarazione di Praga del giugno 2008, primo firmatario l’ex leader del dissenso e Presidente cecoslovacco Vaclav Havel. Il documento chiedeva di riconoscere comunismo e nazismo come “eredità comune” dei paesi europei, definiva i crimini del comunismo come crimini contro l’umanità, perorava l’istituzione di una specifica giornata europea in ricordo delle vittime dei due totalitarismi, auspicava la revisione dei manuali di storia europei e la nascita a livello comunitario di un istituto scientifico e di un museo dedicati ai totalitarismi. Molte di queste proposte sono state recepite dalle istituzioni europee. Già nel settembre 2008 il Parlamento europeo ha istituito una “Giornata europea di commemorazione delle vittime dello stalinismo e del nazismo” scegliendo come data il 23 agosto, giorno della firma nel 1939 del Patto Ribbentrop-Molotov, letto come un accordo per la spartizione dell’Europa fra la Germania nazista e l’Unione sovietica. L’anno successivo (aprile 2009) il Parlamento ha votato la risoluzione su “Coscienza europea e totalitarismo” che pone al centro della memoria europea il ricordo dei due totalitarismi. Nel 2011 è nata la Piattaforma della memoria e della coscienza europea, un progetto educativo dell’UE per la diffusione della conoscenza dei regimi totalitari. Inoltre, ricordiamo che già dal 2007 l’Azione 4 del Progetto “Europa per i cittadini”, istituito dal Parlamento e dal Consiglio per promuovere la “cittadinanza europea attiva”, ha previsto un cospicuo finanziamento destinato alla memoria delle vittime del nazismo e dello stalinismo.
Dalla prospettiva delle istituzioni europee, questo intenso investimento economico e culturale indirizzato alla creazione di una memoria comune dovrebbe rafforzare se non creare quei legami di appartenenza e di identità fra i paesi membri indeboliti dal fallimento del trattato costituzionale dopo l’esito negativo dei referendum in Francia e in Olanda (2005). Legami che sono stati messi ancor più a repentaglio dagli effetti della crisi economica dopo il 2008, segnata da una contrapposizione interna all’Europa lungo l’asse nord-sud, dal diffondersi di movimenti populisti antieuropei, nonché dalla reviviscenza generalizzata di sentimenti e stereotipi antitedeschi.
Ma che effetti ha avuto la politica della memoria promossa da Bruxelles? Sul piano generale, essa ha ripreso e rafforzato alcuni indirizzi di fondo che, come abbiamo visto, si erano già manifestati nel contesto europeo post-89: una raffigurazione molto semplificata del Novecento come secolo della violenza, dei crimini e dei genocidi scatenati dalle opposte ideologie totalitarie, nazista e comunista, con i rispettivi apparati del terrore; una veloce erosione (radicale nei paesi ex-comunisti) del paradigma antifascista rimpiazzato da quello fondato sull’antitotalitarismo; la sostituzione come figura centrale dell’eroe partigiano con quella della vittima, la vittima innocente delle stragi naziste e delle violenze comuniste; l’arrivo sulla scena memoriale dei cosiddetti “giusti”, ovvero uomini e donne comuni che si sono distinti in azioni di solidarietà e protezione nei confronti dei perseguitati dai regimi totalitari. Si veda a questo proposito l’istituzione della “Giornata dei giusti” votata dal Parlamento europeo nel 2012.
Nel tentativo di abbinare la Shoah e il paradigma antitotalitario, la UE ha assunto con ogni evidenza come proprio modello la Vergangenheitsbewältigung tedesca, prima messa in atto da Bonn e, dopo la riunificazione, da Berlino. Nel caso della Germania, non vi è dubbio che si possa parlare di un percorso virtuoso che ha mantenuto al centro della memoria nazionale la resa dei conti con i crimini del nazismo culminati nello sterminio degli ebrei d’Europa e ha poi integrato tale memoria con quella del regime comunista nella DDR, la Germania orientale. Il più importante monumento tedesco è quello dedicato agli Ebrei d’Europa assassinati che sorge a Berlino, a due passi dal Bundestag,
Ma il modello tedesco, legato alle esperienze storiche vissute dalla Germania, può essere “europeizzato”? In verità, quel che funziona bene nella vigile democrazia tedesca non sembra funzionare altrettanto bene a livello europeo, dove sono emerse varie ombre. Innanzitutto, persiste una frizione memoriale fra est e ovest caratterizzata da una persistente concorrenza fra le “vittime del Gulag” e le “vittime del Lager”. Dietro la forte insistenza da est sul paradigma antitotalitario è poi apparso in molti casi un atteggiamento asimmetrico, tutto sbilanciato nella condanna del comunismo, che ha finito per riabilitare in maniera indiscriminata come eroi della patria tutti i nemici del comunismo, compresi noti – o meglio famigerati – esponenti di spicco del collaborazionismo filonazista degli anni della seconda guerra mondiale, come ad esempio Ante Pavelic in Croazia, il maresciallo Antonescu in Romania, Josef Tiso in Slovacchia; per non dire dei giovani volontari lettoni delle Waffen-SS cui gli ex-commilitoni hanno dedicato alcuni anni fa a Tallin una targa commemorativa come “combattenti della libertà”. É giusto che i paesi dell’Europa occidentale prendano coscienza di cosa hanno rappresentato per l’altra metà d’Europa i decenni di dominio comunista, ma non al prezzo di riabilitare collaborazionisti che molto spesso hanno avuto parte attiva nella persecuzione degli ebrei.
L’Italia non è immune da rischi di questo genere. Solo pochi anni fa, ad esempio, è stata realizzata con soldi pubblici ad Affile, un paesino vicino a Roma, la costruzione di un mausoleo dedicato al Maresciallo Rodolfo Graziani, capo delle forze armate della Repubblica sociale italiana e responsabile di numerosi crimini di guerra nelle colonie africane. Persiste poi l’attitudine a scaricare su altri le nostre responsabilità. Questo è particolarmente evidente proprio osservando la memoria della Shoah. Le leggi razziste del 1938 contro gli ebrei, volute da Mussolini e firmate dal Re, sono state – per riprendere un’espressione usata lo scorso anno dal presidente Rossi – “una vergogna assoluta che pesa ancora sulla storia dell’Italia, del nostro amato Paese”. Ebbene, non sono pochi in Italia coloro che continuano a credere che quelle leggi siano state imposte al Duce riluttante dallo spietato Führer di Berlino. Un’autentica frottola che nasconde le responsabilità del governo fascista che agì invece in piena autonomia. Ma c’è anche un altro aspetto importante. La celebrazione mediatica dei “giusti”, dei generosi “salvatori di ebrei”, come l’abile e coraggioso Giorgio Perlasca, ha finito per oscurare le responsabilità avute da tanti italiani nella persecuzione dei loro concittadini ebrei. Come ha scritto Simon Levis Sullam, l’Italia sembra essere passata dall’”era del testimone” – imperniata sulla memoria delle vittime – all’”era del salvatore” senza passare per alcuna “era del carnefice”. Un “colpevole oblio” sembra sceso sui tanti italiani che furono attori e complici della Shoah, coloro che parteciparono all’arresto degli ebrei (poco meno della metà degli arresti fu compiuto da italiani), i delatori che li denunciarono, coloro che si appropriarono dei loro beni e dei loro posti di lavoro, quanti semplicemente stettero a guardare o rivolsero lo sguardo altrove. Figure di salvatori di ebrei, come Perlasca, sono giustamente molto famose, ma quanti in Italia conoscono ad esempio il commissario prefettizio Giovanni Francesco Martelloni capo dell’Ufficio Affari ebraici di Firenze, uno spietato cacciatore di ebrei responsabile di decine di arresti di uomini, donne e bambini finiti ad Auschwitz? Basta dare un’occhiata a Google per farsi un’idea: per Perlasca risultano 139 mila contatti; per Martelloni 150!
Anche in Italia, infine, come in Europa, si è assistito negli ultimi quindici anni ad una competizione fra memorie diverse della seconda guerra mondiale, tutte riconosciute e promosse dalle istituzioni statali. Mi riferisco alle principali di esse: la memoria appunto della Shoah, che stiamo celebrando oggi, la memoria delle foibe legata alla celebrazione del Giorno del ricordo il 10 febbraio, la memoria della Resistenza incentrata sul 25 aprile. Secondo alcuni storici come Giovanni De Luna e Sergio Luzzatto, la memoria della Shoah avrebbe eroso se non scalzato la memoria della Resistenza. Ora, la memoria della Shoah ha sicuramente – e per fortuna – guadagnato spazio nella coscienza pubblica, ma la memoria della Resistenza – grazie soprattutto all’impegno del Quirinale, da Ciampi a Mattarella – è rimasta un punto di riferimento fondamentale. Non sono due memorie in conflitto. Anzi, per certi aspetti sono complementari: infatti, se la memoria della Shoah può essere vista come strumento di salvaguardia dei diritti umani contro ogni tipo di discriminazione, la memoria della Resistenza – col suo forte vincolo alla Costituzione – resta una base di riferimento per i diritti di cittadinanza, il diritto al lavoro, alla salute, all’educazione, ad un ambiente sano… Entrambe sono vitali per la salute della nostra democrazia.
Introdotta dal Parlamento nel 2004, la memoria delle foibe ha avuto nei primi anni un carattere antagonistico rispetto a quella della Resistenza e competitivo rispetto a quella della Shoah. Restano impulsi in questa direzione, ma è importante – a mio avviso – che negli ultimi anni del suo mandato l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano abbia fatto molto per trasformarla da una memoria di matrice nazionalista con venature antislave in una memoria europea riconciliata basata su un impegno comune fra Italia, Slovenia e Croazia. Un impegno a riconoscere i torti che storicamente un paese ha inflitto all’altro (prima delle foibe ci sono stati i crimini italiani in Jugoslavia) per collaborare attivamente da ora in poi, senza il peso di un passato conflittuale, come membri dell’Unione europea. Questo quadro europeo è del resto la corretta cornice di riferimento in cui agisce nella sua azione memoriale la Regione Toscana, grazie anche all’impegno dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana e della rete degli istituti collegati.
Sono dunque tornato al contesto europeo da cui ero partito. E vorrei qui concludere con alcune considerazioni finali.
All’indomani dei sanguinosi attacchi jihadisti a Parigi dello scorso 13 novembre, una delle firme di punta del Sole24Ore, Alberto Negri, ha dedicato un articolo lucido e appassionato alla lotta cui siamo chiamati oggi per sconfiggere la minaccia dell’ISIS. E Negri ha esordito citando quello che secondo Sartre era (e potremmo dire – è) il più bel romanzo dedicato alla Resistenza: “Educazione europea”, opera del grande scrittore Romain Gary, ebreo lituano – eroe della resistenza francese. “Come va la battaglia di Stalingrado dei russi contro i nazisti?”, si chiedono i partigiani polacchi nel romanzo.
“Come va la battaglia contro il Califfato? Se avessimo ancora un’educazione europea – scrive Alberto Negri – questa è la domanda che dovremmo farci tutti i giorni e che forse si faranno adesso (…) i francesi. Rispondere al terrore con la solidarietà e le bandiere a mezz’asta va bene ma se avessimo ancora un’educazione europea dovremmo replicare colpo su colpo al terrorismo e alla sua minaccia, entrata nella nostra vita quotidiana con una strage di innocenti”.
Di fronte alla minaccia e alla sfida del terrorismo dunque Negri, e insieme a lui molti altri, si richiamano – in molti casi riscoprono – l’eredità della Resistenza, un’eredità che era sembrata molto appannata dopo il 1989. Ma attenzione: alla Resistenza contro il pericolo islamico si sono appellati e si appellano anche i movimenti xenofobi europei. “Widerstand, Widerstand!” (Resistenza! Resistenza!) hanno gridato i sostenitori di Pegida (i cosiddetti Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente) dopo i gravi fatti di Colonia fomentando la caccia agli immigrati. Dobbiamo dunque fare attenzione e tenere assieme l’eredità della Resistenza con quella della Shoah. La prima ci sprona ad una difesa attiva della democrazia, la seconda ci ricorda di essere vigili contro ogni forma di razzismo e di xenofobia, inclusa l’islamofobia. É questa la nostra “educazione europea”.
Vi ringrazio dell’attenzione.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2016.




Dalla mediazione allo scontro

Nel territorio pistoiese, il passaggio dal 1947 al 1948 fu segnato dall’ennesima esplosione della conflittualità popolare, in un contesto di dura crisi economica ed alimentare che perdurava fin dalla Liberazione. A determinare quest’esito concorsero tanto le vicende nazionali, con una decisa controffensiva del fronte padronale su tutti i versanti, come testimoniato dal patto siglato tra agrari, industriali e commercianti nel gennaio 1947 per la costituzione di un fronte unico, quanto i cambiamenti intervenuti nella gestione dell’ordine pubblico in seguito all’ascesa di Scelba alla guida del Ministero degli Interni ed all’uscita delle sinistre dal governo, che segnarono una netta discontinuità e l’inizio di una reazione contro le lotte dei lavoratori.
Anche i rapporti fra i partiti locali peggiorarono sensibilmente. Il 21 dicembre a San Sebastiano di Piuvica a seguito di un comizio scoppiavano tafferugli tra i giovani militanti democristiani e quelli comunisti. Nello stesso mese il PCI e l’UDI sollecitavano l’attivismo nelle campagne, con un riguardo speciale nei confronti delle donne, attraverso una giro di conferenze di Mimma Gramsci, che si recava a Borgo a Buggiano e a San Rocco di Larciano.
Il nuovo Prefetto, Festa, era un uomo assai diverso dai suoi due predecessori, Ales e Mazzolani, portatori di una sensibilità maggiore verso le esigenze della popolazione più misera. Entrato nei ranghi del servizio in epoca fascista, si dimostrava ligio al potere politico di turno, tant’è che prima di arrivare a Pistoia subì anche una blanda inchiesta da parte dell’epurazione, denunciato dai suoi stessi ambienti lavorativi come un prefetto in camicia nera. Un uomo d’ordine dunque, cresciuto sotto il Regime, abile a fiutare il vento della politica ed a mettersi al suo servizio, più che a quello di uno Stato neutrale. Inoltre era ancora giovane, nel pieno della carriera, e tentava di mettersi in mostra con zelo, ponendosi al servizio dei nuovi detentori del potere. Festa fu un tipico prefetto Scelbiano, un agente “statale” della DC sul territorio, impegnato addirittura nella campagna elettorale prima del voto del 18 aprile – quando segnalerà a Scelba previsioni per un avanzata della DC –, attento a tutti quegli aspetti che potevano interpretare fedelmente la linea dei nuovi governanti e metterlo in luce con i suoi superiori. Sarà lui a gestire la nuova fase che maturò nel 1947 e arrivò a compimento nel 1948 ed a marcare il segno della discontinuità nella gestione dei conflitti sociali.
Dalla metà del ’47 si chiusero progressivamente gli spazi delle relazioni industriali. A livello nazionale, la Confindustria iniziava una controffensiva, decisa a recuperare il terreno perduto ed a costruire una solida alleanza con la DC, sbarrando la strada alle istanze di profonda trasformazione. A livello locale questa dinamica si rifletté anche nel nuovo atteggiamento dell’Assoindustria, via via sempre più chiuso. Il segnale di un deciso cambiamento di clima, che preludeva ad una immediata nuova gestione della conflittualità sociale nel pistoiese, arrivò per Natale. Il 24 dicembre l’Assoindustria affisse un manifesto sulla rottura delle trattative per il rinnovo del contratto con la FIOM in sede nazionale. Gli industriali denunciavano la non collaborazione sindacale e annunciavano che avrebbero pagato meno. Per gli operai era una provocazione. Già il 28 a Pescia si diffuse la minaccia di uno sciopero generale e vennero inviati rinforzi ai Carabinieri (Scelba aveva provveduto a rafforzare le forze dell’ordine), ma fu a Pistoia che avvennero fatti gravi. Il 29 una commissione di operai della San Giorgio si recò a discutere in merito alla rottura delle trattative alla sede dell’Assoindustria. I dirigenti erano assenti ma venivano ricevuti da un funzionario di alto livello. Dopo una discussione animata, gli operai venivano allontanati. A quel punto alla San Giorgio iniziava uno sciopero. I lavoratori uscirono dalla fabbrica e si recarono in corteo alla sede dell’Associazione degli industriali, che fu invasa con lievi scontri e leggeri danni al mobilio. Dopodiché fu ristabilito l’ordine e gli operai si allontanarono lasciando sottosopra la sede degli industriali. Vennero denunciati 12 lavoratori. La reazione di Assoindustria fu dura ed veemente, come c’era da aspettarsi in realtà, rendendo evidente come fosse maturata una linea diversa nel padronato, propensa allo scontro frontale adesso che si sentiva rafforzato. Si chiesero misure energiche e immediate al Prefetto ed al Ministero.
A questo punto quella linea di faticosa “concertazione” che fino ad allora aveva connotato le relazioni industriali e le politiche di gestione dell’ordine pubblico nel pistoiese viene definitivamente a tramontare. Il sindacato, spinto sulla difensiva, era comunque determinato a reagire. La rottura delle trattative, ancor più che una provocazione, venne vista, non senza ragione, come l’avvio di una politica reazionaria. Festa era per metodi d’ordine, assai poco incline a trattare con la CGIL e schierato nettamente ed in maniera non neutrale con la DC e gli industriali. Assoindustria aveva raggiunto le posizioni di intransigenza e di riaffermazione del potere in fabbrica sostenute sul piano locale da Orlando della SMI. Le tensioni di dicembre aprirono la via a due settimane di confronto tesissimo. Ai primi di gennaio la prefettura ordinò 15 arresti preventivi a Pescia. Nelle intenzioni di Festa, oltre all’idea di prevenire un nuovo sciopero, era presente anche l’opzione di sfruttare l’occasione per infliggere un duro colpo al sindacato, qualora la reazione fosse stata dura, come effettivamente avvenne. I ceti popolari, alle prese con grandi difficoltà materiali e mobilitati ininterrottamente da anni, reagirono istituendo blocchi stradali “volanti” in tutta la provincia, che per diversi giorni tennero impegnate le forze dell’ordine nella loro rimozione. Ma a Bonelle venne blocca l’autostrada e si decise di restare. Il prefetto non giocò allora la carta della trattativa ed inviò sul posto due autoblindo e reparti della celere, raggiunti poi da altri rinforzi da Firenze. Lo scontro che ne seguì fu durissimo, con l’uso di armi da fuoco, da taglio e di bombe a mano, e si concluse con 12 feriti, 6 per parte. Per la prima volta la violenza si esprimeva con questo grado di intensità dalla fine della guerra ed entrava prepotentemente sulla scena, per restarvi, fino all’uccisione di Ugo Schiano alla fine del 1948.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers; La mezzadria nel Novecento. Storia del movimento mezzadrile tra lavoro e organizzazione.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2016.




Livorno 1915: l’antinterventismo in piazza

“…pure io, se non sono anarchico schedato come te, minaccio di diventarlo a seguito di tutto quello che ho visto e che mi tocca vedere. E poi ho sempre simpatizzato con gli anarchici di Livorno.”
(Riccardo Marchi, Anteo va alla guerra)

A Livorno, nell’ambito delle iniziative per il centenario della Grande guerra, sul piano della storia locale è stato dato rilievo all’interventismo labronico e alla rievocazione apologetica dell’intellettuale Giosuè Borsi, fervente cattolico e volontario col grado di sottotenente, caduto ventisettenne al fronte il 10 novembre 1915. Nato e cresciuto nella Livorno benestante, la sua figura appare non priva di contraddizioni, se non altro per la professata spiritualità cristiana assai stridente con l’acritica obbedienza all’inumana logica militarista. Emblematico, ad esempio, quanto ebbe a scrivere, nelle Lettere dal Fronte, il 29 settembre 1915, commentando la fucilazione per diserzione di un soldato italiano; egli, infatti, pur affidando l’anima dello «sciagurato» alla misericordia divina, concludeva la sua riflessione con questa sconcertante frase «Se io mi ribellassi all’idea che un uomo può essere giustamente punito dai suoi stessi fratelli, io sarei per ciò indegno di vestire la uniforme del soldato». D’altronde, l’«eroe cristiano» fu anche l’autore, per la Ricordi, di testo e musica di un Inno di guerra per canto e pianoforte dal significativo titolo “Il mitragliatore”. Aldilà comunque della discutibile coerenza morale di Borsi, non si può non riscontrare una sostanziale unilateralità nella ricostruzione degli avvenimenti che si svolsero a Livorno nel 1915, nei mesi antecedenti l’entrata in guerra dell’Italia; così come ovunque, nelle piazze si affrontarono i contrapposti movimenti collettivi, genericamente definiti come «interventisti» e «neutralisti». I due schieramenti, infatti, vedevano rispettivamente al loro interno gruppi sociali e motivazioni ideali assai diverse, travalicando anche i riferimenti politici della Destra e della Sinistra parlamentare.

000300_28328667_1443088318Livorno non rappresentò certo un’eccezione e, all’assortito interventismo locale sostenuto delle principali testate cittadine («Il Telegrafo» e «La Gazzetta Livornese») legate al potere imprenditoriale, fece riscontro una consistente opposizione alla guerra. Se è vero infatti che persisteva tra i ceti popolari una robusta tradizione risorgimentale e garibaldina, facilmente declinabile verso pulsioni di ostilità anti-austriaca e anti-tedesca, non si può sottovalutare l’altrettanto radicata avversione antimilitarista all’interno della classe lavoratrice. Anche durante il 1914, nel corso delle agitazioni nazionali per la liberazione dell’ammutinato romagnolo Augusto Masetti e contro le Compagnie di disciplina, culminate in giugno con la Settimana Rossa, si erano viste le diverse “anime” del sovversivismo livornese – quella anarchica, la socialista massimalista e quella repubblicana più intransigente – unite contro il militarismo e la guerra coloniale in Libia. Infatti, dopo l’eccidio di Ancona, lo sciopero indetto dalla Camera del lavoro – a maggioranza repubblicana – ebbe l’adesione incondizionata di tutti i sodalizi proletari e per alcuni giorni la città visse in un clima pre-insurrezionale. Ad una settimana dall’inizio delle ostilità, il 6 agosto, fu quindi tenuto – non senza ambiguità – l’ultimo comizio unitario contro la guerra presso l’Arena Alfieri dove, davanti a circa 2000 persone, parlarono l’onorevole Giuseppe Emanuele Modigliani per i socialisti, l’anarchico Armando Campolmi, l’esponente repubblicano Eliseo Magrassi e il macchinista Enrico Ercole, licenziato dalle ferrovie per aver scioperato durante la Settimana Rossa [Renzo Cecchini, 1993]. Al termine dell’assemblea, pur senza autorizzazione si formò un corteo che sostenne alcuni scontri con le forze dell’ordine intenzionate ad impedirlo.

Nel settembre, l’adesione di buona parte del Partito repubblicano alle ragioni della guerra contro gli Imperi Centrali e in difesa della Francia repubblicana, determinò anche a Livorno una seria rottura nel fronte neutralista, mentre invece furono assai pochi i socialisti che si schierarono con Mussolini. Di conseguenza nell’autunno, col precipitare del conflitto, la mobilitazione antinterventista fu promossa principalmente dal Partito socialista e dai numerosi gruppi anarchici, così come si potè constatare al comizio contro la guerra, svoltosi il 25 ottobre, presso il Circolo socialista di S. Jacopo, con sede in piazza B. Brin 2, a cui prese parte come oratore anche il noto anarchico Augusto Consani. L’iniziativa venne replicata il successivo 4 novembre, ancora su iniziativa anarchico-socialista, e il 10 gennaio 1915. La volontà di lotta era forte, come testimonia, un volantino dei Giovani socialisti rivolto ai lavoratori: «Riunitevi a Comizi! Resistete alla infatuazione guerrafondaia! Opponete le vostre dimostrazioni a quelle dei partiti che vogliono la guerra» [Nicola Badaloni, 1977].

La tensione salì nuovamente nell’aprile del 1915: all’inizio del mese si tenne una manifestazione contro la guerra ad Ardenza dove esisteva una forte comunità sovversiva in cui convivevano gli anarchici del Circolo libertario di studi sociali, il circolo socialista e la combattiva sezione delle donne socialiste tra le quali l’operaia Bianca Balardi e Alda Cheli, poi arrestata e condannata per propaganda contro la guerra [Franca Pieroni Bortolotti, 1977]. L’11 aprile la situazione dell’ordine pubblico degenerava. Dopo una conferenza dell’interventismo di sinistra, indetta dal neonato Fascio d’azione rivoluzionaria, presso la sede del Partito repubblicano di via Pellegrini (la stessa che nel 1921 verrà devastata dai fascisti), i partecipanti si diressero verso il centro per inscenare una manifestazione, provocando incidenti con le forze dell’ordine e contrapposti gruppi di anarchici e socialisti che presidiavano la zona. In tale contesto venne arrestato il tipografo diciottenne Gino Mannucci “colpevole” di aver distribuito manifestini riproducenti le vignette antibelliciste di Scalarini pubblicate sull’«Avanti!». Dopo tali avvenimenti, in una relazione prefettizia al governo si rilevava che in provincia di Livorno i cittadini «nella generalità si mostrano contrari» alla guerra [Ercole Ongaro, 2015].

In occasione del 1° maggio, presso la pineta d’Ardenza, si tenne un nuovo comizio contro la guerra promosso da socialisti e anarchici; non si registrarono incidenti, così come per la conferenza svoltasi a S. Jacopo il 9 maggio seguente. Dopo tale data, nel «radioso maggio», le iniziative neutraliste assunsero il carattere di dure contro-manifestazioni e in esse la partecipazione maschile apparve ristretta agli aderenti anarchici e socialisti più determinati, mentre più significativa era la presenza femminile [Tobias Abse, 1990]. La tensione esplodeva, con violenza, nella serata del 14 maggio – a dieci giorni dall’entrata in guerra – quando si formò un corteo antinterventista che, intonando l’Inno dei lavoratori, si scontrò in via Vittorio Emanuele [l’attuale via Grande] con le forze dell’ordine nel tentativo di attaccare i manifestanti «guerraioli» già dispersi dalla forza pubblica dietro il Duomo. Si registrarono alcuni spari d’arma da fuoco e varie sassaiole, anche contro «La Gazzetta Livornese» e «Il Telegrafo»; seguirono almeno 34 arresti, soprattutto di anarchici e socialisti, tra i quali il libertario diciassettenne Maceo Del Guerra. Il giorno seguente, una nuova manifestazione antinterventista, con concentramento in piazza Mazzini, venne stroncata sul nascere da agenti di polizia, carabinieri e una compagnia di soldati; tra i circa 100 dimostranti che si erano radunati vi furono 8 arrestati, tra i quali il socialista Giuseppe Piccinetti del quartiere S. Jacopo che poi, sotto le armi, sarebbe stato denunciato al Tribunale militare di Venezia per disfattismo. La cronaca riferì di numerosi «pugilati» in città tra opposte fazioni e di uno studente nazionalista finito all’ospedale. Ad Ardenza, invece, dopo un comizio tenuto dall’anarchico Salvatore Virgilio Mazzoni, circa 200 persone si mossero in corteo su via del Litorale gridando «Abbasso la guerra! Viva il socialismo! Viva la rivoluzione!» sino a scontrarsi con le forze dell’ordine che effettuarono 4 arresti. Anche a Montenero, in piazza del Santuario, un comizio neutralista si concluse con tafferugli causati dall’intervento dei carabinieri [Fulvio Cammarano, 2015].

Apparve quindi chiaro che ormai le uniche manifestazioni pubbliche consentite dal governo erano quelle degli interventisti. Il 18 maggio, protetta dalle forze dell’ordine, si tenne una affollata manifestazione a favore della guerra con la partecipazione di tutte le autorità istituzionali; un gruppo di sovversivi riuscì comunque a “sanzionare” il filointerventista «Corriere di Livorno» con una sassaiola. A seguito del divieto di manifestare decretato dal prefetto, il 20 maggio socialisti e anarchici tennero ancora dei comizi presso le proprie sedi, prima che la repressione negasse loro ogni agibilità. Come molti altri attivisti, il dirigente sindacale dei ferrovieri Enzo Fantozzi venne arrestato il 22 maggio in quanto noto «come attivo propagandista del sabotaggio delle ferrovie»: con lo stato di guerra anche il semplice dissenso diventava reato di tradimento, ma la realtà del conflitto si sarebbe rivelata la più efficace propaganda antimilitarista.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2016.




Renicci d’Anghiari.

A Renicci d’Anghiari, località della Valtiberina toscana, si trovava uno dei peggiori campi di concentramento d’Italia per numero di internati e per i comportamenti tenuti dal personale di sorveglianza. Destinato ad accogliere fino a novemila prigionieri di guerra, è adibito agli internati civili pur rimanendo sotto la competenza dell’amministrazione militare. All’arrivo degli antifascisti italiani (anarchici in gran parte) e degli slavi già confinati a Ventotene – dopo il 25 luglio 1943 – vi si trovano rinchiusi in 4.500, tutti prigionieri ‘ribelli’ deportati dalla Jugoslavia (sloveni, montenegrini, croati) catturati nelle operazioni di rastrellamento, talvolta accompagnati dalle famiglie. Ben 500 i militari addetti alla sorveglianza. Il regime di vita, secondo le testimonianze degli internati ma anche del cappellano incaricato dell’assistenza religiosa don Giuliano Giglioni, è bestiale al punto che lo stesso sacerdote riferisce nel suo diario, a proposito dei numerosi decessi per freddo, scarsa igiene, fame, dissenteria e altre malattie: “I primi furono seppelliti nel cimitero parrocchiale [alla vicina antica pieve di Micciano], ma dietro il mio interessamento presso il comune di Anghiari fu riadattato il vecchio camposanto”. Alcuni muoiono nonostante il tardivo ricovero negli ospedali di Castiglion Fiorentino, Anghiari, Subbiano e Sansepolcro. Alla fine il conto dei morti ammonta a 157. Il campo, dove non mancano neppure gli invalidi, gli adolescenti ed i bambini – “uomini di età dai 12 ai 70 anni” -, è diviso in tre settori ciascuno composto di 12 baracche e separati da inavvicinabili reti metalliche. Le persone sono stipate in 15 per ogni tenda e 250 per ogni baracca, ristrette in pagliericci infestati dai pidocchi. Le latrine sono all’aperto. Mancano vestiti e coperte. Tutt’intorno vi sono tre ordini di filo spinato di altezza varia intervallati e con altane di 4 metri per la sorveglianza armata e fari per l’illuminazione notturna. Le pattuglie di guardia nel loro giro disturbano continuamente il sonno dei prigionieri. Al mattino presto ed in qualsiasi condizione metereologica anche i malati sono costretti a presenziare per ore all’adunata per l’appello. Assomiglia parecchio a un ‘lager’ – il “campo n.97” secondo la numerazione assegnata dalle autorità militari – funzionante fin dal settembre / ottobre 1942 costituito da un primo nucleo di baracche a cui poi si era aggiunta una vera e propria tendopoli. In estate si lamentava la mancanza d’acqua potabile e d’inverno il freddo notturno ed il fango causato dalle piogge. Il vitto è scarso, costituito da una magra razione giornaliera di “qualche centinaio di grammi di pane e di poca minestra, alternativamente di carota o di patate non sbucciate e di acqua pompata direttamente dal sottostante fiume Tevere”; e spesso il tutto è integrato persino dalle ghiande, così come denuncia – ma invano – la Croce Rossa in un suo rapporto al ministero dell’interno.

La disciplina nel campo – una volta caduto il fascismo – è mantenuta dai ‘badogliani’, talvolta con il terrore e ricorrendo persino a finte fucilazioni. Dunque nel segno della continuità. Il 23 agosto nella piccola stazione di Anghiari sulla (oggi soppressa) linea secondaria per Sansepolcro, i nuovi arrivati possono già percepire la terribile situazione verso la quale sono stati sospinti: centinaia i soldati ed i carabinieri in assetto di guerra, fatti affluire sul posto per l’occasione, si incaricano senza troppi complimenti di perfezionare l’operazione di internamento degli antifascisti giunti da Ventotene. Iniziano i  maltrattamenti e le perquisizioni personali. Nel campo un reticolato separa i nuovi arrivati dagli slavi.

La presenza nel campo degli anarchici (e di alcuni comunisti istriani e giuliani) – che si aggiunge a quella di un altro gruppo di antifascisti italiani e sloveni appena giunti da Ustica – il loro risoluto atteggiamento di opposizione verso i soprusi perpetrati dal personale di sorveglianza, creano in qualche caso un relativo miglioramento delle condizioni di vita, specie nella disciplina. Per gli anarchici, in massima parte reduci dalla Spagna, risulta impossibile piegarsi alle ferree regole imposte da carabinieri e secondini. Contro la turbolenza dei nuovi arrivati non si esita a ricorrere ai mezzi repressivi più decisi quali le bastonature, la legatura al palo, la camicia di forza o il ricovero al Neuropsichiatrico di Arezzo. Da parte dei prigionieri tutti rimane comunque insopportabile l’idea che, caduto il fascismo, gli antifascisti debbano ancora rimanere reclusi.

L’8 settembre i prigionieri chiedono in massa le armi per opporsi all’occupazione tedesca e per tutto il giorno seguente si organizzano comizi nei vari settori. Le altre richieste formulate riguardano: la restituzione degli effetti personali sequestrati, la consegna di una radio, l’assunzione in proprio del controllo del campo, il rifiuto di sottostare agli obblighi dell’appello.

Sorge quindi subito l’esigenza di ristabilire l’ordine turbato fra i prigionieri. Il cappellano militare – l’istriano Antonio Zett – è fra i primi a sparare colpi di pistola in aria come avvertimento per i più turbolenti. Il colonnello comandante Pistone, il comandante in seconda ten. col. Fiorenzuola, ed il vice ten. Panzacchi “fascista di Bologna”, irritati anche per i canti sovversivi intonati in coro dai reclusi, non esitano a dare ordine di sparare sugli assembramenti e di piazzare le mitragliatrici. Segue una scarica di fucileria sugli insorti che provoca diversi feriti.

Per piegare la volontà dei rivoltosi il comando del campo minaccia, ed in parte attua, il taglio della già magra razione giornaliera di rancio. Dalla prefettura di Arezzo si conviene intanto sull’opportunità, per non alimentare ulteriormente il clima di tensione, di non ostacolare l’eventuale fuga ove questa fosse tentata da parte degli internati italiani o anche di ‘consentire’ un esodo programmato e controllato.

LA FUGA E LA RESISTENZA
Inizia la fase di dismissione progressiva della struttura concentrazionaria. L’11 settembre un gruppo di una decina di italiani viene prelevato e scortato dai carabinieri fino alla questura di Arezzo. Ma qui, anche a causa della grande confusione causata dall’arrivo quasi contestuale delle truppe germaniche, non ottenendo il foglio di via ed i documenti “necessari” promessi, il gruppo si disperde ed ognuno prende la via non facile di casa. A Firenze, dove nel giorno successivo alcuni sono giunti nel frattempo in treno e fortunosamente, gli ex internati apprendono con sgomento della avvenuta liberazione di Mussolini dal Gran Sasso e solo per poco evitano di essere nuovamente arrestati, questa volta dai tedeschi che stanno  occupando la stazione.

Intanto, fra le migliaia di slavi e le poche decine di internati italiani rimasti ancora a Renicci, matura l’idea di organizzare una fuga in massa. Il progetto prende immediatamente corpo nel pomeriggio del 14 settembre quando all’improvviso compaiono tre autoblinde tedesche alle porte del campo. Alla fuga degli ufficiali segue quella dei soldati e quindi, una volta creati i varchi nel recinto, di “tutta la fiumana dei cinquemila internati che si riversa in tutte le direzioni”, con grande impressione della gente che abitava nelle vicinanze. Lunghe file di prigionieri affamati e malmessi si incamminano così verso l’Appennino seguendo, almeno nelle intenzioni, la direzione Adriatico-Jugoslavia. “Sul fare della sera – annota don Giglioni nel suo diario – il campo è rimasto deserto”.

Settecento degli sloveni fuggitivi sono invece catturati nei pressi di Bologna ed avviati nei lager in Germania; altri si aggregano alle formazioni partigiane nelle Marche e in Romagna, pochissimi riusciranno a raggiungere la Slovenia. La struttura recintata di Renicci è frequentata nei giorni seguenti da saccheggiatori alla ricerca di armi, coperte e indumenti militari. L’ex campo avrà ancora un uso limitato sotto la R.S.I., in particolare per internare i genitori dei renitenti.

Al momento della grande fuga il Comitato Provinciale di Concentrazione Antifascista, con l’aiuto di don Nilo Conti e di Beppone Livi di Anghiari, aveva disposto l’accoglienza e la sistemazione degli ex internati rimasti in zona ed il loro reclutamento nei nuclei partigiani già in via di formazione sui rilievi montuosi intorno al capoluogo e nelle vallate aretine.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2016.




Un Partigiano di nome Annibale

Nato a Pistoia (Santomato) il 19 gennaio 1922, figlio di Leonardo e Capponi Maria Ida, Annibale Trinci ottiene la licenza elementare, contadino poi elettricista e operaio alla fabbrica pistoiese San Giorgio dall’ottobre del 1939, iscritto alla CGIL dove si compie la sua educazione di classe, in quella che negli anni ‘40 era una fucina di militanti operai comunisti. Nel 1941 Trinci è chiamato alle armi all’Elba a Portoferraio nel genio foto elettricisti; partecipa dal 18 novembre 1942 al 21 gennaio 1943 alle operazioni di guerra svoltesi nel Mediterraneo con la 105a Compagnia mista genio mobilitato e poi dal 7 febbraio 1943 al luglio 1943 e dal 9 agosto 1943 all’8 settembre 1944 nelle operazioni nel Mediterraneo per la difesa della patria a copertura costiera con la 105a Compagnia Mista Genio Mobilitato.

Dal 22 marzo 1944 per ordine della dirigenza della San Giorgio è trasferito nella sede di Cambiano, vicino Torino, da lì inizia la sua esperienza da partigiano con il nome di battaglia “Marco Polo”. È a Cambiano che Annibale incontra Giordano Bruschi e Olga Arcargioli. Giordano, di origine pistoiese, si era diplomato in ragioneria a Genova ed era stato assunto a 19 anni alla San Giorgio di Cambiano, introdotto dallo zio, il primo settembre 1944 come impiegato contabile per i settori della mensa e del magazzino; nonostante la giovane età diverrà ben presto, con il nome di battaglia “Giotto” commissario politico della 30a Brigata delle SAP “Capriolo”. Olga, in fabbrica dal primo luglio 1943 come impiegata stenodattilografa, anche lei diciannovenne, si ritrova nel tumulto della guerra e diventa una fida staffetta.
A Cambiano s’incontrano due classi operaie: una proveniente da Pistoia, l’altra da Sestri Ponente. I pistoiesi erano diretti da Trinci e Niccolai, impiegato originario di San Marcello. Il gruppo genovese era un nucleo storico nato in seno all’esperienza di “Soccorso Rosso” nel 1936 che aveva dato vita alla solidarietà ai compagni impegnati nella guerra civile in Spagna. La fabbrica genovese aveva una peculiarità: non aveva dirigenti fascisti, ma due ebrei, che non avevano mai fatto discriminazioni nell’assunzione di antifascisti. A Cambiano, fabbrica di armi di precisione, i BGS, arrivano quindi operai già politicizzati.

annibale e amiciDal 1o settembre 1944 Annibale Trinci s’iscrive al Fronte della Gioventù per l’indipendenza nazionale e la libertà nel comitato regionale Piemontese, nella sezione di Torino, VI zona, la zona delle Langhe. In seguito è garibaldino della XIV divisione del Piemonte della brigata d’assalto Garibaldi “Luigi Capriolo”, guidata dal Comandante Kin. In pieno accordo con i compagni del P.C.I. fu deciso di inviare Trinci presso una formazione “Giustizia e Libertà”, a Pino d’Asti, vicino Cambiano, precisamente nella IX G.L. al Comando del Maggiore Alberti, con il preciso compito di formare entro queste bande delle cellule del Partito Comunista, e intanto stabilire solidi collegamenti fra il Partito e i partigiani.
Nel novembre del 1944 si assiste a un rastrellamento nazifascista d’ingenti dimensioni, le divisioni se pur a conoscenza dell’imminente attacco subiranno perdite e feriti. Il 20 novembre 1944 Annibale Trinci combatte ed è ferito nella battaglia di Aramengo, vicino ad Asti sulle colline del Monferrato. Riconosciuto combattente partigiano dalla commissione regione Piemonte, Annibale Trinci ha partecipato dal 3 settembre 1944 al 8 maggio 1945 in territorio metropolitano astigiano con la qualifica di Sergente Maggiore Capo con la formazione partigiana IX divisione “Giustizia e Libertà” comandata dal capitano Oreste Gastone Alberti, dal 6 settembre 1944 (già combattente nel Veneto nelle formazioni “Giustizia e Libertà” e della 1a divisione alpina) Divisione Pedro Ferreira, nella III “Brigata Montano”, nello specifico nella colonna “Biz”(Luigi), e sulla brigata “Domenico Tamietti”. Tra il febbraio e il marzo 1945, fa parte anche di gruppo gappista che si occupava di far saltare i binari della ferrovia, nella zona di Villa Stellone, una stazione a circa tre chilometri da Trofarello. Il 18 aprile 1945, durante lo sciopero, Trinci occupa militarmente Trofarello e Cambiano e arrestando i fascisti armati. Il 21 maggio 1945, riconosciutagli l’attestazione di buona condotta dal prefetto, è ammesso come volontario nella Polizia del Popolo. Trinci era stato anche nominato capo della polizia interna alla fabbrica per garantire l’integrità della fabbrica, a causa di furti nello stabilimento, e successivamente di preparare il materiale sui vagoni merci diretti a Genova e Pistoia.

Nell’ottobre del 1945 riprende servizio alla fabbrica San Giorgio di Pistoia. Nel 1950 Annibale si sposa con Roberta Giannini, dalla quale avrà le figlie Manuela e Tamara. Il 29 novembre 1951 a causa di un infortunio sul lavoro durante un cantiere in Abruzzo perde una gamba; inizia questa volta una lotta con l’ingiustizia burocratica per il riconoscimento dell’infortunio, tanto che si occuperà del caso anche il sindacalista comunista Giuseppe Di Vittorio. Nel 1955 è licenziato dalla fabbrica essendo considerato “non adatto ai lavori di stabilimento”. Per la sua passione e attività nel dopoguerra ricopre varie cariche, è dirigente dell’ANPI di Pistoia, dirigente dell’Associazione invalidi di Pistoia, dirigente PCI della sezione di Porta Lucchese. Muore il 1 agosto 1981.

Alice Vannucchi è ricercatrice presso l’Istituto storico della Resistenza e della società Contemporanea di Pistoia, è membro della redazione della rivista “Quaderni di Farestoria”, è docente nella scuola primaria dal 2007. Fra le sue pubblicazioni: Il rientro in città: il problema degli alloggi, in Pistoia fra guerra e pace a cura di M.Francini, I.S. R.Pt. Editore, 2005. Teorie di democrazia in Italia e Francia nel dopoguerra in “Quaderni di Farestoria”,anno VIII-n2 maggio –agosto 2006,pag.61-69. Le scuole di partito nel PCI di Togliatti.Il caso toscano (1945-1953) in “Quaderni di Farestoria”,anno XII-n 2- maggio –agosto 2010,pagg.33-45. Ha curato la mostra e il numero monografico Cupe Vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti, ISRPt. Attualmente si occupa di storia sociale e storia dell’editoria.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2015.