1

Alla conquista della “piccola Russia”

oltre mille fascisti, inquadrati militarmente, sono sboccati in piazza Vittorio Emanuele, fermandosi dinanzi al Palazzo Comunale. Il marchese Dino Perrone Compagni, dopo aver salutato il tricolore che sventola dalla sommità del Palazzo civico, ha intimato a gran voce all’amministrazione comunale socialista di dimettersi entro le ore 12. La folla ha vivamente applaudito. [«Il Telegrafo», 3 agosto 1922.]

Dopo un colloquio con il prefetto Eduardo Verdinois e l’on. Costanzo Ciano esponente emergente della classe dirigente livornese, forte della sua fama di eroe della Grande Guerra e degli stretti rapporti con i vecchi ceti dominanti (a partire dalla famiglia Orlando) e con il fascio urbano, il sindaco socialista Umberto Mondolfi decide di dimettersi, cedendo alle minacce di Dino Perrone Compagni, ras del fascismo toscano, alla guida dell’offensiva squadrista contro la città labronica e regista delle spedizioni squadriste dirette da Firenze nelle altre province della regione.
Questi era stato inviato a Livorno a luglio dal Comitato centrale del PNF sia per riportare ordine all’interno del fascio locale scosso da gravi tensioni interne e dalla minaccia di scissione della componente più estremista vicina all’ex segretario Marcello Vaccari sia per attuare l’ultimo atto dello scontro con le forze “sovversive”: la conquista violenta del municipio.
Dati i precedenti personali di Perrone Compagni, figura carismatica all’interno di quel fascismo toscano che da mesi guardava con odio al sopravvivere della giunta socialista di Mondolfi in un contesto regionale già fortemente fascistizzato, il prefetto Verdinois, in una relazione al Ministero degli Interni di quello stesso mese di luce, si fa facile profeta di una spedizione fascista contro la città, vista anche come occasione perfetta per ricompattare gli sforzi e gli interessi delle diverse anime del fascio e degli ambienti collaterali come gli ex combattenti, rinsaldando una rinnovata unità.
Livorno del resto non era solo uno degli ultimi municipi a guida socialista ma una città simbolo, sede del congresso fondativo del partito comunità, città di consolidate tradizioni “sovversive”, teatro di importanti scioperi e manifestazioni negli anni del primo dopoguerra fra miti rivoluzionari e crescenti timori nei ceti medi e borghesi e nei tradizionali gruppi dirigenti di una città, provata dalle forti divisioni politiche suscitate dal primo conflitto mondiale e provata dalle difficoltà economiche e dalle conseguenze sociali determinate dai processi di riconversione economica postbellica.

Nella notte tra il 2 e il 3 agosto le squadre fasciste erano arrivate con i treni da tutta la Toscana. Un gruppo era riuscito a penetrare nel Municipio e ad issare sulla torre un grande vessillo tricolore. La mattina del 3 agosto Perrone Compagni, sia con una lettera, sia con una telefonata in municipio, lo aveva chiaramente ammonito: «dopo il tramonto non avremo più alcun sentimentalismo verso nessuno come voi non avete mai alcun sentimentalismo per la Patria e l’onestà». [Testo della conversazione telefonica fra Perrone Compagni e Mondolfi, secondo quanto riportato da «Il Telegrafo», 4 agosto 1922.]

Già nelle ore precedenti la città aveva conosciuto la violenza degli squadristi. Appena si era sparsa la notizia dell’adesione della Camera di Lavoro confederale e di quella sindacale allo sciopero generale proclamato dall’Alleanza del lavoro, gli squadristi erano stati mobilitati da Perrone Compagni. La mattina del 2 agosto due squadre erano state inviate nei vari stabilimenti e alla stazione dei tramvai; gruppi in auto e camion carichi di camice nere avevano iniziato a pattugliare le vie della città. I fascisti avevano ordinato di appendere le bandiere nazionali alle finestre delle case e il tricolore veniva issato anche sul Duomo.
Subito dopo il suo arrivo in città, Costanzo Ciano aveva fatto affiggere un manifesto in cui esprimeva il suo pieno sostegno all’azione dei fascisti, in quanto «l’attentato alla Nazione compiuto dai dirigenti delle organizzazioni sovversive, impone agli italiani di difendere la Patria, la libertà, la famiglia! Contro i matricidi insorge il fascismo. Concittadini, nella calma, nella serenità più perfetta attendete la vittoria».
Il ferimento di due militi aveva provocato le prime spedizioni punitive contro i circoli ´sovversivi`: Il Cigno, Il Germoglio all’Ardenza, e quello dei ferrovieri. La violenza fascista aveva colpito in particolare la famiglia Gigli:
appena è stato loro aperto, hanno iniziata una scarica di revolverate nella stanza d’ingresso, ferendo mortalmente il tranviere avventizio Pilade Gigli, di anni 30, il fratello Pietro Gigli, di anni 35, consigliere comunale comunista, parrucchiere, e la loro madre, la vecchia settantacinquenne Giulia Cantini nei Gigli. Un figlio di Pietro, Armando, noto anche lui come comunista, insieme allo zio Manlio Gigli, riuscirono a dileguarsi calandosi da una finestra. [«Il Telegrafo», 3 agosto 1922]

Nella giornata del 3 le dimissioni della giunta, che sanciscono la vittoria di Perrone Compagni, non segnano la fine degli scontri, che anzi riprendono con maggiore intensità in seguito al ferimento dell’ex segretario del fascio Marcello Vaccari. Gli squadristi attaccano e devastano la Camera del lavoro e le abitazioni di vari esponenti socialisti:
sfondata la porta dell’assessore Bacci hanno fatto irruzione nell’appartamento devastandolo. I mobili, i quadri e quanto altro vi si trovava ed era asportabile è stato gettato sulla strada ove n’è stato fatto un immenso falò. La cronaca registra inoltre un tentativo d’invasione del quartiere abitato dall’assessore Urbani, in piazza Magenta, dove la porta, solidissima ha resistito. […] Un altro gruppo di fascisti in Corso Amedeo ha fatto irruzione, devastandola, nella casa del consigliere comunale Luigi Gemignani che è rimasto ferito alla guancia sinistra. [«Il Telegrafo», 4 agosto 1922]
Stessa sorte tocca alla sede dei comunisti in via Santa Fortunata, alla casa dell’assessore Giuseppe Cardon, la cartoleria dell’assessore Giuseppe Bacci, il banco di commercio dell’assessore Giorgio Urbani, la sede della Federazione socialista: «dopo non pochi sforzi la porta ha ceduto e gli assalitori sono penetrati nell’interno. I fascisti si sono impossessati dei mobili, delle carte, hanno staccati dai muri i numerosi quadri e hanno gettato ogni cosa nella strada. Tutto è stato devastato». Al termine della giornata il bilancio degli scontri riportato da «Il Telegrafo» è di 18 feriti, fra cui un ragazzo di 18 anni, due donne e un vecchio di 71 anni, e di 4 morti: Gilberto Catarsi, operaio del Cantiere Parodi e Del Pino, ucciso da un colpo di arma da fuoco partito da un camion, Oreste Romanacci di 73 anni, il muratore Filippo Filippetti, Bruno Giacobini di 14 anni casualmente ferito durante degli scontri in via Palestro, dove si era recato per curiosità.

Nei giorni successivi la pubblica sicurezza perquisisce il circolo repubblicano di via Pellegrini e, trovandovi armi ed esplosivi, arresta Gino Reggioli segretario della sezione del PRI, il presidente del Circolo e altri membri; intanto le bandiere nazionali vengono appese ai balconi e alle finestre delle case e il preposto della Cattedrale monsignor Pera acconsente che il tricolore sventoli sul Duomo.

Il 4 agosto la manifestazione patriottica che sfila per le strade della città suggella, anche simbolicamente, l’unione tra le forze industriali, patriottiche, ex combattenti e fasciste che avevano concorso all’abbattimento della bandiera rossa dalla torre municipale, mentre il generale Ibba Piras, comandante della Divisione militare, assume la gestione dell’amministrazione cittadina come commissario straordinario fino all’11 agosto.

La lettura del “Telegrafo”, quotidiano cittadino, può aiutare a ricostruire il clima di sollievo e soddisfazione che la caduta della giunta porta negli ambienti della borghesia cittadina. La violenta aggressione e deposizione di un’istituzione legalmente eletta si trasforma nella retorica del giornale in una liberazione salvifica, una grande festa per la fine del “governo bolscevico”:
Livorno ha salutato ieri il ritorno del tricolore in modo che sarebbe follia voler descrivere. E’ stata un’altra vibrante festa italiana quella che si è svolta in un trionfo di bandiere nazionali e alla quale il nostro popolo -ancor fiero delle sue tradizioni patriottiche- ha partecipato con un entusiasmo che supera ogni immaginativa. [“Telegrafo”, 5 agosto 1922]

Così in due giorni, sfruttando l’occasione dello sciopero legalitario proclamato in tutta Italia dall’Alleanza del Lavoro proprio contro le violenze fasciste, Perrone Compagni guida le camice nere labroniche alla conquista della città, grazie al sostegno degli squadristi giunti da tutta la regione, alla complicità di ampia parte della vecchia classe dirigente e al benevolo attendismo delle forze di pubblica sicurezza.




LIVORNO 25 LUGLIO 1943: cadono le bombe, cade il Regime.

Ultimi scoppi lontani e chiarori d’incendi.
Poi il cielo ritorna silenzioso e stellato, dopo un’ora di tregenda provocata
dall’aviazione inglese, un’ora che è sembrata un’infernale eternità.
(Gastone Razzaguta, 25 luglio 1943)

La data del 25 luglio 1943, passata alla storia nazionale per la crisi del regime fascista e le dimissioni di Mussolini, a Livorno è ricordata per il pesante e luttuoso bombardamento subito dalla città nella notte del 24 sul 25; poco nota è invece la circostanza per la quale tra i due eventi vi era una diretta correlazione.
Innanzi tutto, va precisato che l’incursione non fu “americana” ma inglese: anche le storiche Michela Ponzani e Laura Fedi hanno ripetuto in tempi recenti l’erronea paternità, nonostante che quella corretta fosse stata già indicata dal memorialista locale Gastone Razzaguta nel 1948 e dallo storico dell’aviazione Giorgio Bonacina nel suo saggio del 1970. D’altronde, è notorio che i bombardamenti notturni sull’Italia erano prerogativa strategica della Raf mentre quelli diurni dell’Usaaf.
Avro LancasterAll’origine del bombardamento vi era l’annullamento della “Operazione Dux” progettata del capo del Bomber Command della Raf, l’air chief marshal Arthur Travers Harris, intenzionato ad eliminare il duce con un bombardamento di precisione sulle sue residenze romane (Villa Torlonia e Palazzo Venezia).
Ancor prima di un pronunciamento del primo ministro britannico, nonché ministro della difesa, Winston Churchill, su ordine di Harris furono dislocati due squadron nell’aereoporto di Blida, in Algeria, dove erano giunti dall’Inghilterra il 17 luglio, dopo aver sganciato le proprie bombe su Arquata Scrivia, San Polo d’Enza, Reggio Emilia e Bologna, mirando alle centrali elettriche.
I due squadron – tra cui il 617°, famoso per la demolizione delle dighe tedesche sui fiumi Eder, Sorpe e Mõhne – erano inizialmente composti da 24 (12+12) bombardieri quadrimotori Avro 683 “Lancaster” e, una volta atterrati a Blida in 22, rimasero in attesa di ordini, venendo nuovamente caricati di bombe, finchè giunse da Londra il contrordine di Churchill, dopo il parere negativo anche del ministro degli esteri Eden. Nel frattempo atterrarono a Blida altri 16 “Lancaster” reduci dal bombardamento sulle centrali elettriche di Cislago Laghetto e Brughiero, aggiungendosi ai due squadron.
L’esito della progettata missione sulla Capitale appariva incerto e rischioso – anche per la presenza del Vaticano – e comunque poteva rivelarsi controproducente in una fase agonica del regime; inoltre, nel giorno previsto per l’azione (19 luglio), il duce sarebbe stato a Feltre per incontrare Hitler. L’Operazione Dux fu dunque annullata, anche se nello stesso giorno Roma fu pesantemente colpita da due bombardamenti diurni statunitensi.
Gli squadron inglesi rimasero quindi a Blida in attesa di direttive, finchè non giunse l’ordine per il rimpatrio dei velivoli, con strike su Livorno lungo la rotta di rientro verso la Gran Bretagna.
Fu così che a Livorno alle ore 0,19 del 25 luglio suonò l’allarme e la gente corse nei rifugi antiaerei, mentre a bordo dei 33 Lancaster i puntatori si predisponevano ad individuare gli obiettivi nell’area portuale-industriale, non particolarmente preoccupati della reazione antiaerea.
Paradossalmente, le bombe in origine destinate a Mussolini fecero correre qualche rischio alla figlia Edda che si trovava in vacanza con i figli presso la villa dei Ciano ad Antignano, tanto che nelle sue memorie ricordò di aver veduto «incendi dappertutto».
porto di Livorno sotto le bombeSecondo le diverse relazioni delle autorità civili e militari, «rotearono sulla città per circa 35 minuti e lanciarono numerosi artifici illuminanti, seguiti da sgancio di bombe e numerosi spezzoni incendiari da quota variabile da 1700 a 5200 metri». Furono lanciate circa 200-300 bombe per un totale approssimato di 85 tonnellate, ossia un carico ridotto rispetto a quello massimo consentito, in quanto gli aerei trasportavano il carburante necessario per raggiungere l’Inghilterra, ma anche arance e pompelmi algerini.
L’elenco delle distruzioni e dei danni conferma la prevalente intenzione di colpire le strutture del porto, il silurificio Moto Fides in via Salvatore Orlando e l’Anic, anche se con scarsi risultati. Presso la Stazione marittima furono gravemente danneggiati 4 carri merci, ma l’efficace intervento dei vigili del fuoco riuscì ad arginare il vasto incendio divampato nella zona portuale, mentre presso l’ANIC bruciarono alcuni depositi di petrolio e annessi baraccamenti. Lo stabilimento del Gommificio italiano in via delle Sorgenti andò completamente distrutto dalle fiamme; danneggiate anche alcune strutture produttive minori: i cortili dello stabilimento Fornace, la fabbrica della Borotalco sul Pontino, un laboratorio di dolciumi in via Pompilia.
Le perdite umane apparvero contenute, ma con un risvolto tragico: su 44 morti ben 43 vennero raccolte presso l’Istituto Maddalena, quarantuno bambini e due suore. Le persone ferite furono appena una decina, mentre invece gli edifici andati distrutti o lesionati più o meno gravemente apparvero molti – secondo i resoconti del Genio Civile rispettivamente 150 e 380 – sul Voltone, a Torretta, sugli Scali delle Cantine e in via Erbosa (l’attuale via Solferino) ma anche nei quartieri periferici di Sorgenti e Salviano, forse coinvolti per la prossimità di stabilimenti o per l’adiacenza della linea ferroviaria.
Colpito, inspiegabilmente – se non per la ferrovia – pure il borgo di Quercianella.
La città venne inoltre completamente paralizzata dalla distruzione dei servizi: acquedotto, energia elettrica, gas, linee telefoniche; gravemente colpito anche il palazzo delle Poste in piazza Carlo Alberto (l’attuale piazza della Repubblica).
Purtroppo, il peggio per Livorno doveva ancora venire.




Spartaco Lavagnini e la nuova Internazionale: una polemica del 1917

Poco più di un mese dopo il disastro di Caporetto sul fronte italiano della Grande Guerra e poche settimane dopo la Rivoluzione d’Ottobre in Russia, il 1° dicembre 1917, Spartaco Lavagnini pubblica su La Difesa – settimanale del PSI fiorentino, cui collaborava regolarmente dall’ottobre del 1915 – un articolo intitolato La nuova Internazionale, destinato ad avere una risonanza non trascurabile sulla stampa socialista dell’epoca. Lo firma con l’ormai abituale pseudonimo di Vezio. L. parte dalla constatazione del fallimento della Seconda Internazionale e – rilevati i limiti e l’insufficienza della tattica parlamentare – addita la prospettiva di un nuovo organismo sovranazionale, basato sull’accordo fra tutte le scuole del sovversivismo rivoluzionario, che dia unità d’organizzazione alle masse operaie. Auspica che divenga possibile discutere nelle grandi assise internazionali fra socialisti, sindacalisti ed anarchici i grandi problemi che interessano il proletariato del mondo ed avvistare i mezzi più adatti a risolverli.  Prosegue Vezio: Nei grandi avvenimenti [della storia contemporanea] (…) l’unità proletaria si è immediatamente realizzata, gli aggruppamenti politici sovversivi hanno saputo trovare il comune terreno per una comune azione. Non ci pare quindi impossibile dare a questa unità ed a questi atteggiamenti più stabile consistenza e forme più durature.

Una settimana dopo, dalle colonne de Il Grido del Popolo – organo della Federazione socialista torinese – giunge severa la critica di Gramsci: Così la “Difesa” cade in questo errore di logica. Scambia il compito che può avere un convegno internazionale, nel quale si fissano dei princìpi generali che rinsaldino le coscienze in un determinato momento della storia, (…) e il compito di un organismo stabile. Il partito ha una continuità, è un organismo complesso, ha bisogni pratici, e solo in quanto riesce a soddisfarli acquista in potenza, e suscita le forze sociali necessarie per il raggiungimento dei suoi fini. E poi l’attacco a fondo alle posizioni di L. – (…) la nostra distinzione [in quanto partito] sarebbe distrutta da una fusione con gli anarchici e i sindacalisti. Non è solo l’antiparlamentarismo che ci separa dai sindacalisti e specialmente dagli anarchici. Siamo non solo distinti, ma diversi dagli anarchici, a malgrado dagli occasionali accostamenti. Divergiamo per il fine, per la mentalità che la divergenza di fine determina.

Emerge qui il fondamento della posizione e della critica gramsciana: una concezione organica del partito, di una compagine fondata su una precisa identità politica, con una sua visione d’insieme del corso storico e del rapporto con la classe nella sua totalità – di contro alla visione del partito come un processo, legato alla spontaneità delle masse in movimento e da questa dinamica definito nei suoi modi d’essere e nei suoi obbiettivi.

Vale comunque la pena di leggere per intero il testo di Gramsci (cfr. la bibliografia), non fosse altro in quanto riporta pressoché integralmente l’articolo di Vezio, anche se questo scambio polemico fra i due dirigenti rivoluzionari è noto da tempo ed è stato ampiamente ricostruito nella bella biografia che Andrea Mazzoni ha recentemente dedicato a L.

Meno ricordati sono gli interventi, in questo confronto, di Amadeo Bordiga e di Giacinto Menotti Serrati. Il primo, all’epoca animatore e dirigente della Federazione napoletana del PSI, prende posizione dalle colonne de L’Avanguardia – il settimanale della FGSI, che in quell’autunno 1917 si trova temporaneamente a dirigere – con una breve nota, nella quale si dice sostanzialmente in pieno accordo con la posizione de Il Grido del Popolo. Questo trafiletto introduce un più ampio articolo di un giovanissimo militante d’origine sarda, non ancora sedicenne, Giuseppe Sotgiu, ben presto destinato a diventare segretario della FGSI e ad entrare nella direzione de L’Avanguardia, in seguito al richiamo di Bordiga sotto le armi e all’arresto del segretario dell’organizzazione giovanile, Luigi Polano. Sotgiu, dopo aver ricordato la fine della Prima Internazionale proprio per le inconciliabili divergenze fra anarchici e marxisti e il crollo della Seconda, a causa della sua disomogeneità, vista la presenza dei “social-nazionalisti”, fa proprie le conclusioni dell’articolo di Gramsci

Serrati – allora direttore dell’Avanti! – interverrà sul quotidiano socialista il 6 gennaio 1918, riprendendo le posizioni di Gramsci e Bordiga, rinviando inoltre ad un proprio articolo di due anni prima, pubblicato sullo stesso quotidiano socialista, nel quale egli già aveva proposto agli anarchici la ricerca di un terreno comune nell’azione contro la guerra, senza che ciò comportasse l’abiura alle rispettive concezioni politiche generali, che erano inconciliabili.

Si può già intravedere come traspaiano in filigrana in questa polemica, apparentemente marginale e condotta in punta di penna, alcuni temi ed alcuni atteggiamenti politici che ricompariranno – mutatis mutandis, ma con ben altre conseguenze pratiche – nel corso degli anni successivi, dalla primavera-estate del 1920 e nei mesi che precedono la scissione di Livorno, fino al periodo della lotta contro il fascismo, nei mesi che precedono e seguono la marcia su Roma (si pensi alla scelta della direzione del PCd’I di non aderire nel 1921  agli Arditi del Popolo e alla questione del Fronte unico, oggetto di profonde controversie fra la sezione italiana dell’Internazionale Comunista e lo stato maggiore di Mosca).

È importante cogliere come questa polemica non sorga dal nulla, come una tempesta in un bicchier d’acqua, ma si ricolleghi alla spinta di non poche frange della sinistra giovanile socialista ad approfondire e rendere organico il legame con anarchici e sindacalisti rivoluzionari nella comune azione contro la guerra. È tutto un fermento nel movimento operaio e socialista italiano, che fiorisce a partire dalla fine del 1915 e si estende con l’amplificarsi in Italia degli echi delle conferenze di Zimmerwald (5-8 settembre 1915) e di Kienthal (25-30 aprile 1916).

In Puglia, ad esempio, un gruppo di giovani socialisti rivoluzionari, fra cui Nicola Modugno (che ritroveremo a Firenze il 18 novembre 1917 – vedi più oltre), tenta di organizzare per il giugno 1916 un Congresso interregionale giovanile socialista anarchico rivoluzionario, poi impedito dalla polizia, che mira a spengere sul nascere i focolai dell’insubordinazione. Ma le spinte a saldare, a livello locale e “dal basso”, un’unità fattiva contro la guerra fra giovani socialisti, anarchici e sindacalisti rivoluzionari non sono confinate al solo Meridione (sui cui movimenti sovversivi si veda l’utile libro di Daria Del Donno, citato nella bibliografia).

Il 10 giugno 1916 Gramsci – in un articolo pubblicato sulla pagina torinese dell’Avanti! – annuncia che: Un gruppo di giovani del circolo “Andrea Costa” ha preso l’iniziativa per la costituzione a Torino di un fascio internazionalista rivoluzionario che dovrebbe comprendere i socialisti, gli anarchici e i sindacalisti. Un blocco rosso insomma. Gramsci si dice contrario ad una fusione organica: una fusione di tal genere avviene naturalmente nel momento dell’azione, quando si ha un fine immediato da raggiungere un nemico comune da colpire (…) E’ opinione volgare e diffusa che gli anarchici e i sindacalisti siano più “rivoluzionari” che i socialisti anche estremi. E questo è un pregiudizio perché il rivoluzionarismo non è in funzione assoluta con le affermazioni gladiatorie e con la violenza di linguaggio (…). Crediamo perciò che il nostro partito non abbia affatto bisogno di queste iniezioni per irrobustirsi (…).  Una posizione analoga aveva vivacemente sostenuto Bordiga, già nell’aprile, allorché – nell’ambito della Federazione socialista di Napoli – si era esaminata la possibile convergenza con elementi anarchici nel lavoro politico e sindacale.

Sulla stampa socialista il dibattito sulla questione dell’unità di classe contro la guerra sta andando avanti dagli inizi di quel 1916; a partire dal già menzionato articolo di Serrati del gennaio. Da questo confronto emerge la sintonia fra Gramsci e Bordiga – che ritroveremo nel dicembre 1917 – nell’escludere ogni alleanza spuria a sinistra.

Anche in ambito libertario e sindacalista la questione troverà vasta risonanza soprattutto a partire dal 1° maggio 1917, quando sull’Avanti! compare un articolo di Jacques Mesnil sul tema della nuova internazionale. Mesnil è un anarchico di origini belghe, particolarmente legato al PSI e in ottimi rapporti con Serrati, che lo accetterà come corrispondente parigino del quotidiano socialista. Nel 1921 parteciperà al III° Congresso del Komintern e per alcuni anni sarà nella redazione de L’Humanité, allora organo della sezione francese dell’I.C.

In autunno, con una lettera da Londra, pubblicata su Guerra di classe (la rivista fondata dal sindacalista Armando Borghi, dopo la rottura con gli elementi interventisti dell’Unione Sindacale Italiana), prende posizione Errico Malatesta a favore di una nuova Internazionale, che si batta per l’emancipazione del proletariato mondiale dal capitalismo e dai suoi governi. Una formazione (Malatesta propone di chiamarla la Mondiale per sottolinearne il carattere sovranazionale) alla quale potrebbero partecipare i socialisti non anarchici ed i laburisti non socialisti, a patto che rinuncino ad imporre le proprie tattiche, ovvero il parlamentarismo e il gradualismo riformista. Una posizione speculare, se vogliamo, a quella di Gramsci e di Bordiga.

L. interviene nel momento culminante di tutto questo dibattito. Per quanto riguarda l’evoluzione di Vezio, la posizione espressa nell’articolo da cui siamo partiti è in assoluta coerenza con tutta la sua militanza politica e sindacale. L. è sicuramente espressione dell’ambiente massimalista fiorentino, pur se gli resteranno sempre estranei i toni esagitati e la verbosità demagogica da comiziante.

Del resto il massimalismo sarà uno dei tratti distintivi di gran parte dei militanti socialisti che aderiranno tre anni dopo alla mozione di Imola e, nei primi mesi del 1921, daranno vita alle sezioni toscane del PCd’I.  Basti qui ricordare l’estrazione anarchica, negli anni di gioventù, di quadri del livello di un Ilio Barontini o di un Ersilio Ambrogi (entrambi originari della provincia di Pisa – Cecina e Castagneto rientravano allora in tale ambito amministrativo), oppure l’apprendistato e i tratti dell’impegno politico di un Arturo Caroti, o di un Armando Aspettati (entrambi fiorentini), di un Luigi Salvatori (originario di Querceta in provincia di Lucca), o di un Egidio Gennari (per diversi anni, particolarmente significativi, attivo su Firenze).

Quella di L. – la sua visione e la sua passione per fomentare e sviluppare l’unità di classe al di là delle appartenenze di sindacato e di partito (potremmo dire dal basso), resta una coerenza totale, dispiegata fino all’ultimo. C’è una coerenza di fondo fra lo spirito dell’articolo del dicembre 1917 e l’impegno unitario, senza riserve, di L. a fianco degli anarchici (due nomi per tutti: il pisano Augusto Castrucci e il livornese Enzo Fantozzi) e dei sindacalisti rivoluzionari all’interno del Sindacato Ferrovieri Italiani (S.F.I.), per la cui adesione alla CGdL Vezio non rinunciò a battersi durante il biennio rosso.

Una coerenza che ritroviamo nella collaborazione con l’avvocato Mario Trozzi, al tempo stesso legale dello S.F.I. e esponente di rilievo del massimalismo fiorentino. Vale la pena di ricordare che nel suo studio il 18 novembre 1917 si tiene, fra i principali esponenti della sinistra socialista italiana, la riunione nazionale clandestina per raccordare le posizioni degli aderenti alla frazione intransigente rivoluzionaria del PSI, che ha preso vita nel corso dell’estate precedente: una pietra miliare lungo la strada che porterà alla nascita del PCd’I. Una riunione nella quale – e la circostanza ha anche un suo forte significato simbolico –  si incontrano di persona per la prima volta Gramsci, Bordiga e anche – secondo quanto riporta Andrea Mazzoni nel suo libro – lo stesso Lavagnini.

In fondo la vicenda qui richiamata ci ricorda ancora oggi quanto tormentato, non breve e di certo non lineare sia stato il cammino che ha portato i più importanti dirigenti del futuro PCd’I ad emanciparsi – forse mai completamente del tutto – dai limiti del massimalismo, tratto caratteristico del movimento operaio italiano nei primi decenni del ‘900 (e forse non solo in questi). Giustamente Andrea Mazzoni sottolinea quanto L. si ispirasse al modello di Karl Liebknecht nella sua intransigente opposizione alla guerra e al militarismo prussiano. Ma tanto al tribuno di Firenze che a quello di Berlino (caduto due anni prima di lui), la reazione borghese – fascista per il primo, d’ispirazione socialdemocratica (maggioritaria) per il secondo – non ha consentito di contribuire ulteriormente a dare uno sbocco politico ai fermenti rivoluzionari sorti in Europa all’indomani dell’Ottobre sovietico.




“Frankie Goes To Leghorn”

Per i bombardieri americani e inglesi Livorno era solo una coordinata geografica: 43°33’ latitudine nord, 10°18’ longitudine est sul Mar Ligure, costa occidentale della penisola italiana. Un’espressione geografica da bombardare, per costringere i tedeschi ad andarsene. E fu così che dal giugno 1940 al luglio 1944 furono 116 i bombardamenti che colpirono e distrussero gran parte della città. Ben 90 di queste incursioni aeree, le più terribili, furono concentrate tra il 28 maggio del 1943 e il 7 giugno del 1944.

Alla fine la città fu liberata ma il prezzo pagato fu altissimo. I bombardamenti causarono la morte di 1.400 persone tra civili e militari, migliaia furono i feriti, anche la paura era una ferita difficilmente rimarginabile, molti, un numero ignoto, i dispersi; e fu completamente distrutta la zona industriale e portuale della città, e poi le case: furono circa ventimila i vani di abitazioni distrutti, oltre trentamila quelli gravemente lesionati.

Dopo poco più di un mese dall’ultimo terrificante bombardamento del 7 giugno, era la mattina del 17 luglio del 1944, un lunedì, le avanguardie della 34ª divisione “Red Bull” andarono in avanscoperta, con grande cautela, per le strade di una città di fantasmi. Ma la vera liberazione di Livorno avvenne due giorni dopo, il 19 luglio 1944, quando in città entrano i tanks e le jeep americane e le formazioni partigiane che aveva combattuto duramente per liberare Livorno; la popolazione potè finalmente invadere le strade e gioire per un incubo cessato.

Livorno liberata vive e lotta per la sopravvivenza. Quando arriva il generale Mark Clark al comando della Quinta Armata, trasforma Livorno in Leghorn e, dal 1° settembre 1944, nomina il porto labronico come Decimo Porto (10th Port) ovvero distaccamento del Genio USA per le Opere Marittime oltremare.

Circolano le AM lire: il dollaro costa 100 lire, la sterlina 500 lire. Il Governo militare alleato è ai Casini d’Ardenza mentre a Villa Trossi c’è l’Ufficio del Lavoro. In tutta la città ci sono italiani, americani, inglesi, brasiliani, truppe coloniali e prigionieri tedeschi. Nelle strade transitano jeep, dodges, trucks; gli incidenti stradali sono all’ordine anche perché gli autisti, i driver, vanno veloci e spesso sono ubriachi. Sparse su tutto il territorio cittadino ci sono baracche e costruzioni che ospitano le truppe e generi di ogni tipo.

Con l’esercito alleato arrivano anche affaristi privi di scrupoli, ladri, imbroglioni, prostitute e protettori. I berretti rossi della polizia militare inglese e i caschi bianchi della polizia militare americana cercano di porre un freno alla criminalità nascente e al traffico clandestino di merci e materiali USA.

A nord della città la pineta di Tombolo è già tristemente nota come “paradiso nero”. Lo scrittore Nicholas Fersen, nel prologo al suo romanzo “Tombolo” scrisse: «e Tombolo giace là di fronte al mare, inscrutabile, orrida e misteriosa, tenacemente incollata con la sua miseria, la sua storia, alla coscienza degli uomini». Lì, dove sarebbe sorto nel 1951 Camp Darby, base USA per il sud dell’Europa, si compiono traffici illeciti, mercato nero, vi si rifugiano i disertori, centinaia di “segnorine” si prostituiscono.

Con gli americani arriva anche la Coca Cola, il chewing-gum; diventano famosi sport come il basket e il baseball; si ballano e si suonano i ritmi musicali come il boogie-woogie, il blues, e una strana musica: il Jazz. Anche se Livorno aveva sentito questa musica nelle sue prime forme: già negli anni venti e trenta del ‘900 si erano formate molte jazz band. La musica, i nuovi ritmi, ai musicisti livornesi, così come tanti altri musicisti di altre città italiane, soprattutto portuali, erano conosciuti perché alcuni erano emigrati in America, ma anche perché il jazz attinge da tante altre forme musicali come la musica bandistica (a Livorno erano molte le bande musicali attive) la classica, la musica da ballo che a Livorno erano già diffuse all’inizio del ‘900 e che “viaggiavano” costantemente con le navi attraverso l’oceano. Il jazz che i livornesi ascoltano negli anni ’40 e ’50, è quello suonato dalle band al seguito dei militari Usa, ed è il jazz moderno, anche se non c’è una frattura netta fra il prima, degli anni ’20 e ’30, e il dopo in quello che ascoltavano.

Livorno diventa anche crocevia delle star internazionali che incontrano e si esibiscono per le truppe angloamericane. Nella primavera del 1945, Marlene Dietrich, indimenticabile interprete de L’Angelo Azzurro e de La Taverna dei Sette Peccati, partecipa ad alcuni recital cantando per i soldati americani e inglesi feriti in combattimento e ricoverati in ospedali da campo a Livorno: gli inglesi sono a Villa Mimbelli, gli americani a Villa Corridi.

In estate è la volta di Francis Albert Sinatra, noto come Frank Sinatra o con il solo nome, cantante di origine italiana, non ancora “The Voice” ma già famoso nel suo paese, che canta in piazza Magenta di fronte ai soldati americani. Dopo di lui arriverà anche una giovane, non ancora trentenne e già famosa, Ella Fitzgerlad che si esibirà nell’ex Dopolavoro della Società Metallurgica Italiana di via Micali divenuto sede della Red Cross Club (Croce Rossa americana).

 Il Concerto in Magenta Square

 È il 7 luglio, un sabato, ed è l’ultima tappa del Tour USO 1945. Questi Tour sono organizzati dalla United Service Organizations Inc. (USO), una società di beneficenza americana senza scopo di lucro che offre intrattenimento dal vivo con celebrità di Hollywood (comici, attori e musicisti) ai membri delle forze armate degli Stati Uniti e alle loro famiglie, durante la guerra. Lo scopo è di «portare a casa i ragazzi, alla loro casa». Tra il 1941 e il 1945, l’USO mise in piedi 293.738 spettacoli in vari continenti.

Quel sabato pomeriggio, lì sul palco, assieme a Frank Sinatra c’è un giovanissimo pianista, Saul Chaplin, che non era figlio del grande Charles Chaplin “Charlot” come qualcuno, sbagliando, l’ha indicato nell’annotazione che accompagna la storica e unica foto del concerto di piazza Magenta. In realtà Saul Chaplin, il cui vero nome è Saul Kaplan, è nato a Brooklyn, New York, il 19 febbraio 1912, da famiglia ebrea di origine polacca, e ha frequentato la School of Commerce della New York University con l’intenzione di diventare contabile. Pianista autodidatta, ha guadagnato soldi per mantenersi agli studi suonando con band locali.

Saul era molto giovane quando a Livorno accompagnò al piano Sinatra. In seguito, fino alla sua morte avvenuta nel 1997, sarebbe diventato un famoso compositore di colonne sonore del cinema, vincitore di tre Premi Oscar per la migliore colonna sonora per i film Un americano a Parigi (1952);  Sette spose per sette fratelli (1955); West Side Story (1962) come produttore associato con Leonard Bernstein.

Sul retro della foto originale, l’unica che ritrae Sinatra e Chaplin sul palco, vi è l’annotazione che la pubblicazione della foto è autorizzata dal Pentagono con la seguente indicazione: «Se pubblicata, si prega di accreditarla come fotografia dell’esercito americano, scattata dal fotografo Barry Kramer, assegnato per realizzare foto per l’USO (United Service Organizations) oversears tour 1945».  Barry Kramer (1921- 1984) è stato uno dei fotografi più prolifici del suo tempo, conosciuto e venerato più dopo la sua morte che quando era in vita. Nato e cresciuto a New York City, Barry, dopo la laurea alla New York University in pubblicità, fu arruolato nell’esercito nel 1942 e assegnato al corpo fotografico dell’USO, sviluppando nei vari tour stretti rapporti con innumerevoli celebrità dell’epoca come Frank Sinatra, Perry Como, Judy Garland, Tony Bennett, Duke Ellington, Ella Fitzgerald; un’esperienza, questa, che in seguito lo portò a collaborare con importanti riviste come Life e National Geographic. Sue sono inoltre le foto più famose di musicisti jazz nelle loro esibizioni nei jazz club di fama mondiale: Basin Street East, The Village Gate, The Metropol.

Ma prima di ritornare al concerto di piazza Magenta, vediamo come e perché fu decisa la tournée di Sinatra a Livorno.

 L’antefatto

 Come C-4 (codice identificativo d’idoneità al servizio militare ma solo come ausiliario) Frank Sinatra non avrebbe dovuto svolgere il servizio militare almeno fino al 1945, per via di un timpano perforato.

Ma era il 1945 e la guerra mondiale non era ancora finita. Sinatra fu quindi chiamato per una nuova visita medica. «Devo andare all’ospedale militare del New Jersey per verificare la mia idoneità», dichiarò ai giornalisti che smaniavano per intervistare questo giovane cantante italo americano che stava avendo un enorme successo, soprattutto tra le ragazze. E dopo tre giorni di visite Frank a sorpresa fu classificato C-2A che significava che era dichiarato inabile al servizio militare e sarebbe stato quindi esentato anche dal servizio ausiliario.

Apriti cielo, la notizia destò un gran sollievo tra le ammiratrici, ma anche una valanga di proteste su alcuni giornali, uno dei quali aveva definito Sinatra un «cantante caramelloso», e soprattutto tra i giovani in guerra in Europa e le loro madri. Una delle quali scrisse al New York Time: «mi potete spiegare perché gli atleti, gli attori del cinema e del teatro sono così importanti che ci debba essere per loro una speciale dispensa dal servizio militare? ». Una lettera arrivò anche dai militari del padiglione 47-4 dell’Hospital Plant 4118 in Inghilterra che avevano letto che c’erano ragazze a casa che minacciavano perfino di uccidersi se Frank fosse stato arruolato: «ci sono milioni di soldati americani sotto le armi e ci si preoccupa e ci si dispera per un solo uomo?».

Il 5 marzo del 1945 la commissione di leva del New Jersey, sorpresa dalle tante proteste, dichiarò che c’era stato un disguido e che Frank doveva essere considerato ancora un C-4. George Evans, manager di Sinatra, per evitare altre polemiche annunciò che Frank aveva intenzione di fare subito un giro negli ospedali militari e che in giugno sarebbe andato a cantare per le truppe oltreoceano.

«Quando il manager di Frank mi chiese di mettere insieme uno spettacolo per fare il tour con Sinatra in Europa per sei settimane, mi sentii male – disse Phil Silvers, attore, cantante e amico di Sinatra: ero ancora in luna di miele con Jo Carroll […] ma Frank era un amico e non potevo dire di no”». Phil Silvers aveva anche riflettuto su come presentare Sinatra alle truppe, dopo tutte quelle polemiche: «Non potevo certo dire: ed ecco a voi, l’idolo della gioventù americana. Mi avrebbero tirato le gavette. Pensai e suggerì di presentarlo sfottendolo un po’. Lo avrei preso in giro per la sua magrezza, lo avrei schiaffeggiato, lo avrei intimidito con lo sguardo, tutto per scherzo ovviamente, poi avrei attaccato un mio pezzo suonando un clarinetto e storpiando le note […] e a questo punto credo, anzi sono certo, che i soldati chiederanno a gran voce di farlo cantare».

La cosa funzionò e così, con questa trovata, iniziò ogni concerto del tour del 1945: i soldati dopo aver riso della gag tra Silvers e Sinatra chiedevano a gran voce a Frank di cantare una delle sue canzoni più in voga. A Livorno la richiesta cadde su “Nancy with the Laughing Face” che Phil aveva scritto per la festa di compleanno della figlia di Sinatra. Almeno così si raccontava. In realtà il titolo originario era “Bessy with the Laughing Face”, ma quando Silvers, autore del testo, e Jimmy Van Heusen, autore della musica, la cantarono alla festa di compleanno, sostituendo a Bessy il nome della figlia di Sinatra, Nancy, Frank si commosse, pensando che fosse stata scritta apposta per la festa di sua figlia. La verità era però che Silvers e Heusen avevano composto la canzone per il compleanno della moglie, Bessie, del compagno di scrittura di Van Heusen, Johnny Burke. Il titolo, con Nancy, fu poi registrato da Sinatra per la Columbia nel 1944, e così è conosciuto.

La tappa livornese di Sinatra fu l’ultima del 1945 Overseas USO (United Service Organizations) Tour, organizzato dal Comando USA per intrattenere soldati americani di stanza a Terranova, nelle Azzorre, nel Nord Africa e, appunto, in Italia con i concerti a Roma, Capua (Caserta), Cerignola (Foggia), Venezia, Milano, Pomigliano d’Arco, Capri, Bari, Foggia, Manduria (Taranto) e, appunto, Livorno, l’ultima data prima di ritornare in America.

Insieme a Sinatra e al pianista e compositore Saul Chaplin, saliranno sul palco il comico e amico di Frank Phil Silvers, all’anagrafe Philip Silver (il suo nome è iscritto tra le celebrità della Hollywood Walk of Fame. Silvers fu doppiato dall’attore livornese Stefano Sibaldi nei film: La signorina e il cow-boy, Fascino e Sesta colonna, e da un altro attore livornese Carlo Carletto Romano per  20 chili di guai!…e una tonnellata di gioia); con loro Fay McKenzie, attrice e cantante, e Betty Yeaton, acrobatic Cutie (ballerina-contorsionista),  che in Italia aveva già partecipato ad una tournée USO per i soldati della 5a armata americana, con uno spettatore d’eccezione, Winston Churchill, a Marina di Cecina il 3 agosto 1944.

 Livorno 7 luglio 1945 – Magenta Square

 Ci raccontano le cronache di quei giorni che quando Frank Sinatra giunse a Livorno aveva poco meno di trenta anni essendo nato nel dicembre del 1915  a Hoboken, New Jersey, Stati Uniti.

Aveva già alle spalle un’apprezzabile esperienza musicale. A Livorno vi erano migliaia di militari della Quinta Armata. Le truppe, anche se il 25 aprile del 1945, con la Liberazione delle grandi città del Nord e la resa dei tedeschi, l’Italia era stata liberata dal nazifascismo, non avevano certo il morale alle stelle. Soldati giovanissimi erano lontani da casa anche da tre o quattro anni, un oceano fra loro e le fidanzate; bloccati in un paese con abitudini diverse, con una lingua incomprensibile per i più, anche se molti erano gli italo-americani, le generazioni successive a quelle della grande immigrazione italiana negli USA, che non avevano bisogno dell’interprete. C’era bisogno di qualcosa che potesse risvegliare i ricordi della casa lontana. Nulla di meglio che un po’ di musica: lo swing che i livornesi avevano già cominciato ad apprezzare già negli anni Venti grazie ad alcune famose orchestre, come quella di Otello Bacci, e tante jazz band locali.

Il 7 luglio del 1945 faceva caldo. C’era il sole che salutava la prima estate senza più guerra. In Magenta Square, come era chiamata dagli americani, dominata dalla grande chiesa di Santa Maria del Soccorso, si accavallavano i rumori delle martellate e le grida di coloro che erano impegnati a montare il palco.

In piazza (raccontano ancora le cronache del tempo) presero posto migliaia di soldati americani, si dice fossero più di 10mila, ed ecco che davanti al microfono arriva quel ragazzo mingherlino, già famoso fra i soldati americani con il nome di “Frankie”. Proprio negli anni della guerra alcune canzoni da lui interpretate erano già entrate nella top ten di quelle preferite dal pubblico americano. “Frankie” Sinatra sarebbe diventato presto un artista di fama planetaria, e non solo come cantante, ma anche come attore: dai primi musical cantati e ballati con Gene Kelly fino a film di grande spessore interpretativo come Da qui all’eternità girato da Fred Zinnemann e che valse a Sinatra, nel 1954, l’Oscar come migliore attore non protagonista, o come, nel 1955, L’uomo dal braccio d’oro di Otto Preminger, con Sinatra candidato ad una nomination all’Oscar come migliore attore protagonista.

A Livorno, davanti al microfono, Frankie caricò l’animo dei soldati e li fece divertire. Si dice – ma qui le notizie sono frammentarie – che ad aprire il concerto, sotto il palco, fu un’orchestra composta da alcuni musicisti livornesi diretti da Otello Bacci; un’orchestra molto famosa tra le truppe americane perché proponeva “musiche americane” allora in voga.

Di quel concerto di tanti anni fa resta una foto un po’ ingiallita come tutte quelle che si tirano fuori dal cassetto della memoria. Una foto nella quale si vede Sinatra che canta indossando una camicia bianca con le maniche arrotolate sugli avambracci e un paio di pantaloni morbidi a vita alta, come andava di moda all’epoca. Saul Chaplin, il pianista, anche lui in camicia bianca, suonava un pianoforte verticale Steinway & Sons, di colore rosso mogano, portato direttamente dagli States e che era stato scarrozzato per tutte le tappe della tournée, riportando anche alcune “ferite” nella struttura in legno.

Sinatra in piazza della Vittoria cantò otto delle sue canzoni più famose: Nancy (With the Laughing Face) di Phil Silvers e Jimmy Van Heusen; Night and Day di Cole Porter; Candy di Mack David, Joan Whitney e Alex Kramer; Saturday Night di Sammy Cahn e Jule Styne; Ol’ Man River di Hammerstein-Kern; Embraceable You di George e Ira Gershwin; Blue Skies di Irving Berlin; Somebody Loves Me di George Gershwin, BG DeSylva e Ballard MacDonald.

Prima, durante e dopo il concerto fu accompagnato da applausi, urla e fischi, così come usavano fare gli americani quando una cosa piaceva, quindi il concerto di Frank Sinatra aveva avuto successo. Lo stesso giorno Sinatra e tutta la troupe volarono in America.

E questo è quanto si può raccontare sullo storico concerto di Frank “Frankie” Sinatra a Livorno. Ma non è tutto, perché c’è un pianoforte che rimane sul palco e non ritorna negli States. Ed è un’altra storia.

 Il pianoforte Steinway & Sons

 Il pianoforte su cui suonò Saul Chaplin e che accompagnò tutto il Tour USO merita un racconto a sé. Sì, perché per questo strumento musicale l’avventura di quel 1945 si concluse proprio a Livorno. Terminato la tournée, il pianoforte per chissà quale motivo non fece parte del bagaglio caricato sull’aereo con cui Frank Sinatra e gli altri artisti se ne ritornarono negli USA.

Che ne fu di quel piano? Oggi, grazie a circostanze casuali, possiamo raccontare la sua storia: il pianoforte Steinway & Sons, nel suo colore tradizionale rosso mogano ma che durante i tour USO fu tinto di un verde militare, su cui suonò Saul Chaplin e la cui musica accompagnò Frank Sinatra, non solo rimase in Italia, ma si trova ancora a pochi chilometri da Livorno. Sul pianoforte, benché di nuovo color rosso mogano e con qualche ferita, si scorgono tutt’oggi tracce di vernice verde.

A tale proposito riportiamo la testimonianza di Marcello Orazio, che ne è stato uno dei proprietari:

 Io lo aveva ricevuto in eredità da mio padre Alberto il quale a sua volta lo aveva acquistato nell’immediato dopoguerra presso la Casa Musicale Pietro Napoli di Livorno. L’acquisto di questo piano gli era stato caldamente raccomandato dal titolare Roberto Napoli (nonno dell’attuale Roberto, figlio di Gian Franco Napoli) come un’eccezionale occasione di qualità e prezzo, riservatagli in seguito agli ottimi rapporti di amicizia e di stima che intercorreva fra loro. Dopo un uso intenso, il piano restò inutilizzato per decenni, poi è emerso che quello non era un pianoforte comune, ma aveva una particolarità storica non indifferente. Si trattava di una versione impreziosita con gusto borghese del glorioso Victory Vertical Steinway, solitamente in verde oliva dei G.I. militari americani, costruito secondo specifiche militari di robustezza e maneggiabilità, adatto anche a essere paracadutato in avamposti del fronte bellico per dare momenti di ricreazione alle truppe. Accertata questa inconfutabile caratteristica si è consolidata in me l’ipotesi che quel piano fosse proprio quello usato per accompagnare Frank Sinatra in occasione del suo concerto per le che truppe in Piazza Magenta a Livorno. Il motore di questa ipotesi fu la casuale visione su una rivista della foto che ritraeva l’evento e nella quale si potevano anche vedere dettagli del pianoforte sul palco. Da questa ipotesi ho cominciato a esaminare da una parte la corrispondenza dei dettagli del pianoforte e d’altra parte a scavare nei ricordi della mia famiglia e in dettagli di per sé apparentemente poco significativi ma che nel contesto assumono oggi una valenza che permette di dare consistenza all’ipotesi.  A proposito del pianoforte, da notare che il piano in oggetto presenta, fin dall’acquisto presso Pietro Napoli, due colonne a lira strutturalmente posticce che, senza incidere sull’originalità del piano, contribuiscono ad assecondare ulteriormente il gusto borghese. Questo lascia pensare a una modifica esteticamente riuscita apportata da validi artigiani della stessa ditta Pietro Napoli che, per il suo già allora influente riferimento alla Steinway & Sons a livello europeo, avrebbe potuto avere quindi un ruolo nell’allestimento dello spettacolo di Frank Sinatra, e nella trattenuta in zona del pianoforte a fine spettacolo.

 Ed è così: fu proprio Roberto Napoli, imprenditore in campo musicale e musicista lui stesso, ad acquistare per primo quel pianoforte lasciato a Livorno al termine del Tour USO 1945, poi venduto alla famiglia Orazio. Marcello Orazio, che da bambino aveva studiato proprio su quel piano, ha di recente saputo che il musicista Andrea Pellegrini faceva parte del Comitato Unesco Jazz Day Livorno: «Lei è Pellegrini, figlio di Gian Franco il pianista jazz? – chiese, dopo averlo contattato, a Pellegrini, la risposta fu affermativa. Allora devo dirle che io ho il pianoforte del concerto del 1945 di Sinatra a Livorno».

Il Comitato UNESCO Jazz Day Livorno, fondato nel 2011, è composto da Andrea Pellegrini, Chiara Carboni e Maurizio Mini; Presidente Onorario Gian Franco Reverberi. Il Comitato organizza a Livorno dal 2012 nel mese di aprile, la JAM Jazz Appreciation Month Livorno, giunta quest’anno alla sua decina edizione (nel 2021, causa Covid, l’evento non si è svolto); un mese di eventi tra concerti, ascolti guidati, libri, film, mostre di pittura e fotografiche, tutto all’insegna del jazz. Livorno è l’unica città in Europa ad organizzare un mese di iniziative sul Jazz per concludersi il 30 di aprile, giornata mondiale Unesco dedicata al Jazz.




Il “soccorso nero” in una provincia rossa. Il Movimento italiano femminile a Siena.

Il Movimento italiano femminile “Fede e famiglia”.

Il Movimento italiano femmine, comunemente riassunto nell’acronimo MIF, fu tra le prime organizzazione neofasciste formatesi nell’Italia postbellica, con l’obiettivo di assistere gli ex fascisti in carcere o in clandestinità. Fondato ufficialmente il 28 ottobre 1946, una sorta di mito fondativo ne avrebbe ricondotto in realtà la paternità a Mussolini in persona, che nell’aprile 1944 avrebbe incaricato la principessa Maria Elia Pignatelli di riunire le donne fasciste e orientarne l’attività in senso assistenziale e propagandistico. Già distintasi, assieme al marito Valerio, nell’organizzazione delle reti fasciste clandestine nell’Italia liberata, la principessa Pignatelli avrebbe dato vita a un’organizzazione strutturata a livello nazionale, con sedi in quasi ogni provincia e un’estesa rete di collaboratrici, comprendente figure di rilievo nel mondo dell’industria, della politica e, soprattutto, all’interno della Santa Sede. Scopo principale del MIF fu quello di fornire assistenza materiale e legale ai cosiddetti prigionieri politici fascisti, favorendo al contempo l’espatrio dei latitanti. Tuttavia, l’azione del movimento si sarebbe progressivamente allargata, portandolo a stringere rapporti con altre organizzazioni neofasciste europee, come pure a svolgere propaganda in favore del Movimento sociale italiano. Anche per tale attivismo, nonché per la sua funzione aggregatrice, il MIF avrebbe rappresentato uno degli attori più importanti del panorama neofascista italiano dell’immediato dopoguerra.

L’archivio del MIF e l’iniziativa dell’Istituto storico della Resistenza senese e dell’età contemporanea.

Le carte del Movimento italiano femminile sono oggi conservate presso l’Archivio di Stato di Cosenza. Disposizioni per il versamento, avvenuto nel 1969, furono impartite dalla stessa Maria Pignatelli poco prima della sua scomparsa nel marzo 1968, a causa di un incidente stradale. Il fondo, riordinato e inventariato, conta oggi 88 buste, relative all’attività svolta dal MIF dalla sua costituzione fino alla prima metà degli anni Cinquanta. La suddivisione interna presenta serie dedicate all’organizzazione del movimento; all’amministrazione; ai rapporti con organi dello Stato, enti, associazioni, partiti politici; alla corrispondenza con assistiti, avvocati, personalità politiche ecc. La serie più voluminosa è però quella relativa all’organizzazione periferica del movimento, comprendente i fascicoli delle sue sezioni provinciali e comunali.

Attraverso la cordiale collaborazione del personale dell’Archivio di Stato di Cosenza, nel 2020 l’Istituto storico della Resistenza senese si è impegnato nella riproduzione della documentazione riguardante la sezione senese del MIF, organizzata in tre ricchi fascicoli. Tali documenti sono adesso conservati in versione digitale presso la sede dell’Istituto di via San Marco 90 a Siena.

Brevi cenni sulla storia del MIF senese.

Un ufficio senese del Movimento italiano femminile fu costituito nell’ottobre 1947, sollecitato dall’inizio dei procedimenti contro i collaborazionisti fascisti presso la sezione speciale della locale Corte d’Assise. Già dal maggio precedente, infatti, si erano intensificati al riguardo i contatti tra la principessa Pignatelli e la lucchese Tita Luporini, responsabile toscana del movimento, e tra la stessa e l’ex capo della provincia di Siena Giorgio Alberto Chiurco. Nella prima metà di ottobre, la Pignatelli decise di recarsi personalmente nella città del Palio, per organizzare un primo nucleo del MIF e prendere contatti con importanti esponenti della nobiltà cittadina, disposti a finanziare le attività del movimento. Una prima lista delle iscritte alla sezione senese, risalente probabilmente a quel periodo, conta una quarantina di nominativi, vagliati dalla signora Chiurco per accertarne l’affidabilità.

Nel contesto dei processi senesi, l’azione del MIF si indirizzò verso il sostegno materiale ai detenuti, fornendo indumenti, sigarette, riviste da leggere; soprattutto, fu l’organizzazione della Pignatelli a sostenere la difesa degli imputati, rintracciando gli avvocati e provvedendo, assieme al concorso di alcuni notabili cittadini, al pagamento delle relative spese legali. Un’attività che non si limitò al solo capoluogo, allargandosi ai detenuti fascisti delle carceri di San Gimignano, tra i quali figurava anche l’ex federale milanese Vincenzo Costa.

Di grande interesse risultano al riguardo le relazioni economiche relative ai bienni 1948-1949 e 1950-1951, dalle quali emergono indicazioni di carattere quantitativo circa l’azione assistenziale del movimento, comprendente l’invio di pacchi natalizi, generi alimentari e medicinali; l’organizzazione di pranzi; l’assistenza alle famiglie dei detenuti.

Merita infine un accenno la corrispondenza intrattenuta con i singoli imputati – particolarmente significativa quella riguardante Chiurco e l’ex comandante della squadra politica fascista Alessandro Rinaldi – dalla quale emergono sia informazioni circa la quotidianità dei prigionieri, il loro stato d’animo e le preoccupazioni del momento; sia indicazioni relative all’organizzazione dei ricorsi dopo le prime condanne emesse dall’assise senese.

Riferimenti bibliografici.

  1. F. Bertagna, Un’organizzazione neofascista nell’Italia postbellica. Il Movimento italiano femminile «Fede e Famiglia» di Maria Pignatelli di Cerchiara, in Rivista Calabrese di Storia del ‘900, 1, 2013, pp. 5-32;
  2. R. Guarasci, La lampada e il fascio. Archivio e storia di un movimento neofascista. Il «Movimento italiano femminile», Laruffa, Reggio Calabria 1987;
  3. K. Massara, Vivere pericolosamente. Neofascisti in Calabria oltre Mussolini, Aracne, Roma 2014;
  4. A. Orlandini, G. Venturini, I giudici e la Resistenza. Dal fallimento dell’epurazione ai processi contro i partigiani, Il caso di Siena, La Pietra, Milano 1983;
  5. G. Parlato, Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia. 1943-1948, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 55-74;
  6. N. Tonietto, La genesi del neofascismo in Italia. Dal periodo clandestino alle manifestazioni per Trieste italiana. 1943-1953, Le Monnier, Firenze 2019.



Mostra on line “GROSSETO LIBERATA. Storia di un lungo antifascismo e di una Resistenza breve in Maremma”

Nel giugno 2020, poco dopo la fine del lockdown, l’istituto storico della Resistenza di Grosseto ha pubblicato on line una mostra dal taglio storico-divulgativo sugli eventi che portarono alla liberazione del capoluogo e, in poco più di due settimane, dell’intero territorio provinciale grossetano. La scelta, in linea con un progetto di ricerca i cui esiti sono stati poi pubblicato alla fine del 2021 nel volume “Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma” (a cura di Stefano Campagna e Adolfo Turbanti), fu quella di una prospettiva allargata nei tempi e negli spazi, interpretando singoli episodi della lotta di Liberazione, spesso già conosciuti e studiati, alla luce delle strategie belliche degli eserciti contrapposti, degli effetti della guerra totale sul territorio e sulla popolazione civile, dell’attività delle bande partigiane e del Comitato di Liberazione provinciale. La mostra raccoglie e rielabora materiali originali prodotti dall’Isgrec in quasi 30 anni di attività e offre spunti ulteriori per l’approfondimento del contesto provinciale: documenti, fotografie, testimonianze edite e inedite.  Nel corso degli anni la mostra è stata implementata con nuova documentazione.

Link alla mostra >>https://grossetoliberata.weebly.com/




GIUGNO 1940: SIRENE D’ALLARME

La gente era intorno e commentava: tutto era ancora nel raggio delle cose possibili e prevedibili; una casa bombardata, ma non si era ancora dentro la guerra, non si sapeva ancora cosa fosse (Italo Calvino, L’entrata in guerra)

Il 10 giugno 1940, dalle ore 13.55 alle 14.05, a Livorno suonarono sinistramente le sirene dell’allarme aereo e «la città si paralizzò». Le disposizioni prevedevano che il segnale durasse 15 secondi, ad intervalli pure di 15 secondi. In realtà si trattava di un falso allarme, causato da un guasto tecnico, ma «nella popolazione si è manifestata una certa apprensione», anche perché per le ore 18 era atteso l’annuncio di Mussolini per l’entrata in guerra dell’Italia fascista contro Francia e Inghilterra, trasmesso dagli altoparlanti dal Palazzo Littorio in piazza Cavour.
All’entusiasmo bellicista, già nella notte tra l’11 e il 12 giugno, il Bomber Command britannico replicava colpendo Torino e Genova, seppure con incursioni aeree di carattere prevalentemente dimostrativo, nonostante alcune vittime civili. Lo stesso comando aveva individuato anche Livorno tra i primi 17 principali «obiettivi industriali in Italia» con riferimento alle raffinerie, ma fortunatamente la città si trovava, per la distanza dalle basi inglesi, al limite dell’autonomia operativa dei bimotori da bombardamento della RAF, Wellington e Whitley.
Regia Aeronautica e Armee de l'AirFu invece l’Armée de l’Air a colpire Livorno e Rosignano, in segno di reazione per l’aggressione voluta da Mussolini per sedersi, con ambizioni espansionistiche, al tavolo dei vincitori (tedeschi) a pochi giorni dalla resa francese.
Dopo aver sostenuto l’offensiva germanica sul fronte occidentale, l’aviazione francese era appena in grado di impiegare pochi velivoli, sovente inadeguati, per lo più singolarmente o in sezioni ridotte, senza difesa da parte della propria caccia, nel tentativo di danneggiare le strutture industriali, militari e portuali italiane, soprattutto delle zone costiere, isole comprese.
Nonostante tali limiti operativi l’effetto propagandistico ed anche psicologico fu comunque conseguito, mostrando al popolo italiano la vulnerabilità del territorio metropolitano e quanto poco fosse affidabile la protezione dagli attacchi aerei, a dispetto delle vantate capacità e dei mezzi della Regia Aeronautica.
Anche la provincia livornese fu raggiunta più volte – pur senza gravi conseguenze materiali – dall’aviazione francese, in quanto per la vicinanza alla Corsica e alla Costa Azzurra, era facilmente raggiungibile, senza peraltro temere danni da parte dell’evanescente reazione della Milizia Artiglieria Contraerei (13ª Legione DICAT) e dei caccia italiani, anche se presso l’aeroporto di Pontedera, in località Curigliana, vi erano dislocate due squadriglie di Fiat G.50 e una di Fiat CR 32.
Su queste incursioni, irrisorie a confronto di quelle ben più devastanti e luttuose del 1943 – ’44 compiute dai bombardieri anglo-americani (ed anche tedeschi), le informazioni sono scarse, confuse e sovente contraddittorie; stante anche la reticenza dei Bollettini di guerra e la censura che impediva – per motivi militari e politici – la pubblicazione di ogni notizia sui giornali, pur se la cittadinanza labronica ne aveva fatto esperienza diretta, tanto da indurre i primi “sfollamenti”.
Infatti, sia il prefetto Zannelli che il questore Roselli di Livorno avevano inoltrato alla stampa locale la seguente velina del Minculpop del 12 giugno: «Giornali non devono dare assolutamente notizie di allarmi incursioni aeree, bombardamenti che non siano comprese nel Bollettino del Quartier Generale delle Forze. Tali notizie non potranno essere né ampliate né commentate».
Nei diversi saggi pubblicati riguardanti i bombardamenti sull’Italia si trova a malapena appena qualche accenno a quelli compiuti da aerei francesi su Livorno e persino il fondamentale saggio di Henri Azeau sul conflitto italo-francese ignora tali incursioni.
RR Bagni PancaldiControversi e discordanti appaiono i riferimenti a date, obiettivi, bombe, antiaerea, numero e tipo degli aerei impiegati che è possibile trovare nei testi (ma anche riviste e siti web) italiani a disposizione; d’altronde persino la documentazione d’archivio esistente è tutt’altro che univoca.
Informazioni utili per la presente ricostruzione, non conclusiva, sono stati desunti da alcuni documenti militari francesi, raffrontati con i rapporti pervenuti o trasmessi dalla Questura di Livorno, peraltro non esenti da inesattezze. Esistono inoltre ben tre diverse e poco concordanti cronologie degli allarmi e dei bombardamenti: il Registro degli allarmi avuti nella città di Livorno nel periodo bellico 1940 – 1945, redatto nel 1946 dal personale addetto all’impianto delle sirene dislocato presso Villa Maria; l’elenco allegato ad una comunicazione del Prefetto di Livorno alla Procura generale della Corte dei Conti, nel marzo 1965; uno schema similare pubblicato nel 1948 all’interno del libro di Gastone Razzaguta, Livorno nostra.
le-jules-verne-avion-corsaire-1In particolare, vi è molta incertezza attorno al primo presunto raid aereo su Livorno.
Secondo quanto riportato in una pubblicazione del Comune di Livorno del 2013, il 13 giugno un Farman 223-2 dell’Armée de l’Air avrebbe colpito, non gravemente, alcuni caseggiati. Per tale data però non vi è alcun riscontro documentale dell’azione, ma nel citato Registro appare riportato un allarme dalle 3.10 alle 3.55 del 12 giugno, con l’improbabile annotazione «bombe sull’Anic», mentre sul Bollettino di guerra n. 2 allo stesso giorno risulta segnalato un più verosimile sorvolo, forse di ricognizione, da parte di aerei nemici.
Su «Il Telegrafo» non venne ovviamente fornita alcuna notizia in merito, ma il 14 giugno vi furono pubblicate le Norme generali per gli allarmi aerei emanate dal Ministero della Guerra. Nella pagina laterale, invece, era possibile leggere una cronaca dettagliata del bombardamento notturno subito da Torino il 12 giugno con 14 morti e decine di feriti ad opera di velivoli inglesi.
Il 15 giugno, ancora sul quotidiano livornese, comparve un promemoria per la Protezione antiaerea in cui, oltre a confermare la «perfetta attrezzatura antiaerea», si ricordavano i doveri della popolazione civile, concludendo che «Livorno s’è messa perfettamente in linea e nella sua veste guerriera attende, con la tranquillità dei forti, al proprio lavoro».
Nei giorni seguenti, sarebbero seguiti altri articoli in cui si richiamavano i compiti dei militi dell’UNPA (Unione Nazionale Protezione Antiaerea), dei gruppi rionali fascisti e dei «capofabbricato» per l’attuazione puntuale delle misure di oscuramento e prevenzione antincendio.
La prima, accertata, incursione avvenne nelle prime ore del 16 giugno. Il Farman 223-4 “Jules Verne”, decollato da Bordeaux-Mérignac, raggiunse nottetempo Livorno; le sirene d’allarme risuonarono attorno alle ore zero. Dopo aver sorvolato la città per circa un’ora alla ricerca dell’obiettivo, ossia la raffineria Anic a Stagno, sganciò il carico causando solo principi d’incendio nelle vicinanze di una casa colonica, anche se il pilota Henri Yonnet nelle sue memorie vantò un successo completo della missione, descrivendo fuoco e fiamme sul bersaglio.
Facendo rotta verso sud, dall’aereo furono lanciati migliaia di piccoli manifestini, così come era avvenuto su Roma, raccolti in gran numero l’indomani nel quartiere San Jacopo, su cui era possibile leggere:

Il Duce ha voluto la guerra? Eccola! La Francia non ha niente contro di voi. Fermatevi! La Francia si fermerà

Donne d’Italia ! Nessuno ha attaccato l’Italia. I vostri Figli, i vostri Mariti, i vostri Fidanzati
non sono partiti per difendere la Patria. Soffrono, muoiono per soddisfare l’orgoglio d’un uomo. Vittoriosi o vinti, avrete la fame, la miseria, la schiavitù“.

Nel resoconto della Questura non compare alcun cenno alla reazione dell’antiaerea che, invece, alcuni fonti indicano come vivace ad opera delle postazioni al Cantiere navale, nel porto (zona Piloti), a Colline, nonché da un cacciatorpediniere presente nel Cantiere. Analogamente, in alcuni testi il raid viene attribuito a bombardieri medi di diverso tipo (Amiot 143, Leo 451, Martin 167) con danni leggeri arrecati nel quartiere Venezia Nuova, piazza Vittorio Emanuele e piazza Magenta; ma tali riferimenti appaiono incerti e forse riferentesi erroneamente alla successiva incursione del 22 giugno.
Il “Jules Verne”, comandato dal leggendario capitano di marina Henri-Laurent Dailliére, aveva già compiuto sedici rocambolesche missioni, tra cui quelle su Anversa, Berlino (primo bombardamento alleato, 7 giugno 1940), Rostock, Porto Marghera e, la notte precedente, Roma (lancio di migliaia di volantini). Il velivolo, un Farman 223-4, era un imponente quadrimotore (due motori in tandem) dell’Air France nato per voli civili transatlantici, “militarizzato” e incorporato nella Aviation Navale (Escadrille de Bombardement B-5) per dare la caccia alle navi corsare tedesche, assieme ai gemelli “Camille Flamarion” e “Urbain Le Verrier”, ma poi impiegato per azioni offensive a lungo raggio, ultima delle quali fu quella su Livorno.
Cratere bomba alla SolvayLa notte seguente venne il turno di Rosignano: alle ore 3 e 5 minuti del 17 giugno, il Farman 222-2 “Arcturus” n. 16 della Escadrille d’Exploration 10E dell’Aviation Navale (con base algerina ad Oran-La Sénia), colpiva con precisione la fabbrica chimica Solvay in due o tre passaggi, sganciando tredici o quattordici bombe da 100 e 200 kg., così come risultò dalla perizia balistica su una spoletta recuperata. Una di queste abbatté 35 metri di una delle due ciminiere, alta 105 m., mentre altre lesionarono seriamente un’officina meccanica, la palazzina ad uso foresteria per il personale dirigente, condutture elettriche e tubazioni idriche, con danni alle strutture per oltre un milione di lire e la perdita di 168.00 ore lavorative, con conseguente arresto della produzione di soda per 12 giorni e la successiva riduzione ad un terzo, con rilevanti riflessi su quella dell’alluminio e nell’industria tessile.
Oltre alle bombe – per un carico totale di circa 2/2,5 tonnellate – furono lanciati in quantità i soliti volantini di propaganda disfattista su Rosignano e Cecina.
A seguito dell’incursione, alle 3.15 l’allarme suonò anche a Livorno e fu allertata la contraerea, temendo che il bombardiere francese – presumibilmente diretto in Corsica – facesse rotta su Livorno.
propaganda_1940Il 22 giugno, su «Il Telegrafo», veniva pubblicato un articolo sconcertante sulla Psicologia delle masse di fronte ai bombardamenti e, a titolo d’esempio, era riportata l’improbabile testimonianza di una «degna figlia della Roma fascista»: «La prima volta si prova quasi impressione; poi non ci si bada più e quasi ci si piglia gusto…»; ma poche ore prima dell’uscita del giornale nelle edicole, Livorno era stata nuovamente raggiunta da bombe francesi, come riportato dal Bollettino di guerra n. 11 che riferì di «danni rilevanti sulla stazione marittima e abitazioni al centro», pur riferendosi genericamente ad un’incursione nemica.
Su questo bombardamento ci sono abbastanza informazioni, grazie ai rapporti della Questura inerenti i danni riportati, ma è ipotizzabile che le incursioni siano state due, tra le 3.30 e le 4.50. Appare infatti improbabile, considerato il numero delle bombe – esplose e non – che sia stato un solo velivolo a sganciarle, anche perché il carico esplosivo risultava ridotto, per avere una sufficiente riserva di carburante.
Il solito Farman 222-2 “Arcturus”, proveniente da Oran, autore del raid su Rosignano sganciò alcune bombe da 250 Kg. – forse con target l’Accademia navale – sul viale Regina Margherita, diroccando invece l’Albergo Palazzo (già Hotel Palace, prima del fascismo) e i RR. Bagni Demaniali Pancaldi.
La stima dei danni fu di circa Lire 1.200.000 per l’Albergo, 115.000 per i Pancaldi e 25.000 per ripristinare il manto stradale davanti ai Bagni dove era rimasto un cratere di 10 metri nonché la balaustra spazzata via dall’esplosione, mentre nel quartiere erano andati in frantumi i vetri delle finestre di molte abitazioni.
Invece, come indicato dallo storico dell’aviazione Bonacina, alcuni moderni bombardieri francesi LeO 451 provenienti da Istres (Marsiglia), puntarono sulla zona portuale, dove tre bombe colpirono la stazione ferroviaria marittima (allora “Livorno Porto Vecchio”). Gli ordigni produssero crateri di circa 14 metri di diametro e profondi 5, distruggendo una dozzina di scambi e binari, oltre a deragliare tre vagoni (danni stimati per Lire 80.000), mentre altre tre bombe furono rinvenute inesplose.
Danneggiati pure i Macelli comunali presso il Forte S. Giacomo (per 40-50.000 lire) e un serbatoio della società petrolifera “Nafta” (8-10.000 lire), nonchè numerosi edifici delle zone limitrofe.
Una bomba incendiaria colpì il palazzo del Municipio, sul retro, lato scali Finocchietti, rendendo inagibile l’abitazione del segretario generale. Altri edifici colpiti furono segnalati in piazza del Luogo Pio (compreso il Dopolavoro fascista “Dino Rimediotti”), scali Rosciano, viale Caprera, via delle Galere, via della Posta, via Vittorio Emanuele (l’attuale via Grande), via Ernesto Rossi, nonché sugli scali Saffi dove un incendio disastrò il buffet del Teatro Politeama. Una bomba fu rinvenuta inesplosa in piazza Magenta.
Paradossalmente, il radiotelemetro sperimentale RDT3 della Regia Marina, situato presso l’Accademia navale, era stato in grado di rilevare gli aerei nemici in avvicinamento già a 30 km., offrendo in teoria la possibilità di allertare la contraerea e la caccia italiana per intercettarli; ma non vi fu alcun contrasto aereo e soltanto in seguito sarebbe stata piazzata una batteria antiaerea alla Terrazza Mascagni (allora intitolata a Ciano).
Eravamo comunque al baroud d’honneur: nella stessa notte Marsiglia veniva bombardata da velivoli italiani con l’uccisione di almeno 143 civili e due giorni dopo fu firmato l’armistizio tra Italia e Francia, dopo 14 giorni di inutile belligeranza, costata alle truppe italiane 631 morti, 2631 feriti e ben 2151 congelati.
Complessivamente a Livorno, in queste prime incursioni aeree del giugno 1940 risultarono colpiti e danneggiati, oltre alle strutture citate, una settantina di appartamenti privati, con danni stimati attorno a Lire 70-76.000: un preavviso dei bombardamenti che Livorno doveva ancora patire nel corso della guerra fascista, con la distruzione pressoché totale dell’area portuale e del centro storico, nonché di centinaia di vittime, senza che il regime fosse in grado di assicurare adeguate misure di difesa attiva e protezione, dato che pure i rifugi si sarebbero tragicamente rivelati delle tombe collettive.
«La storia apparentemente tecnica della contraerea di Mussolini – come osservato da Nicola Labanca – è in fondo la storia generale di un regime che parla e affretta la guerra senza prepararvisi, anteponendo l’ideologia, la politica e il partito alla razionalità delle esigenze della guerra».




Bagni di Casciana 1922: Gino Bonicoli, morte di un mezzadro

Morire a diciott’anni con una pallottola in testa. Per un fiore rosso portato con orgoglio all’occhiello. O per aver fischiettato Bandiera Rossa passeggiando per le strade del paese.

Piccoli gesti – apparentemente innocui – mossi dagli ideali, che si riveleranno fatali per Gino, perché considerati un affronto da coloro che stanno dalla parte opposta della barricata, resa ogni giorno più forte dall’arroganza che sfocia in violenza, dalla prepotenza che spazza via la ragione, lasciando sul campo una scia infinita di sangue. Date lontane un secolo, luoghi così vicini, scene maledettamente simili. Tanti nomi che oggi rischiano di ridursi a semplici elementi della toponomastica, legati a una via o a una piazza. Persone che hanno pagato con la vita il loro desiderio di libertà, per sé e per gli altri, finendo calpestati dallo squadrismo fascista. Quello di Gino Bonicoli, mezzadro ucciso per la sua fede comunista, non fu soltanto il frutto dell’esaltazione di un gruppetto di ragazzi, che se la presero con un coetaneo. Non fu solo la fredda esecuzione di un giovane che si ribellava alle nuove regole che si facevano strada seminando distruzione e violenza, sopraffazione. Esaltazione accompagnata dal tentativo di annientamento degli avversari politici.

Il libro “Gino Bonicoli. Morte di un mezzadro. Bagni di Casciana, 1° giugno 1922” (Tagete Edizioni, 2015), di Francesco Turchi, giornalista del Tirreno e scrittore per passione, ha l’obiettivo di ripercorrere una vicenda che rischiava di essere cancellata nella Memoria della comunità locale e non solo. L’autore ha ricostruito la vicenda attraverso i documenti originali del tempo, raccolti negli archivi anche al di fuori dei confini regionali; verbali di consigli e giunte, informative prefettizie, sentenze. Ma anche articoli di giornale dell’epoca.

Quell’omicidio per essere compreso va inserito nel contesto storico nel quale maturò. Con un’Italia in ginocchio per le conseguenze della prima guerra mondiale.  Ed è qui che si inserisce il lavoro di Francesco Biasci, autore di una introduzione che prende il lettore per mano e lo porta indietro nel tempo, in un quadro ben definito sul piano economico, sociale e politico.

L’Italia del primo dopoguerra è un paese lacerato, fatto di padroni e di servi che rivendicavano condizioni di vita migliori. In questo contesto, i fascisti, in un crescendo di violenza, prendono possesso dei paesi, fino a dominarli, soffocando qualsiasi opposizione. Minacciando, picchiando. Uccidendo. In tutta la provincia di Pisa come nel resto d’Italia. Con una frequenza terribile. Marzo 1921: a Barca di Noce viene ucciso Enrico Ciampi, fondatore della prima sezione comunista del Pisano. Il 13 aprile la stessa sorte tocca al maestro Carlo Cammeo, direttore del giornale socialista “L’Ora Nostra”, freddato nel cortile della scuola dove insegna a Pisa. Il 17 agosto viene ucciso Silvio Rossi, segretario comunale della giunta di sinistra a Palaia; un mese dopo vengono assassinati a Cascina i socialisti pontederesi Paris Profeti e Guido Bellucci. E ancora, nella primavera successiva, Alvaro Fantozzi, segretario della Camera del lavoro di Pontedera, socialista, assessore, viene ammazzato a Casteldelbosco mentre sta andando a Marti a una riunione sindacale. Il fuoco riduce in cenere sedi di partito e sindacati, i manganelli fanno il resto. E quando non bastano, entrano in scena le armi da fuoco.

Succede anche la sera del 1° giugno 1922 a Bagni di Casciana. Cinque mesi prima della marcia su Roma, Gino è vittima di un agguato mentre sta tornando a casa, nella campagna di Fichino. Non gli sono bastati avvertimenti e ultimatum. Continua a portare quel garofano rosso all’occhiello, ignorando le minacce. L’ha fatto anche la mattina stessa e poi la sera, “sorpreso” in un caffè quando invece gli era stato ordinato di starsene a casa. Nello Menicacagli, mugnaio di 21 anni e i due braccianti di poco più giovani, Alfredo Falchetti e Pietro Fabbri lo affrontano con una pistola. Menicagli spara, Gino muore. E morirà una seconda volta, poco tempo dopo, in un’aula di tribunale, quando al termine di un processo-farsa, gli imputati difesi dall’avvocato Guido Buffarini Guidi (sindaco di Pisa e poi podestà tra il 1923 e il 1933, futuro ministro della Repubblica sociale di Mussolini), ottengono l’assoluzione: «Hanno agito per legittima difesa», minacciati da Bonicoli. Che in realtà non ha mai avuto una pistola in vita sua, tanto meno quella sera maledetta. Ucciso due volte, umiliato una terza. Perché i suoi genitori fecero scrivere sulla lapide “vilmente assassinato mentre rincasava“. Nessun riferimento esplicito a mandanti (la cui esistenza non può essere esclusa ma non è mai stata provata) o esecutori. Ma tanto bastò per “invitare” i familiari a rimuoverla. Mamma Anna Maria, non obbedì, ma ordinò al marmista di girare la lapide. Per capovolgerla di nuovo e iniziare a riscrivere la verità, serviranno ventitré anni.

il cippo in memoria di G. BonicoliDopo la Liberazione e la fine dell’occupazione tedesca, i cascianesi rendono omaggio a Gino e poco dopo la Corte di Cassazione cancella il processo del 1922. Dodici mesi più tardi, il 19 giugno 1946 la Corte d’Assise di Pisa ristabilisce la verità su tutta la vicenda, condannando Alfredo Falchetti, l’unico rimasto in vita dei tre che tesero l’agguato a Bonicoli.

Ricordato, in questi giorni, nel centenario della sua morte,  con una serie di iniziative promosse dall’Amministrazione Comunale di Casciana Terme Lari, dalla sezione “Gino Bonicoli” dell’ANPI Valdera Colline, dal Circolo ARCI di Casciana Terme “Il proletario”, con la speranza che la Memoria non cancelli il suo sacrificio per la libertà.

Sono intervenuti alla commemorazione istituzionale di sabato 28 maggio il Sindaco di Casciana Terme Lari Mirko Terreni, il presidente nazionale Anpi Gianfranco Pagliarulo, Ivan Mencacci presidente della sezione Anpi Valdera Colline “Gino Bonicoli”, il responsabile Memoria e Antifascismo Arci Toscana Stefano Carmassi, l’Assessora Regionale alla Cultura della Memoria Alessandra Nardini. Con la partecipazione e i contributi degli alunni della scuola media di Casciana Terme, accompagnati dalla Dirigente Scolastica Maria Rosaria Pizza.

Nel programma altre due  iniziative: il concerto del 1° giugno del Gruppo Musicale “La serpe d’oro”, e il 3 giugno una serata di musica e parole a cura di Guascone Teatro con la regia di Andrea Kaemmerle e la partecipazione del prof. Roberto Bianchi dell’Università di Firenze.