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Il paese più rosso d’Italia.

Il paese più rosso d’Italia (2021), edito dalla Betti Editrice, è un volume scritto dal buonconventino Gino Civitelli.  Civitelli è autore di varie pubblicazioni sulla storia locale, sulla Resistenza, sul movimento operaio e contadino. Il libro, redatto da un militante del partito, non è altro che una testimonianza delle vicende del Partito Comunista Italiano (PCI) nel Senese. In particolare, l’autore cerca di spiegare i motivi del consenso e successo del PCI a Buonconvento, piccolo borgo marginalmente toccato dalla Resistenza che diventò il “paese più rosso della provincia più rossa d’Italia” (p. 11). Attraverso brevi capitoletti, l’autore fornisce una panoramica della storia del PCI dal 1921, anno della sua fondazione, fino la sua dissoluzione nel 1992. In questo modo, Civitelli affronta le più varie tematiche: dalle questioni politiche nazionali (ad. es. il fascismo, il rapporto con il Partito Socialista Italiano, con la Democrazia Cristiana e la Chiesa, la figura di Togliatti e il Compromesso Storico, le Brigate Rosse ecc.), locali (Buonconvento), internazionali (ad. es. il rapporto con gli Alleati nel dopoguerra e con la Russia nel corso del XX secolo), fino a quelle più sociali (ad. es. le donne, i mezzadri, gli operai, le associazioni, ecc.). Il volume, quindi, si muove su un doppio binario ovvero quello cronologico (dal 1921 al 1992) e quello tematico; entrambi si intrecciano fornendo un quadro generale utile a tutti coloro interessati nel conoscere la storia del PCI e nello specifico l’importanza del Partito per Buonconvento e viceversa.

Il libro verte sulla storia di Buonconvento, il rapporto dei buonconventini con il PCI e il consenso che quest’ultimo guadagnò nel paese. Civitelli riconduce il successo del PCI nel territorio, non solo all’antifascismo locale diffuso, in particolare alla mezzadria. Per l’autore, il PCI fu il partito che riuscì a raccogliere la rabbia dei contadini, sintetizzare le rivendicazioni dei mezzadri una volta giunto al potere il fascismo e ricondurle verso gli obiettivi e i miti della Rivoluzione russa. In effetti, mostra come i contadini e gli operai videro nel PCI l’opportunità per raggiungere i propri obiettivi e una prospettiva concreta per il futuro. Secondo Civitelli, Siena era la provincia con la percentuale più alta di mezzadri e Buonconvento il Comune che ne aveva di più (p. 16). È interessante osservare come, attraverso la storia di un paese e del rapporto con il PCI, l’autore riesca a fornire un quadro generale del partito a livello nazionale e internazionale e mostrare quali erano le dinamiche che regolavano e caratterizzavano il partito. Il lettore quindi attraverso una storia micro (Buonconvento) riesce ad osservare una storia macro (la storia del PCI a livello nazionale e internazionale).

Il rapporto micro/macro si osserva anche attraverso i militanti buonconventini e le varie tematiche affrontate da Civitelli nel libro le quali contribuiscono a completare e arricchire il quadro generale della storia del PCI. L’autore, infatti, attraverso le testimonianze degli esponenti locali più noti non soltanto porta alla luce le loro esperienze ma riesce a toccare diversi nodi con valenza più ampia: ad. es. la questione femminile, la propaganda del PCI, la scuola partito, le manifestazioni ecc. In effetti, il libro raccoglie varie testimonianze ed esperienze personali che permettono al lettore conoscere più da vicino il funzionamento del partito e della vita politica e sociale dei singoli individui. Completano il quadro le varie fotografie presenti nel libro che concretizzano l’immaginario di chi legge all’illustrare la realtà così com’era.

Di conseguenza, il libro diventa una vera e propria testimonianza della storia rossa di Buonconvento poiché racchiude parte della vita dello scrittore e di alcuni dei suoi colleghi. Il volume, infatti, verte principalmente sulla conoscenza dell’autore e sulle dichiarazioni o interviste fatte ai suoi pari. Ecco perché tra le pagine del libro, il lettore riesce ad avvertire la posizione e il giudizio, talvolta critico, dell’autore verso il partito di cui ne ha fatto parte. Diventa dunque una valutazione retrospettiva della storia e pertanto rispecchia l’opinione e versione dello scrittore.

In sintesi, Il paese più rosso d’Italia fornisce una panoramica della storia del PCI e della storia di Buonconvento intrecciando la dimensione macro con quella micro lungo la vita del partito e attraverso diverse tematiche. È, quindi, un libro destinato ad un pubblico ampio, interessato nel conoscere la storia del PCI e di Buonconvento attraverso i ricordi, le esperienze, le opinioni dei protagonisti. In questo libro Civitelli ci offre la sua versione.

 




«L’esperienza del Pci non è stata ripetibile, si è fermata lì…»

Avvertenza: Nel trascrivere l’intervista si è cercato, ove possibile, di conservare inalterati gli aspetti peculiari del parlato, limitando al minimo indispensabile  gli interventi correttivi sul testo. L’intervista è stata raccolta il 19 dicembre 2021

 

D- Daniela Lastri, lei nel 1989 era una attivista e dirigente del PCI fiorentino ed ha vissuto perciò le vicende politiche che portarono alla svolta della Bolognina e alla decisione di Occhetto di cambiare il nome al partito. Può dirci qualcosa della sua esperienza politica e istituzionale di allora?

R- In quel periodo, nel 1988-1989, io facevo parte a Firenze della segreteria cittadina del PCI. Ero già stata attiva in precedenza a vari livelli all’interno della Federazione giovanile comunista (FGCI), sia nell’organizzazione provinciale fiorentina che in quella regionale dove ero rimasta fino al 1982. Naturalmente, ancor prima ero stata un’attivista del movimento studentesco, prendendo parte a collettivi studenteschi e partecipando all’attività del movimento femminista del tempo. Nel 1989, come membro della segreteria cittadina del PCI, svolgevo il ruolo di responsabile del partito per la zona a Sud-Ovest della città, in quelli che allora erano i quartieri 4 e 5, una vasta area che dall’Isolotto si spingeva fino a Mantignano, in prossimità di Scandicci. Si trattava di quartieri “rossi”, con forte tradizione operaia e di voto a sinistra. Quella era l’area che io curavo per il partito. Fu una bella esperienza, intensa e ricca di attività. In quel periodo, mi ricordo, all’interno del partito c’era una grande attenzione alle diversità e ai processi sociali in corso. Il PCI di allora era un partito in continua evoluzione benché vi fossero oggettive difficoltà dovute al cambiamento dei gruppi dirigenti che si erano susseguiti dopo la scomparsa prematura nel 1984 del segretario Enrico Berlinguer; ma ciononostante si viveva all’interno di un partito che continuava a dare molta attenzione ai grandi movimenti politici e sociali di massa, soprattutto a quelli animati dai giovani e dalle donne, un partito che costituiva perciò ancora un grande contenitore al cui interno potevano trovare spazio le principali tendenze politiche e sociali del mondo della sinistra. A tal riguardo, ricordo che in quel periodo noi facemmo un’esperienza particolarmente significativa, perché in questa zona Sud-Ovest della città che io seguivo per il PCI costituimmo una segreteria di partito fatta di sole donne. Si trattò di un elemento di novità, legato a un’esperienza molto particolare e interessante sorta poco prima all’interno del PCI che era quella della Carta delle donne, proposta nel 1986, la quale, dopo lo sbandamento dovuto alla morte di Berlinguer due anni prima, era nata per rilanciare la presenza e il ruolo delle donne all’interno del partito, aprendo e dando spazio in particolare alle componenti provenienti dalla realtà del movimento femminista. La Carta delle donne nacque con questo intento: fare in modo che il PCI si rinnovasse parlando ai soggetti che erano «promotori di cambiamento», di novità, a partire appunto dalle donne. Fu una decisione importante per un partito che allora si stava ancora interrogando sulla strada da percorrere dopo la morte di Berlinguer. È stato, quello, un periodo di grande attenzione ai mutamenti e ai cambiamenti.

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Daniela Lastri (fonte: Consiglio Regionale della Toscana)

Contemporaneamente, mentre facevo quest’attività di responsabile del PCI in quella zona cittadina, portavo avanti anche l’attività di consigliera di quartiere. Con le elezioni amministrative del 1985 ero entrata infatti a far parte delle istituzioni cittadine, tanto che poco dopo, tra il 1988-89, diventai vicepresidente del quartiere 11, che allora accorpava la zona di Piazza della Libertà e le Cure. Si trattava peraltro di un quartiere completamente diverso sul piano politico-sociale da quello dell’Isolotto-Mantignano che curavo come responsabile di zona per il PCI. Ma entrambe queste realtà di partito, come pure i miei primi incarichi istituzionali cittadini, si sono poi rivelati particolarmente importanti per la mia formazione e per il proseguimento della mia attività politica successiva. Ricordo perciò questo periodo come un periodo di grande impegno ed esperienza, segnato da queste significative attività e da questa particolare sensibilità e attenzione vissuta all’interno del partito nei riguardi dei «soggetti del cambiamento».

Io mi trovai a far parte della segreteria cittadina del PCI alla vigilia di un cambiamento epocale nel quale una serie di eventi e vicende politiche internazionali misero a dura prova la forza e la presenza delle politiche del PCI. In quel frangente, la questione che caratterizzò la mia militanza, fu naturalmente quella del cambiamento del nome del partito che Occhetto predispose alla Bolognina e che poi si sarebbe concretizzata qualche tempo dopo. Io mi sono trovata a gestire questa fase molto delicata del PCI in una zona cittadina a caratterizzazione storica operaia dove, come ho detto, il partito aveva allora profonde radici nelle quali peraltro io stessa mi riconoscevo personalmente. Anche le mie radici familiari, infatti, erano legate a quel mondo operaio da cui provenivano i miei genitori, anch’essi militanti del PCI, attivi politicamente come segretari di cellula del partito e nel sindacato, in particolare mio padre. Venendo da quest’ambiente io non ho fatto mai fatica a riconoscermi in quella storia, quella del PCI, in cui affondavano le mie radici.

D- Dunque, lei ha vissuto gli effetti di quella svolta “in prima linea”, per così dire. Quali furono le sue reazioni di fronte a quell’annuncio? La colse di sorpresa o era qualcosa che si poteva immaginare?

R- La vicenda della Bolognina e di quello che ne è conseguito da un lato non è che ci avesse preso proprio di sorpresa, perché sulla questione del cambiamento del nome c’era una discussione interna al PCI che era iniziata già da diversi anni, anche nel gruppo dirigente nazionale del partito. Poi, bisogna tener conto che il PCI ormai costituiva da tempo un’esperienza storicamente e politicamente diversa da quella dei paesi del blocco sovietico e quindi dei partiti comunisti dell’Europa dell’Est. Avevamo avuto al centro della nostra azione le questioni dell’eurocomunismo, cioè di un comunismo europeista alternativo a quello del socialismo reale; inoltre la cosiddetta “via italiana al socialismo” costituiva oramai una prerogativa tipica del PCI, quindi gli elementi di diversità, di assoluta differenza con il modello sovietico erano sicuramente molto significativi. Penso ad esempio solo al concetto della “fine della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre”, che Berlinguer espresse nel 1981 dopo le vicende politiche polacche in una nota conferenza stampa. La vicenda polacca del 1981 non a caso ha marcato profondamente questa diversità del PCI; naturalmente il partito aveva già intrapreso la propria strada separata dal modello sovietico almeno a partire dal 1968, prendendo una posizione sui fatti di Praga radicalmente diversa rispetto a quella tenuta nel 1956 di fronte alla repressione disposta in Ungheria. Ricordo come mio padre in quell’estate del 1968, di fronte agli avvenimenti cecoslovacchi, ribadisse come noi comunisti italiani fossimo oramai radicalmente lontani da quell’esperienza. E di lì a seguire, infatti, ci saremmo trovati sempre più circondati da vicende internazionali che in qualche modo ci allontanavano sempre più nettamente da quel modello al quale in passato eravamo stati legati. Penso all’invasione dell’Afganistan del 1979, ma anche alla vicenda delle proteste di piazza Tienanmen della primavera-estate del 1989 organizzate da studenti, giovani e operai contro il regime cinese: quello costituì un evento dirompente per quanto riguardava le nostre sensibilità, il nostro modo di interpretare il socialismo rispetto a quei regimi autoritari. Non per nulla, l’esperienza cinese anticipò quanto sarebbe accaduto di lì a poco nel novembre di quell’anno con la caduta del muro di Berlino. Tutte queste vicende internazionali che attraversano quel periodo storico ci vedevano perciò come comunisti italiani molto critici nei riguardi del regime sovietico, per cui la presa di posizione della Bolognina fu una scelta che certamente ci colpì ma in qualche modo si configurò quasi come una necessità, una svolta che era cioè la conseguenza di un quadro internazionale ormai fortemente incrinato e che non aveva più niente a che vedere con i valori ideali del socialismo, della democrazia ma anche della libertà; temi fondamentali e dirompenti che erano stati sempre al centro dell’idea di una “via italiana al socialismo”.

D- Perciò si trattò di una decisione necessaria? In ogni caso come fu gestita secondo lei quella svolta?

R- Personalmente ho sempre sostenuto la necessità di quella svolta, non senza naturalmente riconoscere tutte le sofferenze e le difficoltà che ne conseguirono. Non si deve dimenticare infatti che la discussione che si aprì da lì in poi fu in grado di provocare attriti e lasciare profonde ferite, non solo politiche ma anche umane, incrinando amicizie e rompendo la solidarietà tra persone che fino a poco prima avevano militato fianco a fianco nel partito. Ma l’aspetto più delicato di quella svolta secondo me fu la non preparazione, il non essere stati cioè adeguatamente preparati ad affrontare politicamente quell’evento e soprattutto il non essere stati messi nella condizione di poter maturare attorno a quella decisione un’effettiva condivisione. Questo è stato l’elemento negativo di quella vicenda, il non aver avuto la possibilità di una maggiore discussione preliminare, perché la discussione in realtà ci fu, ma vi fu solo successivamente all’annuncio, mancando invece una più aperta riflessione interna al partito prima di arrivare alla svolta comunicata alla Bolognina. Le cose erano sicuramente mature per fare quel passo, però quello che è stato giustamente criticato è stato il metodo con cui si è arrivati a prendere questa decisione e poi i tempi con la quale essa è stata attuata; elementi che spiegano in parte il disagio e il disorientamento che abbiamo vissuto successivamente nelle varie scissioni che ci sono state e che hanno sicuramente prodotto un indebolimento del PCI. Credo che questi siano stati i principali limiti che abbiamo scontato con difficoltà in quel periodo di trasformazione.

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Nel 1986 fu promossa, diffusa e discussa su iniziativa di Livia Turco membro della segreteria del PCI la “Carta itinerante delle donne”, un documento che si proponeva di aprire la vita politica del partito alle istanze del femminismo e fare in generale della partecipazione attiva delle donne la chiave di volta di una nuova politica di partito. (in foto : “L’Unità”, 18 ottobre 1986)

Credo peraltro che il PCI, il quale già negli anni Settanta e a inizio anni Ottanta aveva più volte pensato all’opportunità della modifica del nome, infondo poteva essere maturo già allora per un passo simile, perché come ho detto noi comunisti italiani costituivamo un’esperienza ben diversa rispetto alle altre realtà della sinistra socialista, non solo rispetto all’esperienza sovietica, ma anche rispetto ai compagni spagnoli, francesi e portoghesi. D’altro canto, anche se già all’epoca era forse maturo per un passo simile, va detto però che il PCI era abituato a fare le scelte con grande gradualismo, proprio perché, essendo un grande partito di massa ed avendo al proprio interno tante esperienze politiche significative, aveva bisogno di gradualità. Per cui, considerato questo contesto precedente, il modo repentino con cui nel 1989 fu annunciata alla Bolognina la decisione del cambio di nome ebbe per altri versi un effetto dirompente, divenendo un elemento di grande disagio che in seguito ha costituito per molti attivisti un ostacolo nel tentativo di comprendere le ragioni per le quali al tempo fu deciso di procedere in quel modo, con quelle modalità. Io naturalmente accettai quest’idea di cambiamento, probabilmente anche perché per formazione provenivo dal movimento giovanile e dalla FGCI, una realtà in cui la necessità che il partito si adeguasse rapidamente ai cambiamenti sociali in corso costituiva una prerogativa. I grandi mutamenti politici e internazionali vissuti in quegli anni ci conferivano probabilmente una maggiore predisposizione al cambiamento. Era un orientamento, cioè, che in quanto nuove generazioni avevamo ben presente.

Ricordo che nel 1979, non ancora ventenne, ebbi la possibilità di visitare la Germania dell’Est. Vi andai per una decina di giorni con una delegazione invitata in viaggio premio a prendere visione di come funzionassero le cose in quel paese. Ciò di cui rimasi allora colpita era la presenza molto significativa dei mezzi dell’esercito sovietico disposti in ogni angolo di strada…impressionante! Come impressionante era anche la scarsa presenza di segni di libera attività associativa. Era tutto molto precostituito. Si avvertiva per la verità l’esistenza di uno Stato sociale efficiente e quindi un’attenzione molto significativa da parte del governo della Germania dell’Est a tutto ciò che riguardava l’istruzione e la cultura, la salute e i servizi all’infanzia, ma d’altro canto eravamo consapevoli che ci facessero vedere solo le cose belle che funzionavano. Il problema era però tutto il resto. A Berlino mi impressionarono ad esempio le urla di protesta che si sentivano provenire dalla parte Ovest della città contro le misure militari prese a difesa del muro nella zona Est, mentre si assisteva anche a lanci di oggetti. Palpavi insomma con mano qual era la difficoltà che si viveva in quei paesi. Noi giovani che tornavamo da quei viaggi ci rendevamo conto come non era assolutamente sostenibile il percorso politico di quei paesi e ancor più capivamo come noi comunisti italiani fossimo diversi, come il PCI italiano fosse profondamente diverso e non avesse ormai più niente a che vedere con quelle esperienze.

Quindi, tornando alla Bolognina, la svolta ci prese sì forse un po’ alla sprovvista, ma le questioni di sostanza erano già aperte all’interno del partito. C’è stata semmai una questione di metodo, la mancanza cioè di una discussione più calma fatta senza precipitarsi; però la crisi dei partiti comunisti in Europa era ormai sotto gli occhi di tutti e l’evento stesso della caduta del muro era un fatto quasi naturale. Gorbačëv stesso era la testimonianza di un cambiamento imminente. Semmai, spiace che l’Europa e gli Stati Uniti non abbiano sostenuto allora quel processo di democratizzazione interna apertosi in Unione Sovietica con Gorbačëv ma abbiano invece concorso a che quel processo si richiudesse e a che si creassero le condizioni per quanto successo poi nel 1991, con il fallito colpo di stato, e poi con la successiva frammentazione dell’Unione Sovietica.

D- Insomma, a mancare nel 1989 è stata un’adeguata discussione interna al PCI? Ma, visti i tempi, ve ne sarebbero state le condizioni?

R- Sul problema della mancata discussione, in realtà non è che il PCI non abbia avuto il tempo di discutere, perché noi abbiamo fatto due congressi dopo la svolta della Bolognina, quello del 1990 e poi l’anno successivo quello che segnò la trasformazione del PCI in Partito Democratico della Sinistra (Pds). Io nel 1990 sono stata eletta per la prima volta nel consiglio comunale di Firenze e noi ci chiamavamo PCI-PDS, per dire. Perciò, il percorso di discussione dalla Bolognina al momento in cui siamo arrivati ai congressi è stato abbastanza lungo… col successivo passaggio dai Democratici di Sinistra (DS) al Partito Democratico (PD) tutto questo per esempio non è successo; lì sì, semmai, che non vi è stata discussione e tutto è stato molto veloce e sbrigativo. Quindi, nel 1989 il problema non è stato tanto quello di non aver discusso, perché la discussione c’è stata, però è stata una discussione che è seguita a una decisione in qualche modo già presa. Allora, la discussione non la si fece nel gruppo dirigente, probabilmente non la si è fatta perché altrimenti sarebbe successo quello che era successo negli anni Settanta, col rischio che si fermasse tutto. Per fare una discussione di quel tipo, nel 1989, probabilmente ci voleva una maggiore autorevolezza dei segretari, un’autorevolezza di un Berlinguer, di un segretario così…ma insomma, col senno di poi è difficile dire. Io trovo che la discussione successivamente c’è stata ed è stata una lunga discussione che ha creato ferite significative, talvolta anche irreparabili. Il cammino intrapreso dall’annuncio della svolta nel 1989 al momento in cui questa svolta si è concretizzata è stato molto pesante, però è avvenuto tramite discussioni interne impegnative ma serie, anche a livello dei circoli e delle sezioni. Ricordo discussioni accese anche nella segretaria fiorentina di cui facevo parte e nei circoli delle zone di Firenze di cui ero allora responsabile per il partito. Anche lì ci sono state inevitabilmente delle rotture, tanto che alcune componenti della mia segreteria hanno fatto scelte diverse alla mia, c’è chi è andato ad esempio con Rifondazione comunista chi, ancora successivamente, nella Sinistra Democratica anziché nel Partito Democratico. Io, ad esempio, nei vai partiti che si sono succeduti al PCI, mi sono trovata sempre in componenti di minoranza; all’interno dei Ds ho appartenuto per esempio alla corrente minoritaria di Giovanni Berlinguer. Ci sono state insomma evoluzioni e percorsi vari e diversi, ma questo è normale. L’aspetto da sottolineare è che in fondo noi siamo stati comunque capaci di fare una discussione, lacerante, però l’abbiamo fatta. Quello che invece è insopportabile, dal mio punto di vista, è quello che è successo successivamente, con la nascita dei partiti che hanno succeduto prima il PCI e poi il Pds. Io ritengo, infatti, che la discussione che c’è stata successivamente, ad esempio al momento della nascita del PD, sia stata pesantemente condizionata da ragioni che avevano a che fare con la crisi dei partiti tradizionali e del sistema politico in generale. Io personalmente sono stata negativamente colpita dal modo in cui è maturato il passaggio tra i DS e il PD: lì non c’è stata discussione, è stato quasi un dato di fatto. Mentre lo scioglimento del PCI era stato, come ho detto, una necessità, nel caso del passaggio tra DS e PD era come se tutto fosse avvenuto per fatti che riguardavano, più che una vita interna di partito, una politica “esterna” che era completamente cambiata a seguito della crisi del sistema dei partiti. Si è manifestato cioè in quell’operazione il senso della contingenza, il fatto che vi fossero più motivi contingenti di lotta politica più che vere manifestazioni di necessità politica. Questo aspetto, credo, ha condizionato moltissimo in senso negativo il passaggio dai DS al PD. Io penso che purtroppo con la nascita del PD, noi abbiam perso quel connotato fondamentale che veniva dal PCI e che era stato mantenuto col PDS e, in qualche modo, almeno fino ai Ds e che era quello di essere ancora entro l’orizzonte del socialismo, del socialismo italiano ovviamente. Il PD ha rotto invece questo orizzonte perché con lui si è interrotta di fatto quella storia.

Naturalmente, gli anni Novanta hanno condizionato moltissimo le scelte che sono state fatte all’interno della politica dei partiti, anche di quelli della sinistra, nei quali ha finito per prevalere sul piano economico l’idea neoliberista e su quello politico la tendenza alla personalizzazione e al leaderismo. Ciò ha rovinato completamente il senso del partito tradizionale: non a caso si è affermata a un certo punto l’idea dei “partiti leggeri”, i partiti dove non importa neppure che ci siano i circoli, le sezioni, i luoghi della formazione. I partiti oggi si sono trasformati così in partiti degli elettori che guardano molto alla personalizzazione, al leaderismo, all’individualismo; il senso del collettivo della comunità si è completamente perso. Questo è un problema che riguarda naturalmente tutto il sistema politico così come si è andato evolvendo dalla metà degli anni Novanta fino all’inizio del Duemila. Ed è un elemento su cui ancora stiamo riflettendo. Questi ultimi vent’anni hanno condizionato molto anche i partiti che venivano dall’esperienza della sinistra, non per nulla la sinistra di oggi continua a interrogarsi circa il problema delle idealità e dell’orizzonte entro cui stare. Simo ancora nel mare aperto. La fermezza, la strutturazione di un partito come era i PCI o anche il PDS oggi non c’è più. Io credo che noi avremmo dovuto fermarci alla creazione del PDS, quello doveva essere il nostro orizzonte.

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Durante il Congresso nazionale della FGCI tenutosi al Palalido di Milano nel maggio 1982, il segretario del PCI Enrico Berlinguer invitò i giovani a organizzare un congresso di “futurologia” che affrontasse varie discipline: dalle scienze fisiche, chimiche e biologiche, alla demografia, all’antropologia, all’informatica. Ciò per stimolare una riflessione politica a partire dalla conoscenza degli studi più recenti su alcuni problemi di pressante attualità, quali il rapporto tra risorse e popolazioni, tra sviluppo e ambiente.

D- Dunque, da quel che dice, l’eredità del PCI sui partiti della sinistra italiana sembra oramai perduta. Pensa che rimanga di quell’esperienza un’eredità politica immateriale al di fuori dei partiti e nella società?

R- L’esperienza del PCI è un’esperienza che non è stata ripetibile, si è fermata lì. Io ritengo che l’esperienza del PCI è stata tutto dentro anche il PDS e anche in parte entro i DS, perché i DS hanno aperto anche all’esperienza dei laburisti, dei cristiano sociali, un’esperienza che stava in un contesto che era ancora inscritto in quell’orizzonte politico a cui accennavo prima. Ma il PCI è un partito irripetibile. Solo forse il PDS in parte ne conservava lo spirito, ma successivamente…il PD col PCI non c’entra nulla, ha rotto la tradizione di quel partito e ha creato una cesura netta con quella tradizione. Il mio giudizio su questo punto è molto tagliente, ma lo è per averlo vissuto…oggi purtroppo non si ritrova quell’esperienza. Dove la si può trovare? Difficile dire…il PCI negli ultimi anni della sua vita stava facendo cose innovative, pensava molto a rappresentare il mondo del lavoro, ai giovani e alle donne, queste erano le realtà a cui teneva particolarmente. Ribadisco: la Carta delle donne di cui dicevo prima è stata una delle intuizioni che meglio attestano questa volontà innovativa del PCI di guardare ai «soggetti del cambiamento», donne e giovani. Sui giovani, ricordo, ci fu un tentativo significativo negli ultimi anni di vita di Berlinguer. Nel 1982, quando io ero ancora nella FGCI, lui ci propose a Milano l’idea di fare un congresso sulla “futurologia” e in questo dava il senso di un leader che guardava lontano, che vedeva nei giovani la vera prospettiva di cambiamento. Quel congresso che ci propose anticipava i tempi… forse, magari esagero, ma in fondo mi fa pensare all’esperienza dei Fridays for Future di oggi, il collegamento cioè con le istanze di innovazione e cambiamento che fermentavano allora nella società… le questioni delle prime tecnologie informatiche allora agli inizi, del rapporto tra sviluppo e scienza, la volontà insomma di misurarci con quello che di particolarmente innovativo stava succedendo allora in quei campi…ad oggi, ripensando a quell’esperienza, forse emerge una certa amarezza e rimpianto di non aver capito in quel momento quanto ci fosse di veramente innovativo in quell’impostazione politica e quindi quanti guai avremmo evitato di passare se avessimo dato uno sviluppo concreto a quell’impostazione. Ma d’altro canto, penso che l’esperienza del PCI costituisca un’esperienza storico-politica che appartiene al suo tempo e che oggi noi non possiamo replicare, salvo forse recuperare almeno alcuni di quegli elementi di novità che la contraddistinguevano…anzitutto la necessità di guardare ai soggetti del cambiamento, alle donne, ai giovani, con un’attenzione particolare alle nuove istanze di mutamento sociale…oggi questo probabilmente lo si ritrova in alcuni movimenti politici e sociali, ma che non sono però riferibili al PCI, non c’entrano nulla, anzi. Però, io credo che, se quel partito fosse andato avanti, se fosse stato in grado di introiettare concretamente le istanze di cambiamento presenti nella società del tempo, forse oggi potremmo essere più avanzati rispetto alle questioni ecologiche, sul problema ambientale, sulle questioni della salute pubblica, avremmo avuto sicuramente un rapporto diverso con la scienza…ed oggi la pandemia ci ha dato la prova di quanto questo rapporto corretto manchi. Ma in ultimo, io penso che un’esperienza politica importante come quella del PCI oggi difficilmente la possiamo ritrovare in altri contesti, in ambito politico e partitico sicuramente no. Possiamo perciò impegnarci a valorizzare quello che nella società di oggi è presente di innovativo…questo è molto utile, anche per la politica, nonostante oggi, purtroppo, non veda con grande evidenza qualcosa che ci dia questa prospettiva. Da questo punto di vista, siamo ancora in cammino




Il Partito comunista italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento

Un legame inscindibile. Non può essere definita altrimenti la connessione storica tra Livorno e il Partito comunista italiano, tutt’oggi percepibile nonostante l’epilogo dettato tra il novembre 1989 e il febbraio 1991 dalla svolta della Bolognina. Uno spazio politico, amministrativo e sociale che la mostra organizzata dall’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Livorno (Il Pci a Livorno. Dal dopoguerra allo scioglimento) ha saputo intelligentemente ricostruire, regalando uno spaccato trasversale di quello che il Pci ha rappresentato per la vita repubblicana della città labronica.

Al lavoro di Catia Sonetti, Erika Schiano e Michela Molitierno sono certamente attribuibili vari meriti, in particolare quello di aver riassunto la correlazione tra la storia del partito e la storia del lavoro nella scelta di installare i pannelli all’interno di appositi container portuali. Estrapolata da un’ipotetica cornice museale, la mostra – itinerante e composta da 350 foto – è stata così capace di accentuare ulteriormente uno spazio di rappresentazione orizzontale, lontano dal verticismo istituzionale e concentrato sulla dimensione di piazza e sulla partecipazione della base militante.

241334402_447766106962840_1613773604018022445_nA ciò si sommano altri due aspetti su cui mi vorrei brevemente soffermare. In primo luogo, la valorizzazione della fotografia come documento storico. Gli scatti inseriti nella mostra, per larga parte inediti e provenienti dal fondo Pci dell’Archivio Istoreco e dagli archivi privati di Antonio Brugnoli e Roberto Leonardi, risultano imprescindibili nel consegnare un’impressione più chiara della popolarità, della militanza e dell’evoluzione politica del partito. E ciò tanto per il loro impatto visivo, quanto per il messaggio da essi veicolato. Come sottolineato nell’introduzione al Catalogo da Catia Sonetti, «guardare queste immagini ci [trasmette]» la «percezione precisa del cambiamento sociale, […] antropologico, che ha vissuto il nostro Paese: dai volti di donne e uomini degli inizi del secondo dopoguerra, magri, severi, con i bambini che si fanno carico […] di manifestare con i loro abiti dismessi […], alle immagini degli ultimi decenni di questa storia, con i volti più sorridenti, […] più patinati, […] più televisivi»[1].

Allo stesso tempo, è possibile osservare i frammenti dei cortei o delle adunate come «eventi fotografici»[2] in grado di mostrare il frutto delle scelte compositive dell’autore e la crescente importanza rivestita sul piano proselitistico dalla componente mediatica. Ciò è particolarmente evidente in una delle sei sezioni che compongono la mostra, quella denominata Vita di Partito[3]: ai meravigliosi manifesti ideati da Oriano Niccolai si sommano una serie di scatti capaci di enfatizzare volutamente aspetti specifici dell’universo comunista, dalla “democraticità” delle sezioni[4] alla presenza femminile nelle attività organizzative, passando per le calche durante i comizi e i flussi di militanti (con una particolare attenzione riservata ai più giovani) diretti verso le Feste de l’Unità.

Il secondo punto concerne invece l’importanza dell’infografica elettorale posta all’inizio della mostra. La ricchezza dei dati esposti (dalle amministrative alle politiche) apre invero ad una duplice possibilità: da un lato, quella di valutare l’impatto dei processi nazionali sul piano locale; dall’altro, il peso giocato sulle percentuali dall’intreccio politico cittadino. A ben vedere, il risultato – tra i picchi dell’immediato secondo dopoguerra e la stabilizzazione sopra al 50% degli anni 1976-1987 – mostra una solidità evidente e un’area di riferimento assai vasta, protesa ad andare ben oltre lo «zoccolo duro della base» e a mettere in evidenza l’egemonia giocata dal partito sul versante sociale, politico e culturale della città. Se questa lente bifocale si riflette sulle foto nelle diverse istanze rivendicative (dalla trasformazione delle tematiche occupazionali alle grandi questioni internazionali) e nell’impatto sempre più tangibile della società dei consumi, dal punto di vista statistico può quindi aiutarci a valutare l’incidenza sul contesto labronico del clima del 1948, della crisi del 1956 o delle conseguenze del 1968-1969, fino alla grande stagione di crescita collocabile attorno alla metà degli anni Settanta. A rifletterlo sono altresì i manifesti elettorali e i volantini propagandistici che si alternano alle istantanee, contribuendo a proiettare sui visitatori anche la portata iconografica delle istanze rivendicative ed elettorali.

Attraverso questa molteplicità di aspetti, pertanto, la mostra Il Pci a Livorno ci fornisce un prezioso strumento di analisi e di riflessione. Esperimento unico sul piano regionale, quello avanzato dalle curatrici è stato un tentativo di andare oltre il centenario del Partito comunista d’Italia, così da collocarne le vicende in una cornice di problematizzazione storiografica distante da eventuali letture politicizzate. Un percorso a cui si è aggiunta anche la pubblicazione del volume Pci in Toscana dalla liberazione allo scioglimento. Racconto per immagini (ETS, Pisa 2021), tracciando il pregevole impegno dell’Istoreco Livorno nel ripercorrere con piglio esegetico la narrazione politica predominante sul piano regionale e la sua declinazione su versanti anche poco esplorati come quello sportivo[5].

In sintesi, l’obiettivo posto alla base del progetto può dirsi perciò pienamente raggiunto. Ovvero, quello di dare voce alle immagini per creare un autentico spazio di riflessione, favorendo un supporto reciproco tra storia e memoria (arricchita dagli appuntamenti organizzati nel corso della mostra)[6] oramai sempre più imprescindibile per ipotizzare risposte concrete e formulare al presente le giuste domande.

[1] C. Sonetti (a cura di), Il Partito comunista a italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento. Catalogo della mostra, Istoreco Livorno, Livorno 2021, p. 8.

[2] Cfr. A. Mignemi, Lo sguardo e l’immagine. La fotografia come documento storico, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

[3] Le altre cinque sono: Lavoro, Battaglie civili, Pace e questione internazionale, Feste de l’Unità e Sport.

[4] Si veda ad esempio la foto a pagina 82 in: C. Sonetti (a cura di), Il Partito comunista a italiano a Livorno, cit.

[5] Tra le altre iniziative riconducibili al centenario, si ricordano la pubblicazione del volume La vicenda non comune di un militante comunista. Bruno Bernini e le sue carte, scritto da Catia Sonetti e da Michela Molitierno, e il convegno Storia generale e percorsi biografici tra stalinismo e antistalinismo, che si terrà online il prossimo 10 dicembre (2021) e conterà sugli interventi di Antonella Salomoni, Alexander Höbel, Patrick Karlsen, Anna Tonelli e Claudio Rabaglino.

[6] Il 23 settembre, in Piazza Saragat, si è tenuto l’appuntamento Feste de l’Unità: il racconto dei protagonisti e osservatori, durante il quale Catia Sonetti e Michela Berti hanno dialogato con Maurizio Paolini e Claudio Seriacopi. Ha fatto poi seguito l’incontro del 30 settembre, Il Porto e il lavoro a Livorno tra passato e futuro, quando al Palazzo del Portuale è stata allestita una tavola rotonda che ha coinvolto Luciano Guerrieri, Enzo Raugei, Gianfranco Simoncini, Catia Sonetti e Fabrizio Zannotti.




Le origini del Partito Comunista d’Italia nella provincia pisana.

Domenica 27 febbraio 1921, a Pisa, in una sala della Camera del lavoro confederale, in via Vittorio Emanuele oggi Corso Italia, si tiene il primo congresso della Federazione provinciale pisana del Pcd’I, ne dà annuncio «l’Ordine Nuovo» del 20 febbraio premurandosi di chiarire che le adesioni dei gruppi e delle sezioni in formazione, debbono essere trasmesse al compagno Malvezzi Ruffo, che nella stessa seduta verrà eletto primo segretario provinciale del Partito comunista. L’uomo intorno al quale nasce il Pcd’I nella provincia pisana è però il sindaco di Cecina, Ersilio Ambrogi[1], che è stato uno dei più attivi organizzatori della frazione comunista, tanto che il «Comitato Centrale Provvisorio» lo incarica di costituire la federazione pisana[2], di censire i comunisti di ogni sezione e di raccogliere tutte le deleghe per il congresso[3].

Il Congresso di fondazione del Partito comunista d’Italia si è svolto a Livorno da appena un mese, sono pochi i chilometri che dividono le due città e l’eco di quelle giornate, dell’evento straordinario che si è consumato, è stato vissuto con intensità e passione sotto la città della Torre pendente. Il dibattito ha animato la vita politica delle formazioni di sinistra della città e dell’intera provincia che, ricordiamo, è profondamente diversa da quella che oggi conosciamo[4]. C’è anche una compartecipazione pisana al Congresso di Livorno poco conosciuta, durante quelle giornate, chiuse le sessioni congressuali, arrivano a Pisa i treni speciali carichi dei delegati che, non avendo trovato camere libere a Livorno, rientrano la sera per alloggiare negli alberghi e nelle locande della città; si stima si tratti di una buona metà degli stessi[5].

Il clima di queste giornate, in tutta la provincia, è particolarmente teso. Per ben due volte i fascisti, avvalendosi dell’aiuto di squadre provenienti da tutta la regione, avevano impedito il 4 e 14 dicembre 1920 l’insediamento del nuovo consiglio provinciale eletto alle ultime elezioni amministrative di novembre: l’obiettivo è Ersilio Ambrogi, eletto consigliere provinciale per il mandamento di Cecina e destinato alla carica di presidente della Giunta provinciale a maggioranza socialista[6].

Nella stessa giornata della fondazione della federazione comunista pisana, a Firenze i fascisti uccidono il sindacalista comunista Spartaco Lavagnini, un episodio che scatena la reazione delle forze di sinistra con la proclamazione dello sciopero generale. Nei giorni successivi all’episodio si registrano gravi scontri armati tra fascisti, forze dell’ordine e antifascisti[7].

Nel contempo la vita in città scorre apparentemente tranquilla, la stampa borghese pisana è infatti concentrata su altre notizie: ai Bagni di San Giuliano Terme apre la nuova filiale del Banco d’Italia; a Pisa c’è chi si allieta con i concerti musicali del Circolo degli ufficiali dove si balla fino alle 4 del mattino e dove tutto il mondo elegante […] si distrae e si diverte[8] e c’è anche chi trova il tempo di ammirare la nuova preziosa cristalleria appena aperta in via Vittorio Emanuele.

Tutto ciò mentre le tensioni sociali toccano le punte più alte con lo sciopero degli spazzini, un fatto che infastidisce la buona borghesia pisana, profondamente irritata nel vedere la propria città abbandonata nel sudiciume[9]. C’è però un altro fatto che irrompe sulla scena politica locale: la comparsa del fascismo nella provincia pisana è fulminea e violenta. Dal marzo del 1920 al febbraio del 1921 i locali fasci di combattimento si costituiscono pian piano in tutta provincia: prima a Pisa poi San Miniato e a Ponte a Egola[10], nel gennaio del 1921 a Volterra[11] e di seguito in ogni comune e in ogni borgata. Nei primi mesi del 1921 le squadre fasciste organizzate danno inizio ad una sistematica azione di devastazione con aggressioni nei confronti di militanti della sinistra, incendio di sezioni di partiti, di associazioni e camere del lavoro.

La fondazione del Partito comunista si inserisce in questo duro contesto aggravato dagli effetti della crisi economica e sociale succedutasi alla fine della guerra: l’aumento della disoccupazione e della povertà affliggono le classi subalterne, inoltre migliaia di militari traumatizzati fisicamente e psicologicamente dalla guerra chiedono con insistenza il rispetto delle promesse ricevute quando, carne da macello sui vari fronti, cadevano martiri sul «campo d’onore». Tra il 1919 e il 1920 la provincia pisana è attraversata da lotte rivendicative che raggiungono il culmine sia nell’estate del 1919 durante i moti del caro-vivere che nei mesi seguenti nelle agitazioni dei mezzadri. Feroce è la  repressione[12] che ha effetti deleteri sullo schieramento a sinistra con un Partito socialista immerso in un contesto di contraddizioni e divisioni tra l’ala massimalista e quella riformista.

Le elezioni politiche del 16 novembre 1919 sono un fatto nuovo: nel collegio elettorale di Pisa-Livorno, dei sette deputati eletti con sistema proporzionale, tre sono socialisti e uno repubblicano[13]. Contemporaneamente il movimento operaio vede crescere le proprie organizzazioni e «L’Ora nostra», l’organo ufficiale della federazione socialista pisana, ne riporta una minuziosa e attenta cronaca. Per dare un quadro complessivo sugli eventi che accompagnano la nascita del Partito comunista, è opportuno soffermarsi anche sulle elezioni amministrative del 1920 che confermano che Pisa è una provincia rossa: i socialisti conquistano ben 26 comuni su 42, a Pontedera ottengono il 78% dei voti[14] e in Consiglio provinciale eleggono 23 consiglieri su 40.

Le nuove amministrazioni socialiste aprono una fase nuova in termini di costume e di politiche sociali ed economiche. Nei giorni del Congresso di Livorno, all’interno dei locali del Comune di Cascina vengono rimosse tutte le immagini del re[15] e sulla torre civica viene issato un bandierone rosso[16]. A Buti, i socialisti sconfitti alle elezioni comunali chiedono l’annullamento delle elezioni per gravi irregolarità, abbandonano il Consiglio comunale e manifestano al grido di W la Russia! W Lenin! W il Socialismo![17]  Nelle strade, nelle fabbriche, nei consigli comunali si inneggia da tempo alla Rivoluzione e alla Russia.

Il 2 marzo del 1921 Guido Buffarini Guidi, l’enfant prodige del fascismo pisano, viene aggredito in Piazza dei Miracoli a colpi di rivoltella da alcuni sovversivi, trova riparo in una clinica dell’ospedale Santa Chiara e se la caverà con alcune ferite. A luglio si costituiscono gli Arditi del popolo: sono ben trecento le adesioni a Pisa città e oltre 1.400 nella provincia, numeri che fanno della provincia pisana dell’epoca una delle più organizzate con ben sei sezioni. Il fermento pervade ogni borgata, a Pomarance il 15 maggio del 1921 durante uno scontro a fuoco tra fascisti e sovversivi muore lo squadrista Primo Salvini[18] e il giorno successivo a Riglione, alle porte di Pisa, una rivolta di popolo assalta la caserma dei Carabinieri.

Roberto Ugo Barsotti, Segretario della sez. pisana del PCd'I al confino di polizia, Lipari, 6 aprile 1927. Per gentile concessione della famiglia Barsotti e, per volere della famiglia, l'immagine deve essere utilizzata esclusivamente per questo articolo.

Roberto Ugo Barsotti, Segretario della sez. pisana del PCd’I al confino di polizia, Lipari, 6 aprile 1927. Per gentile concessione della famiglia Barsotti e, per volere della famiglia, l’immagine deve essere utilizzata esclusivamente per questo articolo.

È in questo clima che si fonda il Pcd’I.

Nel dicembre del 1920, il Comitato federale della federazione pisana del PSI è composto dal segretario Carlo Cammeo e da Ambrogi, Frattini, Cappagli, Rossi, Galgani, Passeti e Pampana. Il Comitato viene integrato poi da Dino Cassoni in qualità di direttore del «L’Ora nostra» e da Paride Pagliai, consigliere nazionale per la provincia di Pisa.[19] La federazione giovanile socialista è invece condivisa tra le provincie di Pisa e Livorno e a dirigerla è Ruggero Rebecchi attivo militante e operaio a Piombino, che sarà presente in qualità di delegato al Congresso nazionale di Livorno.

I congressi delle sezioni della provincia pisana, preparatori dell’assise livornese, ci raccontano di una positiva affermazione della frazione comunista che raggiunge complessivamente 1.342 voti, contro i 2.482 dei massimalisti e i 7 dei riformisti. La frazione comunista è presente in 28 sulle 67 sezioni socialiste della provincia[20]. La sezione cittadina di Pisa consegna ai comunisti 96 voti, dei complessivi 209 iscritti. I comunisti prevalgono invece a Calcinaia[21], a Fornacette, a Cevoli, a Perignano, a Volterra, a Santa Luce[22], ai Bagni di Casciana[23], a Montefoscoli[24], ad Asciano[25], a Ponsacco[26]. Nelle altre sezioni della provincia pisana si affermano invece, anche con numeri schiaccianti, i massimalisti. C’è un evidente motivo dietro la vittoria massimalista: serratiani sono i dirigenti della federazione come Carlo Cammeo, Amulio Stizzi, Giulio Guelfi, Paris Panicucci, Paride Pagliai. Sono questi gli stessi organizzatori che controllano le leghe sindacali e che hanno condotto le lotte di rivendicazione di operai e contadini in questi ultimi anni, che hanno battuto la provincia passo dopo passo, hanno incontrato lavoratori organizzati e singoli, hanno tenuto comizi, si sono messi a capo di cortei. Ed è in queste figure che si riconosce il proletariato socialista, nei loro confronti c’è rispetto, riconoscimento e in loro i militanti di base ripongono fiducia e speranza, certi che le condizioni favorevoli per un prossima rivoluzione siano vicine, basta attendere senza dovere, oggi, forzare l’azione. Sono queste le motivazioni che animano i massimalisti, lo scrive su «L’Ora nostra», con autorevolezza, Dino Cassoni, il teorico dei serratiani pisani e, se non basta, la dirigenza chiama ad esprimersi sulle colonne del periodico pisano anche dirigenti locali che espongono gli stessi concetti con parole più semplici e immediate[27]. D’altra parte il socialismo pisano, nato all’ombra delle tesi dei professori dell’Università di Pisa, con i primi anni del ventesimo secolo è ritornato alla sua primordiale origine guidato da proletari formatisi in un ambiente popolare e sovversivo tipico della costa toscana, area permeata da una forte influenza libertaria.

I massimi dirigenti della federazione socialista pisana e della Camera del lavoro confederale non aderiscono al Pcd’I. I comunisti pisani, eccetto l’avvocato Ambrogi, non sono dirigenti e uomini di spicco del partito, sono lavoratori, proletari, figli del popolo e soprattutto giovani: Ruffo Malvezzi è un commesso, Carlo Cimini un barbiere, Roberto Ugo Barsotti un ferroviere, Guglielmo Taddei un meccanico, Zoraldo Frattini uno scultore, un uomo di azione, pronto a porsi a capo di movimenti di protesta ma non particolarmente abituato a scrivere. I comunisti trovano così appiglio negli aderenti delle nuove sezioni del PSI in quella parte di proletariato che, al di fuori di ogni dibattito e teoria, intende «fare come in Russia» e che trova natura e forza in quel citato ribellismo libertario tipico di queste terre.

Terminato il congresso in provincia di Pisa si costituiscono 35 sezioni, due urbane e 33 rurali con 846 iscritti, con una fortissima presenza di gruppi giovanili[28]. La presenza di una maggioranza di sezioni rurali indica con chiarezza la maggior diffusione dell’organizzazione comunista nei piccoli centri, questa caratteristica è comune a molte altre province dell’Italia centrale. A Pisa la sezione si costruisce intorno alla figura di Roberto Ugo Barsotti, mentre a Pontedera la prima sezione viene fondata il 28 febbraio alla presenza di una cinquantina di militanti, tra questi Bracaloni, Carli, Romboli e l’assessore Bertelli[29], un gruppo che in questi primi mesi vede una consistente adesione dei suoi iscritti agli Arditi del popolo in controtendenza alla direzione nazionale del partito che suggeriva di costituire proprie organizzazioni armate[30].

Le elezioni politiche del maggio 1921 segnano un buon risultato per il Pcd’I che raccoglie oltre ventimila voti nel collegio di Pisa, Livorno, Lucca, Massa e Carrara ed elegge deputato Ersilio Ambrogi. Il partito raccoglie un positivo esito anche nel pisano, con oltre tremila voti e punte di eccellenze in zone come Pontedera dove raggiunge il 17% dei suffragi.

Nonostante il successo elettorale del Partito comunista, i socialisti – come si può immaginare visto il posizionamento del sindacato pisano – si mantengono egemoni nel movimento operaio, riportando una significativa vittoria nel congresso della Camera del lavoro confederale di Pisa, del marzo 1922, che li vede raccogliere ben 5.475 contro i 1.169 dei comunisti[31].

Retro della fotografia: "A perenne ricordo del domicilio coatto, alla mia cara Elena ed ai miei cari figli, con amore e affetto. Ugo". Per gentile concessione della famiglia Barsotti e, per volere della famiglia, l'immagine deve essere utilizzata esclusivamente per questo articolo.

Retro della fotografia: “A perenne ricordo del domicilio coatto, alla mia cara Elena ed ai miei cari figli, con amore e affetto. Ugo”.
Per gentile concessione della famiglia Barsotti e, per volere della famiglia, l’immagine deve essere utilizzata esclusivamente per questo articolo.

Nelle zone del pisano si muovono piccoli gruppi comunisti, la situazione è invece più organizzata e radicata nella zona di Santa Croce sull’Arno e nel Volterrano. Nel settembre del 1922 gli iscritti alla federazione pisana sono circa 250 e il segretario della Federazione è il giovanissimo Carlo Cimini coadiuvato dal più esperto Guglielmo Taddei. Nonostante i numeri delle adesioni, la federazione di Pisa ha evidenti difficoltà organizzative, lo stesso «Ordine nuovo» segnala che è totalmente «sprovvista di ogni elementare organizzazione e di stampa» per questo il partito ritiene più opportuno costituire una federazione interprovinciale tra Pisa e Livorno sotto la guida del segretario  Ilio Barontini, che presto diventerà uno dei più autorevoli dirigenti comunisti del paese.

Questi brevi lineamenti sulle origini del Pcd’I nella provincia pisana già ci indicano alcuni elementi per comprendere meglio il successivo radicamento del partito in quella che nel secondo dopoguerra sarà considerata, insieme all’Emilia Romagna, una delle regioni più rosse d’Italia e di cui la provincia pisana sarà una parte importante. Ernesto Ragionieri aveva già a suo tempo sottolineato come questo processo costitutivo si era realizzato riallacciandosi «a tendenze e tradizioni di più lunga portata del movimento operaio e popolare italiano», attingendo «alla sorgente plebea e libertaria del movimento operaio italiano, il che volle dire l’artigiano accanto all’operaio di fabbrica, il contadino emancipato e ribelle a fianco dell’ex ferroviere cacciato dal proprio luogo di lavoro. Perseguitato e pressoché immobilizzato nelle grandi città industriali, si arroccò con rinnovata tenacia, in alcuni piccoli centri dell’Emilia e della Toscana dove la tendenza moderna del socialismo si era innestata su ribellioni antiche»[32]. Queste considerazioni trovano conferma nella storia del partito nella provincia di Pisa che ha potuto anche qui beneficiare non solo della classica tradizione socialista di sinistra e della cultura sovversiva in genere ma anche e soprattutto di quella libertaria, una presenza capillare che risaliva al tempi della Prima Internazionale.

Alcune domande inevitabilmente sorgono a chi si approccia a questa storia: come, seppur per un breve periodo di attività alla luce del sole prima delle leggi eccezionali, il partito sia riuscito nonostante mille difficoltà e come minoranza a radicarsi tra le classe subalterne locali e come si sia formata quella leva di militanti che poi sarà protagonista della stagione resistenziale e della formazione del nuovo partito comunista dopo la svolta di Salerno del 1944? Indagare come i dispersi militanti del Pcd’I, senza una direzione e una presenza costante sul piano organizzativo, siano riusciti negli anni del regime a sopravvivere è un interrogativo a cui una ricerca, avviata in occasione del centenario della fondazione del partito, sta cercando di dare risposte partendo dalla costruzione di un dizionario biografico con oltre 250 profili di militanti comunisti della prima ora[33].

NOTE
[1]Sulla figura di Ersilio Ambrogi si v. le voci biografiche in Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico 1853-1943, t. 1, Roma, Editori riuniti, 1975, pp. 58.60 e Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani, t. 1, Pisa, BFS, 2003, pp. 32-33 (v. curata da F. Bertolucci). Inoltre, F. Creatini, Ersilio Ambrogi: antifascista o informatore dell’OVRA? in  https://www.toscananovecento.it/custom_type/ersilio-ambrogi-antifascista-o-informatore-dellovra.

Sulle origini del Pcd’I nella provincia di Pisa si v. Documenti e testimonianze sulla fondazione del Pcd’I in provincia di Pisa, a cura di A. Marianelli, Pisa, a cura della Federazione pisana del PCI, 1981 ora in A. Marianelli, Eppur si muove! Movimento operaio a Pisa e provincia dall’Unità d’Italia alla dittatura, Pisa, BFS, 2016, pp. 171-229; P. Consolani, La scissione del 1921 nelle province di Pisa e Livorno, in La formazione del partito comunista in Toscana 1919-1923. Elementi di una ricerca, Firenze, Istituto Gramsci/Sez. Toscana, 1981, pp. 83-109.
[2]Cronaca rossa della provincia. Frazione comunista, «L’Ora nostra», 3 dicembre 1920.
[3]Cronaca rossa della provincia. Frazione comunista del PSI, «L’Ora nostra», 31 dicembre 1920.
[4]Con Regio Decreto Legge n. 2011 del 15 novembre 1925 i comuni di Collesalvetti, Rosignano Marittimo, Cecina, Bibbona, Castagneto Carducci, Sassetta, Campiglia Marittima, Suvereto e Piombino vengono staccati dalla provincia di Pisa e aggregati alla provincia di Livorno. I comuni di San Miniato, Montopoli in Val d’Arno, Santa Maria a Monte, Castelfranco di Sotto e Santa Croce sull’Arno passano invece dalla provincia di Firenze a quella di Pisa.
[5]Vigilia di Congresso, «L’Ordine Nuovo», 14 gennaio 1921.
[6]Sulla vicenda si v. A. Polsi, Il profilo istituzionale (1865-1944) in La provincia di Pisa (1865-1990), a cura di E. Fasano Guarini, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 141-149.
[7]I primi di marzo a Pontedera, proprio a seguito dello sciopero generale e delle proteste e per l’uccisione di Spartaco Lavagnini, le forze dell’ordine fanno in irruzione nella sede del Partito Comunista e arrestano venti persone, cfr. Cronaca rossa della provincia. Pontedera. «L’Ora nostra», 4 marzo 1921.
[8]Teste e Tasti, «Il Ponte di Pisa», 26 febbraio 1921.
[9]Spaziamo… il malumore, «Il Ponte di Pisa», 12 febbraio 1921.
[10]Cfr. S. Ficini, Il comprensorio del cuoio nella bufera: dalla rivoluzione al regime (1918-1922), Pontedera, Bandecchi e Vivaldi, 1998 p. 189.
[11]Su e giù per la Provincia. Volterra, «Il Ponte di Pisa», 29 gennaio 1921.
[12]Tra le varie pubblicazioni in materia, per le vicende toscane, si confronti la recente pubblicazione Il biennio rosso in Toscana 1919-1920 Atti del convegno di studi Sala del Gonfalone, Palazzo del Pegaso 5-6 dicembre 2019, a cura di S.Rogari, Firenze, 2021.
[13]I tre socialisti sono Giuseppe Emanuele Modigliani, Giuliano Corsi, Russardo Capocchi; il  repubblicano è Ettore Sighieri.
[14]I socialisti ottengono oltre 1.400 voti, ma è altissima l’astensione: l’affluenza è infatti inferiore al 50% dell’intero corpo elettorale. R. Cerri, Pontedera tra cronaca e storia. 1859-1922, Pontedera, Bandecchi e Vivaldi, 1982 p. 256.
[15]Su e giù per la provincia, «Il Ponte di Pisa», 22-23 gennaio 1921.
[16]Cfr. M. Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano 1919-1920, Roma, Bonacci, 1980, p. 163.
[17]Cronaca rossa della provincia. Buti. «L’Ora nostra», 3 dicembre 1920.
[18]Cfr. J. Spinelli, La Liberazione a Pomarance. Memorie e documenti. Pomarance, Associazione turistica “Pro Pomarance”, 1995. p. 18-19.
[19]Atti del partito, «L’Ora nostra», 10 dicembre 1920.
[20]Cfr. R. Martinelli, Il Partito comunista d’Italia 1921-1926, Roma, Editori riuniti, 1977, pp. 135.
[21]Sul congresso della sezione di Calcinaia cfr. G. Bozzoli, Ricordi del secolo prima, Fornacette, Graphic Art, 2003, pp. 145-154.
[22]Cronaca rossa della provincia. Santa Luce, «L’Ora nostra», 14 gennaio 1921.
[23]Cronaca rossa della provincia. Bagni di Casciana, «L’Ora nostra», 14 gennaio 1921.
[24]Cronaca rossa della provincia, Montefoscoli, «L’Ora nostra», 14 gennaio 1921.
[25]Cronaca rossa della provincia. Asciano, «L’Ora nostra», 24 dicembre 1920.
[26]In Toscana, «L’Avanti!», 8 gennaio 1921.
[27]G. Bani, Preparando il congresso di Firenze, «L’Ora nostra», 10 dicembre 1920.
[28]Cfr. R. Martinelli, Il Partito comunista d’Italia 1921-1926, cit., pp. 161.
[29]Cfr. A. Vivaldi, Pontedera dal 1919 al 1926 nei ricordi, Pontedera, Bandecchi e Vivaldi, p. 26.
[30]Cfr. R. Cerri, Pontedera tra cronaca e storia. 1859-1922, cit. p. 267.
[31]Cfr. A. Marianelli, Eppur si muove…, cit., p. 174.
[32]Cfr. P. Consolani, E. Dozza, R. Gilardenghi, G. Gozzini, La formazione del Partito comunista in Toscana (1919-1923). Elementi di una ricerca, cit., p. XV dell’introduzione di T. Detti.
[33]La ricerca è stata avviata nel più ampio progetto di recupero e sistemazione dell’archivio storico del PCI che la Biblioteca Franco Serantini Istituto di storia sociale, della Resistenza e dell’età contemporanea in collaborazione con il Comitato promotore (composto da ex militanti e dirigenti della federazione pisana del Pci) ha avviato nel gennaio di quest’anno.




Le battute anticomuniste del 1925-1927 in provincia di Siena*

Il Pcd’I senese, nato sulla base di nuclei della frazione comunista presenti in varie sezioni del Psi già prima della scissione di Livorno, aveva raccolto nel suo primo anno di vita 483 iscritti, non molti rispetto a Massa, Pisa, Grosseto, Arezzo e ovviamente Firenze, ma distribuiti sul territorio provinciale con una capillarità unica in Toscana. Le iscrizioni erano calate nei due anni successivi – nel 1923 soltanto un centinaio – ed erano tornate a salire nel 1924 grazie anche all’arrivo nel partito dei socialisti terzointernazionalisti, il cui leader, Ricciardo Bonelli, essendo stato a lungo segretario della Federterra, aveva portato in “dote” un buon numero di lavoratori della terra, soprattutto mezzadri.

Lo squadrismo e l’azione poliziesca avevano fatto sentire i loro effetti costringendo, fin dal 1922, molti militanti all’emigrazione per conservare la propria incolumità e non essere incarcerati di continuo.

Ondate di arresti di massa non si erano tuttavia verificate neppure nei periodi più duri come durante la “battuta anticomunista” del 1923 che portò in carcere migliaia di comunisti in varie parti d’Italia e quasi l’intero gruppo dirigente nazionale.

A colmare questo vuoto intervennero, fra il 1925 e il 1927, due vaste operazioni di polizia, una con epicentro Colle Val d’Elsa e Poggibonsi, l’altra con epicentro Sinalunga.

«Nelle prime ore del giorno corrente – si legge nel rapporto dei carabinieri della stazione di Colle Val d’Elsa del 22 agosto 1925 – noi tenente Visconti siamo stati informati da fiduciario che un tale Franci Leo […] qui residente […] era in possesso di una tessera della Federazione giovanile comunista d’Italia, Sezione dell’Internazionale comunista, e che aveva pochi giorni prima promossa una sottoscrizione pro “L’Unità” fra gli aderenti alla Sezione giovanile suddetta. Rintracciato il Franci e accompagnato in questa caserma e sottoposto a stringente interrogatorio ha rilasciato l’unita dichiarazione».

Da quella dichiarazione estorta a suon di percosse – questo è il significato di “stringente interrogatorio” – emersero notizie che consentirono di proseguire le indagini e di estenderle a Poggibonsi, a S. Gimignano e a Siena. Arresto dopo arresto risultò che sia i giovani comunisti, sia i comunisti “adulti” avevano effettuato una serie di riunioni in luoghi appartati – Maltraverso, Cappellina, Poggio Tondo, Dondolo – per organizzare il tesseramento, raccogliere soldi per L’Unità e per il Soccorso Rosso.

Al termine del lavoro investigativo gli arrestati risultarono cinquantuno. Fra loro Ricciardo che, con il fratello Gino, era al vertice della federazione. Finì agli arresti anche una donna, Lina Ranucci, moglie di Ricciardo. Trentasette arrestati vennero liberati dopo alcuni giorni, quattordici rimasero in prigione.

La Corte di Appello di Firenze, chiamata ad una prima decisione sulla loro sorte, con le sentenze del 3 dicembre 1925 e del 19 gennaio 1926, decretò trentasette assoluzioni per insufficienza di prove ed una per non doversi procedere. Rinviò gli altri tredici imputati, tutti ancora in stato di detenzione, alla Corte d’Assise di Siena per rispondere dei delitti di aver voluto «mutare violentemente la costituzione dello Stato e del Governo […] e di aver determinato altri a incitare o personalmente incitato all’odio fra le varie classi sociali […] aizzando il proletariato ad abbattere la borghesia e ad instaurare la propria dittatura».

Il processo fece clamore. I carcerati arrivarono incatenati. «Il 18 maggio 1926 – è il ricordo di uno di loro, Balilla Giglioli – i tredici furono condotti in via del Casato dove ha sede la corte d’Assise. Detta via era affollata ed il camion a stento, nonostante il servizio d’ordine, poté arrivare. Fatti scendere […] furono messi in un gabbione di ferro contornato da sei carabinieri in alta uniforme […]. Il ras Baiocchi […] con occhiate e lazzi dirigeva praticamente il processo». La sentenza di condanna appariva già scritta nel clima prima ancora che nell’andamento dibattimentale – da cui peraltro risultò che nessun imputato aveva abiurato la propria fede ideale – ma a scattare fu la prescrizione dei reati politici prevista dall’amnistia del luglio 1925.

L’altra “battuta anticomunista” nel senese avvenne un anno e mezzo dopo, quando era stata ormai varata la legislazione eccezionale e il fascismo da sistema politico autoritario si era trasformato in dittatura.

Il 22 gennaio il capitano Alfonso Demitry e il tenente Arturo Bianchini dei carabinieri di Montepulciano così scrivevano: «Nonostante le recenti ed energiche misure adottate dal Governo Nazionale per lo scioglimento di tutti i partiti sovversivi, al comando della compagnia CC.RR. di Montepulciano risultava in modo certo, dopo accurate investigazioni, che nella plaga Bettolle-Sinalunga l’organizzazione comunista esisteva ancora ed era in pieno sviluppo in quelle masse di lavoratori. L’azione dell’Arma in un primo tempo fu sagace e persistente in modo da poter venire a conoscenza dei maggiori esponenti del comunismo di Bettolle e del modo come la propaganda veniva svolta. Poscia si dové agire decisamente e con rigore tanto da stroncare la criminosa associazione e così noi sottoscritti con trenta militari dell’Arma […], nelle notti del 4 e 7 corrente, favoriti dalla persistente pioggia e freddo intenso, potemmo addivenire all’arresto nei propri domicili».

Gli arrestati furono trentuno, ai quali se ne sarebbero aggiunti altri cinque, più due denunciati in stato di detenzione al confino per essere già incorsi bei rigori della legislazione speciale.

L’investigazione aveva portato a individuare il funzionamento dell’organizzazione. «Antonio Malfetti […], da poco emigrato in Francia, da prima socialista e poi fervente comunista […] poté gettare le basi dell’organizzazione comunista in Bettolle-Sinalunga, tanto che in un piccolo registro ben nascosto, ma potuto sequestrare per il modo abile e minuzioso con cui vennero eseguite le perquisizioni domiciliari, si poté leggere il proclama […] ai compagni dell’aretino: “A nome del partito comunista (socialista vero) non vi chiediamo i soldi per la  tessera […], noi vi chiediamo l’inquadramento delle forze proletarie […], in ogni paese due o tre compagni  di buona fede per trovare un buon numero di organizzati disposti a tutto per il giorno della riscossa”».

In un altro passaggio del rapporto si legge: «Il Doretti Ademaro, incensurato, in bicicletta si recava [da Siena] a Rapolano in località Armaiolo ove giunto consegnava al Ravagni [Riccardo] o al Benicchi Gurlino o al Felici Giuseppe o ad altro compagno, che riconosceva con parola d’ordine, l’involto contenente la segreta corrispondenza consistente in manifestini di propaganda sovversiva, tessere del partito e giornali. In tale maniera la stampa giungeva ai compagni di Bettolle i quali, dopo averne preso visione, dovevano, secondo le istruzioni, tutto distruggere».

Le stampe arrivavano a Siena portate da un «corriere di partito», che si faceva chiamare Metello Taddei, «rimasto sconosciuto». A Siena venivano convogliati i soldi raccolti per il Soccorso Rosso.

Al termine dell’indagine – che poté dipanarsi perché durante gli interrogatori ci fu chi cedette e si fece sfuggire delle informazioni – sedici degli arrestati vennero rimessi in libertà, seppure scaglionati in tempi diversi. Venticinque, comprendenti anche i due denunciati già detenuti al confino, furono invece mandati in giudizio.

La commissione istruttoria presso il Tribunale speciale per la difesa dello Stato con la sentenza del 30 maggio 1927 li rinviò tutti a giudizio per avere «organizzato attivamente […] le file del partito comunista, disciolto per ordine della pubblica autorità […] e avere fatto propaganda delle dottrine e dei metodi e del programma […] mediante diffusione di giornali e stampe a carattere sovversivo». Due anni dopo, il 12 giugno 1929, il Tribunale speciale pronunciò tre assoluzioni per insufficienza di prove e ventuno condanne variabili fra i dodici anni e i due anni e mezzo di reclusione.

 

*Il presente testo è la rielaborazione di una parte del saggio Il Pcd’I in provincia di Siena (1921-1926) in pubblicazione su “Bullettino senese di storia patria” 2021.

 

RIFERIMENTI ARCHIVISTICI E BIBLIOGRAFICI

Archivio Centrale dello Stato, Tribunale speciale per la difesa dello Stato, Archivio generale, Presidenza, Fascicoli processuali.

Archivio di Stato di Siena: Questura, 3° versamento; Tribunale di Siena, Corte d’Assise.

Paradisi Mino, L’antifascismo a Colle, Colle Val d’Elsa 2008.

Bardini Vittorio, Storia di un comunista, Firenze 1977.

Burresi Franco – Minghi Mauro, Poggibonsi dal fascismo alla liberazione, Poggibonsi 2019.

 




“L’energicissima lezione” del 1937: la ripresa dello squadrismo contro gli antifascisti grossetani

Incitata o tenuta a bada a seconda delle convenienze, la violenza è sempre stata un fondamento dell’ideologia fascista. Già all’epoca dello squadrismo e prima della presa del potere, i fascisti propagandarono la propria fede con la pratica della violenza «mitizzata e sublimizzata come manifestazione di virilità e di coraggio, strumento necessario per liberare la nazione dai suoi dissacratori. L’offensiva armata dello squadrismo contro il proletariato, per i fascisti, era una santa crociata dei veri credenti per annientare i profanatori della patria, redimere il proletariato dalla idolatria dei falsi dèi dell’internazionalismo, riconsacrare i simboli e i luoghi santi della nazione, riportando la patria sugli altari della devozione civile[1]». Il tutto si tradusse in minacce, intimidazioni, saccheggi, devastazioni, incendi e uccisioni di avversari politici, negli anni più bui dello squadrismo. Neppure la presa del potere da parte del fascismo valse a porre fine alla violenza. Una lettura più recente di questo fenomeno ha sottolineato come anche negli anni centrali della dittatura mussoliniana squadrismo e violenza non vennero mai meno, tanto che il primo non può esser considerato un residuo anacronistico o un effetto collaterale del percorso ventennale del regime, quanto un elemento imprescindibile nella definizione del fascismo. Stando a questa interessante interpretazione, nonostante la necessità di normalizzazione il regime non rinunciò mai alla violenza, poiché normalizzazione governativa e illegalismo squadrista erano due piani di un’unica strategia politica che perseguiva lo stesso obiettivo di conquista integrale della società e di creazione di una nuova Italia e di un nuovo italiano da conseguire innanzitutto attraverso l’eliminazione di ogni forma di opposizione[2].

L’analisi dei contesti locali durante il Ventennio conferma il perdurare di una situazione di tensioni e violenze, che riguardarono perfino il campo fascista dove si combattevano le lotte di fazione per la conquista del potere locale. D’altronde, sin dalle origini e al di là delle differenti realtà politiche ed economiche, il fascismo fu una precaria alleanza tra interesse e ideologia, tanto che «agli occhi di molti fascisti il movimento era stato uno strumento di avanzamento sociale ed economico[3]».  Dallo studio della documentazione delle Federazioni provinciali del Pnf è emerso come, nel corso degli anni, la componente dell’interesse prese il sopravvento su quella dell’ideologia. La priorità data dai gerarchi di provincia al perseguimento dei propri interessi privati e materiali sconfinò in frequenti casi di affarismo, corruzione e malcostume che ebbero conseguenze sull’opinione popolare, provocando atteggiamenti di distacco, apatia, disaffezione nei confronti del partito e del regime. Fu soprattutto nella seconda metà degli anni Trenta che si moltiplicarono i rapporti dalle province volti a illustrare tale situazione: nel grossetano, oggetto di questa indagine, vi furono riscontri non solo nel capoluogo di provincia ma anche in altri paesi quali Massa Marittima, Civitella e Pitigliano[4]. Soffermandoci proprio sul contesto maremmano nella seconda metà degli anni Trenta, parallelamente al malcontento verso i gerarchi notiamo una netta ripresa degli atti di intimidazione e violenza verso gli antifascisti, in particolar modo nel 1937, in concomitanza ad eventi internazionali di notevole importanza in quegli anni (la guerra civile spagnola e la nascita dell’Impero nell’Africa orientale italiana) e al massimo sforzo profuso dal regime nel tentativo di fascistizzare la società e ampliare il consenso, grazie anche al ruolo svolto dal Partito nazionale fascista, il custode della fede e “grande pedagogo”. Il protagonista assoluto di questa nuova ondata di squadrismo fu proprio il segretario federale del Pnf, Angelo Maestrini, un geometra nato a Gavorrano nel 1902, squadrista e iscritto antemarcia, già consigliere comunale e poi podestà e segretario del fascio dello stesso Comune fino alla sua nomina alla guida del partito in provincia, che tenne dal maggio 1934 al febbraio 1938. Perfetto esempio dell’incrocio già descritto di “fede e fortune” e di quei ceti medi delle professioni in ascesa, formatisi nelle file del partito e destinati a rappresentare la nuova classe dirigente del fascismo, Maestrini ebbe un ruolo di primo piano durante il Ventennio in Maremma e si contraddistinse per il fenomeno del cumulo di cariche, i casi di affarismo e il facile interscambio tra gli incarichi politici e quelli statali, poiché dopo l’esperienza di federale fu nominato podestà di Grosseto.

Antifascisti grossetani nel 1928. Da sx in piedi: Attilio Vitali, Gino Franchi, Paolino Ancarani, Luigi Franchi, [...], Artino Meconcelli, Ferdinando Nardini, Adamo Tonini, Augusto Boschi,. Da sx seduti: Dino Berti, Pietro Ginanneschi (pHOTO CREDITS: a.- bANCHI, sI VA PEL MONDO)

Antifascisti grossetani nel 1928. Da sx in piedi: Attilio Vitali, Gino Franchi, Paolino Ancarani, Luigi Franchi, […], Artino Meconcelli, Ferdinando Nardini, Adamo Tonini, Augusto Boschi,. Da sx seduti: Dino Berti, Pietro Ginanneschi (photo credits. A. Banchi, Si va pel mondo)

Nella seconda metà degli anni Trenta la federazione provinciale fascista dispose un aumento delle attività di vigilanza sugli antifascisti e incitò alle spedizioni punitive nei confronti degli elementi sospetti. Le bastonature riguardarono il capoluogo maremmano (dove si contarono circa 20 azioni violente) ed anche altri centri della Provincia, quali Orbetello, Follonica, Scarlino e Porto Santo Stefano. Il 5 aprile 1937 il federale Maestrini aveva comunicato al segretario nazionale del Pnf Starace di aver notato già da tempo una certa riorganizzazione da parte degli antifascisti locali[5]. Dal servizio di vigilanza da lui disposto era emerso che individui ritenuti sovversivi tendevano a ritrovarsi in gruppo per le vie cittadine, commentando la situazione grossetana e i fatti politici in generale. La ripresa delle azioni punitive su invito dello stesso federale aveva però trovato una netta contrarietà da parte della Prefettura, della Questura e dei carabinieri, che invitarono ripetutamente Maestrini a sospenderle, non risultando loro alcun indizio di attività sovversiva. «Da tali esortazioni non sono estranee preoccupazioni per la propria personale responsabilità», aggiunse polemicamente il federale. Nonostante tali inviti, la federazione provinciale fascista proseguì le attività di vigilanza e continuò ad incitare le azioni violente. Questa nuova ondata squadrista, promossa dal partito locale ma osteggiata dalle autorità statali in provincia, mal si conciliava però con quei compiti di “mediazione” a tutti i livelli a cui ormai il Pnf doveva adempiere. Significativo il fatto che lo stesso Starace girò la lettera di Maestrini al sottosegretario agli Interni Buffarini Guidi per gli avvertimenti del caso. Il radicalismo del federale che minava la stabilità in provincia non poteva più esser tollerato e fu, come vedremo, uno dei motivi principali dell’allontanamento di Maestrini dalla guida del partito e del suo insediamento alla guida comunale. Qui fu chiamato a sostituire il podestà Ezio Saletti, fratello del “martire” fascista Ivo, caduto nel corso della spedizione punitiva su Roccastrada del 24 luglio 1921, che pur essendo stato chiamato a svecchiare e spersonalizzare la carica podestarile dopo la lunga gestione Scaramucci, aveva deluso tutte le aspettative, mancando in quegli attributi giudicati fondamentali dal regime per la figura del podestà, quali la “fattiva operosità”, l’efficienza, la moralità e la capacità di accattivarsi la stima della popolazione[6]. Ennesima dimostrazione delle difficoltà del regime di garantire stabilità in provincia e di promuovere una nuova classe dirigente giovane, dichiaratamente fascista ed espressione dei ceti medi, che fosse preparata ed efficiente, nonché del malaffare dei gerarchi, che comprometteva il consenso della popolazione al regime.

Tornando al tema dell’ordine pubblico e delle violenze sui presunti sovversivi nel 1937, le forze dell’ordine grossetane nel corso dell’anno non avevano rilevato attività ostili al regime, in relazione anche agli avvenimenti spagnoli, tali da giustificare le spedizioni punitive promosse dal partito. Ne è un esempio questa relazione stilata dai carabinieri di Grosseto il 13 aprile 1937, avente ad oggetto la repressione della propaganda sovversiva.  « […] Si comunica che, l’11 detto, alcuni fascisti in Roselle, frazione di Grosseto,  percossero senza conseguenze tali Sandri Ippolito, Tenti Giuseppe, Capitoni Angelo, Doveri Cesiro, Scheggi Priamo, i quali pur non avendo militato nei partiti sovversivi, ad eccezione dello Scheggi di idee comuniste, mantengono un contegno non favorevole al Regime. Ieri, 12 corrente, verso le ore 19,30, altri fascisti percossero in Grosseto tali Bellucci Albo e Fanteria Giuseppe perché nutrono idee contrarie al fascismo. Solo il Bellucci riportò contusioni guaribili in giorni sei. Pur trattandosi di elementi infidi in linea politica, sui quali gli organi di polizia esercitano il dovuto controllo, il ripetersi di azioni punitive da parte dei fascisti, sta dando luogo a commenti poco favorevoli, specie perché in questa provincia non si sono verificati fatti tali da giustificare reazioni fasciste[7]». Già nel 1936 era stata segnalata una ripresa dell’attività sovversiva fra gli operai disoccupati, che aveva portato però semplicemente a un aumento delle attività di vigilanza senza particolari rilievi di sorta[8]. L’anno successivo vi furono varie segnalazioni di scritte sovversive sui muri (ad esempio “Abbasso Franco = Abbasso il fascismo = Impero di fame” con la sigla della falce e del martello nei bagni comunali di Roccastrada, “Abbasso il Duce, Viva il pane” sul muro esterno del palazzo del sindacato dei lavoratori dell’industria a Grosseto, “Viva la Russia, abbasso l’Italia” sul lavatoio pubblico di Orbetello ecc.), oltre che di invio di stampa sovversiva (il negoziante Giuseppe Barni di Roccastrada, caposquadra della milizia ed ex vice-segretario politico del fascio di Roccastrada, si vide recapitare da Pas de Calais due manifestini contenenti frasi contro l’intervento fascista in Spagna, mentre a Sassofortino giunsero cartoline del soccorso rosso per i bambini spagnoli firmate con la falce e il martello). I carabinieri di Grosseto segnalarono che in vari esercizi pubblici di Orbetello, nei quali erano installati apparecchi radio, venivano captate le comunicazioni della stazione comunista di Barcellona, oggetto di ascolto da parte degli operai dei vari stabilimenti industriali locali[9]. Nel complesso si trattava di una situazione con qualche tensione nelle aree minerarie o a vocazione più industriale, che poteva però esser tenuta sotto controllo con azioni di vigilanza.

L’allarme principale della federazione provinciale fascista era legato principalmente proprio ai fatti della guerra civile spagnola, che avevano riacceso le speranze degli antifascisti locali. Furono ben 25 i volontari della provincia, su un totale di 395 dell’intera regione Toscana, che si trasferirono nel paese iberico per difendere la Repubblica e combattere Franco[10]. Prevalentemente comunisti e appartenenti alle classi popolari, in gran parte erano già espatriati all’estero quali esuli politici, mentre cinque di loro (Vittorio Alunno, Angelo Rossi detto Trueba, Luigi Amadei, Pietro Aureli e Italo Giagnoni) riuscirono a raggiungere la Spagna dalla Maremma con un’impresa temeraria che rappresentò un vero e proprio smacco per le autorità fasciste. Acquistata una piccola imbarcazione a remi grazie alle sottoscrizioni degli antifascisti maremmani, il 21 agosto 1937 elusero i controlli e dalla spiaggia delle Marze, nei pressi di Castiglione della Pescaia, approdarono in Corsica, prima tappa della loro travagliata e avventurosa esperienza in Spagna. Questi episodi e la propaganda sovversiva interna accentuarono il radicalismo all’interno della federazione provinciale fascista, insofferente a qualsiasi forma di dissidenza nel periodo di ricerca massima del consenso e dell’inquadramento totalitario dei giovani. A tal fine il 29 ottobre 1937 nacque la Gioventù italiana del littorio, sorta dalla fusione dell’Opera nazionale balilla e dei fasci giovanili di combattimento e posta alle dirette dipendenze del segretario del Pnf, per la formazione politica e alla preparazione sportiva e militare dei giovani d’ambo i sessi dai 6 ai 21 anni. Di fronte a tali sfide, il partito grossetano non esitò a giocare la carta della violenza per reprimere qualsiasi opposizione. Dopo la fuga dei cinque in Spagna, il comunista e poi partigiano Aristeo Banchi (Ganna) scrisse nelle sue memorie che «le camicie nere grossetane  (Ragno, Catone e tanti altri delinquenti), infuriate per lo smacco subito, erano da evitare come la peste, ogni pretesto era buono per pestaggi malvagi e per “lezioni” che potevano costare la salute a chi le subiva, le provocazioni erano all’ordine del giorno, l’aria per noi oppositori era gravida di minacce[11]».  Lo stesso Banchi ricorda nel 1937 tafferugli e aggressioni a carico di antifascisti (tra di loro Aladino Fumi), che solevano andare in giro per la città ostentando provocatoriamente le cravatte rosse che acquistavano dai cinesi venditori per strada di oggetti e merci varie.

Elvino Boschi

Elvino Boschi

Il caso più eclatante della ripresa della violenza contro gli antifascisti nel 1937 riguardò l’aggressione compiuta nella notte tra il 31 ottobre e il primo novembre dallo stesso federale Maestrini ai danni di Elvino Boschi (classe 1906), un impiegato socialista all’epoca dei fatti disoccupato, noto alle forze dell’ordine e già sottoposto a periodi di vigilanza per la sua attività di ascoltatore delle radiodiffusioni comuniste sulla guerra civile spagnola. Originario di Livorno ma residente da tempo a Grosseto, nel suo fascicolo personale nel Casellario politico centrale era descritto come individuo irascibile e prepotente ma di discreta intelligenza e cultura, assiduo lavoratore di fede socialista, che frequentava elementi sospetti in linea politica, figlio di un impiegato ferroviere collocato in pensione nel 1931, già attivo propagandista delle idee socialiste prima dell’avvento del fascismo. Padre di due figli e coniugato con Licena Rosi, Boschi era il cognato di un altro volontario grossetano nella guerra civile spagnola, Siro Rosi, un militare di leva che nel 1937 si arruolò con i fascisti destinazione Cadice, con l’obiettivo di passare nelle file repubblicane, cosa che fece il 18 aprile 1937, quando passò le linee per dirigersi a Campillo[12]. Poco dopo la diserzione di Rosi, Boschi fu oggetto di prima una violenta aggressione. Come si evince dalla testimonianza della moglie Licena, il 22 maggio 1937 Elvino si trovava a passeggio per le Mura medicee quando, all’altezza del Parco della Rimembranza, l’archivista della federazione fascista Ferruccio Malandrini e altri tre fascisti (Giuseppe Tamburini, Carlo Faenzi e Mario Caciai) lo picchiarono selvaggiamente, provocandogli un’escoriazione all’occhio e una menomazione permanente alla gamba sinistra, che lo costrinse a un periodo di degenza a letto di due mesi e mezzo[13]. Questo triste episodio, che gli valse una diffida da parte della Questura, fu solo il prologo di quello che sarebbe successo pochi mesi più tardi. La notte del 31 ottobre 1937, Boschi stava girando per le vie del centro in compagnia di Guglielmo Marconi, un manovale schedato come anarchico. Dopo essersi ritrovati con alcuni amici (Bruno Bruni, Celso Checcacci, Adamo Innocenti, Gaspare Minucci Aristide Burroni), all’altezza di via Corsica il primo fu riconosciuto e chiamato dal segretario federale Maestrini, insospettito dal girovagare notturno di questo presunto gruppo di sovversivi. Il capo del partito grossetano passò immediatamente alle vie di fatto: Boschi fu preso per i capelli e schiaffeggiato e, dopo aver reagito, pesantemente bastonato e colpito a calci anche dagli altri gerarchi lì presenti[14]. Nella violenta lotta corpo a corpo, così come fu descritta dai carabinieri, Boschi fu spalleggiato da Marconi e Checcacci e alla fine perse i sensi e riportò lesioni alla testa guaribili in quattro giorni. Dopo questo incidente le autorità fasciste locali procedettero a una lunga serie di arresti e perquisizioni. Non mancarono altri atti di violenza da parte dei fascisti decisi alla resa dei conti coi sovversivi: solo per citarne uno, il 2 novembre fu violentemente percosso anche il calzolaio socialista Aldo Ginanneschi. Intanto, Maestrini trovò modo di rinfocolare la polemica con le forze di pubblica sicurezza, accusandole di eccessiva indulgenza verso gli antifascisti e riportando tutto a Starace:

«[…] Il Boschi era sorvegliato dai fascisti e nel mese di aprile ebbe una severa lezione (S. R.); fu poi arrestato ma quasi subito rilasciato perché secondo la Questura non vi erano colpe sicure da addebitargli. Noi sapevamo invece che poteva essere pericoloso perché avvicinava sempre operai fra i quali, sembra facesse propaganda antifascista. Si rende necessario che almeno questa volta le autorità di P.S. agiscano energicamente e senza pietà e non si trincerino nel dire che noi fascisti esageriamo nel considerare le cose. I fascisti fanno sempre il loro dovere e come l’animo squadrista ha loro insegnato».

Nella seconda lettera inviata a Starace in giornata (1° novembre 1937), Maestrini faceva presente che l’identificazione, il fermo e la relativa energicissima lezione degli individui che avevano ammesso di aver partecipato al fatto (tutti consegnati alla Questura e associati alle locali carceri giudiziarie)[15], era stato possibile per il solo intervento della milizia e dei fascisti. «Credo opportuno far presente all’E. V. che S. E. il Prefetto si è limitato a dichiararmi il suo dispiacimento per l’incidente accadutomi, invitandomi alla calma per il timore di altre complicazioni. Ho avuto poi la netta impressione che la Questura voglia considerare la cosa come un fatto di ordinaria amministrazione, felice che i colpevoli siano tutti assicurati alla giustizia e di aver potuto ringraziare chi ad essa si è sostituito con intuito e con prontezza fascista a rintracciare questi delinquenti. Non si sono fatte le indagini, almeno per ora, che la gravità del fatto richiedeva, tanto che fino alle ore 19 non era stato neppure ordinata la perquisizione domiciliare degli arrestati né si era allargato il campo delle indagini verso individui sospetti di sovversivismo, limitandosi, se mai, ad intralciare l’opera di giusto risentimento che i Fascisti della Città stanno esplicando», le sue polemiche parole[16]. Le violenze seguenti al fatto sono ancora ben descritte da Banchi:

«La mattina dopo i “neri” organizzarono, in grande stile, una battuta di caccia al “sovversivo”, durante la quale molti oppositori vennero bastonati per strada e persino nelle loro case, alla presenza dei familiari. Con delle tavolette chiodate fu percosso a sangue il compagno Memmo [Guglielmo, ndr.] Marconi […]. Negli stessi giorni i “salvatori dell’Italia” aggredirono Ettore Tognetti, soprannominato il Bèco, mentre stava giocando in un caffè. Tognetti, che aveva rinunciato a partire per la Corsica con Alunno perché la barca non dava, a suo giudizio, nessun affidamento, fu trascinato fuori dal locale e percosso con spranghe di ferro, finché non perse i sensi. […] Da quella bastonatura – la più grave fra le molte da lui subite – Tognetti non si riprese più: dopo esser passato da un sanatorio all’altro, morì qualche anno dopo per le conseguenze di quella terribile giornata. Le aggressioni dei fascisti proseguirono anche nei giorni seguenti: al bar della Posta, nel corso, Albo Bellucci venne ridotto a uno straccio a furia di manganellate, e in via Amiata lo stesso trattamento fu riservato a Lio Lenzi, un corniciaio comunista, venuto da Livorno, che i “neri” detestavano perché nel suo laboratorio si incontravano gli antifascisti grossetani. Anche a Lenzi, che sarebbe divenuto dopo la Liberazione il primo sindaco della nostra città, i medici negarono qualsiasi certificato sugli effetti dell’aggressione[17]».

Livornese classe 1898, Lenzi era stato uno dei fondatori del Pci e aveva militato negli Arditi del Popolo. Perseguitato dai fascisti e schedato, fu costretto a lasciare il suo lavoro per divenire agente di commercio e nel 1929 si trasferì a Grosseto. Nel capoluogo maremmano stabilì subito dei contatti proprio con Elvino Boschi – originario livornese come lui nonché cugino del noto comunista labronico Ilio Barontini, volontario in Spagna e poi partigiano in Etiopia, Francia e Italia – che lo introdusse nell’ambiente antifascista locale[18].

Il 19 novembre 1937, la commissione provinciale per i provvedimenti di polizia assegnò Boschi e Marconi al confino, rispettivamente per la durata di quattro e tre anni, mentre gli altri furono ammoniti. Tutto ciò nonostante lo stesso Boschi fosse considerato incapace di tenere conferenze, dirigere riunioni e svolgere lavori organizzativi e non avesse mai collaborato a giornali o riviste sovversive. Il 16 dicembre 1938 il segretario federale Elia Giorgetti espresse parere sfavorevole ad un atto di clemenza nei suoi confronti «in considerazione della responsabilità diretta da lui avuta nell’episodio e dei precedenti di irriducibile antifascista». Boschi scontò la pena ad Acerenza, Locri e Pisticci e fu prosciolto dai vincoli del confino per fine periodo il 19 agosto 1941. Successivamente fu trattenuto in arresto per altri tre mesi per contravvenzione agli obblighi del confino. Una volta liberato fu assunto dalla Società Anonima “Il Lavoro”, che aveva in appalto il servizio di facchinaggio nella stazione di Grosseto. Marconi scontò la pena alle Tremiti e a Toro e rimpatriò a Grosseto il 25 dicembre 1938, in seguito al proscioglimento condizionale disposto dal duce. [19] Per uno strano e beffardo destino, i due amici che avevano condiviso la fede antifascista e subito violenze e anni di confino, rimasero uccisi per “fuoco amico” nel corso del primo bombardamento alleato su Grosseto del 26 aprile 1943. Era il giorno di Pasquetta, quando 48 fortezze volanti americane scaricarono quasi 400 bombe da 300 libbre e circa 2000 bombe a frammentazione sulla città. L’obiettivo era la messa fuori uso dell’aeroporto militare e la distruzione della scuola di addestramento per piloti di velivoli aerosiluranti, ma la pioggia di fuoco colpì in particolar modo la zona fuori Porta Vecchia nel centro cittadino, dove erano state allestite le giostre per il giorno di festa[20]. 134 furono le vittime, tra cui molti bambini e i due sovversivi, che magari stavano trascorrendo insieme la giornata discutendo sulla crisi di quel regime da loro così odiato e che sarebbe caduto esattamente tre mesi dopo.

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Angelo Maestrini, federale del PNF grossetano, poi podestà di Grosseto (photo credits: V. Guidoni, Cronache grossetane)

Il caso Boschi e le violenze sugli antifascisti furono uno dei motivi che portarono poi all’allontanamento di Maestrini dalla guida del partito e al suo insediamento come podestà (21 marzo 1938), in un ruolo statale comunque prestigioso ma più defilato politicamente, dove si pensava avrebbe potuto metter da parte il suo radicalismo. Come si ricava da un promemoria e da altra documentazione, la sostituzione dal comando della federazione provinciale del partito fu dovuta anche alla sua forte rivalità con il primo vero capo del fascismo maremmano, Ferdinando Pierazzi, ed al fatto che non lo si riteneva adatto a tal compito, ora che il partito doveva provvedere all’inquadramento totalitario dei giovani con la nascita della Gil [21]. Pensiamo inoltre che a suo carico continuasse a pesasse la grave crisi del partito verificatasi alla fine del 1935, quando varie ispezioni e la stessa corrispondenza del segretario amministrativo del Pnf dell’epoca, Giovanni Marinelli, avevano rivelato il suo malfunzionamento, l’impreparazione del personale addetto, gravi irregolarità amministrative e spese non giustificate, come ad esempio quelle relative all’utilizzo dell’auto del federale[22]. Anche nel ruolo di podestà, Maestrini continuò a distinguersi per i conflitti d’interessi, il cumulo delle cariche (fu nominato presidente e direttore tecnico del Consorzio maremmano delle cooperative di produzione e  lavoro e successivamente segretario provinciale dell’Ente nazionale fascista della cooperazione), nonché per l’affarismo, essendo tra l’altro uno dei perni locali di quel sistema di potere vischioso e votato all’illegalità retto esternamente da Biagio Vecchioni, ex federale di Grosseto divenuto poi deputato e infine presidente dell’Istituto nazionale fascista per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (Infail)[23]. Protagonista anche al tempo della Repubblica sociale italiana, Maestrini fu tenente colonnello della 98ª Legione Guardia nazionale repubblicana (Gnr) di Grosseto, partecipò a diversi rastrellamenti e dopo la Liberazione del capoluogo maremmano fuggì al nord, dove trovò la morte per mano partigiana nei pressi di Recoaro Terme (Vi)[24]. Boschi e Marconi, vittime della sua violenza, erano già morti. Non fecero in tempo a vedere l’occupazione tedesca e il ritorno del fascismo nella veste della Repubblica sociale italiana, né a prender parte alla guerra di Liberazione nelle file della Resistenza. Ma il coraggio di chi osò disobbedire al regime negli anni del consolidamento della dittatura merita di esser ricordato come un atto di Resistenza.

NOTE:
[1] E. Gentile, Il culto del littorio, Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 47-48
[2] M. Millan, Squadrismo e squadristi nella dittatura fascista, Viella, Roma, 2014
[3] P. Corner, L’opinione popolare e il fascismo negli ultimi anni trenta, “Storia e problemi contemporanei”, n. 46, 2007, p. 17.
[4] M. Grilli, Il governo della città e della provincia in V. Galimi (a cura di), Il fascismo a Grosseto. Figure e articolazioni del potere in provincia (1922-1938), Isgrec-Effigi, Arcidosso, 2018.
[5] ACS, fondo Pnf, situazione politica ed economica delle province, b. 2, f. Grosseto. Lettera del federale Maestrini al segretario nazionale del Pnf Starace. Oggetto: situazione politica, 5 aprile 1937.
[6] Sulla sostituzione di Saletti vedi: ASGR, fondo R. Prefettura, bb. 692, 861; ACS , fondo Pnf, situazione politica ed economica delle province, b. 2, f. Grosseto
[7] ASGR, fondo R. Prefettura, b. 677.
[8] ASGR, fondo R. Prefettura, b. 664. Circolare del prefetto Palici di Suni al questore e al Comando dei CC.RR. di Grosseto. Oggetto: risveglio di attività sovversiva, 9 marzo1936.
[9] Tutte queste segnalazioni sono riportate in ASGR, fondo R. Prefettura, b. 677.
[10] Sui volontari toscani nella guerra civile spagnola vedi: I. Cansella, F. Cecchetti (a cura di), Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola, Isgrec-Effigi, Arcidosso, 2012, E. Acciai, I. Cansella, Storie di indesiderabili e di confini. I reduci antifascisti di Spagna nei campi francesi (1939-1941), Isgrec-Effigi, Arcidosso, 2017.
[11] A. Banchi, Si va pel mondo: il partito comunista a Grosseto dalle origini al 1944, a cura d F. Bucci e R. Bugiani, ARCI, Grosseto, 1993, p. 75.
[12] Condannato a morte in contumacia, una volta terminata l’istruzione militare Rosi si arruolò nella Brigata Garibaldi e fu ferito in combattimento. Internato in Francia dopo il ritiro dal fronte delle Brigate internazionali, fu partigiano nel paese transalpino e poi in Italia settentrionale dall’inizio del 1944. Un suo profilo è nel portale Isgrec: Volontari antifascisti toscani tra guerra di Spagna, Francia dei campi, Resistenze, all’indirizzo http://gestionale.isgrec.it/sito_spagna/ita/grossetani/rosi_ita.htm.
[13] ASGR, fondo Questura, b. 429, f. Malandrini Ferruccio. La denunzia a danno dei quattro fu prodotta da Licena Rosi ved. Boschi nell’agosto 1945. Mario Caciai e Carlo Faenzi erano deceduti in Albania in seguito a ferite di guerra, Ferruccio Malandrini fu amnistiato con sentenza del pretore di Grosseto del 25 luglio 1946. Quale iscritto al Partito fascista repubblicano (Pfr) aveva preso parte anche a diversi rastrellamenti antipartigiani. Nel dopoguerra risultava titolare dell’ufficio viaggi e turismo “Avet” e del locale ufficio affissioni, nonché fiduciario del CONI per la riscossione delle giocate effettuate in provincia per il totocalcio. Fu radiato dal Casellario politico centrale il 28 marzo 1955.
[14] Gli altri gerarchi erano il vice-segretario federale Emilio Bertocci, il segretario amministrativo della federazione Guido Chelli, il centurione della milizia Eraldo Ugo Lazzeretti e il segretario del fascio di Arcidosso Carlo Beoni. Nell’interrogatorio in carcere dell’8 novembre 1937 Boschi ricordò così l’accaduto: «La sera del 31 ottobre scorso, in compagnia di Marconi Guglielmo mi diressi alla palestra dell’Onb per assistere alla riunione pugilistica. Poiché il denaro che possedevo non era sufficiente per l’acquisto del biglietto d’ingresso, col Marconi mi misi a passeggiare per la città. In Via Bertani, nell’uscire dal Bar Dopolavoro Maremma, il Marconi si fermò a chiacchierare con un gruppo di conoscenti suoi […] in tutto eravamo sei o sette. Solo conosco il Checcacci, mentre gli altri erano da me conosciuti di vista. Non ricordo chi del gruppo propose di consumare un pollo al Giappone. Siccome detto ristorante ne era sprovvisto, dato anche l’ora tarda, circa le 24, si pensò di recarsi al moderno in Via Corsica. Nel transitare detta Via fu da noi notato il Federale con altri suoi amici, in tutto 4 o 5. Avendo trovato il Moderno chiuso, ritornammo verso la città. Giunti presso il gruppo predetto, fui chiamato dal Federale, al quale io mi avvicinai con ogni riguardo. Il Federale, prendendomi per i capelli, essendo io senza cappello, mi disse: “Che fai a quest’ora in giro” ed io gli risposi “non ho fatto nulla di male, e quindi ho diritto di girare”. Al che fui colpito al viso dal Federale con uno schiaffo. Io reagii. Fu allora che le persone che si accompagnavano al Federale intervennero. Ai colpi di bastone alla testa e di pedate, caddi privo di sensi a terra. Successivamente fui accompagnato, appena rimesso in qualche modo, nella Caserma dei CC. RR. Il Maresciallo Comandante la Stazione, visto il mio stato, mi condusse all’ospedale. Appena si verificò l’incidente vidi i compagni del mio gruppo darsi alla fuga. Non ho mai fatto politica ed ignoravo che qualcuno del mio gruppo fosse sovversivo». ASGR, fondo R. Prefettura, b. 659, f. Boschi Elvino, perseguitato politico.
[15] Oltre a Boschi e Marconi (classe 1905) vi erano i maglianesi Bruno Bruni (classe 1905) e Celso Cecchacci, terrazziere nato nel 1910, i grossetani Adamo Innocenti (classe 1909) e Gaspare Minucci (classe 1908), entrambi facchini, e Aristide Burroni, nato a Montemerano nel 1896, anche lui facchino.
[16] La corrispondenza tra Maestrini e Starace è in ACS, fondo Pnf, situazione politica ed economica delle province, b. 2, f. Grosseto.
[17] A. Banchi, Si va pel mondo, cit. pp. 75-76.
[18] L. Rocchi, La Liberazione di Grosseto. Storia di una Resistenza breve e di un lungo antifascismo nel primo capoluogo toscano liberato, www.toscananovecento.it.
[19] Per i procedimenti giudiziari a carico di Boschi e Marconi vedi: ASGR, fondo R. Prefettura, b. 659, f. Boschi Elvino, perseguitato politico; Ibidem, fondo Questura, Cpc, b. 461, f. Marconi Guglielmo.
[20] Sul bombardamento del 26 aprile 1943 vedi: Silvio Ghiara, Guido Scarlini, Grosseto 26 aprile 1943. Operazione “Uovo di Pasqua”, Innocenti Editore, Grosseto 2003, La ricerca di Giacomo Pacini sul bombardamento del Lunedì di Pasqua del 1943, www.grossetocontemporanea.it. I documenti su questo episodio provenienti da fondi archivistici esteri son conservati presso l’archivio dell’Istituto grossetano della Resistenza e dell’Età contemporanea (Isgrec).
[21] ACS, fondo Pnf, situazione politica ed economica delle province, b. 2, f. Grosseto
[22] ACS, fondo Pnf, servizi vari e carteggi con le federazioni, b. 731.
[23] M. Grilli, Affarismo, corruzione e lotte di fazione: le difficoltà della riforma podestarile in Maremma (1926-1940) in M. Celuzza, E. Vellati (a cura di), La grande trasformazione. Maremma tra epoca lorenese e tempo presente, Isgrec-Effigi, Arcidosso – Gr, 2019, pp. 186-190, 198-202.
[24] ASGR, fondo Questura, b. 429 Cpc, f. Maestrini Angelo.



Cesare Lodovici direttore di «Alalà!» settimanale del Fascio carrarese di combattimento

La ricorrenza del centenario dei fatti di Sarzana è stata un’occasione importante per rileggere e fare il punto (si veda il convegno di studi Resistenza ante litteram. 1921-2021. A cent’anni dai “Fatti di Sarzana”, Sarzana, 16-17 luglio 2021) su un episodio significativo, quasi una momentanea battuta d’arresto, nell’ascesa e nell’affermazione del fascismo in Italia e in particolare nella zona di confine tra Liguria e Toscana dove – proprio a Sarzana – il movimento tardò a prendere piede. Episodio che gli squadristi si affrettarono a definire “eccidio” ma che fu piuttosto un’opposizione ferma delle forze dell’ordine intervenute in quell’occasione e di resistenza popolare, poi, di fronte all’ennesimo assedio che i fascisti tentarono sulla città, questa volta per liberare dal carcere Renato Ricci arrestato il 17 di quello stesso mese.
Tra le tante testimonianze che i giornali si affrettarono a pubblicare nei giorni successivi agli scontri, restava tuttavia parzialmente inedita una lunga e dettagliata cronaca dello scrittore Cesare Vico Lodovici (Carrara, 18 dicembre 1885 – Roma, 24 marzo 1968) e allo stesso modo restava quasi del tutto sconosciuta la sua partecipazione allo squadrismo apuano e all’azione del 21 luglio di cui è, appunto, testimone oculare.
Quasi del tutto perché già nel 1992 lo storico tedesco Roger Engelmann nel libro, mai tradotto in italiano, Provinzfaschismus in Italien. Politische Gewalt und Herrschaftsbildung in der Marmorregion Carrara 1921-1924 (R. Oldenbourg Verlag, Munchen, 1992) indica Lodovici tra i membri del Fascio di Combattimento di Carrara e caporedattore di «Alalà!», settimanale ad esso collegato, che lo scrittore dirige per poco più di due mesi tra il 30 luglio e l’8 ottobre 1921.
Ed è proprio sul numero di «Alalà!» del 30 luglio 1921 che esce il suo resoconto su Come si svolsero i fatti di Sarzana, (ripreso subito dopo da «L’intrepido: settimanale del Fascio di combattimento lucchese» del 14 agosto 1921) a quasi dieci giorni di distanza dagli scontri, sul numero 2 anno I del periodico dove il suo nome figura nell’ultima pagina in basso a destra, nel ruolo di direttore insieme con quello di Lodovico Canepa che ne è gerente responsabile, mentre sul numero precedente del 16 luglio 1921, che corrisponde dunque alla prima uscita del settimanale, il titolo di direttore era affidato al solo Canepa; ed è forse questo il motivo per cui nel regesto di Massimo Bertozzi, La stampa periodica in provincia di Massa Carrara, nella scheda sintetica su «Alalà!», Lodovici non è menzionato (Pacini, Pisa, 1979, pp. 170-171).
Eppure, come emerge dai suoi interventi, il ruolo dello scrittore all’interno del Fascio di combattimento di Carrara non deve essere stato affatto secondario, pur non avendo ricoperto particolari posizioni di comando; né può dirsi anonima l’impronta che la sua direzione imprime al giornale in questo brevissimo ma cruciale lasso di tempo.

Lodovici_La_donna_di_nessunoAllo stesso modo non è trascurabile il ruolo di Lodovici negli ambienti letterari e culturali di quel primissimo scorcio degli anni ‘20 soprattutto per l’eccezionalità delle relazioni che seppe intrecciare e la singolarità della sua scrittura teatrale grazie alla quale il suo nome è ancora citato nelle storie del teatro del Novecento. Amico di Pirandello, di Montale e di Gobetti (solo per citarne alcuni) seppe promuovere presso l’editore torinese, insieme con Sergio Solmi, la pubblicazione del volume degli Ossi di seppia, libro d’esordio di Montale, uscito nel 1925. Del resto Gobetti fu anche editore de L’idiota (1923), uno dei testi teatrali più conosciuti di Lodovici insieme con La donna di nessuno (1920). Infine, bisogna ricordare che ancora oggi è sua la traduzione più accreditata di tutto il Teatro di Shakespeare pubblicato da Einaudi (1965).
Forse a causa di una certa settorialità degli studi, dunque, o forse perché lo stesso Lodovici fin dal 1935, anno in cui si trasferisce a Roma per lavorare come consulente artistico presso l’Ispettorato del teatro, visse appartato con un’accettazione silente ma sofferta del regime fino a quando, nel secondo Dopoguerra, assunse l’incarico di critico teatrale per il quotidiano «La Giustizia», organo del Partito socialista democratico italiano.

La sua adesione al Fascio di combattimento di Carrara e al Partito fascista è comunque facilmente inquadrabile e presenta caratteristiche per certi versi comuni a quella di molti altri intellettuali dell’epoca: reduce dalla Prima guerra mondiale, nella quale aveva perso il fratello minore Vico e guadagnato due medaglie al valore dopo essere stato vittima dei gas asfissianti, nel 1917 Lodovici aveva scontato un anno di prigionia nel carcere di Theresienstadt, in Boemia; laureato in legge, ma scrittore e autore teatrale per vocazione, alle idee liberali univa un forte spirito antiborghese; a ciò si aggiunga, a chiudere il quadro, l’appartenenza a una famiglia di industriali del marmo che a Carrara, come molte altre e più potenti famiglie del comprensorio apuano, Lodovici_L'Idiotapartecipavano strategicamente alla vita politica cittadina aderendo all’una e all’altra organizzazione per mantenere inalterata la propria influenza intorno al tema cruciale del possesso degli agri marmiferi. Negli anni di cui ci stiamo occupando, la crisi politico-sociale del dopoguerra aveva infatti accentuato le aspirazioni delle masse popolari e dei cavatori verso la riappropriazione delle cave, anche in seguito alla proposta di legge mineraria presentata alla Camera dall’on. Eugenio Chiesa il 22 marzo del 1920.
A Carrara il sindaco Edgardo Lami Starnuti non seguì la politica del Ministro, anch’esso repubblicano, e la lotta politica per il possesso delle cave passò nelle mani della Camera del Lavoro di cui in quegli anni era segretario Alberto Meschi. Quest’ultimo, in una Lettera aperta a Benito Mussolini individuava negli esponenti delle famiglie proprietarie degli agri marmiferi i sostenitori e gli aderenti allo squadrismo: Ghino Faggioni e Gualtiero Betti fra tutti e poi quelli che ruotano intorno a questo sistema socio-politico: i Corsi, i Giorgi, i Lodovici, gli Ascoli, i Salvini, i Gattini, i Dell’amico, tutti nomi di famiglie già presenti e poi elette nel Direttivo del Partito liberale a partire dal maggio del 1921.

Ritratto di Lodovici

Ritratto di Lodovici

A gennaio di questo stesso anno, anche Renato Ricci era rientrato in città da Fiume e, iscritto inizialmente al fascio di Pisa, dopo aver fondato l’Associazione dei Reduci fiumani, esordisce nella politica locale all’interno della già menzionata Associazione Democratica Liberale Carrarese che si stava organizzando, appunto, in vista delle elezioni politiche indette per il 15 maggio, dopo lo scioglimento della Camera voluto da Giolitti a fine febbraio. Oltre a Ricci, il «Giornale di Carrara» del 9 aprile 1921, organo di stampa del partito, indica nel nuovo consiglio direttivo liberale anche Tommaso Lodovici, fratello maggiore dello scrittore, poi eletto nel Consiglio comunale presieduto dal sindaco repubblicano Lami Starnuti.
Le elezioni politiche passeranno però in secondo piano dopo che lo stesso Ricci, il 12 maggio di quell’anno, fonda a Carrara la sezione locale dei Fasci di combattimento in cui confluiscono sia gli ex-legionari fiumani sia alcuni membri dell’appena rinnovato Partito liberale.
Nei mesi successivi i giornali locali iniziano il racconto degli scontri e delle violenze che da quel momento in poi furono all’ordine del giorno, così come gli atti provocatori e le vendette che lo squadrismo locale organizzò nel territorio apuano contro socialisti e anarchici e, all’inizio dell’anno successivo, all’interno dello stesso movimento fascista provocando la fine dell’alleanza tra liberali e repubblicani e la conseguente caduta dell’amministrazione Lami Starnuti a gennaio del 1922: a questo punto la spaccatura tra squadristi intransigenti e normalizzatori fu insanabile.
Lodovici appartiene chiaramente alla seconda delle due, all’ala moderata del partito come si deduce dai suoi interventi sulle colonne di «Alalà!»: favorevole ai Patti di pacificazione, egli conferma più volte la sua posizione statalista e pubblica accorati appelli alla disciplina in cui chiede con forza la fine della violenza.
La sua fiducia nel capo, anche dopo le dimissioni di Mussolini, non verrà mai meno – almeno in questo periodo – ed egli tenta più volte di riportare all’unità le divergenze interne al movimento, per cui fu uno dei sostenitori della necessità di trasformare il movimento dei Fasci di combattimento in un vero partito politico, cosa che accadrà a Roma il successivo 8 novembre.
L’azione politica del nuovo partito dovrà basarsi, secondo Lodovici, su un programma di rinnovamento civile e sociale a partire dalla questione che, più di ogni altra a Carrara, aveva scatenato gli scontri tra fascisti, socialisti e anarchici: il controllo degli agri marmiferi e il commercio del marmo che non potevano essere separati dal controllo della Camera del Lavoro. Ai primi di settembre, infatti, i fascisti annunciano la costituzione della Camera Carrarese dei Sindacati Economici invitando gli operai ad associarsi e a ritirare le tessere.
Lo scontro allora fu inevitabile: alcuni industriali iniziarono ad esigere la tessera fascista e a licenziare chi, invece, continuava ad avere quella della Camera del Lavoro. Nel mese di settembre la violenza, mai veramente cessata, diventò di nuovo lo strumento principale della politica fascista e fu diretta ancora più apertamente contro i rappresentanti del sindacato.

Lodovici in auto [1923]

Lodovici in auto [1923]

Ad ottobre Renato Ricci concedeva ad Alberto Meschi due ore di tempo per lasciare la città e sgomberare l’edificio in cui aveva sede la Camera del Lavoro.
A questo punto Lodovici pubblica su «Alalà!» ancora un paio di articoli: il 20 settembre partecipa alla manifestazione per la Solenne Consegna del Gagliardetto al Fascio Carrarese di Combattimento e prende la parola con Ricci, Faggioni e Dino Perrone Compagni per ricordare i termini della lotta tra il Sindacato e la Camera del lavoro.
Sarà uno dei suoi ultimi contributi perché l’8 ottobre del 1921 pubblica il suo Congedo in una lettera in cui saluta Renato Ricci, defilandosi così dall’esperienza squadrista e dalla direzione del giornale.
Sul numero successivo, del 15 ottobre 1921, Lodovici non è più indicato come direttore del settimanale, la grafica del periodico è completamente cambiata e l’unico gerente responsabile è di nuovo Lodovico Canepa. Anzi il 29 ottobre, quando Lodovici interviene con un ultimo articolo, una nota della direzione precisa che quell’articolo non impegna alcun fascista a dover condividere tutte le idee esposte.
Nel 1923 Lodovici tentò ancora una volta, ma senza successo, di riconciliare le due correnti del fascismo carrarese quando Ricci si scontrò con il nuovo sindaco di Carrara, Bernardo Pocherra, costringendo alle dimissioni lui e l’ala liberal-conservatrice del partito.
Probabilmente, già a questa altezza cronologica, la fiducia che Lodovici poteva ancora riporre in una possibile svolta liberale del fascismo doveva essere minima e ciò spiega in qualche modo sia la solidarietà e l’amicizia dimostrata a Piero Gobetti sia il suo impegno nella direzione del «Quindicinale», rivista da lui fondata a Milano nel 1926 con Enrico Somarè, che non fu certamente su posizioni filo-fasciste.
È significativa, in questo senso, una lettera da Viareggio del 9 giugno 1923 in cui Lodovici esprime a Gobetti la sua solidarietà: «Ho sentito le sue disavventure; in parola d’onore io non capisco più il mondo – come quel legnaiolo di Hebbel nella Maria Maddalena. Ma: passerà. Io sono convinto che il liberalismo illuminato sarà l’erede del fascismo
Il 19 luglio del 1930 è ancora di Lodovici la firma in calce alla Vibrante e commossa rievocazione dei fatti di Sarzana pubblicata su «Il popolo apuano», organo della federazione provinciale fascista, per commemorare i morti del 21 luglio; ma già nell’autunno del ‘21, quando si congedava da Ricci, Lodovici doveva aver compreso che il liberalismo illuminato sarebbe arrivato probabilmente solo dopo la fine del fascismo.

Le foto pubblicate in questo articolo sono del prof. Gualtiero Magnani di Carrara, che ringraziamo per la gentile concessione. Ogni altro uso, condivisione con terzi e riproduzione non sono consentite.




Il governatore, il prefetto e il delegato.

Il tema delle sanzioni contro il fascismo è stato ampiamente studiato nel corso dei decenni scorsi, mettendo in risalto soprattutto gli elementi di continuità organica e istituzionale dello Stato italiano, oltre al sostanziale fallimento dei vari provvedimenti di legge adottati, privilegiando uno sguardo dall’alto e di ricostruzione politica degli eventi[1]. Nell’arco degli ultimi anni l’attenzione degli storici si è spostata sull’analisi dei soggetti attivi e passivi di questo passaggio fondamentale per la storia italiana, oltre che sul loro bagaglio culturale e sulle modalità performative del fenomeno, con l’obbiettivo di uscire dalle secche storiografiche della cosiddetta “epurazione” quale il vulnus originale del sistema democratico italiano[2]. Se ci accostiamo ad un caso esemplificativo come quello della provincia di Livorno è piuttosto immediato cogliere le ragioni di questo cambio di rotta nei lavori sul tema, a dimostrazione che la transizione non fu affatto solo, e fin da subito, una «burletta»[3]. Alla luce di tutto ciò prenderò in esame le tre figure che gestirono, con tempi e modi diversi, la defascistizzazione livornese: il tenente colonnello statunitense John F. Laboon, governatore alleato della provincia di Livorno tra l’estate del 1944 e la primavera 1945; il prefetto di carriera Francesco Biagio Miraglia, inviato a Livorno direttamente da Roma nell’agosto del 1944; e il delegato provinciale dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo, l’avvocato ebreo e comunista Ugo Bassano.

Il tenente colonnello Laboon era un ingegnere civile militarizzato all’indomani dell’invasione dell’Italia, col preciso compito di doversi occupare della riorganizzazione logistica e amministrativa delle provincie appena liberate. Le sue presunte capacità nel settore derivavano dal fatto che aveva occupato diversi incarichi di responsabilità manageriale sia all’interno del sistema ferroviario della Pennsylvania sia come dirigente regionale della Work project administration, l’agenzia più importante per l’assistenza ai disoccupati e la rimessa in ordine dell’economia americana nell’ambito del New Deal. Prima di giungere a Livorno era stato brevemente governatore della città di Foggia e della provincia di Pescara, ripristinando in breve tempo le funzionalità del porto della città adriatica. Cattolico particolarmente devoto – dei 6 figli ben 4 abbracciarono la vita religiosa[4] – cercò di ostacolare in tutti i modi i partiti di sinistra orbitanti nel Comitato provinciale di Liberazione Nazionale (Cpln) di Livorno, accusandoli di essere la causa di ogni genere di disordine sociale presente sul territorio di sua competenza[5]. Questo dato è fondamentale da tenere in considerazione poiché il suo arrivo a capo del territorio toscano corrispose ad una netta inversione di tendenza da parte della Commissione Alleata di Controllo (Acc) in materia di defascistizzazione. Secondo gli Alleati, visti i pessimi risultati dei loro tentativi di bonifica dell’amministrazione pubblica nell’Italia meridionale, questo tema doveva essere gestito dal governo cobelligerante italiano, quello di Roma per intendersi, con un supporto esterno da parte degli enti di governo degli Alleati[6]. In prima battuta, quindi, la questione relativa all’allontanamento degli ex fascisti dai posti di lavoro doveva passare dalle mani dei prefetti, figure istituzionali gradualmente reinsediate al vertice delle province dal governo italiano nelle settimane successive alla liberazione dei capoluoghi. Inoltre Laboon si trovò a doversi confrontare con la defascistizzazione livornese all’indomani della pubblicazione del Decreto Legislativo Luogotenenziale (Dll) 27 luglio 1944, n. 159, quello che è stato giustamente definito la «Magna Charta delle sanzioni contro il fascismo»[7]. Per cui, rispettando le indicazioni che ricevettero in agosto i governatori militari alleati delle province italiane liberate, egli fece completo affidamento sul prefetto Miraglia, ammonendolo di iniziare con «urgenza»[8] l’epurazione amministrativa, al fine di tenere a bada l’ordine pubblico[9].

Il prefetto Francesco Biagio Miraglia

Il prefetto Francesco Biagio Miraglia

Miraglia giunse a Livorno nemmeno un mese dopo la liberazione della città, il 12 agosto 1944, toccando con mano il profondo stato di distruzione materiale e morale dell’intero territorio labronico. In un appunto per un collega di poche settimane più tardi espresse tutta la sua rassegnazione per la realtà nella quale era stato catapultato, lui che aveva trascorso quasi tutta la carriera tra gli uffici del Ministero dell’Interno. Miraglia era nato nel 1894 a Castrovillari (Cs), aveva partecipato alla Prima guerra mondiale e si era laureato nel 1919 in giurisprudenza. L’anno dopo era risultato vincitore del concorso per vicecommissari di polizia, salvo transitare quasi subito alla carriera prefettizia. Svolse i primi incarichi da consigliere di prefettura nelle sedi di Voghera, Cosenza e Reggio Calabria. Nel 1927 fu chiamato a lavorare presso il Ministero, dove nel 1941 divenne direttore generale del personale e, nel 1943, ispettore generale. Quest’ultima promozione coincise con la sua nomina a prefetto di 2ª classe, senza avere il tempo per poter esercitare l’incarico a causa della fine del regime fascista e dell’armistizio. Dopo la fuga del re e del governo da Roma, fu tra quei funzionari che rimasero in servizio al Viminale fin quando non venne chiesto loro di prestare giuramento alla Repubblica sociale italiana (Rsi) e prepararsi al trasferimento verso nord. Al suo rifiuto di collaborare con le autorità repubblicane corrispose il collocamento a riposo d’ufficio. In contatto con il fronte resistenziale romano durante tutto l’inverno 1944, la mattina del 4 giugno ricevette l’ordine di tornare subito in servizio e occuparsi della riorganizzazione del Ministero dell’Interno per preparare il ritorno in sede del governo italiano, fino ad allora a Salerno[10]. Miraglia si era dimostrato piuttosto freddo verso il regime fascista, nonostante l’adesione formale e il tesseramento al Partito nazionale fascista (Pnf), perciò l’Acc e lo stesso Ivanoe Bonomi, presidente del Consiglio e ministro degli Interni ad interim, lo selezionarono per andare a dirigere la provincia toscana, una delle più importanti per i piani strategici degli Alleati. Va detto che questa “restaurazione” nei ruoli dirigenziali della periferia non escludeva il fatto che il personale prefettizio fosse messo politicamente sotto esame per escludere la presenza di evidenti compromissioni con l’ex regime di governo. Le regole erano le stesse che valevano per l’epurazione delle altre categorie di funzionari statali, per cui era sufficiente che i prefetti non godessero di benemerenze fasciste, come l’essere stati squadristi o aver partecipato alla Marcia su Roma, e non avessero aderito alla Rsi. Non veniva presa in considerazione l’effettiva partecipazione del dirigente alla vita pubblica del fascismo – che era innegabile dato che costoro avevano ricoperto i maggiori ruoli di responsabilità nel meccanismo dello Stato fascista, come esemplificato dalla biografia di Miraglia – per una ragione sia pratica che politica. Per il governo italiano cobelligerante i prefetti rappresentavano l’ossatura dello Stato unitario, perciò, soprattutto nelle condizioni in cui versava l’Italia liberata dell’estate 1944, la loro presenza era considerata come l’unica in grado di garantire la sopravvivenza della nazione[11]. Il 5 settembre, in seguito all’invito del governatore Laboon di occuparsi dell’epurazione, il prefetto firmò una circolare diretta a tutti gli enti locali per informarli sul contenuto del Dll 27 luglio 1944 n. 159, e, in particolare, su che cosa fosse stato previsto per l’allontanamento di alcune categorie di ex fascisti dalle pubbliche amministrazioni, come gli squadristi o i collaborazionisti. Ciò che emerge dai carteggi tra Miraglia e i singoli enti per approvare, o rigettare, le sospensioni – che furono oltre 80 solo nel primo mese di entrata in vigore del Dll, raddoppiando alla fine dell’inverno successivo – risulta che il prefetto considerasse la questione epurativa come estremamente chiara. Secondo lui, ma ritengo che si possa giustamente estendere questa considerazione a molti funzionari pubblici che esercitarono ruoli di responsabilità in quel determinato frangente storico, dal momento che esistevano delle norme nazionali che regolavano un tema così delicato come quello delle sanzioni agli ex possessori di titoli onorifici del regime, l’unica scelta possibile per coloro che erano chiamati a gestire il complesso processo di defascistizzazione era applicare le regole così come erano scritte[12].

Ovviamente, il lavoro di Miraglia era solo preliminare, visto che non si trattava di entrare nel merito dei singoli casi, giudicarli e comminare una pena. Per questo passaggio, sempre sulla scorta del Dll 27 luglio 1944, n. 159 era stato creato l’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo con le sue ramificazioni provinciali, le delegazioni provinciali. A capo di quella livornese venne posto l’avvocato ebreo e comunista Ugo Bassano, già consigliere giuridico del Cpln ed elemento di collegamento con il governo militare alleato (Amg) diretto da Laboon. Il suo profilo biografico è piuttosto illuminante della sua personalità: proveniente da una famiglia dell’antica borghesia ebraica livornese, si era laureato in giurisprudenza nel 1931, iniziando da subito ad a fare l’avvocato. Nel 1938, in seguito all’emanazione delle leggi razziali, fu privato della possibilità di esercitare in proprio, venendo assunto da un altro avvocato ebreo livornese, Giuseppe Lumbroso, che si era convertito al cattolicesimo nel 1936 ed aveva ottenuto la “discriminazione” per poter continuare con la professione. Questo lavoro semiclandestino si adattava male ad una mente brillante come la sua, perciò accettò una borsa di studio per trasferirsi a Washington ed approfondire così gli studi in legge. Lo scoppio della Seconda guerra mondiale gli precluse la strada dell’espatrio, costringendolo a rimanere a Livorno fino alla primavera del 1943. In questo periodo, grazie ad un incontro casuale con Lanciotto Gherardi – futuro commissario politico livornese –, si avvicinò al Partito comunista italiano (Pci), rimanendo comunque appartato anche dopo l’8 settembre per la sua appartenenza religiosa. Non prese parte attiva alla lotta clandestina e si trovò a vagare senza meta per la Toscana durante i mesi dell’occupazione nazifascista[13]. In base a quello che ho precedentemente detto del rapporto tra Laboon e il Cpln è naturale chiedersi come mai una figura come quella di Bassano venne scelta per gestire fattivamente la defascistizzazione livornese. A mio avviso per due ragione: la prima di ordine politico, e riguarda i mesi della prima crisi del governo Bonomi, con l’uscita dal governo di socialisti e azionisti e la tenuta dei comunisti[14]; l’altra, di tipo pratico, riguarda il fatto che Bassano si dimostrò particolarmente affidabile e degno di fiducia agli occhi di Laboon e Miraglia nei sui compiti precedenti di collegamento tra l’Amg, la prefettura e il Cpln[15]. La nomina ufficiale di Bassano a delegato provinciale dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo avvenne il 19 dicembre, e fu accompagnata da una lettera da parte dell’Alto commissariato aggiunto per l’epurazione, il comunista Mauro Scoccimarro, che gli intimò di «iniziare immediatamente […] un’oculata istruttoria ai fini del giudizio di epurazione»[16] per tutte le pubbliche amministrazioni della provincia. Il suo compito, così come definì lui stesso alcune settimane più tardi in un’intervista per il neonato quotidiano livornese «Il Tirreno», era quello di «un Pubblico Ministero che prende le sue decisioni, ma non fa parte del Tribunale»[17]. I giudizi finali, infatti, sarebbero spettati ad un’apposita commissione presieduta da un magistrato togato, coadiuvato da un membro scelto dalla delegazione e uno di nomina prefettizia. Oltre ad occuparsi delle sole sanzioni amministrative, Bassano, in virtù delle revisioni alla legislazione sulle sanzioni contro il fascismo, seppe gestire anche le sanzioni di tipo fiscale, le cosiddette indagini sugli “illeciti arricchimenti”, e quelle di tipo penale, vale a dire le indagini sui “crimini fascisti”, rendendo la delegazione provinciale la vera e unica macchina della defascistizzazione della periferia livornese[18].

Ugo Bassano

Ugo Bassano

Questa breve analisi su tre delle figure principali della defascistizzazione livornese, vale a dire il primo governatore alleato della provincia, il prefetto e il delegato dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo permette, a mio parere, di cogliere alcuni dati fondamentali. In primo luogo, l’importanza delle biografie di coloro che gestirono fattivamente il passaggio dal fascismo alla democrazia all’indomani della Liberazione in periferia, oltre ai loro legami personali e ai differenti rapporti di forza, e appartenenza, politica. Secondariamente, la complessità di un fenomeno in continuo divenire e che si dovette confrontare con la relativa “fascistizzazione” dei territori, le ferite dello squadrismo (1919-1922) e della guerra civile (1943-1945). Tutto ciò dimostra quanto sia importante non limitarsi a giudicare la transizione solo sulla base degli effetti di precise scelte politiche, come l’amnistia del 22 giugno 1946, bensì cercare di andare oltre alle perplessità verso il «colpo di spugna sui crimini fascisti»[19] e cogliere quelle continue tensioni tra continuità e innovazione, teoria e prassi, centro e periferia, che segnarono l’avvio dell’esperienza repubblicana in Italia[20].

 *Giovanni Brunetti (Cecina, 1997) è laureato magistrale in Storia e Civiltà presso l’Università di Pisa (maggio 2021), dove ha conseguito anche la laurea triennale in Storia (giugno 2019). Attualmente sta frequentando il biennio 2019-2021 della Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Firenze. Dottorando del XXXVII⁰ ciclo di studi (2021-2024) in Scienze archeologiche, storico-artistiche e storiche presso l’Universita degli Studi di Verona.

[1] Cfr. C. Pavone, La continuità dello Stato, in Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, Torino, 1995, pp. 70-159 (ed. or. 1974); M. Flores, L’epurazione, in G. Quazza (a cura di), L’Italia dalla Liberazione alla Repubblica, Feltrinelli, Milano, 1976, pp. 413-467; L. Mercuri, L’epurazione in Italia (1943-1948), L’arciere, Cuneo, 1988; R. P. Domenico, Processo ai fascisti (1943-1948). Storia di un’epurazione che non c’è stata, Rizzoli, Milano, 1996 (ed. or. 1991); H. Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia 1943-1948, il Mulino, Bologna, 1997 (ed. or. 1996); R. Canosa, Storia dell’epurazione in Italia. Le sanzioni contro il fascismo 1943-1948, Baldini&Castoldi, Milano, 1999.

[2] Cfr. G. Focardi e C. Nubola (a cura di), Nei tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italiana repubblicana, il Mulino, Bologna, 2015; C. Nubola, P. Pezzino, T. Rovatti, Giustizia straordinaria tra fascismo e democrazia. I processi presso le Corti d’assise e nei tribunali militari, il Mulino, Bologna, 2019; A. Martini, Dopo Mussolini. I processi ai fascisti e ai collaborazionisti (1944-1953), Viella, Roma, 2019.

[3] A. Galante-Garrone, Il fallimento dell’epurazione: perché?, in R. P. Domenico, Processo ai fascisti, cit., pp. 11-15.

[4] Uno di questi era l’omonimo John F. Laboon, ufficiale sommergibilista durante la Seconda guerra mondiale e cappellano militare nella Guerra del Vietnam. Cfr. R. Gribble, Navy Priest: The Life of Captain Jake Laboon, The Catholic University of America Press, Whashington D.C., 2015.

[5] Sono piuttosto illuminanti in questo senso le relazioni di Laboon presenti in R. Absalom (a cura di), Gli Alleati e la ricostruzione in Toscana (1944-1945), voll. I-II, Olschki, Firenze, 2001, in part. pp. 227-228.

[6] Cfr. N. Gallerano, L’influenza dell’amministrazione militare alleata sulla riorganizzazione dello Stato italiano (1943-1945), in M. Legnani (a cura di), Regioni e Stato dalla Resistenza alla Costituzione, il Mulino, Bologna, 1975, pp. 103-104; D. W. Ellwood, L’alleato nemico. La politica di occupazione degli anglo-americani in Italia 1943-1945, Feltrinelli, Milano, 1977, pp. 240-245; H. Woller, I conti con il fascismo, cit., pp. 217-218.

[7] H. Woller, I conti con il fascismo, cit., p. 193.

[8] ASLi, Prefettura, b. 168 «Epurazione Enti locali (1944-1946)», fasc. 1 «Massime», Lettera di Laboon per il prefetto Miraglia (1° settembre 1944).

[9] Nella primavera 1945, terminata l’esperienza di governatore in Italia, Laboon venne rimpatriato negli Usa dopo un breve incarico in Austria. Tornato alla vita civile si dedicò della gestione del sistema idraulico della contea di Allegheny, in Pennsylvania, pur continuando a mantenere un canale di comunicazione con Livorno grazie alle ripetute donazioni in favore degli enti religiosi assistenziali della provincia. Cfr. John Laboon… Honoray Citizen, «The Pittsburgh Press», May 22, 1955; John F. Laboon, «Pittsburgh Post-Gazette», December 10, 1985.

[10] Cfr. G. Tosatti (a cura di), L’ombra del potere. Biografie di capi di gabinetto e degli uffici legislativi, Icar, giugno 2016, pp. 160-161; G. Miraglia, Riorganizzare lo Stato alla liberazione di Roma (4 giugno 1944). Un documento dell’archivio del prefetto Francesco Miraglia, «Sintesi dialettica per l’identità democratica. Rivista online a carattere scientifico», n. 4, 06/2007 http://www.sintesidialettica.it/index.php (consultato il 26 settembre 2021).

[11] Nel caso della provincia di Firenze, ad esempio, il Comitato toscano di Liberazione Nazionale (Ctln) aveva deliberatamente evitato di nominare un proprio prefetto dopo la liberazione. Questo non certo perché si attendesse una designazione da Roma, bensì perché appariva controproducente ripristinare la figura al vertice di quel governo periferico che si pensava sarebbe stato riformato alla fine della guerra. Era evidente infatti che, se fosse stato scelto anche un prefetto di estrazione politica, e avesse svolto tutte le funzioni tipiche del suo ruolo, si sarebbe data l’opportunità al governo di provvedere, anche in un secondo momento, al ripristino del modello tradizionale di controllo centro-periferia. Cfr. A. Cifelli, L’istituto prefettizio dalla caduta del fascismo all’Assemblea costituente. I Prefetti della Liberazione, Ssai, Roma, 2008, pp. 106-111; M. De Nicolò, L’epurazione “interna”: l’istituto prefettizio, in M. De Nicolò e E. Fimiani (a cura di), Dal fascismo alla Repubblica: quanta continuità? Numeri, questioni, biografie, Viella, Roma, 2019, pp. 21-45.

[12] Come ha ampiamente dimostrato Mariuccia Salvati, il caso di Miraglia non era certamente unico, né un gesto di semplice opportunismo, quanto piuttosto l’esempio dell’appartenenza ad una specifica cultura amministrativa fortemente legalitaria e garantista che, solo inizialmente, era stata anche contrastata dalla rivoluzione fascista. Cfr. M. Salvati, Il regime e gli impiegati. La nazionalizzazione piccolo-borghese nel ventennio fascista, Laterza, Bari-Roma, 1992, pp. 10-12. Vedi anche G. Melis, La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista, il Mulino, Bologna, 2018.

[13] Cfr,. L. Savelli, Il percorso dei Bassano, in M. Luzzati (a cura di), Ebrei di Livorno tra due censimenti (1841-1938). Memoria familiare e identità, Belforte, Livorno, 1990, pp. 77-85.

[14] La spaccatura nel primo esecutivo nazionale del Cln si originò attorno al tema dell’epurazione nella pubblica amministrazione. Da un lato c’erano i socialisti e gli azionisti, che spingevano per una manovra radicale che garantisse l’estirpazione di ogni residuo di fascismo dagli uffici pubblici, dall’altra la moderazione dei liberali e democristiani che, invece, ritenevano già fin troppo energica l’azione del governo italiano con la promulgazione del decreto di luglio. Tra i due contendenti stava il Pci con Togliatti che vedeva in questa crisi la prima concreta possibilità del crollo del fronte ciellenistico. La fine del governo Bonomi non avrebbe significato, per i comunisti, solo la perdita di qualche poltrona, ma di quella legittimità per poter rimanere alla guida del paese e non essere più tacciati come dei fuorilegge. Cfr. R. P. Domenico, Processo ai fascisti, cit., p. 147; H. Woller, I conti con il fascismo, cit. pp. 260-282.

[15] Bassano era laureato e parlava piuttosto bene l’inglese e il francese, così come Furio Diaz, il giovane sindaco comunista del capoluogo dal 1944 al1954. Questi aspetti legati alle personalità dei singoli potrebbero apparire come del tutto secondari rispetto agli importanti ruoli che rivestirono, ma sappiamo da testimonianze coeve come furono fondamentali ai fini di scardinare ogni pregiudizio politico su di loro. Cfr. L. Piazzano, Leghorn decimo porto. Cronaca di un dopoguerra 1944-1947, Debatte, Livorno, 1979, p. 22; G. C. Falco, Le giunte Diaz e la ricostruzione a Livorno, in «Nuovi studi livornesi», vol. XX (2013), pp. 67-130, in part. pp. 68-69.

[16] ASLi, Prefettura, b. 168 «Epurazione Enti locali (1944-1946)», fasc. 1 «Massime», sottofasc. 1 «Delegato provinciale», Lettera di nomina di Bassano (19 dicembre 1944).

[17] R. Miglietta, L’epurazione a Livorno (nostra intervista con l’Avvocato Bassano), «Il Tirreno», 27 febbraio 1945.

[18] Per una trattazione puntuale ed approfondita mi permetto di rimandare al mio lavoro Dio non paga il sabato. La defascistizzazione della provincia di Livorno (1943-1947), tesi di laurea magistrale in Storia e Civiltà, Università di Pisa, rel. Prof. Gianluca Fulvetti, aa. 2019-2020.

[19] M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti. 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Mondadori, Milano, 2006.

[20] Sebbene con una chiave interpretativa diversa e rivolta all’analisi dei processi per i crimini di guerra cfr. L. Baldissara, Sulla categoria di “transizione”, «Italia contemporanea», n. 254, 2009, pp. 61-74.