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La Resistenza continua…

Angiolo Gracci nacque a Livorno il primo agosto 1920, da una famiglia con radici contadine. Fu condotto presto dalla Toscana alla Sicilia a causa del mestiere del padre, ferroviere che diresse in successione le stazioni di Sciara Aliminusa e Castellammare del Golfo tra il 1926 e il 1929.

La permanenza nei centri palermitani, dove il piccolo venne inquadrato nelle strutture educative fasciste, lo colpì profondamente e lo rese poi sensibile alla questione del divario socioeconomico Nord-Sud e al disagio materiale di larga parte della popolazione meridionale. Nei suoi racconti agli studenti, durante gli ultimi decenni di vita, affiorava spesso il ricordo di esser stato l’unico ad indossare le scarpe in quella stalla riadattata che era l’aula della scuola elementare frequentata in Sicilia.

 Al termine del  liceo classico Galilei di Pisa, il giovane Gracci si spostò a Roma per frequentare l’Accademia e Scuola di applicazione della Regia Guardia di Finanza e ottenere così l’arruolamento nel Corpo il 23 ottobre 1939. Nominato sottotenente il primo settembre 1941, venne inviato in Albania nel gennaio seguente tra le truppe d’occupazione italiane, con le quali partecipò alle operazioni di guerra.

Rientrato in Italia, il 9 settembre 1943 fu assegnato al Comando della Legione di Firenze della Guardia di Finanza. Assistendo così all’invasione nazista dell’Italia, Angiolo fondò con altri studenti della sinistra del Gruppo Universitario Fascista fiorentino il Movimento giovani italiani repubblicani. Conclusa questa breve esperienza, la maggioranza degli aderenti al gruppo si schierò con la Repubblica Sociale Italiana. Gracci, preso contatto col futuro Commissario Politico della Divisione Arno Danilo Dolfi – del suo stesso quartiere – scelse invece la via della montagna.

Gracci – in alto a destra – con altri partigiani della Brigata Sinigaglia a Monte Scalari, estate 1944

Gracci – in alto a destra – con altri partigiani della Brigata Sinigaglia a Monte Scalari, estate 1944

All’inizio del giugno 1944 Angiolo, che diventava così il partigiano “Gracco”, raggiunse la Brigata Sinigaglia presso Poggio alla Croce, con l’incarico di Capo di Stato maggiore conferitogli dal Corpo volontario della libertà. Un mese più tardi, su designazione del Comando di divisone e dietro conferma dei partigiani, assunse il comando della formazione stessa, riorganizzandola dopo le gravissime perdite subite nella battaglia di Pian d’Albero del 20 giugno 1944.

Compromessa l’importanza strategica di Monte Scalari per i nazifascisti, contribuì a sottrarre all’accerchiamento e alla distruzione la Brigata raggiungendo Poggio Firenze e Fonte Santa. Dopo ulteriori combattimenti, passando alla testa delle avanguardie dell’VIIIª Armata britannica, la Sinigaglia riuscì ad entrare a Firenze il 4 agosto 1944. Soltanto grazie ad una tenace opposizione all’iniziale ordine alleato di disarmare, le formazioni partigiane garibaldine ottennero di partecipare alla liberazione cittadina. “Gracco” condusse allora il rastrellamento dei quartieri di Santo Spirito e San Frediano, che furono liberati dai franchi tiratori nazifascisti. Guidando poi una pattuglia di esplorazione sui piazzali ferroviari di San Iacopino, rimase ferito in combattimento il 13 agosto ma riprese poi il comando della Brigata fino alla smobilitazione.

Nell’aprile 1945 venne pubblicato il suo Brigata Sinigaglia, primo libro edito in Italia sulla Resistenza partigiana, a cura del Ministero dell’Italia occupata. Gracci avrebbe poi ricevuto la medaglia d’argento al valor militare nel 1954.

 Intanto, conclusa l’esperienza partigiana, Angiolo riprese servizio attivo nella Guardia di Finanza il 7 settembre 1944, al Comando della Legione di Firenze. Nell’agosto 1948 gli venne conferito per anzianità il grado di Capitano, ma la sua permanenza in Finanza si fece sempre più travagliata. Non tanto per i gravi e recidivi problemi di salute che determinarono una lunga aspettativa, quanto piuttosto per le difficoltà relazionali all’interno del Corpo.

Gracci infatti, che sin dal 1944 aveva aderito al PCI ed era stato tra i membri costituenti del Comitato provinciale dell’ANPI fiorentino, non aveva mancato di manifestare pubblicamente il suo orientamento in varie circostanze. Si procurò così diverse sanzioni e richiami per inosservanza al «criterio assoluto di apoliticità» richiesto ai membri delle forze dell’Ordine, per «scarso senso di disciplina», «tendenza alla polemica», «particolare animosità», «presunzione». È quanto riferiscono le note caratteristiche sul suo conto compilate annualmente dai superiori, che pure gli riconoscevano notevoli capacità e competenze.

Angiolo, sposatosi nel frattempo con Margherita Aiolli, fu seguito dalla famiglia negli spostamenti che gli vennero pertanto disposti tra il 1950 e il 1956, alla volta di Palermo, Bologna ed Udine. Viste le reiterate destinazioni ad incarichi amministrativi e a seguito di un ulteriore ordine di trasferimento a Bari nel dicembre 1956, Gracci scelse di far domanda di pensionamento e congedarsi dal Corpo. Idea coltivata da oltre un anno, per il sempre più problematico permanere nell’Arma e per l’intuibile preclusione riguardo a possibili avanzamenti di carriera.

Cessato il suo servizio nella Guardia di Finanza alla fine del 1957, l’anno successivo ottenne un impiego a Roma come consulente legale alla Lega nazionale delle cooperative, con i cui responsabili aveva già avviato da tempo i contatti. Poté mettere così a frutto la laurea in giurisprudenza conseguita nel 1949, impiegata poi per riorganizzare il servizio di assistenza legale alla Camera del Lavoro di Firenze e per svolgere un’intensa attività professionale di difesa dei lavoratori e dei militanti della sinistra rivoluzionaria nel corso degli anni Sessanta.

Gracci – sulla destra – accanto a Vincenzo Misefari di Reggio Calabria e Salvatore Puglisi di Spezzano Albanese durante una manifestazione a Livorno in occasione della fondazione del Pcd’I (m-l), 16 ottobre 1966.

Gracci – sulla destra – accanto a Vincenzo Misefari di Reggio Calabria e Salvatore Puglisi di Spezzano Albanese durante una manifestazione a Livorno in occasione della fondazione del Pcd’I (m-l), 16 ottobre 1966.

Si tratta di una fase di svolta nella posizione politica di “Gracco”, come continuò ad esser chiamato per tutta la vita. Nel 1966 si dimise infatti dal PCI e fu tra i fondatori del Partito comunista d’Italia (marxista-leninista), che si poneva quale alternativa al primo, reo insieme al PCUS di aver «tradito» la «vera» politica rivoluzionaria di classe. Quella politica che il nuovo organismo, grazie anche alla dedizione assoluta richiesta agli adepti, si proponeva di perseguire per realizzare la dittatura del proletariato, la sola forma di governo in grado di instaurare il socialismo.

Nell’agosto 1968 seguì l’espulsione di Gracci dall’ANPI, con l’accusa di imporre metodi di lotta e di azione politica antidemocratici e non unitari, esclusivamente in linea con il  proprio partito. Decisione che secondo Angiolo era invece motivata dalla propria battaglia «per lo sviluppo di una lotta di massa per cacciare dal paese le basi e i comandi degli imperialisti Usa».

 Lo stesso antimperialismo si rivelò poi una componente essenziale del movimento antimperialista-antifascista La Resistenza continua (RC), che nacque nel 1974 a Milano come associazione partigiana esterna ed alternativa all’ANPI e lo vide nuovamente tra i promotori, accanto ad altri ex partigiani, giovani studenti ed operai. La responsabilità dell’organizzazione fu affidata al Comitato direttivo della rivista, che “Gracco” guidò fino agli ultimi anni di vita, a riprova del suo intenso e prolungato impegno redazionale per varie testate di area marxista-leninista. Si ritrovò così a ricoprire una posizione di primo piano nel movimento, accanto ai veterani, «compagni» marxisti-leninisti ed amici Guido Campanelli e Alberto Sartori.

Resistenza, antimperialismo e meridionalismo rappresentavano per RC componenti inscindibili di un unico programma, che faceva della prima un simbolo guida. La stessa Resistenza che, animata da un avanzato progetto politico, economico e sociale, era stata «bloccata» e «tradita» dalle forze imperialiste anglo-americane, dal «capitalismo monopolistico italiano», dal Vaticano e dall’«ala revisionista-socialriformista» del movimento operaio. Non si poteva pensare all’antifascismo senza l’antimperialismo, essendo il fascismo subordinato all’imperialismo. Antimperialismo – secondo il manifesto-programma del movimento – significava anche lotta contro la soggezione di tipo coloniale e razzista di cui era vittima il Meridione da oltre un secolo. Una subordinazione aggravata dall’imperialismo statunitense ed europeo, instaurato con l’annientamento del movimento spontaneo di Resistenza del popolo meridionale nell’immediato dopoguerra.

Gracci con l’amico Matteo Visconti, altri militanti marxisti-leninisti e alcuni operai durante l’occupazione della fabbrica Berga Sud di Salerno, luglio 1974.

Gracci con l’amico Matteo Visconti, altri militanti marxisti-leninisti e alcuni operai durante l’occupazione della fabbrica Berga Sud di Salerno, luglio 1974.

In virtù di questa rivoluzione «negata», delle ingiustizie e dell’oppressione subite dalle «masse supersfruttate del Meridione», Gracci svolse un’intensa attività di mobilitazione politica e sociale nel Sud, dove erano presenti diverse cellule del Pcd’I (m-l) Linea rossa, il primo degli innumerevoli gruppi in cui si frantumò il Pcd’I (m-l) dal 1968 in avanti e del quale Angiolo rappresentava uno dei principali esponenti. Come testimoniano le stesse immagini della sezione fotografica del fondo archivistico a lui intitolato – recentemente riordinata ed inventariata dallo scrivente – non c’era praticamente anno in cui Angiolo non si spostasse dalla sua casa fiorentina verso località meridionali, di cui abitualmente ritraeva realtà marginali e disagiate. Non mancavano trasferte in Basilicata, Molise, Sardegna, Puglia e Sicilia, ma centri calabresi e campani figuravano tra le sue principali mete. In questi luoghi Gracci sviluppò non solo legami politici, ma anche rapporti amicali e affettivi che avrebbe mantenuto per tutto il corso della sua vita. Emblematiche le relazioni con i militanti marxisti-leninisti Rosario Migale di Cutro e Matteo Visconti di Salerno.

Gracci con Rosario Migale e altri «compagni» a Roma per il I Congresso nazionale di Democrazia proletaria, aprile 1978

Gracci con Rosario Migale e altri «compagni» a Roma per il I Congresso nazionale di Democrazia proletaria, aprile 1978

Oltre che come attivista di La Resistenza continua, Angiolo continuò il suo impegno meridionalista anche in veste di promotore del Movimento leghe lavoratori italiani e quale membro di Democrazia proletaria, in cui la Linea rossa confluì nel 1978. “Gracco” proseguì poi incessantemente la difesa e l’assistenza legale dei militanti, che culminarono con il maxiprocesso alle BR del 1989. Nel 1991 aderì al nuovo Movimento della Rifondazione comunista, che alla fine dello steso anno si costituì in Partito, accogliendo tra gli altri la maggioranza dei dirigenti di Democrazia proletaria.

In questi anni seguitò costante la sua attività antimperialista. Al diretto coinvolgimento in diverse iniziative e manifestazioni pubbliche contro le basi USA e NATO in Italia – come mostrano le stesse foto del suo archivio – e alla collaborazione con varie associazioni, quali la Lega per il disarmo unilaterale e la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli, si aggiunse il sostegno alla causa di Silvia Baraldini. Nella costituzione del Comitato per il rimpatrio di Silvia Baraldini di Firenze del 1991 e del Coordinamento nazionale dei comitati per il rimpatrio di Silvia Baraldini del 1994 Gracci si rivelò ancora una volta tra i principali animatori.

Gli stessi anni Novanta, nel corso dei quali “Gracco” si prodigò anche per la diffusione dei valori della Resistenza e della Costituzione repubblicana tra i giovani, videro poi il suo ritorno nel Comitato provinciale dell’ANPI fiorentino. Il rapporto restò comunque travagliato: è del 25 giugno 2000 un provvedimento disciplinare a suo carico, adottato dai dirigenti provinciali dell’ANPI per l’intervento contro gli USA e la NATO durante la celebrazione del 56° anniversario della battaglia di Pian d’Albero presso Figline Valdarno. Tuttavia Angiolo proseguì fino alla fine la sua militanza nell’organizzazione, rimanendo sempre coerente con le proprie posizioni. Dopo una grave malattia, è venuto a mancare a Firenze il 9 marzo 2004.




“Fu una mattinata tremendissima”

Gli anni del dopoguerra sono tra i più duri per la popolazione pistoiese. Il numero dei disoccupati, dopo la fine del conflitto, sale vertiginosamente dalle seimila alle dodicimila unità, di cui almeno 2.500/3.000 nella zona montana. Si aggiunge una grave carenza dei generi di prima necessità. Pane e lavoro sono le parole d’ordine di numerose mobilitazioni sociali, che cominciano fin dal 16 ottobre 1944 con la prima manifestazione delle donne con in braccio i loro figli, e si protraggono fino alla fine degli anni ’40.
Ad una situazione economica ristagnante, con numerose aziende appena riavviate costrette a chiudere per mancanza di energia elettrica, di materie prime, di ordinazioni, con i lavori di ricostruzione – in particolare dei ponti e della ferrovia Porrettana – che tardano a partire almeno sino alla fine del 1946 e mal finanziati, quella sociale diviene l’emergenza prioritaria segnalata ogni mese a Roma dai prefetti che si succedono.

cdl anni 40Ancora nel marzo 1946 una serie di manifestazioni di donne reclama alimenti e tenta, a Pistoia ed a Pescia, di assaltare i magazzini del consorzio agrario per impossessarsi di generi alimentari da consegnare poi alle cooperative del popolo per la distribuzione. L’attivismo e il protagonismo di masse ingenti di cittadini e cittadine ereditato dall’esperienza resistenziale si esprime, oltre che nella politica di partito, in un’elevata disponibilità all’azione per migliorare le proprie condizioni di vita e cercare di dare impulso a scelte di trasformazione. Le relazioni economiche tra le parti sociali rischiano spesso di tramutarsi in conflitti diffusi. Gli attori in campo, i prefetti, i sindaci, le organizzazioni dei datoriali (Confindustria, Confagricoltura ecc…), la Camera del lavoro della CGIL unitaria, i grandi partiti come la DC, il PSI e il PCI ed il CLN fino al 1946, si trovano costantemente impegnati un un’opera di mediazione che cerca di contenere la carica esplosiva della disperazione, trovando accordi, mediazioni, persuadendo le folle di disoccupati a forme di azione responsabili e sollecitando i governi. Come scrive il prefetto Mazzolani nel luglio del ’46 i problemi «possono essere risolti solo se gli organi centrali responsabili verranno nell’ordine di idee di attuare una politica economica, finanziaria e sociale, se non rivoluzionaria, almeno coraggiosa ed aderente allo stato di necessità, in cui versa attualmente il popolo italiano, senza aver paura di toccare le posizioni privilegiate di questo o quel gruppo più o meno ristretto».

contadini piazza san francescoLa situazione più critica è in montagna, dove le uniche attività in grado di garantire l’occupazione sono le cartiere della Lima, i traballanti lavori di ricostruzione ma soprattutto la SMI. Ed è proprio in conseguenza di un duro braccio di ferro alla SMI che il 28 giugno 1947 si giunge al primo grande sciopero generale della provincia, che si risolverà in un fallimento parziale e lascerà duri strascichi di divisioni interne alla CGIL tra la componente comunista e quella democristiana.

Progressivamente le trasformazioni dello scenario politico italiano, con la rottura dell’unità antifascista al governo nel maggio 1947, l’incipiente guerra fredda, lo svilupparsi ed acuirsi di uno scontro politico ed ideologico durissimo, hanno ricadute sul contesto locale, dove questi processi si vanno ad unire alla stagnazione ed alla mancanza di risposte efficaci. Se da una parte la conflittualità popolare permane e si esaspera, dall’altra gli apparati dello Stato tra il 1947 ed il 1948 cominciano a chiudere le porte ed a leggere ideologicamente la portata di conflitti fino ad allora rimasti confinati in gran parte all’ambito economico.
La stessa gestione dell’ordine pubblico risente di questo clima da muro contro muro che si va costruendo, slittando nel corso del tempo verso soluzioni sempre più di forza. Il 1947 si chiude con la rottura delle trattative sul contratto dei metallurgici, che provoca l’invasione della sede della Confindustria da parte degli operai della San Giorgio. E pochi giorni dopo il 1948 si apre con una serie di arresti preventivi nel pesciatino che causano un nuovo sciopero generale con numerosi blocchi stradali che sfociano in gravi scontri a Bonelle. Le sinistre tentavano di giocare la carta della mobilitazione, “dare una spallata” in vista delle elezioni del 18 aprile. Il nuovo prefetto, Festa, abbandona il ruolo neutrale del funzionario statale per divenire nei fatti parte della macchina della DC, informando costantemente Scelba dei progressi del suo partito e commentando positivamente i risultati democristiani dopo le elezioni, sostenendo che la sconfitta dei socialcomunisti avrebbe liberato la popolazione da un incubo.

manifestazione schianoIn questo quadro matura uno degli eventi più tragici per la storia di Pistoia nel Novecento. Nell’estate del ’48 la SMI annuncia la sua intenzione inamovibile di procedere al licenziamento di 500 tra operai e operaie. La posizione della CGIL non ammette a sua volta mediazioni al ribasso. Ne segue una vertenza che va avanti per mesi ma che, dopo la scissione della componente cristiana della CGIL ad agosto che si riorganizza nei Sindacati liberi, per Festa diventa l’occasione adatta a scalzare il sindacato delle sinistre e favorire quello vicino al governo appoggiando al tempo stesso la direzione aziendale. Si deve dimostrare ai lavoratori l’incapacità sindacale di socialisti e comunisti. La mattina del 16 ottobre 1948 si svolge l’ennesima manifestazione di famiglie disoccupate o precarie. Dalla montagna la popolazione raggiunge Pistoia, la chiamano “La marcia della fame”. Nel capoluogo le fabbriche scioperano. Le donne guidano il corteo. Per la prima volta la prefettura si rifiuta di ricevere una delegazione dei dimostranti per discuterne l’ordine del giorno e ordina di disperdere i manifestanti. Nei violenti scontri alle cariche seguono i lacrimogeni e alla fine gli spari. Rimangono a terra sette feriti, uno dei quali in modo mortale, il venticinquenne operaio della San Giorgio Ugo Schiano.

La repressione dà un duro colpo alla strategia della Camera del lavoro, che disorientata cede. Festa commenta a Scelba: «si può facilmente desumere che gli organi sindacali si sono dovuti arrendere a discrezione, accettando le condizioni imposte dalla Società, perché si sono resi conto che l’azione sindacale, male impostata e male condotta, li aveva posti in un vicolo cieco dal quale sarebbe stato impossibile uscire senza sottoscrivere l’accordo, qualunque esso fosse. Sta di fatto che, così come è stata conclusa, la vertenza di Campotizzoro, sulla quale si è fatto tanto clamore e non è mancata la più esosa speculazione politica, costituirà un grave colpo per il prestigio della locale Camera Confederale del Lavoro, mentre se ne avvantaggeranno i Sindacati Liberi e lo stesso Partito della Democrazia Cristiana»

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.




Le parallele convergenze livornesi. Pci e Dc nella lunga giunta Diaz (1944-1954)

Tra il 29 luglio 1944 e il 1° dicembre 1954 le giunte comunali di Livorno furono guidate ininterrottamente dal comunista Furio Diaz. Si tratta di una lunga esperienza amministrativa che presenta un elemento di forte peculiarità nella collaborazione e nell’intesa di governo tra comunisti e cattolici ben oltre la rottura dell’alleanza antifascista avvenuta a livello nazionale nel maggio 1947. L’alleanza di governo tra Pci e Dc si prolungò infatti per tutta la prima legislatura fino al 1951, avendo un suo corollario significativo fino al dicembre 1953, data in cui cessò l’atteggiamento di opposizione costruttiva fino ad allora assunto dai democristiani. Passaggi talmente significativi da aver assunto col tempo, nel sistema commemorativo cittadino, le sembianze di mito fondativo nella costruzione etico-identitaria della Livorno postbellica. La valenza simbolica di quegli eventi ha finito così per sminuire in parte, nella percezione pubblica, la complessità di un contesto contraddittorio come quello della Livorno di quegli anni.

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Soldati Inglesi tra le macerie di Livorno (Collezione Sandonnini, Istoreco Livorno)

Con gli Alleati: una città “sotto tutela”
L’analisi del rapporto tra cattolici e sinistre livornesi nel periodo delle giunte unitarie deve in primo luogo tener conto della morfologia dei centri di governo e di potere del territorio. Poiché a limitare e condizionare la capacità di governo della giunta intervennero molti fattori. A partire dall’arrivo degli Alleati (19 luglio 1944), infatti, su Livorno si concentrarono una serie di interessi – primariamente bellici e poi politici – che di fatto dilazionarono, attraverso una lunga e contraddittoria fase di transizione, il passaggio ad un effettivo stato di pace. La presenza militare alleata, che si protrasse fino al dicembre 1947, significò per la città anche una serie di enormi problemi di ordine pubblico che si andarono ad assommare ai disastri materiali e psicologici prodotti dalla guerra.

D’altra parte il governo militare degli Alleati (Allied Military Government, Amg) pretese subito di stabilire il «completo controllo» sull’amministrazione per i superiori interessi di guerra legati alla strategicità assunta dal porto di Livorno sul fronte mediterraneo. Diaz, che non senza difficoltà il maggiore E.N. Holmgreen aveva accettato come sindaco su proposta del Cln e dopo la rinuncia di Giorgio Stoppa, sapeva di essere un primo cittadino “sotto tutela” e che il primo obiettivo alleato era quello di «organizzare una complessa rete di attività non militari al solo scopo di difendere i vantaggi militari acquisiti».

Le istruzioni di Togliatti: alleanze obbligate
In più, nella città simbolo del Partito comunista, le prime impronte di guerra fredda complicarono il quadro dei rapporti tra forze alleate, Cln, apparati di governo, partiti politici e Chiesa cattolica in un succedersi di raffinate tattiche ideologiche. Dietro i compromessi e le convergenze tra comunisti e cattolici, si celavano spesso le doppiezze e le ambiguità di una battaglia politica di cui la giunta livornese era solo una pedina di uno scacchiere ben più complesso. In questo senso è davvero emblematico un documento del 27 ottobre 1944. A meno di tre mesi della formazione della giunta espressione del Cln, il segretario del Pci Palmiro Togliatti inviò delle lapidarie «istruzioni» al sindaco di Livorno: «Non intralciare il lavoro dell’AMG; Mantenere buoni rapporti con la Dc; Non fare mostra di sentimento anticlericale e rassicurare i cattolici sulla libertà di culto».

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Diaz, secondo da sinistra, ad un’iniziativa del Pci livornese (Collezione Sandonnini, Istoreco Livorno)

Il documento offre chiare informazioni non solo sulle strategie del Partito comunista, ma anche su quelle degli Alleati. Come riporta Roger Absalom, infatti, le direttive del segretario generale del Pci al sindaco di Livorno furono intercettate dall’Office of Strategic Services (Oss), il Servizio americano di informazioni politiche e militari, a conferma di una preoccupazione anticomunista che già in quella fase si era scatenata tra le forze alleate. Tanto che nei rapporti dei servizi segreti americani si paventava perfino l’esistenza di una linea diretta Mosca-Livorno: gli alleati erano dunque «particolarmente sensibili al “pericolo rosso” rappresentato dai livornesi tradizionalmente radical-rivoluzionari» in una città che era divenuta punto nevralgico del sistema logistico di una guerra ancora in corso.

In questo quadro la strategia togliattiana, condivisa da Diaz, ebbe non poche difficoltà ad essere perseguita. La necessità politica di mantenere «buoni rapporti con la Dc» si scontrava spesso con la linea non sempre conciliante espressa dalla Federazione comunista livornese. Mantenere una linea di equilibrio tra opposte tendenze e coinvolgere la base del partito nelle battaglie della giunta unitaria si rivelò spesso per Diaz un compito improbo. Complicazioni che emergono con chiarezza, ad esempio, nella lettera che il sindaco inviò alla segreteria della Federazione livornese del Pci il 9 maggio 1947: «Cari compagni, devo richiamare con maggiore energia la vostra attenzione sulle deficienze che si verificano nell’opera del Partito per fiancheggiare e sorreggere l’amministrazione comunale da noi diretta».

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Il vescovo Piccioni e don Roberto Angeli nel 1951 (Archivio Centro Studi Roberto Angeli)

La debole Dc: interviene De Gasperi…
Sul fronte opposto, la partecipazione alla giunta unitaria dei democristiani si inseriva in un quadro complesso caratterizzato da molte contraddizioni. Basti ricordare che la Dc locale era nata formalmente solo tre giorni dopo la liberazione di Livorno (22 luglio 1944) e che la partecipazione dei cattolici alla Resistenza era stata garantita esclusivamente dal movimento cristiano-sociale, fondato da don Roberto Angeli già nel 1942, i cui membri entrarono nel Cln livornese dal 9 settembre 1943. A questo proposito è significativa la ricostruzione fatta da Carlo Lulli, storico direttore del “Telegrafo”, sulla formazione della prima giunta unitaria del 29 luglio 1944: l’allora impiegato dalla segreteria del Cln ha sostenuto che negli intensi colloqui di quelle ore con il Commissario provinciale alleato John F. Laboon per la formazione della giunta «si scoprì che in città non c’erano rappresentanti della Democrazia cristiana» e allora si organizzarono «delle ricerche affannosissime per trovare delle persone cristiano-sociali» che fossero disposte a diventare «democristiane per aderire, anche su scala livornese, a quello che era il quadro nazionale».

Questa situazione generò enormi malumori tra i cristiano-sociali, il cui credo politico era una aperta risposta progressista alla Dc dei conservatori. La “battaglia” tra cristiano-sociali e democristiani livornesi raggiunse un livello tale che solo l’intervento perentorio di De Gasperi poté risolverla e non senza strascichi polemici tra le divergenti anime del cattolicesimo livornese. L’opposizione del Cln all’entrata nel comitato degli esponenti Dc, costrinse infatti il segretario nazionale democristiano a scrivere il 20 settembre 1944 una dura lettera al presidente Ruelle, chiedendo testualmente che si mettesse termine alla «deplorevole scissione» tra i cattolici e che si superasse «l’anomalia» del Cln livornese. La Dc, diceva De Gasperi, doveva essere accettata dal Cln livornese per «adeguarsi al quadro nazionale».

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Il settimanale diocesano di Livorno “Fides”

Un cacciucco alla livornese?
Questo complesso di concause portò ad una situazione di estrema debolezza organizzativa del partito e allo scarso appeal dei suoi esponenti sulla base cattolica. Nel primo riassunto statistico dei tesserati che la segreteria De Gasperi elaborò nel 1945, lo Scudo crociato livornese era di gran lunga all’ultimo posto in Toscana per numero di sezioni (appena 10) e tesserati (1000, di cui solo 63 donne). A questo si assommava la litigiosità dei suoi vertici locali e la scarsa considerazione che essi godevano tra le gerarchie ecclesiastiche livornesi: nella relazione che don Angeli, delegato vescovile di Azione cattolica, inviava ai vertici nazionali scriveva che «l’inferiorità numerica della Dc» rispetto al Pci era «aggravata da una notevole mancanza di dirigenti capaci», da cui seguiva «un indirizzo fiacco e inconcludente, più orientato al quieto vivere che all’affermazione di un’idea».

In questo quadro il giudizio della Chiesa livornese sulla collaborazione istituzionale nella giunta non differiva dalla linea espressa da Pio XII: è noto infatti che la via della collaborazione tra cattolici, comunisti e socialisti dell’immediato dopoguerra era stata una parentesi a cui la Santa Sede aveva guardato «con estremo sospetto e che subì di malavoglia». In un articolo durissimo scritto dal direttore del settimanale diocesano «Fides» dopo la formazione della nuova giunta unitaria e il quasi plebiscito ottenuto dai comunisti alle amministrative del novembre 1946, si diceva che i comunisti si erano assicurati una «nuova brillante vittoria tattica», poiché avevano in mano la giunta senza avere oppositori in consiglio comunale. I democristiani, definiti spregiativamente «collaborazionisti», «abbacinati dall’idea di “servire il popolo” non hanno capito che il miglior mezzo per servirlo era quello di controllare l’Amministrazione socialcomunista, e non di avallarla: di difendere la democrazia e non di partecipare ai suoi funerali: di rispettare la volontà popolare e non di affogarla in un indefinibile… cacciucco alla livornese».

La tenuta istituzionale della giunta di espressione ciellenistica fu dunque messa a seria prova dalla precarietà di una situazione di “lunga liberazione” e dalle contrapposizioni scatenate dalla “guerra ideologica” che contraddistinse gli anni del centrismo degasperiano: fattori di cui è necessario tener conto per valutare in tutta la sua complessità un’esperienza che rappresenta comunque un unicum tra le esperienze amministrative uscite dalla Resistenza.

*Gianluca della Maggiore è dottorando in Storia contemporanea presso l’Università di Roma Tor Vergata. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa anche di cinema, Resistenza e movimenti politici. Ha pubblicato il volume Dio ci ha creati liberi. Don Roberto Angeli (2008).