La guerra agli inermi. Storia e giustizia (I)

Nell’iniziare questa lectio magistralis, mi sia permesso innanzitutto di ringraziare, per l’opportunità concessami, l’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea e la Regione Toscana, due istituzioni che, in vario modo ma sulle rotte dello stesso itinerario, stanno accompagnando il mio percorso lavorativo in una professione, quella della storia, che è anche quotidiano, costante e permanente impegno civile.

Sono onorata di essere qui e di tenere questa lezione in occasione del premio Tognarini. Ivano Tognarini è stato tra coloro che, ormai diversi anni fa, mi hanno introdotto nel mondo della ricerca portata avanti dagli Istituti della Resistenza: con lui sostenni infatti il colloquio che mi ammise alla Scuola Superiore di Storia Contemporanea dell’Istituto Nazionale per il Movimento di Liberazione in Italia, permettendomi così di compiere – insieme a numerosi colleghi con i quali la collaborazione prosegue tuttora, come il direttore dell’ISRT, Matteo Mazzoni – un interessantissimo e importantissimo percorso di studio e di lavoro. A quella Scuola e a quell’esperienza avviata in questa città dinanzi al prof. Tognarini, devo la mia professionalità odierna.

Ciò su cui intendo discorrere oggi è una storia divisa in due parti, connesse tra loro a filo doppio e intrecciato, in maniera irrimediabile quanto inestricabile.

La prima parte riguarda la vicenda, che descriverò per linee generali, dei più di 24.000 morti – 24.112 – censiti dall’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, un immenso progetto di ricerca voluto dall’Istituto Nazionale Parri e dall’Anpi, finanziato dal Fondo italo-tedesco per il futuro e divenuto un database disponibile online[1].

Quei più di 24.000 morti – una cifra immensa per l’Europa occidentale, che prima dell’Atlante individuavamo in un ordine inferiore di almeno 10.000 unità – raccontano oggi, con tanti e maggiori dettagli, ciò che perlopiù conoscevamo per grandi linee oppure, in casi rari – o, meglio in spazi geografici più attenti, solo apparentemente perché più coinvolti – seri approfondimenti su punti specifici[2].

È la storia, che sembra una scoperta dell’ultimo ventennio, delle stragi contro gli italiani perpetrate dai reparti tedeschi e da quelli fascisti repubblicani nel periodo compreso tra l’estate del 1943 e la primavera del 1945. È quello che la storiografia ha perlopiù, a lungo e a ragione, chiamato «guerra ai civili»[3] e che oggi più frequentemente si tende a indicare – in un censimento di vittime diversificate – come guerra agli inermi.

Non solo civili, dunque, ma chiunque, compresi i partigiani disarmati, fu ucciso quando avrebbe dovuto essere tutelato dal nemico al quale si era arreso o dal quale era stato sconfitto e catturato. Inermi furono così, al fianco di quelli che noi consideriamo “ovviamente inermi”, come i bambini di Sant’Anna di Stazzema, i contadini di Marzabotto e Civitella, i detenuti politici delle Fosse Ardeatine, i prigionieri di guerra catturati a Cefalonia, i partigiani della Benedicta e di Figlìne di Prato.

Ciò non toglie, tuttavia, che i civili continuino a rappresentare il più alto numero di vittime delle stragi: nell’estate di sangue del 1944, ad esempio, erano civili il 66% delle vittime di Toscana ed Emilia Romagna, le regioni in generale più colpite dal fenomeno complessivo. Il «tributo di morte» dei civili, ha scritto Chiara Dogliotti, è infatti «più di cinque volte superiore a quello del resto del paese»[4].

La categoria di «guerra ai civili» resta valida in moltissimi casi, per moltissimi eccidi, come quelli di tipo “eliminazionista”, tesi cioè all’eliminazione di intere comunità e interi gruppi di prigionieri[5]. Eliminazioniste sono ben 9 delle stragi toscane, tra cui Stia-Vallucciole, Sant’Anna di Stazzema, San Terenzo Monti-Fivizzano e Vinca[6]

In generale, la categoria di «guerra ai civili» è valida per tutta l’Italia centrale dell’estate 1944, periodo in cui si assiste anzi, come scrive Francesco Fusi, a una «marcata escalation della “guerra ai civili”» dimostrata dalle cifre, che raccontano come, in quell’estate, la Toscana ebbe l’89% delle sue vittime complessive[7].

In generale, su 660 episodi avvenuti in Toscana tra il settembre del 1943 e i primi giorni dell’aprile del 1945, e 4.071 vittime, 3.762 furono “civili”, con tutto ciò che questo termine poteva rappresentare: uomini, donne, adulti, anziani, bambini. Più di 243 bambini e 161 ragazzi entro i 17 anni, precisamente.

La categoria di «guerra ai civili», pensata, come si diceva, da Michele Battini e Paolo Pezzino nel 1997, era anche declinazione della categoria di guerra civile e stava a indicare – cito da ciò che scrive Pezzino – «l’atteggiamento dell’esercito tedesco di programmatica violenza contro gli inermi, accusati di essere complici dei partigiani»[8].

Tuttavia, parliamo oggi di «guerra agli inermi» perché consideriamo più nel dettaglio le caratteristiche dei loro carnefici – i responsabili, i cosiddetti perpetratori, nel “più neutro” linguaggio scientifico –, che non furono tutti animati da un puro spirito di sterminio, ma che anzi perlopiù si mossero, cioè fecero quello che fecero, nell’ambito della guerra totale. E consideriamo più nel dettaglio le caratteristiche delle stesse vittime, che oltre a essere civili furono spesso qualcosa in più che oggi si conosce meglio, e che si racconta come parte integrante della ricostruzione scientifica complessiva.

La definizione di «guerra ai civili» conteneva già, quindi, il tema della violenza “contro gli inermi”, pur omologando – come si accorgevano già alla fine del secolo scorso i principali studiosi del tema – situazioni e contesti eccessivamente differenti[9]. La successiva categoria di «guerra agli inermi» è perciò un approfondimento della prima, ed è conseguente alla dilatazione, all’ampliamento della specificità delle vittime, non più assunte esclusivamente nel loro ruolo di “morti”.

Le loro morti sono, infatti, in qualche modo, contestualizzate, descritte, interpretate – cosa che assolutamente non vuol dire giustificate – in base alla “causa” per cui sono avvenute. Ciò significa, in pratica, che le 24.121 vittime individuate (una stima comunque destinata a non essere definitiva) non furono uccise in quanto o solo in quanto civili, ma anche in quanto partigiani o militari disarmati, antifascisti o sostenitori dei partigiani, ebrei, disertori e renitenti alla leva di Salò etc.

Di conseguenza, nelle 5.750 schede dell’Atlante – tanti sono gli episodi di strage censiti[10] – si è ritenuto, scrivono Pezzino e Fulvetti, di attribuire «la qualifica di “civili” solo a coloro che erano stati selezionati a caso, differenziandoli da quelli uccisi per una loro chiara attività di opposizione […], o per aver vestito una qualche divisa […] o un abito religioso, o perché colpiti in quanto ebrei, o ancora per il rifiuto di far parte dell’esercito della Rsi […]»[11].

Sebbene in questo quadro i civili restino in ogni caso la maggior parte dei morti – 12.922 su più di 24.000 –, tale “approfondimento” ha restituito alle vittime la qualifica di cittadini, cosa che fanno anche, se non soprattutto, i nomi e cognomi che ci si è ostinati a ritrovare e riportare. Cittadini, non semplicemente travolti dagli eventi della storia, per quanto questo non risolva minimamente la totale “gratuità” e criminalità della loro morte.

Quella di «guerra agli inermi» è definizione che rimanda direttamente all’oggetto, al destinatario dell’esplicitazione di quella violenza: l’inerme, il senza armi, cosa che ha permesso di includere nel computo anche gli stessi partigiani quando, catturati e disarmati, venivano uccisi – spesso, anzi, barbaramente trucidati – senza che fosse loro garantita la tutela che sarebbe spettata a un nemico riconosciuto come legittimo. Nell’Atlante, tra gli inermi, sono così rientrati i partigiani non caduti in combattimento ma, dopo la cattura, fucilati, mitragliati, impiccati, annegati, arsi vivi, torturati a morte. Sono, dopo i cosiddetti “civili”, la seconda categoria di vittime in ordine di grandezza: 7.241.

Contestualizzare e catalogare le stragi non è un mero esercizio statistico, anzi: è qualcosa che ci permette di andare oltre il dato numerico e di fare della storia, di questa storia, un argomento di decifrazione degli eventi. Ci complica le cose, quindi le rende utili. Ad esempio, ci permette di evitare il discorso, non scientifico né tanto meno rispettoso nei confronti delle vittime, relativo all’«irrazionalità del male»[12] come causa di tutto, alla follia di pochi che causarono danni e dolori irreparabili.

È un discorso, questo, si diceva, irrispettoso e giustificazionista, oltre che scorretto, perché nasconde un dato basilare per la comprensione, e cioè il fatto che tutto quello che accadde, accadde sulla base di un piano preciso, attentamente studiato e preparato[13]. Fu qualcosa di voluto dagli uomini, insomma, non un volere del fato.

La guerra contro gli inermi fu infatti una delle tre guerre, così ben individuate e descritte da Carlo Gentile, che i tedeschi svilupparono in Italia tra 1943 e 1945: la prima fu quella contro gli eserciti alleati, la seconda quella contro i partigiani, la terza quella contro le popolazioni[14]. Quest’ultima fu una guerra che si svolse lungo direttrici nazionali (sud-nord) e non risparmiò alcuna piccola e grande terra d’Italia: 24.112 vittime in 5.750 episodi distribuiti dal sud al nord più profondi.

Fu una guerra che cominciò settimane prima dell’armistizio – la bollente estate del 1943 nella Sicilia dello sbarco alleato, dello sbando militare italiano e della furia degli allora ancora alleati tedeschi – e si concluse dopo la grande insurrezione nazionale, la liberazione del Nord intorno al 25 aprile 1945, con le ultime feroci stragi della ritirata, con centinaia di morti – 1.590 furono i morti “di strage” dopo il 25 aprile – inconsapevoli di quella raggiunta libertà, travolti dalla violenza dell’esercito tedesco, e dei suoi alleati fascisti, in una rotta senza speranza.

Fu una guerra in cui si intrecciarono, accavallarono o convissero decine di “ragioni” per le stragi, “modi” per perpetrarle e tipi di vittime. È quindi una storia che racconta l’estrema varietà delle pratiche di occupazione e controllo dei territori, l’estrema labilità nella sicurezza degli abitanti – si veniva uccisi anche perché non si comprendeva un ordine, o per aver difeso la propria figlia da una violenza sessuale – l’estrema molteplicità delle pratiche repressive.

Non furono solo rappresaglie quelle che condannarono gli inermi a una morte brutale e destinata a non avere giustizia, e non sempre fu immediato il rapporto tra l’attività partigiana e la brutalità nazista e fascista, come si è a lungo pensato, in termini di un’accusatoria esclusiva.

Tale brutalità, anzi, si legò molto spesso – lo dicono i numeri – all’andamento della guerra, all’essere il fronte più o meno vicino: come ha scritto Gentile «la topografia delle stragi […] mostra che il grosso dei crimini più gravi andò a concentrarsi nella zona di combattimento o immediatamente alle sue spalle. […] Qui i crimini non erano necessariamente legati all’attività di gruppi partigiani, che al fronte era relativamente rada»[15].

È indubbio e scientificamente provato che vi sia stato spesso un collegamento tra l’attività resistenziale e quella repressiva nazista e fascista; tuttavia, a lungo, a volte ancora oggi, si è voluto vedere in tale collegamento una “responsabilità”, una “colpa” dell’azione partigiana nello scatenamento della strage, in un discorso che delegittima integralmente la giustezza e la moralità della Resistenza, e che serve – sviluppato com’era soprattutto negli anni in cui per le stragi non c’era giustizia né discorso pubblico ma occultamento – a tacere le colpe della ragione di Stato.

È forse superfluo, ma è comunque bene ribadirlo: le stragi furono una – la più atroce – delle forme di esplicitazione, della messa in pratica, della politica di occupazione nazista e fascista sul territorio, occupazione contro la quale la Resistenza italiana lottò a pieno titolo, al fianco degli eserciti alleati e delle ricostituite formazioni regolari delle forze armate regie. I responsabili delle stragi agirono solitamente sulla scorta del principio della “responsabilità collettiva”, identificando volutamente e strumentalmente partigiani e popolazione. La presenza della Resistenza fu anzi spesso una buona scusa per i tedeschi e i fascisti che, come a Sant’Anna di Stazzema, «non tentarono [neanche] – ha scritto Maurizio Fiorillo – di distinguere tra partigiani, collaboratori e non combattenti, procedendo all’uccisione dei civili […] trovati sul posto»[16]. Del resto, gli inermi erano un nemico molto più semplice da affrontare rispetto ai partigiani armati.

Ci furono, però, le rappresaglie, eccome: furono anzi la seconda “tipologia” di eccidio più praticata dai responsabili delle stragi, seconda solo a quella dei rastrellamenti – la Toscana fu molto colpita da questi ultimi, soprattutto nella loro versione antipartigiana[17]. I rastrellamenti colpirono civili, collaboratori dei partigiani e partigiani stessi, e comportarono bandi di sfollamento, razzie, deportazioni, distruzione di raccolti e uccisione di bestiame. In sintesi, un rastrellamento era la cancellazione, dalle fondamenta, di ogni possibilità di sopravvivenza per le singole comunità del paese; era la distruzione del luogo, spesso definitiva, biologica e materiale, a partire, ovviamente, dagli esseri umani. Era, ovviamente, un durissimo colpo all’esistenza partigiana, che in quel contesto viveva e operava, e che quel contesto sperava e tentava di proteggere.

Ci furono poi – ma ci si sta limitando ad alcune delle categorie – le “stragi di desertificazione e ripulitura”, la terra bruciata, che colpì decine di abitanti di paesini e frazioni del territorio nazionale – comprese, anzi particolarmente coinvolte, le terre toscane – che, anche “solo” per “mere” ragioni di sopravvivenza, non volevano abbandonare la loro casa, la loro poca roba, quel po’ di raccolto, il maiale o la mucca, in zone che i tedeschi ritenevano di importanza militare, e così da sgomberare.

Le persone travolte da questa ulteriore modalità della violenza non furono “solo” uccise, magari facendole saltare in aria con le loro case, ma vennero anche, spesso, fatte prigioniere, torturate, stuprate e poi assassinate. La Toscana fu uno dei luoghi principali dell’Italia centrale in cui, tra la primavera e l’estate del 1944, i tedeschi – e i loro alleati fascisti – scatenarono una gigantesca offensiva contro i partigiani, finendo con il far sovrapporre – come scrive Fulvetti – «zona di guerra e spazio partigiano»[18]. In quel contesto tutto era nemico da abbattere: il partigiano in armi, il soldato alleato, il bambino del girotondo di Sant’Anna di Stazzema.

A tutto questo va aggiunto – è anch’esso un dato sostanziato da numeri provenienti da fonti verificabili – un’infinita quantità di cosiddette “violenze connesse”, quelle che, come si accennava, accompagnavano, immancabili e impietose, la violenza letale: incendi, saccheggi, deportazioni, violenze sessuali, torture.

Ancora, la storia che l’Atlante racconta è, per quanto possibile, la storia dei carnefici, compresi i fascisti, responsabili di «un autonomo stragismo di italiani contro italiani, più politico, più urbano, non legato al sistema degli ordini o alla ritirata quanto al revanchismo contro i “traditori”», scrivono Pezzino e Fulvetti[19].

Questi carnefici, per quella che avrebbe dovuto essere la loro storia, sono i protagonisti della seconda parte di questa lezione.

[1] www.straginazifasciste.it. Il sito è accompagnato da un volume di taglio interpretativo, al quale si farà spesso riferimento, curato da Paolo Pezzino e Gianluca Fulvetti: Zone di guerra, geografie di sangue. Le stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Bologna, Il Mulino, 2016.
[2] Penso, ovviamente, proprio alla Toscana e anche ad alcuni studi dello stesso Ivano Tognarini o da lui curati, come La guerra di liberazione in provincia di Arezzo. 1943-1944. Immagini e documenti, Arezzo, Amministrazione provinciale, 1987; Guerra di sterminio e Resistenza. La Provincia di Arezzo, 1943-44, a cura di I. Tognarini, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1990; I. Tognarini, Kesselring e le stragi nazifasciste. 1944: estate di sangue in Toscana, Roma, Carocci, 2002; L’Appennino del ’44. Eccidi e protagonisti sulla Linea Gotica, a cura di I. Tognarini, Montepulciano,  Le balze, 2005.
[3] A partire dal volume di Michele Battini e Paolo Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Venezia, Marsilio, 1997.
[4] C. Dogliotti, Cronografia. Territori e fasi della politica del massacro, in Zone di guerra, geografie di sangue, cit., p. 107.
[5] Cfr. ciò che scrive Gianluca Fulvetti, in G. Fulvetti-P. Pezzino, L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, Ivi, p. 82.
[6] Cfr. http://www.straginazifasciste.it/?page_id=349.
[7] Francesco Fusi, L’Italia centrale, estate 1944, in Zone di guerra, geografie di sangue, cit., p. 267.
[8] P. Pezzino in G. Fulvetti-P. Pezzino, L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, Ivi, p. 25.
[9] Ivi, p. 26.
[10] È la stima alla data del 18 maggio 2018, ma l’Atlante è in continuo aggiornamento.
[11] G. Fulvetti-P. Pezzino, L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, Ivi, p. 45.
[12] Il richiamo è ancora a P. Pezzino, Ivi, p. 30.
[13] Ibidem.
[14] Carlo Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia, Torino, Einaudi, 2015.
[15] Carlo Gentile, I tedeschi e la guerra ai civili in Italia, in Zone di guerra, geografie di sangue, cit., p. 133.
[16] Maurizio Fiorillo in Chiara Donati-Maurizio Fiorillo, Le stragi sulla linea Gotica, Ivi, p. 311.
[17] G. Fulvetti in G. Fulvetti-P. Pezzino, L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, Ivi, pp. 77-79.
[18] Ivi, p. 69.
[19] Ivi, p. 43.

Articolo pubblicato nel giugno del 2018.




I bombardamenti su Siena (1944)

La storiografia si è a lungo rivolta allo studio delle incursioni aeree sul territorio italiano da un punto di vista prettamente bellico, dedicando quindi grande attenzione alle operazioni militari e tralasciando spesso le conseguenze prodotte sul territorio e sulla popolazione civile. Tuttavia, come ha osservato Nicola Labanca, quella dei bombardamenti aerei non è storia militare ma è storia à part entière della guerra totale: è la storia non solo delle forze armate che la realizzano ma dei governi che ne decidono gli obiettivi come delle società civili che ne sopportano gli effetti.[i] Questo, peraltro, è ancor più vero per un territorio come quello senese, il quale visse in maniera assolutamente singolare l’esperienza della guerra aerea.[ii]

Come in molte altre città d’Italia, anche a Siena l’allestimento delle misure di difesa antiaerea in vista di futuri conflitti ebbe inizio a partire dagli anni Trenta. Nel 1936 si svolsero le prime prove di oscuramento in tutta la provincia senese,[iii] cui seguirono nel maggio del 1940 due giorni di esercitazioni per eventuali attacchi chimici.[iv] La mancanza assoluta di fondi rese tuttavia impossibile affrontare le spese necessarie alla costruzione di rifugi antiaerei, all’istallazione di un impianto di sirene di allarme e persino all’acquisto dell’equipaggiamento per le squadre di primo intervento. Di questi problemi si lamentò più volte l’Ispettore Provinciale di Protezione Anti Aerea, tenente colonnello Giuseppe Crocini, il quale denunciò inoltre la scarsa coscienza antiaerea dimostrata dagli enti e dalle istituzioni cittadine.[v]

A causa di tali carenze, Siena giunse al momento dell’ingresso in guerra dell’Italia, il 10 giugno 1940, totalmente sprovvista di qualsiasi struttura difensiva.

Inizialmente, le autorità affrontarono il problema realizzando alcuni ripari antischegge nei vicoli del centro storico,[vi] mentre i primi grandi ricoveri pubblici, capaci di ospitare alcune migliaia di individui e di resistere perlomeno all’impatto con ordigni da 100 kg,[vii] vennero completati soltanto nel corso del 1943.

Il primo bombardamento subito da Siena il 23 gennaio 1944, in cui persero la vita venticinque persone,[viii] arrivò in maniera del tutto inaspettata, dopo oltre tre anni di guerra durante i quali la città non era mai stata oggetto di attacchi e, proprio per questo, aveva rappresentato un riparo sicuro per chi fuggiva dal conflitto: basti pensare che le strutture ospedaliere senesi arrivarono a contare oltre 6.000 posti letto[ix] e che in tutta la provincia affluirono più di 18.000 sfollati[x], provenienti da ogni parte d’Italia; numeri enormi per il tempo, considerato anche il difficile contesto nel quale queste persone vennero accolte.

La città del Palio subì alla fine un numero piuttosto limitato di bombardamenti – i più rilevanti furono quelli del 23 e 29 gennaio, 8 e 16 febbraio, 11 e 14 aprile – i quali tuttavia causarono più di quaranta morti, assieme alla distruzione della stazione ferroviaria, della Basilica e del Convento dell’Osservanza e di numerose abitazioni private. A queste operazioni più note, si aggiunse inoltre una lunga serie di spezzonamenti e mitragliamenti, di molti dei quali è andata perduta nel tempo la memoria, ma che produssero comunque danni ed alcune vittime. Tra questi vale la pena ricordare lo spezzonamento avvenuto in Piazza San Francesco il 10 giugno 1944, il quale provocò la distruzione di tutte le vetrate della Basilica e l’uccisione di un soldato tedesco, oppure quello che si verificò in Piazza del Duomo e Via dei Pellegrini nella notte tra l’1 ed il 2 luglio 1944, del quale sono ancora visibili i segni sul Battistero e sulle  mura del Museo dell’Opera. Ma l’elenco comprende pure Via Roma e Fieravecchia, spezzonate il 16 maggio 1944, la Barriera di San Lorenzo, Porta Pispini, Via Pantaneto, Via Diacceto, Via San Pietro e molte altre.[xi]

Sebbene la posizione piuttosto defilata e l’assenza di obiettivi di particolare rilevanza militare – con l’unica eccezione della stazione ferroviaria – abbiano posto Siena al riparo da distruzioni particolarmente estese, la città subì comunque gli effetti della guerra aerea su tutto il proprio territorio, non soltanto nelle aree periferiche e di campagna, ma anche all’interno del centro storico, circostanza quest’ultima conosciuta prevalentemente dagli storici locali ed ignorata dai più.

Note:
[i]Labanca Nicola (a cura di). I bombardamenti aerei sull’Italia. Politica, stato e società (1939-1945). Il Mulino; Bologna, 2012, p. 8.
[ii]Questo breve contributo è tratto dalla tesi di laurea dell’autore: La guerra aerea su Siena. Misure difensive, bombardamenti, iniziative diplomatiche. Tesi di Laurea in Scienze Storiche e del Patrimonio Culturale, Università degli Studi di Siena, anno accademico 2016-2017. Per ulteriori informazioni sui bombardamenti aerei nella provincia senese durante il Secondo conflitto mondiale, si vedano Biscarini Claudio. Bombe su Siena. La città e la provincia nel 1944. Del Bucchia; Massarosa, 2008; e Luchini Luca. Siena 1940-1944. Il dramma della guerra e la liberazione. Il Leccio; Monteriggioni, 2008, pp. 93-112.
[iii]Archivio di Stato di Siena [d’ora in poi ASSI], Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 10M, f. 10. 8 settembre 1934 relazione dell’Ispettore Provinciale P.A.A. a Prefetto ed Ufficio dello Stato Maggiore di Firenze.
[iv]Il Telegrafo, 29 Maggio 1940. La perfetta riuscita degli esperimenti di protezione antiaerea.
[v]ASSI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 8M, f. 3. 28 settembre 1937, relazione dell’Ispettore Provinciale di P.A.A. al Comando del Distretto Militare di Siena.
[vi]ASSI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 6M, f. 15. 13 febbraio 1941, lettera dell’Ispettore Provinciale P.A.A. al Ministero dell’Interno, prot. 2445 P.A.
[vii]ASSI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 1M, f. 3. 16 novembre 1942, lettera del Podestà al Presidente del C.P.P.A.A., prot. 13290.
[viii]Questi i nomi delle vittime: Baccheschi Ada; Ridolfi Galeazzo; Carreri Vanda; Carreri Emma; Campolmi Natale; Franci Quirino; Borri Aldo; Saccardi Ubaldo; Centini Fortunato; Colicchi Giulio; Bartoli Elia; Mariti Ezio; Bartalini Giuliana; Pacini Maria; Anatrini Zaira; Anatrini Gino; Anatrini Mario; Del Lungo Primetta; Selvolini Tea; Maccari Santi; Veneri Ida; Maccari Maria; Marzucchi Azelio; Campolmi Duilia; Santi Dina. Cfr. ASSI, Prefettura. Ufficio Gabinetto (1935-1957) – III Versamento (2004), b. 77, f. 41. Elenco delle vittime dell’incursione aerea del 23 gennaio 1944.
[ix]Paoletti Paolo. La vicenda diplomatica del riconoscimento di Siena “città aperta”: tra il falso storico della “città ospedaliera” e la verità oggettiva del centro ospedaliero, in Biscarini Claudio, Meoni Vittorio, Paoletti Paolo. 1943-1944. Vicende belliche e resistenza in terra di Siena. Nuova Immagine; Siena, 1994, p. 44.
[x]La Nazione, 14 Marzo 1944. Relazione del Capo della Provincia sull’attività svolta dal Partito.
[xi]AS-SI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 17M, f. 4. Diari della P.A.A.; AS-SI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 17M, f. 5. 1940-1944, Quaderno degli allarmi.

Articolo pubblicato nel maggio del 2018.




La guerra aerea in provincia di Lucca 1943-1945

Durante il secondo conflitto mondiale la guerra aerea giunse tardi in provincia di Lucca, concentrandosi prevalentemente tra il novembre del 1943 e il settembre dell’anno successivo. Solo nelle aree rimaste sotto controllo tedesco – alcune porzioni dell’Alta Versilia e della Garfagnana settentrionale – essa sarebbe proseguita fino alla primavera del 1945, quando le forze alleate sfondarono definitivamente la Linea Gotica, dilagando nella Pianura Padana e ponendo fine alla sanguinosa campagna d’Italia. La provincia era a lungo apparsa come un santuario, tanto che fin dal 1940 erano giunti numerosi profughi dalle aree bombardate della penisola, in cerca di una nuova, provvisoria sistemazione o di un luogo più sicuro in cui vivere. Questa illusoria immunità fu dovuta soprattutto al fatto che durante i primi anni di guerra la Lucchesia rimase al di fuori del raggio d’azione dei bombardieri che decollavano dalla Gran Bretagna. Anche dopo l’ottobre del 1942, quando la strategia britannica virò verso quell’area bombing che veniva già impiegato sul Reich, la provincia continuò a rimanere al sicuro dagli attacchi aerei. In questa fase i bombardamenti non miravano più a bersagli puramente militari, quanto piuttosto al morale dei civili. I vertici della Royal Air Force ritenevano – correttamente – che le difese attive e passive delle città italiane fossero più labili rispetto a quelle tedesche, rendendo quindi la popolazione particolarmente vulnerabile. Lo scopo era quindi soprattutto politico e volto ad accelerare l’uscita italiana dal conflitto, minando, attraverso i bombardamenti, la già traballante fiducia che gli italiani nutrivano nei confronti del regime. In questo contesto la scarsità di obiettivi appetibili – fondamentalmente grandi centri abitati o importanti complessi industriali – giocò a favore della Lucchesia, che riuscì ad evitare anche le pesanti incursioni compiute a partire dall’estate del 1943 nell’ambito dell’Operazione “Pointblank”.
La provincia di Lucca non riuscì però a rimanere completamente estranea alla guerra aerea. A partire dall’autunno del 1943 il suo territorio era ormai nel raggio d’azione dei velivoli alleati ed era inevitabile che la sua rete stradale e ferroviaria venisse inclusa tra i bersagli da colpire. Fin dall’inizio della guerra, anche se a fasi alterne, le ferrovie e gli scali di smistamento erano infatti stati in cima alla lista degli obiettivi, per quanto ad essi fossero stati spesso privilegiati i centri cittadini, quelli industriali o le basi dei sommergibili tedeschi. Dopo almeno 65 allarmi aerei scattati tra settembre e ottobre, e un bombardiere pesante B-24 “Liberator” abbattuto sui cieli di Lucca il 1° ottobre, la prima incursione degna di nota fu compiuta sull’area ferroviaria di Viareggio la sera del 1 novembre 1943. La città era illuminata e la reazione antiaerea quasi nulla, quindi il bombardamento compiuto dai 19 bimotori inglesi Vickers “Wellington” risultò molto preciso. Il raid successivo del 30 dicembre, sempre sullo scalo viareggino, fu eseguito da bombardieri medi B-26 “Marauder” statunitensi ed ebbe conseguenze più tragiche. Il bersaglio non era ben visibile e molte bombe caddero sulle abitazioni adiacenti, causando 19 morti e 51 feriti: il bombardamento risultò così disperso che alcuni ordigni finirono a diversi chilometri di distanza, colpendo il territorio del comune di Massarosa.

8 gennaio 1944: bombe alleate sulla stazione di Lucca. (Fonte: sito Ferrovia Lucca-Aulla)

8 gennaio 1944: bombe alleate cadono sulla stazione di Lucca. (Fonte: sito Ferrovia Lucca-Aulla)

Il nuovo anno vide invece la stessa Lucca nel mirino delle forze aeree alleate, colpita dai B-26 durante il “bombardamento di Befana” del 6 gennaio e in quello di due giorni dopo. Gli obiettivi erano la stazione ferroviaria e le industrie del vicino quartiere di San Concordio, dove morirono almeno 24 persone, mentre altre decine rimasero ferite. Per molti lucchesi i due bombardamenti del gennaio del 1944 furono la prima esperienza diretta della guerra, nonostante il paese vi fosse impegnato da quasi quattro anni. Non stupisce quindi che quegli eventi si siano fissati nella memoria dei testimoni oculari, come Giovanni Bucci, che durante l’attacco si trovava in casa con il fratello più piccolo:

[…] subito una casa vicino a noi crollò con le macerie che ci sfiorarono. Ricordo cadere giù la macelleria di Fioravante Paoli, detto nel quartiere “Fiore”, che venne estratto dalle macerie e che ebbe problemi alle ginocchia per tutto il resto della sua vita […].

Nei mesi successivi fu soprattutto la Versilia ad essere presa di mira dai velivoli alleati, con Viareggio che da sola, tra gennaio e aprile, subì almeno 17 attacchi sull’area portuale e su quella ferroviaria. Particolarmente distruttivo si rivelò il bombardamento del 13 marzo, quando 27 B-26 colpirono un treno in sosta carico di passeggeri, causando 62 morti e 79 feriti.
L’aprile del 1944 vide l’inizio dell’Operazione “Strangle” (strangolamento), all’interno della quale sono state a volte erroneamente inserite le incursioni avvenute sulla Lucchesia nei mesi precedenti. “Strangle”, come il nome suggerisce, mirava all’interdizione delle vie di comunicazione del Centro e del Nord Italia, così da ostacolare i rifornimenti che giungevano alle forze tedesche in difesa della Linea Gustav, a sud di Roma. Anche se in provincia di Lucca la tipologia delle azioni non subì drastici cambiamenti, in quanto i velivoli alleati si erano sempre concentrati su questi obiettivi, gli attacchi iniziarono ad avere un respiro più ampio. In precedenza erano state soprattutto le stazioni e gli snodi a finire nel mirino, adesso tutta la rete viaria e ferroviaria divenne bersaglio delle incursioni, che in alcuni casi assunsero dimensioni considerevoli. È il caso del bombardamento del 12 maggio su Viareggio, una delle rare occasioni in cui i bombardieri pesanti B-24 della 15ª Air Force statunitense vennero impiegati sui cieli della Lucchesia. Furono sganciate circa 125 tonnellate di bombe, che colpirono lo scalo ferroviario, la linea Lucca-Viareggio e la zona portuale. Fu però nell’accanimento contro il ponte stradale e quello ferroviario di Ponterosso, nel comune di Pietrasanta, che la Versilia sperimentò appieno l’operazione Strangle. A partire dal 18 maggio 1944 la piccola frazione subì quindici attacchi, che tuttavia fallirono nell’abbattere il doppio ponte sul fiume Versilia a causa delle usuali difficoltà di puntamento e delle dimensioni relativamente piccole dei bersagli. Danni più pesanti subirono invece l’abitato di Ponterosso e le frazioni limitrofe. Ironia della sorte, furono i tedeschi alla fine a far saltare i ponti per ostacolare l’avanzata alleata.

19 luglio 1944: bombardieri medi B-25 americani attaccano Ponterosso di Seravezza. (Fonte: Alberti, Bombe sulla Linea Gotica, p. 81)

19 luglio 1944: bombardieri medi B-25 americani attaccano Ponterosso di Seravezza. (Fonte: Alberti, Bombe sulla Linea Gotica, p. 81)

La differenza più marcata con i mesi invernali fu però l’impiego relativamente diffuso di piccoli gruppi di cacciabombardieri. La quasi totale assenza di aerei tedeschi (o della Repubblica Sociale Italiana) permetteva l’utilizzo massiccio dei caccia alleati in missioni di attacco al suolo, armati con bombe e con le armi di bordo, per lo più mitragliatrici pesanti. Impiegati in modo flessibile e senza ordini troppo rigidi, ai piloti veniva data ampia discrezione sull’attacco di “bersagli occasionali” dopo aver portato a termine la missione principale. Queste rapide, spesso improvvise incursioni, causavano danni molto meno gravi rispetto a quelle dei bombardieri medi e pesanti, ma tenevano sotto costante pressione le truppe tedesche in movimento allo scoperto nelle ore diurne. Erano anche fonte di continua preoccupazione per la popolazione civile perché a volte era proprio quest’ultima a farne le spese, o come danno collaterale o per essere stata confusa con i tedeschi. Attacchi di questo tipo resero ogni luogo della Lucchesia potenzialmente a rischio, tanto che diversi territori rimasero del tutto al sicuro dai bombardamenti per essere però saltuariamente oggetto di incursioni da parte di questi agili velivoli. Un caso tipico in Versilia è quello del comune di Massarosa, dove esse causarono la morte di almeno dieci persone – tra le quali un soldato tedesco – e il ferimento di altre cinque. Gli attacchi aerei proseguirono per tutta l’estate fino a ridosso dell’arrivo delle forze alleate, che entro la fine del settembre del 1944 avevano respinto i tedeschi da quasi tutto il territorio provinciale.
Le aree più settentrionali dell’Alta Versilia e della Garfagnana, colpite anch’esse fin dall’estate, rimasero in mano tedesca, continuando di conseguenza ad essere martellate dagli aerei alleati, che miravano, oltre che alle solite vie di comunicazione, a depositi, magazzini e concentramenti di truppe. In una di queste azioni, compiuta su Castelnuovo Garfagnana il 13 febbraio 1945, alcuni cacciabombardieri, probabilmente nel tentativo di colpire una postazione di artiglieria tedesca, centrarono invece un rifugio antiaereo, provocando la morte di 30 persone. Si calcola che tra il luglio del 1944 e l’aprile dell’anno successivo la zona attorno al capoluogo garfagnino fu interessata da circa 70 incursioni. Altre colpirono il territorio del comune di Minucciano, mentre durante l’estate erano state prese di mira le aree di Camporgiano e Piazza al Serchio.
Da questa rapida carrellata è evidente la sproporzione con cui le bombe colpirono il suolo lucchese. Se nell’entroterra la Garfagnana soffrì considerevolmente, i comuni limitrofi a Lucca – su cui però abbiamo meno dati – furono meno interessati dall’offesa aerea. Nel caso specifico della Mediavalle del Serchio, la distribuzione degli attacchi seguì di fatto solo la linea ferroviaria Lucca-Piazza al Serchio. La stessa Lucca, fatta eccezione dei già citati bombardamenti del 6 e 8 gennaio 1944, venne attaccata solo sporadicamente e, nelle settimane che precedettero e seguirono l’arrivo degli Alleati, fu danneggiata più dal fuoco dell’artiglieria che dalle bombe aeree. La fascia costiera della Versilia rimase nel centro del mirino a lungo e fu colpita duramente, ma anche nel suo caso la geografia delle incursioni è peculiare della diversa importanza data dagli Alleati a determinati obiettivi. Viareggio, con il suo porto e il suo scalo ferroviario che fungeva da collegamento con Pisa, dove nell’estate del 1944 il fronte rimase fermo per alcune settimane, fu colpita almeno 47 volte – 70 secondo altre fonti -, con la frequenza dei bombardamenti che aumentò a partire dal maggio del 1944. La città ebbe un bilancio finale di 125 morti, a cui si deve aggiungere un numero più alto di feriti. Anche la minuscola Ponterosso, per via del suo doppio ponte, fu interessata da quasi 20 attacchi. Viceversa, Massarosa e Camaiore, avendo infrastrutture meno importanti, subirono solo poche incursioni, anche se quest’ultima fu oggetto di due bombardamenti piuttosto pesanti il 22 e il 28 luglio 1944.

Viareggio: macerie della chiesa di Sant’Antonio, distrutta durante un’incursione angloamericana. (Fonte: sito Territori del ‘900)

Viareggio: macerie della chiesa di Sant’Antonio, distrutta da un’incursione angloamericana. (Fonte: sito Territori del ‘900)

Si tratta comunque di numeri quasi insignificanti nel contesto generale della guerra aerea, soprattutto se raffrontati con quelli di altre aree della penisola, per non parlare del Nord Europa. Anche i bombardamenti più massicci – quelli di Lucca del gennaio 1944 e quelli di Viareggio – videro l’impiego di poche decine di velivoli e il costo complessivo in vite umane, per quanto tragico, fu tutto sommato contenuto. Tuttavia, per chi si trovò suo malgrado sotto le bombe, l’esperienza non era dissimile da quella di decine di migliaia di altre persone – civili e militari – che subirono attacchi aerei durante la guerra. Al senso di impotenza e di terrore provato durante le incursioni si sostituivano la disperazione e la rabbia una volta appurati i danni e fatta la conta dei morti e dei feriti. Così Silvio Basile ricorda il bombardamento di Camaiore del 22 luglio, uno dei pochissimi subiti dalla città:

Quei criminali avevano fatto strage di povere donne venute lì (nella piazza del mercato) da tutta la vallata a prendere il sacchetto di grano distribuito dall’annona. I muri, o quel che ne restava, erano ricoperti di pezzetti di cervello. Era tutto un lamentarsi di feriti e un urlare di gente accorsa. Un giovane correva fra le buche aperte dalle bombe invocando sua madre a perdifiato […].

A fianco di commenti come questo, del tutto comprensibili date le circostanze, vi sono ricordi sorprendentemente favorevoli nei confronti degli aviatori alleati. Così ricorda Giovanna Davini, che si trovò sotto le bombe a San Concordio il 6 gennaio 1944:

[…] La considerazione verso gli Alleati rimase immutata nonostante queste bombe del giorno di Befana. Il fascismo, almeno nella nostra famiglia, dopo le leggi razziali e l’entrata in guerra, non godeva più di alcun consenso.

Del resto, lasciando in questa sede da parte le lunghe, spesso aspre, diatribe attorno al bombardamento strategico, nate già durante la guerra e proseguite fino ad oggi, da questa disamina appare chiaro come gli obiettivi presi di mira in Lucchesia dai velivoli alleati fossero completamente legittimi. Le azioni aeree mirarono quasi esclusivamente all’interdizione delle vie di comunicazione e, in misura minore, a colpire concentramenti di truppe. Inevitabilmente, a causa della cronica difficoltà nell’identificare i bersagli e dell’intrinseca imprecisione delle bombe e degli strumenti di puntamento dell’epoca, in molti casi a farne le spese fu anche la popolazione civile. Vittima, quest’ultima, di una guerra fortemente voluta dal regime fascista, gestita e combattuta malamente, che portò alla distruzione del paese e alla morte di quasi mezzo milione di italiani, almeno 70.000 dei quali caduti sotto le bombe sul suolo nazionale.

Articolo pubblicato nel marzo del 2018.




Giovanni Fattori, lettere di un montalese dal lager nazista

Giovanni Fattori, classe 1924, proveniente da una famiglia contadina di Montale, figura tra gli Internati Militari Italiani (IMI) rinchiusi nei campi di concentramento nazisti. La sua storia si interseca con il clima bellico sorto dopo l’entrata in guerra dell’Italia fascista. Nel 1942, con il richiamo alla leva, fece domanda per entrare nel corpo dei carabinieri: nel giro di pochi mesi fu accettato e iniziò l’addestramento insieme ai colleghi. Il 19 luglio 1943, dopo il bombardamento di Roma, venne inviato nella capitale, dove prestò servizio nella zona più colpita, ovvero il quartiere di San Lorenzo. Pochi giorni dopo, con la caduta e l’arresto di Benito Mussolini, cambiò completamente lo scenario italiano. Furono proprio i carabinieri ad arrestare il duce che fu tenuto prigioniero in un primo momento presso la caserma della scuola allievi carabinieri di Roma, dove era alloggiato Fattori.

A settembre, dopo l’Armistizio, le lettere inviate da Giovanni alla famiglia mostravano la situazione in cui versava la nazione, con la nascita della RSI e l’occupazione militare e amministrativa tedesca. Nonostante la profonda censura, Giovanni raccontava che i nazisti avevano occupato le caserme romane ma lui, insieme ai suoi superiori, rimaneva al proprio posto in una situazione apparentemente non drammatica. Invece il 7 ottobre su ordine firmato direttamente dal ministro della difesa della RSI, il maresciallo Rodolfo Graziani, furono arrestati tutti i carabinieri presenti a Roma: il loro numero oscillava fra 1500 e 2500. Erano malvisti dai fascisti e dai nazisti ed erano considerati un ostacolo troppo grande a causa della loro duplice natura di corpo combattente e corpo di polizia, per cui l’Arma sarebbe dovuta rimanere a tutela dell’ordine e a difesa dei cittadini. Infatti, dieci giorni dopo, i nazifascisti compirono la più rilevante retata in Italia contro gli ebrei con l’arresto e la deportazione di 1023 persone catturate nel ghetto di Roma: i carabinieri rappresentavano l’unico corpo che si sarebbe potuto opporre.

Dopo quattro giorni di viaggio, stipato in un vagone con un buco nel pavimento di legno come gabinetto, giunse alla stazione di Tarvisio e proseguì per Kapfenberg. Fu definito IMI insieme ad altri 650.000 militari rinchiusi nei lager nazisti. Viveva con altri sedici uomini in una baracca senza finestre nel campo di lavoro di Bruck an der Mur, appartenente all’immenso lager di Wolfsberg. Venne inquadrato nel reparto ferroviario dove riempiva i carrelli di carbone per le locomotive, ricevendo due pasti al giorno:

“Un pane in otto, veniva spezzato da un appuntato che comandava la baracca. Un pane e la brodaglia. E c’era cavolo, di molto. Rape di quelle italiane, ne mandavano a vagonate. E poi ci buttavano qualche pezzetto di margarina, per condimento”.

Gli scambi epistolari con la famiglia e con i conoscenti sono frequenti anche se sottoposti a censura. Il tempo di ricezione variava da uno a tre mesi e dalle lettere emergeva la profonda solitudine del campo di concertamento, la mancanza di affetti familiari e l’annichilimento portato dalla guerra.

Più volte gli emissari di Mussolini si presentarono al campo di lavoro, tentando di convincere i militari ad arruolarsi nell’RSI con i più svariati motivi: minacciandoli, promettendo condizioni migliori, assicurando la libertà, facendo leva su argomenti morali e ideali, ricordando la famiglia in Italia. Si calcola che circa il 90% degli internati abbia manifestato un secco rifiuto. La baracca di Giovanni confermò l’andamento: su 16 uomini solamente una persona di circa 30 anni accettò, dichiarando che intanto sarebbe tornato in Italia e poi avrebbe tentato di aggregarsi alle formazioni partigiane. Possiamo dunque affermare che la scelta fu sinonimo di rifiuto e di resistenza: nonostante la sofferenza patita, subendo ogni tipo di vessazione e sopruso, i militari accettarono di restare all’interno dei lager nazisti piuttosto che tornare a combattere insieme ai repubblichini. Una resistenza passiva, rimasta a lungo nell’ombra, con la quale gli italiani non si piegarono alle lusinghe, ma resistettero in massa alle violenze e ai ricatti. I motivi erano di varia natura ma, principalmente, i soldati intendevano difendere la propria dignità e quella delle istituzioni nazionali, fra cui quella del re, alle quali avevano giurato fedeltà.

Durante la fase finale della guerra, a inizio 1945, le condizioni di vita e di lavoro degli internati peggiorarono progressivamente, aggravandosi anche a causa del rigido inverno e delle prepotenze delle guardie. Il cibo iniziò a scarseggiare e i sintomi dell’imminente crollo nazista riecheggiavano nell’aria. A marzo 1945 Giovanni rischiò di non vedere la liberazione quando alcuni aerei alleati bombardarono la zona:

“Io mi sono riparato nella fogna che andava restringendosi. L’entrata era chiusa dalla terra e dai detriti e non potevo uscire: ci sono rimasto un giorno. La mattina dopo sono venuti gli amici Vanchetti e Giannella, hanno scavato e mi hanno tirato fuori. Mi sono ricoperto di sfoghi su tutto il corpo, avevo la febbre alta e le guardie mi hanno portato a piedi all’infermeria di Bruck. Quando sono arrivato ho perso i sensi e mi sono ritrovato in una camerata di 30 letti. È suonato l’allarme molte volte, tutti sono scappati, io sono rimasto solo. Si vede che quando uno non deve morire, non muore”.

Fra fine aprile e inizio maggio le guardie sparirono dal campo e Giovanni, una volta guarito, si mosse in un’ Europa rimasta senza collegamenti, distrutta dalla guerra e dai bombardamenti, non in grado di garantire un tessuto civile su cui fare riferimento. Rientrò a casa in poco tempo, verso la metà di maggio, grazie all’aiuto di alcuni ferrovieri tedeschi e di altri civili italiani. Il suo nonno lo aspettava nell’angolo della cucina a fianco del camino. Gli disse: “Meno male che avanti di morire ti ho rivisto”.

Matteo Grasso, laureato in storia, svolge attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti della storia contemporanea. E’ direttore dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia dal luglio 2016. Ha pubblicato alcuni saggi riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale sui Quaderni di Farestoria, periodico quadrimestrale dell’ISRPt. 

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2017.




Hill 366: una storia da raccontare

Il 7 ottobre 2017, il Comune di Carrara e la Pro Loco di Fontia hanno promosso un’iniziativa per onorare la memoria di due uomini: Don Dario Fazzi e il Lieutenant-Colonel John James Phelan. L’evento, celebrato in occasione del 73° Anniversario dell’incendio di Fontia, rientra nel programma di iniziative inserite nel progetto “In cammino verso la Costituzione (1948-2018)” a cura del Gruppo di lavoro del Comune di Carrara per le celebrazioni e la promozione della memoria della Resistenza e dei principi della Costituzione.

La commemorazione a cui ha aderito Angel Matos, Direttore del Florence American Cemetery (American Battle Monuments Commission), ha visto la partecipazione del partigiano carrarese Giorgio Mori e ha avuto il riconoscimento del veterano di guerra britannico Harry Shindler (96 anni, militare sulla Linea Gotica), che ha scritto un discorso di cui è stata data lettura durante la manifestazione.

Durante la Seconda guerra mondiale, Fontia rappresentava un centro strategicamente importante per la Wehrmacht. Su ordine del Feldmaresciallo Albert Kesselring la zona rientrava nella Linea Gotica, il sistema difensivo realizzato dai tedeschi per fronteggiare l’avanzata degli Alleati. L’Organizzazione TODT costruì diverse postazioni tobruk, bunker e trincee, tuttora visibili.

03A Santa Lucia si trovava l’osservatorio tedesco da cui venivano diramati ordini per i cannoni a lunga gittata presenti sul promontorio di Punta Bianca. Proprio per questo Fontia e Santa Lucia furono teatro di aspre battaglie durante l’avanzata della Quinta Armata USA che battezzò quel luogo “Hill 366”. Tra i militari caduti per la liberazione dell’Italia nel territorio carrarese c’è stato il Lieutenant-Colonel John James Phelan, decorato della Silver Star, caduto nei combattimenti svoltisi per la conquista dell’osservatorio tedesco di Santa Lucia.

L’iniziativa ha avuto inizio con gli onori al cippo che ricorda l’incendio del paese e ha visto la partecipazione degli studenti delle scuole del territorio (Scuola Media “A. Dazzi” e ITC “D. Zaccagna”). La giornata del 7 ottobre è stata l’occasione per ricordare non solo l’incendio del borgo, ma per raccontare, attraverso una mostra, allestita nei locali della Pubblica Assistenza di Fontia, gli importanti avvenimenti e combattimenti svoltisi per la liberazione del paese durante la Seconda guerra mondiale.

E’ stata riaperta al pubblico la Cappella di Don Dario Fazzi, il coraggioso parroco di Fontia che difese la popolazione del paese durante i 20 terribili mesi dell’occupazione nazi-fascista, sulla cui lapide il Sindaco di Carrara Francesco De Pasquale ha deposto una corona.

Dopo la Messa in suffragio delle vittime della guerra, celebrata nel vicino Santuario di Santa Lucia, si sono svolti gli interventi delle autorità . Dopo il saluto del Sindaco, sono intervenuti: la senatrice Laura Bottici, il consigliere regionale Giacomo Bugliani e il segretario ANPI della sezione di Carrara Ferdinando Sanguinetti. Toccante la testimonianza della sig.ra Eda Corsini, che nel 1944 era una bambina, ha ricordato Don Dario Fazzi, che rischiò la vita pur di salvare i suoi paesani. Il Presidente della Pro Loco di Fontia Cristiano Corsini ha letto una lettera che Don Fazzi scrisse nel 1970 a Dusseldorf in occasione dell’incontro dei reduci della 148ª Divisione di fanteria tedesca. Don Fazzi dopo la guerra si impegnò² nella ricostruzione della Chiesa di Santa Lucia, distrutta dai bombardamenti, con il progetto di fare di quel colle dove si erano scontrati uomini di diverse nazionalità, un luogo dedicato alla pace. L’orazione ufficiale è stata affidata al Dott. Pierpaolo Ianni che ha ricordato l’importanza della Resistenza e ha tratteggiato il profilo di Don Fazzi e del Lieutenant-Colonel Phelan. Nel suo intervento ha inoltre descritto quanto emerge dal diario della 473rd United States Infantry, che costituisce una fonte essenziale per ricostruire quanto avvenne in quei drammatici giorni del 1945 tra Fontia e Santa Lucia. La giornata si è conclusa con il discorso di Angel Matos, Direttore del Florence American Cemetery, e lo scoprimento di una targa in marmo in memoria del Lieutenant-Colonel John James Phelan (1914-1945).

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2017.




San Francesco… da Fiesole

«La I.C.S.A. ha il suo Stabilimento a pochi chilometri da Firenze ai piedi delle suggestive colline di Fiesole. Lo Stabilimento ha un’estensione di mq. 50.000 completamente cintati. Il nuovo Teatro di posa copre la superficie di oltre mq. 18000; il secondo Teatro, attualmente in costruzione, coprirà i 3.200 mq. […] Nelle vaste estensioni di terreno rimanenti, sono le ricostruzioni di gran parte della vecchia Assisi, fra le quali sotto la vigile ed intelligentissima direzione del Conte Giulio Antamoro, stanno svolgendosi le azioni del film». Così «L’Eco del Cinema. Periodico cinematografico mensile», diretto dal produttore Carlo J. Bassoli, presentava nel «Numero speciale francescano», dell’ottobre 1926 lo scenario in cui si stava girando il primo vero e proprio kolossal italiano su una figura di un santo nella storia del cinema italiano. Il Frate Francesco, uscito nel 1927 e diretto da Giulio Antamoro, fu dunque un evento eccezionale per l’epoca, connesso alle grandi celebrazioni che i vertici ecclesiastici e lo Stato italiano vollero dedicare al VII centenario della nascita di San Francesco d’Assisi. Per l’occasione venne dunque ricostruita quasi per intero un’Assisi medievale alle porte di Firenze, per quella che giornali e riviste dell’epoca descrissero come un’impresa cinematografica «senza alcun dubbio destinata a varcare tutti i confini ed a spargersi per tutto il mondo» e «un’opera concreta di risorgimento dell’Industria Nazionale a fini economici e di utilità generale».

18277441283_cc18e08809L’evento centenario francescano giungeva in un frangente particolare sia per la storia delle relazioni tra Stato e Chiesa sia per la storia del cinema italiano. Ecco perché questo film si presta meglio di altri a chiarire le articolate dinamiche che governarono la rappresentazione dei santi sugli schermi fascisti in un quadro di reciproche strumentalizzazioni tra Chiesa e regime. Nel numero speciale de «L’Eco del Cinema» sopra menzionato, il direttore Bassoli, dopo aver magnificato il ruolo del «magnifico Duce del fascismo» nel «glorificare la sublime opera francescana», fece notate che la produzione cinematografica dell’Italia fascista, in tutte le sue varie componenti, si era assunta «il compito nobilissimo» di «diffondere l’idea francescana»:

Industriali intelligenti, uomini preclari della politica, della nobiltà e del commercio – scrisse Bassoli – superando sacrifici e contrarietà d’ogni genere, si sono raccolti volenterosi per la realizzazione della vicenda del Poverello di Dio, in una iconografia grandiosa che affermerà al mondo ancora una volta l’inesauribile vitalità del genio italico e la decisa affermazione di una nuova vita della Industria Cinematografica italiana.

È fuor di dubbio che gli anni del fascismo rappresentino il periodo in cui anche nella cinematografia italiana  fu più evidente lo sforzo di proporre una legame che congiungesse in modo singolare l’Italia ad alcune specifiche figure canonizzate dalla Chiesa. Nel caso del film su san Francesco d’Assisi, tutta l’architettura promozionale dell’evento cinematografico fu centrata sull’appellativo coniato da Gabriele D’Annunzio nella celebre orazione tenuta in Campidoglio nel 1919: «il più italiano dei santi, il più santo degli italiani». Gli scopi del fascismo furono duplici: non solo utilizzare il potere sempre più pervasivo del mezzo cinematografico per promuovere una coniugazione del culto a san Francesco che assecondasse la celebrazione della nazione, tra i cardini  della cultura politica fascista; ma anche impiegare la fama internazionale di un «grande italiano» per rialzare le sorti di una industria nazionale del cinema giunta al suo punto più basso dopo i fasti degli anni Dieci.

Un’iniziativa che fu sposata senza troppe riluttanze anche dalle gerarchie della Chiesa, in un momento di rimodulazione dei canoni su cui informare le tattiche di promozione dei santi in un periodo in cui era in atto un’accelerazione del percorso che avrebbe condotto alla Conciliazione tra l’Italia e la Santa Sede. La stampa evidenziò non solo l’«appassionata ed entusiastica collaborazione morale» dei francescani, ma anche che il soggetto cinematografico aveva ottenuto l’imprimatur del Vicariato romano, il che era «indice di sicura adesione da parte della Santa Sede». Corrispondenze evidenti che tuttavia non impedirono che risaltassero tra i cattolici i pericoli collegati a questa forma innovativa di divulgazione della santità: ad accendere le ire del danese Johannes Jørgensen, coinvolto direttamente nella sceneggiatura e autore nel 1911 del fortunatissimo volume la Vita di S. Francesco, fu l’ammiccante inserimento nel film di una sottotrama rosa – «l’avventura di Arnaldo di Sassorosso e della sua amante Misia di Leros» – tributo al mainstream hollywoodiano.

* Gianluca della Maggiore è assegnista di ricerca in Storia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa di cinema, Resistenza e movimenti politici.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2017.




11 agosto 1944: insurrezione!

Nell’estate del 1943, lo sbarco degli anglo-americani e la caduta del fascismo fecero sperare nella imminente fine della guerra. La Toscana visse invece un anno di durissima occupazione nazifascista, colpita dai bombardamenti aerei degli Alleati, vessata da ruberie e deportazioni, martoriata da rappresaglie e stragi di civili.
Nell’estate seguente divenne teatro di aspri combattimenti tra l’esercito tedesco in ritirata verso le difese della linea Gotica, approntata sulla cresta appenninica, e gli Alleati che, conquistata Cassino a maggio erano giunti ai primi di luglio fino a Siena e alla Valdichiana. Da lì, fermati alle porte di Arezzo, mossero attraverso il Chianti direttamente verso Firenze.

Per otto mesi la città aveva assistito alla lotta impari quanto cruenta tra i gruppi armati della Resistenza e le forze, anzitutto la feroce banda guidata da Mario Carità, che davano la caccia ai cittadini ebrei, ai resistenti, ai renitenti, a quanti non sottostavano all’occupante tedesco e al governo fascista repubblicano. Anche nelle campagne, le formazioni partigiane si erano consolidate, passando all’offensiva.
In giugno, il Comitato toscano di liberazione nazionale, guida politica della Resistenza, chiamò per la prima volta in Italia all’insurrezione armata, che cacciasse i tedeschi dalla città già prima dell’arrivo degli Alleati, per affiancarne apertamente l’azione militare e così affermare la propria capacità di autogoverno. Un progetto tanto chiaro quanto difficile da realizzare.

I timori diffusi per i rischi notevoli, le preoccupazioni delle forze più moderate, le lusinghe di chi propugnava un ritiro concordato sotto le insegne della “città aperta”, guadagnarono campo con il forzato rallentare degli Alleati. Mentre i fascisti più compromessi abbandonavano la città, ma lasciandovi molte decine di “franchi tiratori” pronti a colpire nascostamente gli avversari e gli stessi civili, l’incertezza cresceva: i tedeschi si sarebbero ritirati o avrebbero atteso il nemico dentro la città d’arte? Gli Alleati avrebbero accettato lo scontro? E i partigiani, dotati di coraggio più che di uomini e armi, quale ruolo avrebbero potuto giocare?

Foto 1 fronteInterrogativi travolti infine dagli eventi. A fine luglio, sgomberate le rive dell’Arno, i tedeschi si attestarono su quella settentrionale e distrussero i ponti e una vasta area attorno al Ponte Vecchio, l’unico risparmiato, nella notte tra il 3 e il 4 agosto, giorno in cui gran parte delle forze partigiane e le prime pattuglie Alleate entrarono nei quartieri d’Oltrarno, subito aggredite dai “franchi tiratori”.

L’insurrezione fu proclamata soltanto l’11 agosto, quando i tedeschi lasciarono il centro cittadino e i partigiani poterono finalmente guadare il fiume. Dovettero subito impegnarsi in intensi combattimenti contro gli avversari, attestati da est a ovest lungo il passante ferroviario e il corso del Mugnone. Affiancati alcuni giorni dopo da pattuglie Alleate, ne contennero le controffensive e, attorno al 18 del mese, li respinsero sulle alture collinari. Ma solo alla fine di un lunghissimo agosto riuscirono a liberare i quartieri più settentrionali della città.
Foto 2 fronteOltre duecento morti e molte centinaia di feriti furono il prezzo pagato dagli uomini e dalle donne della Resistenza nella battaglia di Firenze. Un prezzo oltremodo elevato, giacché i partigiani giunti in città furono meno di millecinquecento e le squadre cittadine ne contavano pochi di più e nemmeno per metà armati. Ancor di più furono le vittime civili, notevolissimi i danni agli edifici e i disagi conseguenti per gli sfollati.

Eppure, l’insurrezione fu anche e soprattutto una festa, per la libertà riconquistata con le proprie forze e il proprio sacrificio e per la dimostrata capacità – legittimata anche dagli Alleati – di fondare sull’assunzione di responsabilità democraticamente condivise il diritto e il potere di governare la città e gli istituti della sua vita civile, economica e sociale.

Articolo pubblicato nell’agosto del 2014.




19 luglio 1944: gli alleati liberano Livorno, “città fantasma”

«L’opposizione e la resistenza [sono] costrette dentro un fazzoletto di terra a ridosso di una città morta ed impraticabile»; questa frase, scritta da Cesare Ciano, rende meglio di tante descrizioni le terribili condizioni in cui si trovava Livorno nel 1944. Parole simili si ritrovano nella descrizione fornita da un soldato americano, al suo ingresso in città: «a ghost town, lying in ruins, pulverised by Allied bombing» («una città fantasma, che cade a pezzi, polverizzata dai bombardamenti alleati»). Non è un caso se quando Luigi Comencini diresse il film Tutti a casa, nel 1960, molte scene furono girate a Livorno, che ancora in pieno boom economico era lo scenario adatto per fingere di essere ancora in guerra.

Il 1943 era stato un anno particolarmente funesto per la città: luogo di imbarco per il materiale bellico che doveva servire all’esercito italiano e a quello tedesco per sostenere le battaglie contro gli Alleati nell’Africa settentrionale, oltre che principale centro logistico per gli spostamenti delle truppe da e per la Corsica e la Sardegna, il porto di Livorno fu sottoposto a una serie di bombardamenti devastanti per l’intera città, in particolare quello del 28 maggio. Le vicende successive non fecero che aggravare la situazione: i combattimenti successivi all’8 settembre con il tentativo di resistenza all’occupazione tedesca da parte delle truppe italiane (e l’uccisione tra gli altri del maggiore Gamerra a Stagno), così come l’istituzione da parte dei comandi nazisti della “Zona nera” il 12 novembre, che imponeva per decreto lo sgombero completo del porto e del centro urbano, contribuirono ad annichilire la vita nella città portuale. La strategia militare degli Alleati mirava a far mantenere sulla costa toscana un grande quantitativo di truppe tedesche, facendo credere all’imminenza di uno sbarco navale che avvenne invece ad Anzio, nel gennaio 1944. I bombardamenti continui nell’area labronica si devono spiegare anche con questa funzione di ‘diversivi’, per quanto la cosa possa suonare paradossale.

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Piazza Grande, un cumulo di macerie (Raccolta Giancarlo Sandonnini, Archivio Istoreco Livorno)

Quando poi si realizzò l’avanzata di terra, tra il giugno e il luglio 1944, i combattimenti furono durissimi. Mentre procedeva l’avanzata alleata, l’importanza della Resistenza divenne sempre più evidente: i partigiani furono decisivi nelle azioni di contrasto ai tedeschi e nel mostrare il territorio alle truppe alleate per accelerare il processo di liberazione. Dopo la battaglia di Rosignano del 12 luglio, l’obiettivo per gli angloamericani divenne Livorno, la cui liberazione fu preceduta da un accerchiamento della corona di paesi che vanno dal Castellaccio a Collesalvetti. Il contributo alla liberazione di Livorno venne proprio dai partigiani del 10º Distaccamento: dopo aver fatto alcuni sopralluoghi nei giorni precedenti, il 19 luglio 1944 entrarono a Livorno insieme alle truppe americane.

La storia della liberazione di Livorno non può prescindere da questi elementi, dalla vicenda di un tessuto urbano devastato dalle bombe e dalle truppe tedesche. Il valore della Resistenza sta anche in questo, nella capacità di rinascere dalle rovine provocate dal fascismo e dalla tragedia bellica, creando un nuovo tessuto connettivo a partire dai germi diffusi dell’antifascismo. Quest’aspetto si coglie molto bene in un brano scritto da Mario Lenzi, uno dei primi a entrare nella Livorno liberata: «Dall’alto delle Rocce Rosse, sul Castellaccio, mi fermai a guardare Livorno, distrutta dalle bombe americane e dalle mine tedesche, con il cannocchiale che gli americani mi avevano assegnato. Si vedevano distintamente le rovine del porto, decine di navi affondate che emergevano dall’acqua bassa, le macerie della piazza Grande, il Duomo sventrato. Percorsi lentamente tutto il panorama della città morta: via Ricasoli, via Roma, Piazza Magenta. Puntai il cannocchiale dove era Villa Medina, ma la mia scuola non c’era più. […] Forse quel mondo non era mai esistito. E se era esistito, poi era scomparso. Un baratro si era aperto, ingoiando per sempre la scuola, le strade, i miei compagni. Erano andati via tutti e con loro se n’era andato anche il ragazzo che io ero stato. Dalla città che c’era una volta, ora si alzavano pigramente nell’aria colonne di fumo».

*Stefano Gallo è assegnista di ricerca presso l’ISSM-CNR di Napoli. Il suo principale campo di ricerca è la storia delle migrazioni e del lavoro, ma si dedica anche alle vicende della Seconda guerra mondiale e della Resistenza. Collabora con l’Istoreco di Livorno, per il quale sta conducendo una ricerca sulla storia della Resistenza, ed è socio fondatore della SISLav (Società Italiana di Storia del Lavoro), di cui copre attualmente il ruolo di segretario coordinatore.

Articolo pubblicato nel luglio del 2014.