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La Linea Gotica in Toscana

Con l’avvio della campagna Alleata in Italia nel luglio 1943, l’8 settembre, e la lenta risalita delle truppe angloamericane nel sud della penisola, la strategia difensiva adottata dai tedeschi diviene quella della “ritirata aggressiva”. Essa presuppone un lento ripiegamento dal sud al nord della penisola su successive linee difensive fino a un tracciato fortificato principale individuato sugli Appennini centro-settentrionali. Questa è la Linea Gotica (ribattezzata poi Linea Verde), pensata dai nazisti per arrestare il più possibile l’avanzata Alleata e alleggerire la pressione militare su altri fronti di guerra. Inoltre, questo tracciato serve per sfruttare il più a lungo possibile il bacino padano ricco di fabbriche, risorse agricole, macchinari e capi bestiame.

I lavori per costruire la linea difensiva tra Massa (sul Tirreno) e Pesaro (sull’Adriatico), circa 300 km di fortificazioni che si inerpicano tra le Alpi Apuane e l’Appennino (per una profondità che varia tra i 15 e i 40 km), iniziano tuttavia solo nel febbraio 1944.

I tedeschi affidano la realizzazione della Gotica all’organizzazione TODT che arriverà a mobilitare 75.000 operai italiani. Nelle opere di costruzione della Gotica vengono impiegati prigionieri e lavoratori coatti, ma anche volontari: lavorare alle fortificazioni significa disporre di un reddito, poter accedere alle mense e alle infermerie e non essere deportati in Germania.

Lungo la Gotica vengono allestiti dei campi di lavoro per la TODT o sotto il controllo diretto della Wehrmacht: nell’estate del 1944 ne esistono ad esempio a Castelnuovo Magra (La Spezia), ad Anchiano (Borgo a Mozzano, Lucca) alla Futa ed a Traversa nel Comune di Firenzuola (Firenze), a Sasso Marconi (Bologna). Diversi rastrellati toscani sono condotti a Monzuno, Pianoro, Loiano e Medicina in provincia di Bologna, mentre a Nord della Gotica e nell’area del Po, oltre a una serie di campi mobili, fra le principali destinazioni fra agosto e settembre si contano Sala Baganza (Parma) e Vigarano Mainarda (Forlì).

Nonostante gli sforzi tedeschi i lavori procedono a rilento e, a metà di luglio del 1944, la Gotica non è ancora pronta: per questo le operazioni di approntamento si fanno frenetiche e il paesaggio diviene un campo di battaglia attraversato da carri armati e soldati, disseminato di campi minati, sbarramenti anticarro, postazioni in cemento per mitragliatrici, bunker e fortini.

Lo spazio appenninico e apuano preesistente alla costruzione della Gotica è caratterizzato dal mondo dei contadini di montagna e scandito dal lento e circolare ciclo delle stagioni, delle consuetudini e delle abitudini secolari. E’, in sintesi, un paesaggio fisico e culturale che viene violentato e trasformato dalla costruzione della Gotica. Le comunità vengono investite, quasi sorprese, dall’arrivo dei reparti tedeschi. La guerra, il fronte e il nazismo irrompono in casa.

Agli inizi di agosto 1944 gli Alleati hanno raggiunto la linea dell’Arno e, sull’Adriatico, Pesaro. A partire dalla metà del mese le operazioni si spostano così sulla Gotica.

Il settore orientale (romagnolo e marchigiano) e quello centrale (tra Firenze e Bologna) dell’ultimo baluardo tedesco in Italia sono teatro di dure battaglie. Il settore occidentale tirrenico, invece, viene ritenuto meno importante da entrambi i contendenti.

Il 25 agosto del 1944 ha inizio l’operazione Olive, l’offensiva Alleata che si concentra sul settore orientale del fronte. Per quanto riguarda la Toscana una della più importanti battaglie in questo periodo è quella del passo del Giogo (Firenze), vinta dagli Alleati il 18 settembre dopo ingenti perdite.

Tuttavia, l’avanzata delle divisioni britanniche e statunitensi viene bloccata dal terreno sfavorevole, dal maltempo, dall’ostinata resistenza tedesca e soprattutto dalla scelte strategiche dei vertici politico-militari Alleati che preferiscono concentrarsi sul fronte francese. L’attacco termina così alle porte di Bologna e, a fine ottobre, il fronte si arresta. Nel frattempo molte zone della Toscana occidentale rimangono in mano ai tedeschi: l’Alta Versilia, la Garfagnana e Apuania (Massa Carrara).

Il punto di svolta per quest’area toscana giunge solo dopo un altro durissimo inverno, nell’aprile del 1945, in concomitanza con lo sfondamento finale su tutto il fronte: il 10 è liberata Massa, l’11 Carrara e il 27 Pontremoli.

Lo spazio della Gotica non è solo uno spazio di scontro tra eserciti: l’attività delle formazioni partigiane, soprattutto a partire dall’estate del 1944, è un serio pericolo militare e politico per i nazisti e i collaborazionisti fascisti.

Innanzitutto, perché la guerriglia partigiana sollecita o provoca la fuga degli operai dai cantieri della TODT ritardando il completamento dei lavori di fortificazione.

In secondo luogo perché proprio a partire dall’estate si moltiplicano sulla Gotica le incursioni contro presidi fascisti e tedeschi, i sabotaggi, gli attacchi contro autocolonne e i convogli ferroviari. L’attività partigiana cresce di intensità anche perché dalle prime bande si passa a raggruppamenti più numerosi e meglio armati, capaci di impegnare militarmente il nemico, come ad esempio riesce a fare nel settore pistoiese e garfagnino della Gotica la formazione XI Zona di Manrico Ducceschi “Pippo”. Questa crescita qualitativa e quantitativa della Resistenza è il frutto di una più efficiente organizzazione in cui i comandi partigiani cercano di coordinarsi tra loro e le diverse bande presenti tendono a unirsi in formazioni più ampie.

Il settore versiliese, apuano e lunigiano vede attive già da prima numerose bande: comuniste, gielliste e anarchiche, ma anche formazioni autonome come i “Patrioti Apuani” di Pietro Del Giudice o il battaglione internazionale di ex prigionieri Alleati guidati dal maggiore inglese Gordon Lett. Nel luglio e nell’agosto del 1944 in queste zone si tenta di unificare alcune formazioni: nascono con questo intento, ad esempio, la Brigata Lunense e la X Bis Garibaldi Gino Lombardi.

La guerriglia partigiana costituisce inoltre un problema per i nazisti e i fascisti perché libera e controlla intere porzioni di territorio strategicamente necessarie alla tenuta della Gotica. L’esempio più noto è quello di Montefiorino, un’area di importanza strategica perché a ridosso degli assi viari di attraversamento degli Appennini (da La Spezia a Reggio Emilia, e da Pisa e Lucca a Modena), cruciali per rifornire le truppe che combattono a sud della Gotica. Montefiorino diviene uno spazio partigiano nel cuore della Gotica: attira centinaia e centinaia di uomini, anche dai territori vicini, dal bolognese e dalla Garfagnana. Ma altri esperimenti di “territorio libero partigiano”, benché più brevi e modesti, si hanno sul settore centrale della Gotica, nei comuni della Romagna Toscana e tra i valichi della Futa e di Casaglia a opera rispettivamente delle Brigate Garibaldi 8° “Romagna” e 36° “Bianconcini”.

In ultimo, i partigiani, i quali stringono rapporti di intesa e di protezione comunitaria con le popolazioni contadine, si presentano a queste come autorità legittima e alternativa ai nazifascisti.

Per tutte queste ragioni, tedeschi e fascisti rispondono alla minaccia partigiana, che opera alle spalle del fronte, con rastrellamenti e operazioni di bonifica del territorio che non risparmiano le popolazioni locali dando luogo lungo la Gotica a una serie di stragi di civili.

Come rilevato da Luca Baldissara, la Gotica è nello stesso tempo «una linea del fronte e di confine» che separa due eserciti (Alleati e nazifascisti), due governi (la RSI e il Regno del Sud) e due sistemi di occupazione (tedesco e Alleato). «Ma che diviene anche uno spazio in sé, dove migliaia di lavoratori faticano alla costruzione delle difese, dove decine di migliaia di soldati si insediano e si preparano al combattimento», dove i fascisti collaborano con i tedeschi e compiono (anche autonomamente) stragi e rastrellamenti, dove i partigiani operano, dove i civili vivono una quotidianità stravolta dalla guerra[1]. La Gotica, in sintesi, è uno spazio che racchiude in sé la storia della seconda guerra mondiale.

Inoltre, qui non si combattono solo statunitensi, inglesi, tedeschi ed italiani, ma uomini in uniforme provenienti dall’Asia, dall’Africa, dall’America Latina e dall’Australia.

«Tanti percorsi si incrociano sulla Gotica e nel suo spazio allargato, dove molti uomini giungono da mondi diversi e lontani, incontrandosi con gli abitanti e i partigiani, trovandosi nemici o alleati in guerra, costretti alla prossimità nei momenti di sospensione del conflitto, in una convivenza più o meno forzata. E’ una grande esperienza collettiva filtrata dalla guerra, che fa della Gotica anche una linea mentale»[2].

[1]L. Baldissara, Gotenstellung. Linea del fronte, linea di confine, linea “mentale”, in M. Carrattieri e A. Preti, Comunità in guerra sull’Appennino. La Linea Gotica tra storia e politiche della memoria, Roma, Viella, 2018, p. 43.
[2]Ivi, p. 60.




Sui luoghi della memoria o la memoria dei luoghi

L’espressione ripresa da Pierre Nora, e subito fraintesa, come ebbe a scrivere lo stesso autore, doveva facilitare un approccio critico al problema dei luoghi, ma si trasformò da subito in una espressione autocelebrativa.

A distanza di molti anni dall’opera di Nora, la situazione non è migliorata, anzi è profondamente peggiorata. Prima però di fare alcune riflessioni legate soprattutto, come mi pare corretto, all’esperienza maturata all’interno delle attività dell’Istoreco di Livorno e del territorio della sua provincia e, in parte, della provincia di Pisa, vorrei fissare l’attenzione sul titolo che dichiara da subito come si debba dividere la problematica in due diverse concettualizzazioni. Un conto è ragionare sui “luoghi della memoria” e un conto è ragionare sulla “memoria dei luoghi”. Mentre i secondi, a mio parere sono quelli che, con maggiore spontaneità, attraverso gli anni, sono diventati dei veri e propri topos che condensano alcuni significati importanti per gli abitanti che vivono su quello spazio o nei suoi pressi, o, forse è più corretto ipotizzare, per una parte dei suoi abitanti. Faccio un esempio chiaro per la consapevolezza di un italiano medio, perlomeno lo spero. Il luogo dell’attentato a Falcone, alla moglie e alla scorta sulla strada che dall’aeroporto di Palermo arriva nel capoluogo siciliano.

Ci passai molti anni fa, perlomeno 18-20 anni fa (era quindi l’anno 2001 o 1999). A ricordare cosa era accaduto lì, il 23 maggio 1992, c’era solo la vernice rossa che una qualche mano pietosa ed onesta (penso qualcuno dei lavoratori che rifecero il guard rail) aveva steso per attirare l’attenzione degli autisti che si trovavano a passare di lì. Lì era accaduto qualcosa di grosso, di veramente esorbitante, cosa nostra aveva fatto saltare uno dei simboli alla lotta alla mafia, e l’aveva fatto provocando un cratere degno di una guerra. Erano passati già diversi anni da quell’attentato ma l’erezione di un cippo commemorativo avvenne solo nel 2004. Dodici anni dopo la strage! Siamo sempre stati un Paese lento nel prendere coscienza, e qualche volta manco la prendiamo.

Ma dal punto di vista del significato, quella semplice rudimentale mano di vernice, suscitava un grande impatto e segnalava l’accaduto e nello stesso tempo denunciava la negligenza dello Stato. Quella poca vernice aveva assunto il valore di prendere su di sé la responsabilità e la scelta di dichiarare quel luogo, un luogo della memoria civile e democratica del nostro paese. La politica e lo Stato arrivarono dopo, molto dopo. Quel segno costituiva come un codice per la comprensione e la lettura, era un invito a schierarsi contro i mafiosi e chi li proteggeva. Un invito che non portava firma, anonimo. Occorre però aggiungere che nessuno aveva osato cancellare quella vernice. Quindi per genesi spontanea la coscienza di una parte degli italiani aveva decretato che quel punto dell’autostrada doveva essere sottolineato a ricordo del sacrificio di Falcone, della moglie e della scorta, trucidati da una quantità di tritolo spaventosa.

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La lapide che ricorda la nascita del PCI a Livorno

Qualcosa di simile è accaduto ed accade per altri luoghi della nostra storia democratica. Altre volte si sviluppano dei percorsi più tortuosi come quello che ha riguardato la città labronica. A Livorno, c’è un luogo, in via Borra, dove prima si ergeva il teatro San Marco, il teatro dove si riunirono gli scissionisti del Congresso del Psi nel 1921 per fondare il Partito comunista, e a ricordarlo era stata collocata nel dopoguerra una lapide. Con gli anni sia il luogo che la lapide avevano perso parte del loro smalto, del resto la lapide è posta in alto e occorre alzare gli occhi per vederla e il testo appare oggi per i giovani praticamente incomprensibile. Il profilo dell’edificio dell’ex teatro, oggi sede di un asilo, è profondamente cambiato e al di là di pochi fiori collocati da mani sconosciute per gli anniversari della nascita del Pci, mani forse cariche di nostalgia e di mitologia, pareva un luogo dimenticato. Ma quella lapide subì spontaneamente una nuova semantizzazione quando la ministra Gelmini dell’allora governo Berlusconi, dopo le proteste per il simbolo della Lega in una scuola del nord del paese, inviò un ispettore ministeriale per verificare se i bambini dell’asilo erano sottoposti alla fascinazione della falce e martello.

L’ispezione ci fu e non poté scattare nessuna reprimenda per il Comune di Livorno perché quel luogo storico, che tale è, e come tale va preservato, non esercitava nessuna persuasione occulta nei confronti dell’infanzia, anche perché, semplicemente, i bambini dell’asilo entrano dalla parte opposta. Una parte degli abitanti di città però non gradì questa minaccia e, immediatamente, la lapide che ricorda la nascita del Partito comunista, beneficiò per un periodo, anche abbastanza lungo, di attenzioni particolari: fiori freschi, scritte di solidarietà. Così la lapide e quello che vi è inciso ripresero vivacità e attenzione, e molti di quelli che si trovavano a passare da quelle parti, alzarono gli occhi alla segnalazione marmorea. L’Istoreco di Livorno l’ha sempre inserita nel percorso del trekking urbano che rivolge alle scolaresche sul Novecento, e alla spiegazione del significato del testo e della sua comprensione storica, adesso aggiunge la nuova vita che quella lapide ha assunto nello scontro politico attuale. Come si comprende bene due episodi molto diversi nelle dinamiche e nel significato ma che vedono entrambi scattare una specie di presa in carico da parte di cittadini sconosciuti di un luogo che viene letto come luogo deputato a rappresentare qualcosa che ci appartiene, che in qualche modo sta dentro la costruzione della nostra identità.

Ma la risemantizzazione di un luogo indica che si è potuto ricostruire la condivisione di un’emozione e questo ha permesso di rivitalizzarlo attraverso una ri-narrazione. Come scrive Antonella Tarpino la memoria come traccia “non è più un atto diretto, come nel caso del testimone, ma un atto vicario: un osservare davvero, si potrebbe dire, per conto terzi.“

L'ossario di S. Anna di Stazzema

L’ossario di S. Anna di Stazzema

E quando soggetti come gli Istituti storici accompagnati e sostenuti in questa operazione dalle amministrazioni pubbliche anche perché l’intervento è quasi sempre sopra uno spazio pubblico, decidono di segnare uno spazio, di riperimetrarlo, decidono cioè di proporre per quello spazio una narrazione che lo indichi come luogo, luogo di memoria fanno su una base solida di conoscenze, una operazione di narrazione, che è anche una ri-narrazione, una aggiunta, un addendum segnalato con una qualche modalità visiva. Ma affinché l’operazione funzioni occorre che ci sia qualcuno pronta ad accoglierla. Ed è qui che si rivelano spesso le fragilità. Mentre tutti i segni che contraddistinguono un luogo come Monte Sole così come Sant’Anna di Stazzema, sono quasi immediatamente percepiti e compresi perché luoghi di pellegrinaggi, perché luoghi diventati mete scolastiche, altre emergenze pur raffinate e pur dense di significato, non riescono a condensare senso e memoria condivisa, o se lo fanno, ciò accade in modo diverso e spesso opposto a quello auspicato.

Rinvio ad esempio all’esperienza del progetto Luoghi della memoria del mio istituto che, a pochi anni dalla sua realizzazione, risulta molto meno efficace e meno ricco di quella che i suoi ideatori ed io stessa auspicavamo. La novità del QRcode quando fu adottata sembrò ricca di potenzialità ma poiché adesso il rinvio ad altro, di solito un approfondimento, tramite il QRcode è anche sulle confezioni dei fazzoletti, la forza comunicativa si è persa. Non solo. Il sito ha bisogno di manutenzione mentre il pannello in materiale non biodegradabile alle intemperie ha retto negli anni. Questo alla fine è quello che è rimasto. Una tappa in un trekking urbano sulla memoria del Novecento. Un appiglio visivo per un passante poco distratto, una percezione momentanea e forse stimolante. Credo niente di più. Può darsi comunque che non sia poco.

Ma c’è un altro problema con i luoghi della memoria, specialmente quelli più affardellati dagli anni e dai trascorsi. Proviamo a ragionare sul campo-monumento di Fossoli. Fossoli è un luogo simbolico assai importante nella nostra storia di italiani e di democratici. Immediatamente il campo ci fa scattare la memoria Primo Levi e, subito dopo, specialmente se abitiamo un luogo sede di comunità ebraica, altri nomi di ebrei passati di lì (per Livorno sicuramente Frida Misul della quale ricorre l’anniversario della nascita), ma anche il nome di molti politici. Eppure quel campo, campo di concentramento a pochi chilometri da Carpi, è stato campo di concentramento non solo nel senso legato agli eventi della seconda guerra mondiale. É stato anche molto altro. É un luogo della memoria nel quale è possibile leggere, anche grazie alla cura che ne ha la Fondazione Fossoli, una stratigrafia semantica di significati. Campo per prigionieri di guerra dal 1942 all’ 8 settembre 1943, campo per profughi stranieri, campo della Repubblica sociale italiana per ebrei e politici destinati all’azione di persecuzione delle truppe nazifasciste, campo di prigionia di manodopera coatta per la Germania, centro di raccolta profughi stranieri, campo per i i bambini di don Zeno Saltini fino a quando lui con i suoi ragazzi furono allontanati da Fossoli e don Zeno fu accusato di praticare quello che si chiamava “comunismo evangelico” dal ministro degli Interni Scelba. La sua comunità divenne famosa come la comunità di Nomadelfia. Non furono però gli ultimi ospiti del campo, che si aprì di nuovo per i profughi giuliano-dalmati con il cosiddetto Villaggio San Marco.  Dopo quella data, il campo fu abbandonato all’incuria fino a quando finalmente arrivò una legge ad hoc nel 1984 che solo dopo un periodo lunghissimo di passaggi burocratici portò alla costruzione di Fossoli come luogo di memoria pubblica. Ci sono stata poco tempo fa e ho visto grazie anche a Silvano, un volontario che la lavora con la Fondazione Fossoli che ha sede a Carpi, che ci ha fatto da guida fuori dall’orario di apertura. Insieme a lui abbiamo osservato due mazzolini di fiori collocati lì al cancello di ingresso e sopra un pannello da mani sconosciute, perlomeno per me. Silvano ci ha spiegato che sono alcune donne dell’est che si trovano in zona come badanti, ad aver messo quei mazzolini. Probabilmente qualche loro parente è passato di lì come prigioniero di guerra. E questa è l’ultima ri-semantizzazione di quel posto. Ed è una ri-semantizzazione che rende, a mio parere, quel luogo anche un po’ più europeo di prima, serve ad avvicinare e non a costruire barriere, a rafforzare l’idea di un’Europa unita come unica cornice di pace.

Ma i luoghi, tutti, questo come il mausoleo di Sant’Anna di Stazzema o il monumento su Monte Sole, godono oggi di molta più attenzione rispetto anche ad un passato abbastanza recente perché il “guardare” è diventato preponderante rispetto all’”ascoltare”. Anche per questo credo che occorra da parte nostra manipolare con molta cura questa situazione per non avallare conoscenze frettolose, superficiali, da turismo dell’horror. Per avvicinarsi a questi deposi memoriali occorre sempre utilizzare una guida preparata, fare delle soste lontano dagli stessi prima di entrare dentro a spazi che, nel bene e nel male, risultano comunque monumentalizzati. Proporre per le scolaresche percorsi che abbiano solo come ultima tappa la visita. Quello che si fa ad esempio con il viaggio ad Auschwitz, o nei luoghi del “confine orientale”, con la Regione Toscana.

Il mauseleo a Costanzo Ciano sulle colline di Livorno

Il mauseleo a Costanzo Ciano sulle colline di Livorno

Altrettanta attenzione e sensibilità occorre nell’affrontare i luoghi della memoria della destra. O i luoghi a doppia lettura. Uno per tutti: Piazzale Loreto. Luogo dell’uccisione di 15 partigiani, con un’esecuzione fra le più feroci della guerra. Poco meno di un anno dopo, il 29 aprile 1945 nella stessa piazza forno esposti i corpi di Mussolini, Claretta Petacci, Pavolini ed altri.

Questo luogo è come comprendiamo facilmente, un luogo a doppia valenza. Le nostre ricerche sulle dinamiche di entrambi gli episodi possono essere utilizzati a seconda del vento che tira. E di questo occorre essere consapevoli.

O pensiamo a luoghi come il cimitero di Predappio invaso sempre più spudoratamente da folle inneggianti al Duce. In questo caso forse occorrerebbe domandarsi cosa è stato fatto dalla Repubblica perché questo, nei decenni passati, prima che il partito della Lega di Salvini prendesse il potere in quel municipio, per impedire questa manifestazione di ossequio e riverenza ad un passato tragico e colpevole, quello del ventennio fascista.

Esistono risposte di fronte a queste difficoltà, alla impossibilità di costruire una grammatica narrativa non penso condivisa, ma rispettosa, credo di sì, ma non dentro questo presente dove sempre il sindaco di Predappio ha negato per la prima volta un contributo per il viaggio ad Auschwitz degli studenti affermando che questi viaggi sono sempre a senso unico. Dove pensa che vada costruita la coscienza europea, nei Gulag? O che la storia del “confine orientale” comprensiva della tragedia delle foibe, possa pareggiare con quella dei campi di sterminio e di concentramento? Certo quello che domina è l’ignoranza che insieme alla tracotanza, diventa una miscela molto esplosiva. Proviamo a resistere a questa deriva che ci può far naufragare in un mare molto scuro.




Gli ebrei senesi tra le leggi razziali e il secondo dopoguerra

La comunità ebraica senese era una delle più antiche e integrate dell’intero territorio nazionale. A differenza di altri gruppi di correligionari, sparsi in varie aree d’Europa, gli israeliti senesi avevano superato con poche burrasche il medioevo e l’età moderna. La prima grande catastrofe era avvenuta in piena età napoleonica con il pogrom devastante del 28 giugno 1799, in seguito al quale 19 persone avevano perso la vita e 200, su un totale di 500, avevano preso la via dell’esilio. Coloro che decisero di rimanere ricostruirono con tenacia le proprie case e la sinagoga costituendo, negli anni a seguire, una parte vivace della vita sociale, politica e economica della città[1].

La Sinagoga di Siena

Un nuovo sconvolgimento si profilò quando, a partire dal settembre del 1938, la politica razzista di Mussolini, già presente nelle colonie ai danni delle popolazioni autoctone, venne estesa anche agli italiani di religione ebraica e ciò causò un sensibile peggioramento della vita di molti israeliti senesi. Una delle prime misure adottate (ancor prima dell’emanazione della prima legge razziale italiana[2]) fu il censimento degli ebrei disposto dalla Direzione generale per la demografia e la razza l’11 agosto 1938[3].

I dati ricavati rivelano che al momento dell’emanazione delle disposizioni antisemite, sul territorio senese vivevano 235 ebrei, più o meno tutti appartenenti alla piccola media borghesia. Le prime vittime della discriminazione furono una ventina di ebrei stranieri che studiavano presso la locale università; questi ultimi furono costretti ad abbandonare gli studi e venne loro impedito di trovare un lavoro.

Il successivo giro di vite colpì gli stessi ebrei senesi che furono costretti a lasciare scuole (sia in qualità di insegnanti, che di studenti nonché impiegati) e i posti di lavoro presso l’amministrazione comunale e il Monte dei Paschi[4].

Lo smantellamento dei diritti degli ebrei italiani procedeva spedito pur concedendo alcuni trattamenti di favore a coloro che, agli occhi del regime, avevano acquistato determinati meriti come l’essere familiari di caduti nelle guerre di Libia, mondiale, d’Etiopia e di Spagna; dei caduti, feriti e mutilati per la «causa fascista» oppure coloro che si erano iscritti al Partito nazionale fascista negli anni 1919-22 e nel semestre successivo al delitto Matteotti nonché i legionari fiumani[5].

Dopo la dignità di un posto di lavoro o di un banco di scuola il fascismo decise di colpire i patrimoni e in base al Regio decreto legge 9 febbraio 1939, n. 126, si previde, per quanto riguarda i beni immobili appartenenti agli ebrei, di individuare una quota di proprietà consentita, calcolata in base alla rendita catastale, ed una eccedente destinata a essere incamerata dall’erario che, come indennizzo, avrebbe dovuto rilasciare un certificato trentennale con un interesse al 4%[6].

In questa prima fase soltanto una persona subì una confisca a Siena[7], ma il peggio doveva arrivare e ciò sarebbe avvenuto ben presto. Dopo l’8 settembre, con

l’occupazione tedesca e la nascita della Repubblica sociale italiana, la persecuzione fascista dei diritti conobbe la sua tragica evoluzione in persecuzione delle vite[8]. La comunità israelitica senese ebbe il secondo pogrom della sua storia con il rastrellamento della notte tra il 5 e il 6 novembre 1943, quando 15 ebrei vennero arrestati e deportati nei campi di concentramento da cui soltanto una farà ritorno[9]. Fortunatamente, molti israeliti vennero avvertiti in tempo e poterono mettersi in salvo nascondendosi presso amici o enti religiosi, ma la persecuzione non si fermò nemmeno davanti a questo abbattendosi sistematicamente sui loro beni: le autorità fasciste repubblicane, nello spazio di pochi mesi, disposero il sequestro di 26 immobili[10], alcuni dei quali vennero persino saccheggiati.

Con il passaggio del fronte e la liberazione della città, avvenuta il 3 di luglio del 1944, pian piano la situazione tornò alla normalità e gli ebrei che si erano salvati poterono tornare alle loro case ma in molti casi, ad attenderli, avrebbero trovato amare sorprese. Quegli imprenditori le cui aziende erano state espropriate e affidate a amministratori nominati dalle autorità, al loro ritorno, trovarono la richiesta di corresponsione delle imposte che, pur avendo intascato gli utili, gli amministratori non avevano versato[11]; altre famiglie trovarono le loro case occupate da inquilini o depredate.

Emblematica la testimonianza di Edmea Forti Castelnuovo[12], il cui marito, Aldo, gestiva un negozio di stoffe insieme al fratello Geremia. Dopo la loro fuga, avvenuta nelle ore immediatamente precedenti il rastrellamento del 5-6 novembre, il negozio e il magazzino vennero depredati, l’appartamento espropriato per ordine del Capo della Provincia e ceduto dall’Egeli[13] a un ufficiale dell’esercito.

Ferruccio Valech, 13 anni, la vittima senese più giovane del campo di Auschwitz.

Ferruccio Valech, 13 anni, la vittima senese più giovane del campo di Auschwitz.

I Castelnuovo, in seguito alla liberazione di Siena e alla revoca dei provvedimenti di confisca emanati dal Governo dell’Italia liberata[14], decisero di tornare in città per riprendere, per quanto possibile, la loro vita normale; tuttavia, al loro arrivo, scoprirono che l’attività non esisteva più e che la casa era occupata; ma non era tutto. Al momento della restituzione dell’immobile, un solerte funzionario dell’Egeli richiese, a Aldo Castelnuovo, il pagamento dell’indennità di gestione delle sue proprietà nella misura applicata ai sudditi nemici. Di fronte a quell’affermazione, racconta il figlio Renzo, Castelnuovo, che solitamente era un uomo mite, sbottò con forza. Non era stata, a ferirlo, la richiesta di pagare un’indennità a chi gli aveva portato via la casa costringendolo a fuggire, quanto il fatto di essere trattato come un nemico dell’Italia[15].

 

[1] Cfr PAVONCELLO N., Notizie storiche sulla comunità ebraica di Siena e la sua Sinagoga, scritti in memoria di A. Milano in «Rassegna mensile d’Israele», 1970, pp. 289-313.
[2] Il Regio decreto legge 5 settembre 1938, n. 1390, Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista.
[3] CIONI P., MASOTTI F., MATTEI L., 1938-1944 documenti, storie e memorie. Gli ebrei senesi raccontano, Siena, Nuova Immagine editore, 2010, p.27
[4] Ivi p.35
[5] Cfr. Regio decreto legge 17 novembre 1938, n. 1728, Provvedimenti per la difesa della razza italiana.
[6] Regio decreto 27 marzo 1939, n. 665, art. 13.
[7] Archivio storico del Monte dei Paschi di Siena, Egeli, b. 647, «Repertorio dei beni di sudditi nemici ed ebraici sequestrati».
[8] Cfr. SARFATTI M., Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino, Einaudi, 2018, capp. IV e V.
[9] Cfr. VALECH CAPOZZI ALBA, A24029, Siena, Soc. anonima poligrafica, 1946.
[10] Archivio storico del Monte dei Paschi di Siena, Egeli, b. 647, «Repertorio dei beni di sudditi nemici ed ebraici sequestrati».
[11] Voci di carta. Le leggi razziali nei documenti della città di Siena. Catalogo della mostra documentaria. Archivio di Stato di Siena 26 ottobre 2018 -31 gennaio 2019, a cura di Cinzia Cardinali, Anna Di Castro, Ilaria Marcelli, Pisa, Pacini editore, 2019, p.103.
[12] Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea, Multimediale, dvd 58, Edmea Forti Castelnuovo.
[13] Acronimo di Ente Gestioni e Liquidazioni Immobiliari; era l’istituto incaricato dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati agli ebrei e ai cittadini di Paesi nemici. L’Ente, per operare sul territorio della Toscana, aveva stipulato una convenzione con il Monte dei Paschi di Siena. Cfr Atti della Commissione per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati, «Rapporto generale», aprile 2001, http://presidenza.governo.it/DICA/beni_ebraici/.
[14] Cfr Regio decreto legge 20 gennaio 1944, n. 25 «Disposizioni per la reintegrazione nei diritti civili e politici dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati di razza ebraica o considerati di razza ebraica» e Regio decreto legge 20 gennaio 1944, n. 26 «Disposizioni per la reintegrazione nei diritti patrimoniali dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati o considerati di razza ebraica».
[15] 1938-1944. La politica razziale del regime fascista a Siena, documentario di J. Guerranti, Siena 2014, https://www.youtube.com/watch?v=v_4FXd6N-4w




“Un impegno per il presente”. La città di Lucca e l’Istituto storico della Resistenza nel 75° anniversario della liberazione.

Sono le ore 10.00 della mattina del 5 settembre 1944 quando una pattuglia di soldati americani al comando del capitano Gandy fa il suo ingresso a Lucca, liberata dai partigiani nel corso della notte, dalla cinquecentesca Porta San Pietro, per essere festosamente accolti dalla popolazione civile: se per quei soldati – membri della “mitica” 92° divisione Buffalo, composta in gran parte da afroamericani – il conflitto era ancora lontano dalla sua conclusione, per la città e i suoi abitanti la guerra era finalmente finita. Sono passati ventiquattro anni da quel violento scontro in piazza San Michele tra fascisti e socialisti tante volte ricordato da Arturo Paoli (che all’epoca ha otto anni e assiste personalmente al fatto), ventidue dalla marcia su Roma (cui partecipa anche l’empolese Idreno Utimpergher, dal giugno 1944 a Lucca assieme a Pavolini per riorganizzare le squadre fasciste dopo aver seminato il terrore a Trieste) , e venti dal delitto Matteotti, apparente preludio alla disfatta del fascismo e che invece si traduce nel suo definitivo avvento al potere. Si combatte ancora a dire il vero, i tedeschi tentanto un ultimo attacco quella stessa mattina presso Porta Santa Maria e e Porta Elisa, ma vengono respinti: la guerra nella quale Mussolini ha portato un paese militarmente impreparato è finita per davvero a Lucca, non come il 25 luglio. Sei giorni dopo l’arrivo degli Alleati, l’11 settembre, la formazione Bonacchi viene sciolta: 18 dei suoi effettivi sono caduti nelle ore decisive della liberazione della città, e altrettanti sono i feriti gravi. È davvero finita per il fascismo a Lucca, per il regime che ha perseguitato, emarginato e imprigionato l’anarchico militante Urbano “Ferruccio” Arrighi, (che fu in corrispondenza addirittura con il “padre nobile” dell’anarchismo italiano Errico Malatesta), il popolare Arturo Chelini (tra i fondatori del Ppi lucchese, aggredito nell’agosto 1922 da alcuni squadristi in via Fillungo), l’allenatore della Lucchese Ernesto Erbstein (ebreo ungherese vittima delle leggi razziali), Silvio Laurini (emigrato da bambino in Spagna con la famiglia, combattente per il fronte repubblicano durante la guerra civile nelle brigate internazionali), il comunista Giorgio Ricci (dal 1940 al 1943 al confino a Ventotene) e molti altri ancora. Senza dimenticare il ruolo fondamentale del clero lucchese, protagonista di una straordinaria testimonianza di resistenza civile e assistenza e protezione agli ebrei perseguitati, ai prigionieri in fuga e alle bande partigiane durante la guerra: una resistenza disarmata ma non priva di rischi, che vede numerosi uomini di fede cadere vittime della ferocia nazista, da don Giorgio Bigongiari ai monaci certosini di Farneta fino a don Aldo Mei, fucilato proprio a Lucca un mese prima della liberazione della città.

Conferenza stampa di presentazione del calendario della liberazione a Lucca, 29 agosto 2019 (foto di S. Lazzari)

Tante storie diverse, “storie difficili e dolorose […] ma anche belle” come scrive il sindaco di Lucca Alessandro Tambellini nel suo contributo al volume edito dall’Anpi nel 2014 in occasione delle commemorazioni per il 70° anniversario della liberazione, “storie di gioventù e di buoni maestri, storie di resistenza in armi e di disobbedienze civili, percorsi individuali e gesti di impegno collettivo”. Storie che il comune di Lucca, in sinergia con le istituzioni provinciali e i numerosi enti e associazioni impegnati sul fronte della memoria e della ricerca storica – Anpi, Atvl, Ass. “Linea Gotica”, Fiap, Fivl, Isrec e Istituto storico lucchese – dal 1° settembre al 5 ottobre si impegna una volta di più a valorizzare, in quello che l’assessora alla memoria Ilaria Vietina, nella conferenza stampa a Palazzo Orsetti del 29 agosto, ha definito “un impegno per il presente”, volto a recuperare la consapevolezza di ciò che è stato il periodo bellico per i territori della Lucchesia, riscoprendo le radici della Costituzione, nata dalla Resistenza e dalla negazione del progetto politico nazifascista. Il recupero della memoria passa dalla scelta di servirsi di un linguaggio multimediale che vede il media del libro affiancato dal docufilm (quello sul veterano della Buffalo Ivan J. Houston, presente anche alla proiezione) e dal teatro (“Ich var da”, di e con Amanda Sandrelli e Marco Brinzi, dove troverà spazio anche la fotografia di Oliviero Toscani, che nel 2003 ha ritratto i sopravvissuti all’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, allora soltanto dei bambini). Varie iniziative hanno toccato e toccheranno tutti i territori della Lucchesia con lo scopo, sottolinea ancora Vietina, di dare la voce ai “salvati”, sulla scia degli studi di Anna Bravo: andare oltre la memoria delle vittime – senza che questo significhi sminuirne il ricordo – per restituire una storia che non sia appiattita unicamente sull’aspetto della violenza. Ma il progetto è più ambizioso, guarda oltre le celebrazioni ufficiali nel quadro di quella che potremmo definire una “memoria attiva” per la quotidianità, non legata alla “liturgia” laica degli anniversari: in questo senso è da leggersi l’inaugurazione, che si terrà sabato 21 settembre alle 12.00, della “Casa della Memoria e della Pace” presso il castello di Porta San Donato sulle mura, che si auspica possa diventare un punto di riferimento per tutti quei soggetti impegnati sul fronte della tutela della memoria. Ma quest’ultima ha il suo complemento insostituibile nel rigore scientifico della ricerca storica.

L’intervento di Andrea Ventura a Palazzo Santini il 5 settembre 2019 (foto di S. Lazzari)

L’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea in provincia di Lucca, fondato nel 1977, è parte integrante anche quest’anno dei numerosi eventi legati a questo 75° anniversario, tenuti insieme da un filo conduttore che il direttore dell’Isrec, Andrea Ventura, individua nel ritorno alla testimonianza, al vissuto personale dei protagonisti: ma l’importanza di questo aspetto non deve far venire meno l’interesse per il documento, la fonte storica, essa stessa forma di testimonianza che rimanda agli individui che vissero quel periodo cruciale. Ed è proprio questa la via che l’Isrec ha scelto, in continuità con quanto già fatto in passato a partire dal 40° anniversario (1984) e poi ancora nel 60° (2004), pubblicando sulla rivista dell’Istituto – Documenti e Studi – fonti statistiche, relazioni e testimonianze allora inedite sul periodo dell’occupazione e l’attività partigiana nella provincia di Lucca. Un passaggio quindi dalla memoria – con tutti i rischi legati alla selettività della stessa e al rischio di rimozioni – alla storia fondata sui documenti, quelli delle commissioni incaricate di riconoscere ai richiedenti la qualifica di partigiano combattente. Sono queste carte, presentate a Palazzo Santini dal direttore Ventura il 5 settembre, a chiusura della giornata di celebrazioni della liberazione – che ci restituiscono i profili biografici degli uomini della formazione “Bonacchi” (giovani nati e cresciuti sotto il fascismo, privi di una vera educazione politica) e demoliscono il mito revisionista secondo cui “alla liberazione tutti partigiani” (in realtà i criteri di riconoscimento furono piuttosto restrittivi, e circa 71 domande furono respinte). Un lavoro scientifico che – ha sottolineato ancora Ventura nelle conclusioni del suo intervento del 5 settembre – non può essere appiattito su una presunta freddezza dello storico, immaginato come studioso completamente distaccato dall’argomento: al contrario, ogni ricerca non può prescindere da una certa empatia verso i protagonisti delle vicende indagate.




Sant’Anna di Stazzema: il perché di una strage

Sulla strage di Sant’Anna di Stazzema, come su altre stragi, la memoria è ormai trasmessa in centinaia di testimonianze, a volte rilasciate a decenni dagli eventi. E’ necessario quindi un forte richiamo alla conoscenza storica, come elemento fondamentale di comprensione di quanto avvenuto e di formazione delle giovani generazioni. Partendo dalla domanda più importante: il perché della strage.

La strage di Sant’Anna si inquadra in quella particolare fase della situazione bellica che si apre con l’arretramento dell’esercito tedesco sulla così detta Linea Gotica. In zone di grande rilievo strategico, come i monti a ridosso della Versilia, le Alpi Apuane o la Lunigiana, la presenza di numerose formazioni partigiane, di diverso orientamento (dai garibaldini agli autonomi) rappresentava per i tedeschi un effettivo problema. A partire da luglio 1944 si segnala così una radicalizzazione dell’atteggiamento degli occupanti nei confronti della popolazione civile, accusata, a torto o a ragione, di proteggere la guerra partigiana.

Nella zona arrivò in quei giorni la XVI Divisione Panzer-Grenadier delle SS, comandata dal generale Simon, un fanatico nazista, formata di giovani militari, ma con un nucleo di ufficiali e sottufficiali fortemente ideologizzati e temprati da precedenti esperienze nel sistema concentrazionario nazista, o in operazioni belliche, comprensive di azioni di sterminio di ebrei e di civili, nella Polonia occupata.

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Case incendiate in località Vaccareccia

Il 12 agosto 1944, all’alba, salgono a Sant’Anna di Stazzema gli uomini del II Battaglione del 35° Reggimento. Secondo alcuni testimoni, fra di loro, in divisa tedesca, vi erano anche italiani, fascisti versiliesi che, per non farsi riconoscere, portavano un passamontagna, tuttavia il particolare, rilanciato anche da pubblicazioni recenti, deve essere ancora convincentemente provato sul piano storico. Altri militari, appartenenti ad altre formazioni tedesche, circondano l’area. Arrivati sul posto, tutti coloro che vengono trovati, con poche eccezioni, vengono massacrati: per lo più donne, bambini, anziani. La cifra ufficiale parla di 550 morti, in realtà il numero effettivo è minore, anche se non è stato ancora fatto un serio lavoro di ricerca per accertarlo. La memoria locale si è a lungo divisa sulle cause dell’eccidio: molte le accuse ai partigiani, per non aver difeso la comunità, nonostante rassicurazioni in tal senso date precedentemente.

L’eccidio di Sant’Anna si inserisce all’interno di un ciclo operativo di “lotta alle bande” che inizia ai primi di agosto, colpendo con violenze e stragi vari territori del pisano, continua in Versilia, investe quindi, dopo Sant’Anna di Stazzema, le Apuane, per poi proseguire, al di là dell’Appennino, nella “grande” operazione di Monte Sole, contro le popolazioni di tre comuni, Marzabotto, Grizzana e Monzuno, nella quale dal 29 settembre al 5 ottobre, furono uccise circa 770 persone. In questo contesto operativo, la strage di Sant’Anna di Stazzema riacquista il suo tragico significato: si tratta di operazioni sulla carta rivolte contro i partigiani, che si configurano in realtà come azioni terroristiche di ripulitura del territorio, veri e propri massacri di tutti coloro che venivano trovati all’interno dell’area delimitata come quella da “bonificare”, a priori considerati “partigiani”, il cui sterminio, anche se neonati o anziani infermi, era programmato prima della strage.

Girotondo bambini piazza chiesa rid 400 a tagliatoMa proprio questo carattere programmatico, considerato provato dal Tribunale Militare di La Spezia nel 2005 (con sentenza confermata in Cassazione), è stato messo in discussione dalla Procura di Stoccarda (Baden-Württemberg) che nell’ottobre 2012 ha chiesto l’archiviazione del procedimento penale a carico delle SS indagate (alcune delle quali condannate all’ergastolo in maniera definitiva in Italia). Il procuratore tedesco ha ritenuto che non si potesse provare il carattere predeterminato dello sterminio dei civili, che invece i giudici di La Spezia hanno argomentato nella loro sentenza, accogliendo l’impostazione del procuratore italiano Marco de Paolis che, recependo anche l’esito delle più recenti approfondite indagini storiografiche, ha sostenuto che “la partecipazione con un significativo incarico di comando alle operazioni militari che determinarono come effetto finale il massacro di centinaia di persone civili non belligeranti, integra gli estremi di un consapevole concorso alla realizzazione del reato”. Secondo la procura di Stoccarda, invece, questa pianificazione della strage non può essere provata e, nella affermata impossibilità di individuare, a distanza di quasi settanta anni, il ruolo avuto da ciascuno dei singoli imputati, ne ha richiesto il non rinvio a giudizio. Attualmente è ancora pendente il ricorso di Enrico Pieri, uno dei sopravvissuti, presso la Corte d’Appello di Karlsruhe, contro tale archiviazione (confermata invece dalla Procura generale dello Stato).

Il carattere e la consistenza delle argomentazioni riportate nel provvedimento di archiviazione lasciano più che perplessi proprio sul terreno della ricostruzione storica, e dimostrano come in questi casi di giustizia tardiva solo la ricerca storiografica, condotta ovviamente con onestà e rispetto della verità fattuale che è possibile definire in base alla documentazione disponibile, possa sostituirsi ad una verità giudiziaria sempre più difficile da ottenersi, a settanta anni dal massacro.




Emilio Angeli: il “nonnino” della Resistenza toscana

«Chi ricorda la situazione livornese dal ’45 al ’48 sa che cosa voleva dire, allora, agire nel piano sociale per una idea cattolica apertamente professata. [Emilio Angeli] era ancora dolorante per le percosse e le fratture riportate dalla aggressione di centinaia di scalmanati e ripartiva per affrontare in altre parti il rischio di nuove aggressioni. “Non sono questi i guai” diceva sorridendo e ricominciava la sua battaglia. Erano giorni in cui solo i manifesti murali del “Fides” osavano affrontare il terrorismo comunista per far conoscere le cose vere della città. La polizia non era sufficiente per proteggere, la gente era spaventata: affiggere quei manifesti, periodicamente, tra continue minacce significava rischiare letteralmente la vita: ma il sor Emilio insieme ad Alfio e a pochi altri, sempre diversi, non mancava mai. Non si trattava di episodi ma di una lotta continua ed estremamente rischiosa condotta in difesa dei valori cristiani con l’umiltà di chi la credeva un semplice dovere»[1].

Così scriveva il 20 gennaio 1957 sul «Fides» don Renato Roberti, nel terzo anniversario della morte di Emilio Angeli, il «nonnino»[2] della Resistenza toscana.

Emilio Angeli (Archivio Centro Studi R. AngelI)

Emilio Angeli (Archivio Centro Studi R. AngelI)

Due giorni prima il vescovo coadiutore di Livorno monsignor Andrea Pangrazio inaugurava in memoria del padre di don Roberto Angeli il «Centro di Assistenza Sociale Emilio Angeli»[3], situato vicino al Cantiere Orlando tra Borgo S. Jacopo e via Micheli. Quel Centro avrebbe raggruppato il “cuore” delle attività del Comitato Livornese Assistenza (CLA) di cui nel 1948 Emilio «fu uno dei più entusiasti e preziosi iniziatori»[4]: in Borgo S. Jacopo col tempo si raggrupparono un notevole numero di attività, tra cui una Casa di educazione per adolescenti, la Scuola Tipografica «Stella del Mare», un Centro medico-psico-pedagogico, un Refettorio e ricreatorio post-scolastico oltre agli Uffici e servizi vari del CLA[5]. Per la Pontificia Commissione Assistenza (PCA) e per il CLA, Emilio Angeli aveva speso senza risparmiarsi l’ultimo decennio della sua vita, occupando il tempo che gli restava libero finito il turno di operaio alla Motofides. «Senza mio padre – affermò don Angeli – non avremmo potuto fare per i ragazzi quello che abbiamo fatto»[6]. Scrive don Roberti: «Con lo stesso impegno e la stessa generosità del periodo clandestino si dava anima e corpo al successo dell’opera, ne amava intensamente le finalità e non c’era niente che egli considerasse estraneo alle sue premure e alle sue fatiche. […] Più di una volta, per un insieme di circostanze, si è trovato praticamente solo a sostenere il peso della organizzazione di tutto il C.L.A. Allora saltava notti in bianco, pasti, conversazioni estranee, e si moltiplicava per fare tutto quello che occorreva. […] I bimbi delle colonie, dei doposcuola, dei ricreatori, li amava, li difendeva»[7].

Gli scontri coi comunisti nel dopoguerra, anche seri e gravi[8], non furono niente a confronto con le nerbate e con le torture subite da Emilio Angeli nelle carceri di via Tasso a Roma durante gli interrogatori a cui fu sottoposto dal responsabile del Massacro delle Fosse Ardeatine in persona, Herbert Kappler, il famigerato comandante del Servizio di Sicurezza  (Sicherheitsdienst-SD), e della polizia segreta nazista (Geheime Staatspolizei-Gestapo) di Roma.

Tradito da un certo Ghirelli, che operava ai margini della Resistenza romana, Angeli fu arrestato dalla Gestapo sul ponte Milvio. «Fui portato in via Tasso in Roma – ricordava Angeli nel 1945 – bella villa, finestre murate, dimora delle S.S. luogo principale di tortura di Roma. Spogliato, perquisito, privato di quanto possedevo fui portato in cella dove si trovavano altri sei disgraziati. La mia persona parve alle S.S. tedesche molto importante perché fui subito sottoposto a lunghi e estenuanti interrogatori interrotti da nerbate perfino sotto le piante dei piedi. Il mio viso serviva come esercizio di box anche al colonnello Kappler comandante delle S.S. a Roma. Il mio viso era diventato gonfio come un pallone ciò durò per cinque giorni alla fine dei quali si sentenziò: “domani sotto torchio parlerete…”»[9]. Kappler «credeva nientemeno che fosse un generale – scrive don Angeli nel capitolo dedicato a suo padre nel Vangelo nei Lager – […] Questo – disse una volta Kappler ai suoi collaboratori dopo un’estenuante seduta, mentre il detenuto a testa bassa, taceva ancora ed il pavimento era chiazzato di sangue – questo è veramente un soldato…»[10].

Nel dopoguerra il Maresciallo d’Italia generale Giovanni Messe decorò Emilio Angeli con la Medaglia d’argento al Valor Militare con la seguente motivazione: «Nel corso di un lungo periodo di attività clandestina collaborava alla attività di due nuclei informativi operanti in territorio italiano occupato dai tedeschi. Arrestato e sottoposto a lunghi ed estenuanti interrogatori, manteneva ferma e dignitosa fierezza. Condannato a morte riusciva ad evadere e a raggiungere le truppe alleate»[11]. Anche il rabbino capo di Livorno, Alfredo Toaff, riconobbe che quello di Angeli fu un «esempio fulgido di bontà, di fede e di eroismo»[12].

Sia don Angeli che Renato Orlandini descrivono il fortunato epilogo del suo arresto[13]. Emilio Angeli lo ricordava così: «Per una ventina di giorni fui lasciato in pace e me ne chiedevo la ragione quando la sera del 3 giugno fui condotto in una sala dove mi legarono le mani dietro la schiena. La stessa sorte toccò ad altri 28, a un certo momento giunse in cortile un piccolo camion dove ci fecero salire, dopo il quattordicesimo non ce ne stettero altri, io ero il quindicesimo. Il maresciallo mi respinse e il carico partì. Noi ritornammo nella sala, si prolungava di qualche ora la nostra agonia, anche allora Iddio mi protesse. La macchina non fece ritorno e alle ventiquattro fummo slegati e ricondotti in cella. La mattina del 4 giugno sentimmo gran confusione, erano i tedeschi che dal palazzo di via Tasso fuggivano perché si sentiva la mitraglia e il cannone vicino Roma. Alle sette del mattino eravamo liberi, la popolazione ci aveva aperto le porte».

Erminia Cremoni e Emilio Angeli (Archivio Centro Studi Roberto Angeli)

Erminia Cremoni e Emilio Angeli (Archivio Centro Studi Roberto Angeli)

Ma perché c’era stato tanto accanimento contro Emilio Angeli? E in cosa consistette il suo «lungo periodo di attività clandestina»?

Merlini lo sintetizza così: «Si trattava di salvare tanti ebrei perseguitati, di portare aiuti a tanti soldati italiani e a tanti prigionieri alleati braccati sui monti, di raccogliere informazioni militari, di divulgare la stampa clandestina e soprattutto di dare vita ai primi gruppi di partigiani. E il “nonnino” compariva dappertutto, con tutti i mezzi, ad aiutare ed a risolvere le più disperate situazioni»[14].

[1] R. ROBERTI, Alla generosità della sua lotta non può mancare il premio del Signore, in «Fides», 20 gennaio 1957. Emilio Angeli era nato nel 1887 e morì nel gennaio del 1954.

[2] «Lo chiamavamo così perché, a noi ventenni, un cinquantenne o poco più sembrava vecchio. E, in effetti, era il più anziano del nostro gruppo [dei cristiano-sociali]», cfr. R. ORLANDINI, Attorno al quarantatré, MCS, Livorno 1989, p.49

[3] A Emilio Angeli vennero intitolate anche la Colonia montana presso Cutigliano (Pistoia) e nel 1969 il Soggiorno montano in località Talento presso Marliana (Pistoia), cfr. 1948-1964 Gli anni e le attività, in «Il Ponte», notiziario del Comitato Livornese Assistenza, n.2, aprile 1964 e 30 anni, «Il Ponte», n.1, maggio 1976

[4] Cfr. Emilio Angeli, «Il Ponte», n. 2, aprile 1964

[5] Cfr. Il Vescovo e il Prefetto inaugurano il nuovo Centro di Assistenza Sociale “Emilio Angeli”, in «Fides», 20 gennaio 1957

[6] Cfr. Il «nonnino» che aveva per amici i bambini, in «Fides», 24 gennaio 1954

[7] Cfr. R. ROBERTI, Rischiare la vita per il bene degli altri fu la sua soddisfazione più bella, in «Fides», 21 febbraio 1954

[8] In Archivio Centro Studi don Roberto Angeli, si trova una lettera di don Angeli a Gianfranco Merli, datata 1963, in cui il sacerdote ricordando il decennio 1945-1955 e gli scontri con i comunisti afferma che «a mio padre, che scortava i nostri “attacchini” [del “Fides” edizione murale], venivano rotte due costole». In R. ROBERTI, Perché voglio parlare di don Pessina, in «Darsena Toscana», 21 settembre 1991 don Roberti sostiene che nel dopoguerra «il “nonnino”, il babbo di don Angeli, l’eroico antifascista, torturato dai nazisti a Roma in via Tasso, senza che riuscissero a farlo confessare, aggredito dai comunisti a S. Jacopo e bastonato a sangue – ricoverato all’ospedale con due costole rotte – accusato e punito come un “bieco fascista”»; concetto ribadito in Id., Delitto di leso giornalismo, in «Darsena Toscana», 21 settembre 1996: «il babbo di don Angeli, l’eroico “Nonnino” della Resistenza, lo picchiarono a sangue i comunisti».

[9] La testimonianza inedita si trova nell’Archivio ISRT, Fondo Clero, Busta n.6, Fascicolo XIII, Diocesi di Livorno.

[10] R. ANGELI, Vangelo nei lager: un prete nella Resistenza, Stella del Mare, Livorno 1985,  pp. 20-21

[11] Cfr. R. ROBERTI, Rischiare la vita per il bene degli altri fu la sua soddisfazione più bella, in «Fides», 21 febbraio 1954.

[12] ibid.

[13] R. ANGELI, Vangelo nei lager, cit.,  pp. 21-22 e R. ORLANDINI, Attorno al quarantatré, cit., pp. 48-50

[14] L. MERLINI, In memoria di Emilio Angeli, in «Il Tirreno», 20 gennaio 1954




Gli eroi maledetti. I goumiers e la liberazione del territorio senese (giugno-luglio 1944)

Il 15 giugno 1944, in una calura soffocante, le avanguardie del Corps expéditionnaire français superavano il fiume Paglia entrando nel territorio senese e sferrando l’attacco contro i caposaldi che i tedeschi avevano predisposto per rallentarne l’avanzata.

Gli attaccanti erano gli stessi soldati che, un mese prima grazie a una brillante azione nella valle del Liri, avevano messo in crisi la linea Gustav. Adesso era stata affidata loro una zona secondaria, incuneata tra la direttrice tirrenica, affidata alla V Armata americana, e quella adriatica di competenza dell’VIII Armata britannica. Del resto il fronte senese, povero di ampie vallate, di comode vie di comunicazione e prevalentemente accidentato, permetteva di sfruttare nel migliore dei modi le caratteristiche della fanteria leggera francese che si era rivelata particolarmente abile nelle aree montane.

Il corpo di spedizione transalpino era composto da quattro grandi unità, la I Divisione Francia libera, comandata da Diego Brosset, forte di 15.491 uomini di cui 9.012 europei e il resto di altre nazionalità; la II Divisione di fanteria marocchina, comandata da André Dody, composta da 13.895 uomini di cui 6.578 europei e il resto africani; la III Divisione di fanteria algerina (quella che liberò Siena), comandata da Joseph Goislard De Montsabert e composta da 13.189 effettivi di cui 6.353 europei e 6.835 africani; la IV Divisione marocchina da montagna, comandata da Françoise Sevez, e composta da 19.252 uomini di cui 6.545 europei e 12.707 africani.

Oltre a queste unità, costitutite nel Magreb liberato a partire dal 1943, ben armate e addestrate[1], si aggiungeva una riserva di 29.431 elementi, circa metà europei e metà africani e infine i Goums, in tutto 7.833 uomini, di cui solo 645 europei, comandati dal generale Augustin Guillaume[2].

Furono proprio questi ultimi a rimanere particolarmente impressi nell’immaginario della popolazione senese, sia per il proprio, indubbio, valore sul campo di battaglia che per una serie di violenze contro i civili.

Il termine goumier deriva dalla francesizzazione del sostantivo arabo qawm che significa tribù, gruppo sociale[3]; tali truppe erano infatti inquadrate in compagnie chiamate goums forti di duecento uomini ciascuna; tre o quattro di tali reparti formavano un tabor[4] (reggimento).

Goumier nel territorio senese. Immagine tratta da R. Bardotti, "Attenti a dove sparate.", Siena, Betti editore, 2018

Goumier nel territorio senese. Immagine tratta da R. Bardotti, “Attenti a dove sparate.”, Siena, Betti editore, 2018

Questi gruppi erano sorti nel Marocco francese come milizia territoriale nel 1908 e avrebbero servito il Governo di Parigi fino al 1956 (anno d’indipendenza del Marocco, Paese da cui provenivano la maggioranza dei militi); ogni goum era composto (a parte gli ufficiali, tutti francesi[5]) da nativi della regione montuosa dell’Atlante e si differenziava dalle altre truppe coloniali regolari (gli spahis -la cavalleria- e i tirailleurs -la fanteria-), in quanto contribuiva a formare un corpo di fanteria leggera i cui membri erano legati spesso da vincoli di parentela e venivano reclutati direttamente dal comandante di ogni singolo reparto, ragion per cui si veniva a creare uno strettissimo rapporto con quest’ultimo.

Ogni goum era formato da tre plotoni di fanteria, uno di cavalleria (che, quando era impegnato fuori dall’Africa, si trasformava, di sovente, in fanteria), uno di mitragliatrici, uno di mortai e uno di mulattieri per il trasporto dell’equipaggiamento.

L’insegna dei goumiers era la koumya, ossia il pugnale ricurvo dei berberi e la loro divisa era composta da una lunga veste  in lana grezza a strisce (la djellaba), il turbante ed i sandali ai piedi (questi ultimi sostituiti, in seguito, da antiquati elmetti di tipo brodie e da scarponi d’ordinanza).

I goumier avevano avuto il loro battesimo del fuoco nella Seconda guerra mondiale operando con successo in Tunisia contro i tedeschi e gli italiani, in seguito erano stati impiegati in Sicilia, in Corsica e sul fronte di Cassino per poi arrivare in Toscana sempre agli ordini di Augustin Guillaume[6].

E furono proprio costoro che buona parte della popolazione senese vide, dopo la partenza dei tedeschi, invece dei tanto sospirati americani con le loro sigarette e la cioccolata.

Purtroppo, in molti casi, il primo impatto non fu dei migliori. Nonostante una serie di brillanti successi tattici come l’aggiramento di Montalcino o il superamento del fiume Merse presso il ponte a Macereto le violenze non mancarono. Non si ebbero episodi  diffusi e generalizzati come quelli di  Esperia o Ausonia ma il bilancio fu lo stesso pesantissimo.

Alcuni partigiani della formazione Spartaco Lavagnini riferirono che nella sola cittadina di Abbadia San Salvatore le truppe francesi violentarono sessanta donne, nonché alcuni uomini, senza tener conto dell’età delle vittime; vennero inoltre operati  numerosi saccheggi. Le proteste inoltrate dagli stessi partigiani agli ufficiali transalpini non sortirono alcun effetto.

Gli stupri perpetrati dagli uomini del Corps  expéditionnaire continuarono a San Quirico d’Orcia, Casciano di Murlo, Murlo, Casole d’Elsa, Monteriggioni, Colle val d’Elsa, Poggibonsi (Pian dei Campi)[7] e  Monticiano[8] tuttavia non è facile quantificare il fenomeno per via dello stillicidio di fatti isolati spesso non denunciati dalle vittime a causa della vergogna.

A un certo punto i comandanti americani chiesero ai colleghi francesi di contrastare le violenze delle proprie truppe contro la popolazione locale.

Il generale Guilluame reagì  in modo ufficiale, seppur minimizzandole, ammettendo le violenze che venivano tuttavia attribuite non tanto ai reparti combattenti quanto agli addetti ai servizi di retroguardia[9]. Ufficiosamente però si cominciarono a prendere provvedimenti drastici. A Casal di Pari, in seguito a un certo numero di stupri, cinque goumiers vennero colti in fragrante, fucilati ed i corpi esposti nella piazza del paese dietro ordine dello stesso Guillaume[10].

Nonostante l’esempio la scia di violenze continuò e si ha notizia di ufficiali francesi che procedettero a punizioni cruente ed esecuzioni sommarie[11]. Gli alleati completarono la liberazione del territorio senese nella seconda metà del luglio 1944 e pochi giorni dopo l’intero Corps expéditionnaire français venne richiamato nelle retrovie per partecipare allo sbarco in Provenza che avvenne il 15 agosto dello stesso anno.

[1] GAUJAC P., Le corps expeditionnaire française en Italie 1943-1944, Paris, Histoire e collections, 2003, p. 9 e ss.

[2] Il bilancio delle perdite francesi nel corso della campagna d’Italia fu particolarmente sanguinoso: il Corps

expeditionnaire, tra morti, feriti e dispersi, perse quasi il 30% dei propri effettivi.

Cfr. BISCARINI C., 1944: i francesi e la liberazione di Siena. Storia e immagini delle operazioni militari, Siena, Nuova Immagine, p.108-113.

[3] Cfr. www.cnrtl.fr/definition/goumier.

[4] Parola di origine turca che significa battaglione. Cfr. www.cnrtl.fr/definition/tabor.

[5] Per quanto riguarda i ranghi dei sottufficiali o dei graduati con competenze speciali (autisti, capi mitraglieri e così via),

all’interno di reparti costituiti esclusivamente o quasi da africani, come i goums, l’esercito francese si serviva dei

cosiddetti troncs de figuier e dei pieds noirs, ossia i discendenti di francesi stabilitisi in Marocco (i primi) o in Algeria (i

secondi); costoro parlavano infatti l’arabo. GAUJAC P., Le corps expeditionnaire …, op. cit., p. 33.

[6] Cfr https://goumier.jimdo.com/histoire-des-goumiers/

[7] LUCCIOLI M. – SABATINI D., La ciociara e le altre. Il Corpo di Spedizione Francese in Italia, Roma, ed. Tusculum,

1998, pp. 88 e ss.

[8] MARTINELLI A., Monticiano Racconta. Testimonianze raccolte e trascritte da Alda Martinelli, Siena, Cantagalli,

2010, p.54.

[9] GAUJAC P., Le corps expeditionnaire …, op. cit., p.44.

[10] L’episodio è narrato nel giornale di marcia del capitano Henri Tartaroli del 2° reggimento d’artiglieria coloniale in

GAUJAC P., Le corps expeditionnaire …, op. cit., p. 44-45;  Alessandro Orlandini e Giorgio Venturini, parlando del

medesimo fatto, fanno riferimento ad una sola donna violentata da sei goumiers che vennero  fucilati; cfr ORLANDINI

  1. – VENTURINI G., I giudici e la Resistenza dal fallimento dell’epurazione ai processi contro i partigiani: il caso

Siena, Milano, La pietra, 1983, p.14-15.

[11] BISCARINI C., 1944: i francesi e la liberazione di Siena …, op.cit., p. 84 in nota 5.




Il servizio Radio CO.RA. e il suo contributo alla lotta di Liberazione

A partire dai primi di settembre del 1943, i dirigenti del Partito d’Azione fiorentino, allo scopo di dotare la nascente organizzazione resistenziale cittadina di un adeguato strumento di informazione e di intelligence militare, disposero la creazione di un servizio clandestino di radiocomunicazioni sotto la sigla Co.Ra, abbreviazione di Commissione Radio. Come ebbe a ricordare successivamente uno dei suoi proponenti, il servizio – in linea peraltro con quanto di analogo stavano facendo altrove altri gruppi del partito – oltre a ricercare un ponte radio col quartier generale alleato ad Algeri rispondeva all’intento di collegare più «organicamente la resistenza armata in Italia»[1], mettendo meglio in comunicazione tra loro i principali centri clandestini operanti in territorio occupato e i comandi delle nascenti formazioni partigiane. Quest’ultimo aspetto nel contesto fiorentino implicava creare un più diretto coordinamento tra il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), nel quale gli azionisti detenevano un ruolo chiave, e le bande operanti in provincia. In tal senso, ai responsabili il costituendo servizio radiocomunicazioni del Partito d’Azione fiorentino, vennero sottoposti sin da subito due obiettivi in particolare:

1) [creare] Collegamenti con i centri radio del Partito nell’Alta Italia per facilitare l’attività politica e militare clandestina e dare la possibilità di comunicare via Svizzera con Algeri o direttamente col Comando militare dell’Italia liberata per l’invio di notizie militari e per la richiesta di armamento ed approvvigionamento delle bande partigiane.

2) Collegare le bande stesse col Comando militare di Firenze.[2]

A capo del comitato tecnico del nascente servizio furono poste le figure del capitano dell’aeronautica Italo Piccagli, del fisico Carlo Ballario e dello studente di ingegneria Luigi Morandi, nessuna delle tre formalmente iscritte al partito, ma già impegnate a sostegno del movimento clandestino antifascista cittadino.

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Il capitano Italo Piccagli (ISRT, Fondo Italo Piccagli e Ruth, fasc. 2)

Italo Piccagli, classe 1909, dopo una prima formazione militare ricevuta presso l’Accademia Navale di Livorno, era passato all’Aeronautica, dove si era presto distinto in azioni militari (ottenne la medaglia d’argento al valor militare per un’azione di salvataggio in mare che gli costò una cronica malattia polmonare) e per gli studi nel campo dell’ottica, della meteorologia e della navigazione aerea. Militare in servizio permanente, nel 1943 dirigeva a Firenze il Gabinetto di Navigazione Aerea e di Meteorologia della Scuola di Guerra Aerea delle Cascine. Di sentimenti antifascisti, benché senza mai aderire formalmente ad alcun partito, dopo l’8 settembre 1943 Piccagli si era avvicinato al movimento clandestino. Lasciata di conseguenza la Scuola delle Cascine era riuscito a mettere in salvo presso l’Istituto di Fisica di Arcetri il materiale tecnico-scientifico del Gabinetto da lui diretto e sottratto casse di munizioni e materiale radio vario[3]. Di radio Co.Ra Piccagli divenne una delle figure chiave grazie alle sue conoscenze in campo aeronautico e alla sua personale rete di contatti in campo militare che gli permisero di organizzare un efficiente servizio di informazioni.

Oltre a Piccagli, con ruolo di consulente tecnico e scientifico, fu posto nel comitato Co.Ra Carlo Ballario, classe 1915, assistente di Fisica all’Università di Firenze e poi di Bologna. A lui, nella seconda metà del settembre 1943, gli azionisti Giovanni Turziani e Carlo Furno avevano chiesto di interessarsi per il partito del problema delle comunicazioni radio con l’Alta Italia, ragion per cui Ballario era entrato in contatto ai primi di ottobre con Piccagli. A questi due venne ad affiancarsi anche Luigi Morandi, giovane studente di ingegneria classe 1920, il quale accettò di buon grado di porre a servizio le sue pregresse conoscenze tecniche già note al Ballario e oramai «decuplicate da lunga esperienza»[4]. In effetti, appassionato sin da giovane di radio-trasmittenti grazie all’attività del padre (un esperto radiotecnico e proprietario di un negozio radio) Morandi, dopo alcune esperienze lavorative prima in un’azienda radio milanese (la Geloso) e poi a Bologna presso il reparto ricerche della Ducati, nel 1941 era stato chiamato sotto le armi e dislocato in Albania con compiti di radio-operatore, venendo poi destinato nel 1942 col grado di sottotenente al 7° Reggimento Genio Radiotelegrafisti di Firenze[5]. Piccagli, Ballario e Morandi poterono costituire così nel seno del servizio Co.Ra «un’équipe di grandissimo valore scientifico e tecnico»[6].

Il primo tentativo di stabilire un contatto radio con altri centri dell’Alta Italia da parte del gruppo Co.Ra si ebbe con l’acquisto a Bologna di una ricetrasmittente (denominata «la bolognina») della potenza di circa 60 watt che fu consegnata a Firenze a Carlo Lodovico Ragghianti per tramite di Antonio Rinaldi e Paolo Bassani (fratello dello scrittore Giorgio Bassani e impiegato del laboratorio nel quale l’apparato era stato costruito) e occultata a cura di Enzo Tardini “Doria”. Numerose difficoltà tecniche, tra cui la mancanza dei quarzi stabilizzatori di frequenza e l’approntamento delle basi di trasmissione con l’installazione di antenne sufficientemente potenti, vanificarono però i tentativi del gruppo di stabilire in tempi rapidi un collegamento costante con Milano. A poco valse in tal senso anche un viaggio informativo lì compiuto da Morandi. Si dovette attendere il marzo del 1944 perché il gruppo riuscisse a far funzionare adeguatamente l’apparato radio, entrando in contatti continuativi con i centri radio clandestini di Milano, Genova e Bologna. A quella data, tuttavia, il progetto originario di una rete di comunicazioni interna che collegasse i principali centri dirigenti della Resistenza italiana aveva perso di rilevanza. Ciò, anche a causa dello smantellamento a opera del Sicherheitsdienst tedesco dell’Organizzazione radio “Otto”, la missione dello Special Operation Executive britannico organizzata dal medico genovese Ottorino Balduzzi alla quale, col tramite del radiotelegrafista della Marina Giuseppe Cirillo, aveva fatto riferimento il sistema informativo organizzato da Ferruccio Parri per il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia e che aveva offerto inizialmente un appoggio per una rete di comunicazioni interna alla Resistenza italiana [7].

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Carlo Ballario (ISRT, fondo Carlo Ballario, ins. 25)

Nel frattempo, anche il secondo proposito originario del servizio Co.Ra., di creare cioè un collegamento tra le bande armate toscane e i vertici militari del CTLN, si era scontrato con difficoltà di natura tecnica. Mentre infatti sin dai mesi finali del 1943 erano state costruite e testate con la supervisione di Ballario e Morandi piccole radio da campo alimentate a pile che avrebbero dovuto essere distribuite alle bande, la difficoltà di collegarsi con queste ultime e la mancanza di personale radiotelegrafista ritardò l’avvio delle prime sperimentazioni, le quali, d’altro canto, una volta iniziate non ebbero l’effetto sperato[8]. Fu anche per questo, che l’attività del gruppo Co.Ra a partire dalla primavera del 1944 si orientò prevalentemente a ricercare un collegamento diretto con gli Alleati, così anche da rendersi autonoma dall’appoggio sin lì fornito da altre missioni radio cui il Partito d’Azione fiorentino era dovuto ricorrere in precedenza, sia per l’ottenimento di informazioni che per la richiesta di supporto militare. In tal senso, già nel febbraio 1944 l’organizzazione azionista fiorentina era riuscita a ottenere dagli Alleati un aviolancio su Monte Giovi tramite la missione radio “Rutland”di Domenico Azzari, agente dello Special Operation Executive paracadutato al confine tra Lunigiana e Lucchesia, il quale, dopo essersi unito alla banda partigiana di Angiolino Marini “Diavolo Nero”, si trovò a gestire e smistare dalle Apuane diversi aviolanci alleati a favore di varie formazioni toscane. In quel caso, per il partito azionista fiorentino i contatti con la missione Azzari erano stati tenuti tramite accordi stabiliti tra la partigiana viareggina Vera Vassalle e la staffetta fiorentina Maria Luigia Guaita – responsabile del servizio di falsificazione documenti del Partito d’Azione fiorentino che lavorava in stretta collaborazione col gruppo Co.Ra – e il lancio, raccolto su Monte Giovi a cura di Max Boris, aveva avuto buon esito[9]. Più o meno negli stessi mesi anche il maggiore dell’aeronautica Giuseppe Cusumano in relazione col gruppo azionista fiorentino era stato inserito in una missione alleata incaricata di rilevare le fortificazioni sul tratto occidentale della Gotica e di trasmetterne via radio le informazioni ad Algeri[10].

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Attestato di Partigiano Combattente di Carlo Ballario (ISRT, Fondo Carlo Ballario, ins. 22)

L’occasione per dotare il gruppo Co.Ra dell’equipaggiamento necessario a contattare autonomamente i comandi alleati giunse per mezzo della figura dell’avvocato Enrico Bocci, un antifascista di lungo corso, amico fraterno dei fratelli Rosselli, già membro in passato del Circolo di Cultura Salvemini di Firenze e collaboratore assieme a Ernesto Rossi, Piero Calamandrei e Nello Traquandi di «Italia Libera» e del «Non Mollare». Alla fine di gennaio 1944 Bocci era stato messo in comunicazione tramite il signor Oscar Fontanella con l’ufficiale Nicola Pasqualin, capo di una missione alleata sbarcata nei paraggi di Porto Corsini, sulle coste adriatiche, e giunta a Firenze per stabilire un ponte radio tra il movimento resistente e il comando alleato. Le presentazioni tra Bocci e Pasqualin erano state fatte nello studio dell’industriale Vasco Petrelli, personalità in contatto con esponenti del movimento clandestino comunista, cui sovente passava informazioni. Il Pasqualin, in possesso del cifrario per le trasmissioni, assieme al radiotelegrafista Renato Levi – un ebreo sfuggito alle persecuzioni razziali e conosciuto col soprannome di «Pomero» o «Rossino» – furono affidati così alle cure del Bocci. Quest’ultimo, chiamato il Ballario per affidargli la riparazione della ricetrasmittente in dotazione della missione alleata danneggiatasi durante lo sbarco, sì unì di fatto col gruppo di Piccagli nella direzione del servizio Co.Ra. La ricetrasmittente messa a disposizione dal Pasqualin fu portata in un primo tempo nello studio dello stesso Bocci, al piano terra di via Ricasoli n. 26, dalla sua segretaria Gilda Larocca, preziosa collaboratrice del servizio clandestino. La prima trasmissione, tuttavia, venne effettuata nei locali della Casa Editrice Bemporad, in via dei Pucci, messi a disposizione da Renato Giuntini, amico di Bocci. Come primo tentativo fu deciso di trasmettere al centro radio alleato di Bari-Monopoli il messaggio convenzionale L’Arno scorre a Firenze il quale, a prova dell’avvenuto contatto, venne poi ritrasmesso in chiaro dagli Alleati sulla frequenza di Radio Bari.

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Luigi Morandi (da A. Morandi Michelozzi,”Le foglie volano…”)

Stabilito un contatto oltre le linee, l’attività del gruppo Co.Ra, oltre a richiedere l’intervento alleato in operazioni di appoggio alle bande partigiane o l’invio di armamenti e rifornimenti a mezzo aviolanci, si indirizzò prevalentemente nella raccolta e trasmissione agli Alleati di informazioni riguardanti le linee difensive appenniniche, i presidi e i depositi tedeschi, il traffico merce diretto in Germania, i movimenti ferroviari e lo spostamento delle truppe germaniche, così da rendere possibile adeguate contromisure. Le informazioni provenivano dalla rete d’intelligence del partito o altrimenti erano raccolte tramite i più vari canali dai collaboratori del servizio. La stessa moglie di Bocci, Mitzi, d’origini austriache, approfittava della sua madre lingua per carpire eventuali notizie che ufficiai tedeschi inavvertitamente potevano lasciar trapelare nel corso dei ricevimenti organizzati dall’industriale Vasco Petrelli e ai quali i coniugi Bocci erano spesso invitati[11].

Sul piano militare uno dei successi più eclatanti conseguiti dal servizio Co.Ra fu, nel maggio 1944, la raccolta e l’invio al comando alleato di circostanziate informazioni inerenti lo spostamento della divisione Herman Goering da Firenze verso il fronte meridionale, comunicazione che permise all’aviazione alleata di intercettare nel grossetano il grosso della formazione, provocandole perdite sostanziose[12].

Le modalità con le quali avvenivano le trasmissioni da parte del gruppo erano grossomodo le seguenti:

Di tutte le informazioni che Bocci e Piccagli sceglievano, setacciavano, vagliavano, venivano poi fatti tanti fogliolini – i chiari – che venivano portati, dalla Gilda [Larocca], per la traduzione in codice, dal Pasqualin. Questi era l’unico che avesse il cifrario. Stava in via Tornabuoni. E di lì i bigliettini ripartivano per la casa dove in quel giorno era installata la radio e dove il R.T. [radiotelegrafista] li trasmetteva all’VIII Armata. Ogni volta, in cifrato, al R.T. veniva trasmessa dagli Alleati l’ora della trasmissione successiva. Decifrato il messaggio (mai dal R.T. che non conosceva il codice) si preparavano le notizie «tradotte» per l’ora stabilita. C’era però sempre un appuntamento di emergenza se, per una ragione qualsiasi, nell’ora pattuita la trasmissione non avesse potuto aver luogo.[13]

Per quanto riguardava invece gli accurati rilievi topografici connessi  a obiettivi militari sensibili che il gruppo otteneva dal servizio informazione del partito, essi venivano riportati dettagliatamente su carte in scala variabile cedute dietro sollecitazione di Piccagli dal colonnello Lari dell’Istituto Geografico Militare e ordinate nella ricca cartoteca dell’archivio Co.Ra a cura di Ballario e con l’assistenza di Piccagli e di Lodovico De Renzis-Sonnino, dal cui palazzo familiare di via del Prato venivano talvolta effettuate le trasmissioni radio e ove erano altresì confezionate da Piccagli le copie microfilmate delle stesse carte[14].

Quella di via del Prato non era che una delle molteplici basi logistiche del servizio da cui erano dirette le comunicazioni radio, le quali, per regola generale di sicurezza, oltre ad essere sempre brevi per non dare il tempo ai radiogoniometri tedeschi di intercettare la fonte, non dovevano partire mai due volte di seguito dallo stesso luogo. Le principali basi di trasmissione del gruppo, oltre allo studio del Bocci – per la verità poco adatto allo scopo – furono: l’abitazione di questo a Ponte a Mensola; la casa di Piccagli in via Repetti; la già citata casa editrice Bemporad; l’Istituto Fotocromatico Italiano in via La Farina di proprietà di Vincenzo Balocchi, un parente di Bocci; l’abitazione del medico e professore Piero Pieraccini in via Salvestrina e la clinica ove questi operava in Viale Mazzini; l’abitazione in viale Michelangelo di Gianni Banti, un compagno di Bocci dei tempi del «Non Mollare»; alcuni quartieri presi in affitto in viale Corsica e in via Brunetto Latini; la centrale Rifredi della Società Elettrica Valdarno; l’Istituto di Fisica di Arcetri e la già citata abitazione del De Renzis.

Ai primi di maggio del 1944, con l’aumento dell’attività e dell’organico del gruppo (entro il quale fecero ingresso in particolare Luciano Tamburini, come informatore militare, Guido Focacci, come responsabile dei campi di lancio alleati, e Gianfranco Gilardini), si rese necessaria la ricerca di un’ulteriore sede da cui trasmettere. Tramite la mediazione del Tamburini si riuscì a ottenere dal conte Carlo Cotta, vicino al Partito d’Azione, un appartamento situato al terzo e ultimo piano di un palazzo posto al civico 12 di Piazza d’Azeglio che fu regolarmente affittato a nome del Gilardini[15]. Si trattava di un ampio appartamento ammobiliato, dai cui quartieri di servizio, posti nelle soffitte, potevano essere effettuate con relativa sicurezza le trasmissioni, sempre affidate al «Pomero». Quest’ultimo, però, tendenzialmente restio per ragioni di prudenza ad accondiscendere a sessioni radio ripetute e continuative, con l’aumentare del ritmo delle trasmissioni in vista del progressivo avvicinarsi del fronte di guerra alla Toscana, lasciò che fosse Luigi Morandi a sostituirlo come radiooperatore.

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Enrico Bocci (da A. Morandi Michelozzi,”Le foglie volano…”)

Tra la fine di maggio e i primi di giugno l’attività del servizio crebbe in effetti di intensità. Una missione aviolanciata alleata di dodici paracadutisti (missione “Nicky”) che avrebbero dovuto integrare la precedente missione di Pasqualin fu organizzata dal gruppo Co.Ra in collaborazione col maggiore Mario Martini (Capitano Niccolai) comandante delle forze partigiane della provincia di Prato. Il lancio avvenne con successo la sera del 2 giugno ai Faggi di Javello nelle vicinanze del monte Calvana. Cinque dei paracadutati vennero avviati a Firenze e qui alloggiati per interesse di Bocci in alcuni appartamenti di via Tripoli e XXVII Aprile. In conseguenza della liberazione di Roma del 4 giugno e dello sbarco alleato in Normandia del 6, un’importante riunione dei componenti il gruppo venne inoltre convocata per il giorno 7 nella nuova sede di Piazza d’Azeglio allo scopo di trasmettere le informazioni di ordine militare inerenti lo stato delle forze tedesche e l’entità delle formazioni partigiane che il comando alleato aveva richiesto con un questionario cifrato appositamente radiotrasmesso. Tra i convenuti all’incontro – in numero superiore al consueto, data la circostanza – vi erano Bocci, Piccagli, Morandi, Focacci, Gilardini, Tamburini, la segretaria Larocca e anche Carlo Campolmi, responsabile militare del Partito d’Azione. Erano assenti invece Ballario, recatosi ad assistere la moglie ricoverata in ospedale per una setticemia, e Maria Luigia Guaita, partita lo stesso giorno per una missione di collegamento col gruppo viareggino di Radio “Rosa”[16]. Tra i convenuti alla riunione, Tamburini dopo un certo tempo se ne andò, seguito da Piccagli in ragione di un abboccamento già fissato in precedenza. Verso l’ora di cena, circa, tre uomini in borghese e armati si presentarono alla porta dell’appartamento nel quale fecero irruzione, seguiti nell’immediato da SS e fascisti del reparto di Mario Carità. Tutti gli adunati, senza che potessero reagire, furono fermati e fatti allineare su di una parete. Luigi Morandi, intento già a trasmettere dai locali della soffitta, non si accorse in tempo dell’irruzione. Sorpreso e disarmato, approfittando di una distrazione riuscì comunque a impossessarsi fulmineamente dell’arma di un tedesco uccidendolo, prima di venir fatto segno di una raffica di mitra sparata da un commilitone. Trasportato successivamente presso l’ospedale di via Giusti sarebbe deceduto tre giorni dopo a causa delle ferite riportare. Gli altri componenti del gruppo, percossi e malmenati, furono condotti in arresto presso i locali di Villa Triste, sede della polizia tedesca (Sicherheitsdienst) e del Reparto Servizi Speciali della 92° Legione della MVSN al comando di Mario Carità. Tra gli arrestati, oltre ai presenti alla riunione, cadde anche Piccagli, il quale, rientrando dall’abboccamento venne fermato da un milite lasciato a presidio della sede di Piazza d’Azeglio e trasportato con gli altri a Villa Triste[17].

Tra l’8 e il 9 giugno, le forze di polizia nazifasciste riuscirono a catturare anche quattro dei cinque paracadutisti della missione “Nicky”, ma non Pasqualin e «Pomero», i quali riuscirono a salvarsi. Negli stessi giorni, con l’intento di arrestarlo, tedeschi e fascisti si recarono a Montemurlo presso l’abitazione del capitano Mario Martini (che aveva collaborato all’aviolancio dei dodici agenti paracadutati ai Faggi di Javello), il quale però riuscì fortunosamente a sottrarsi alla cattura ma non a evitare l’arresto del figlio quattordicenne, Marcello, condotto a Villa Triste e successivamente deportato a Mauthausen. Stessa sorte toccò anche a Ruth Weidenreich, moglie di Piccagli e anch’essa attivamente impegnata nel movimento di Liberazione fiorentino. Ebrea tedesca, Ruth fu infatti arrestata dopo la retata del 7 giugno e quindi tradotta a Villa Triste, dove ebbe la possibilità di rivedere per l’ultima volta il marito, prima di essere deportata ad Auschwitz. Tutti gli arrestati del gruppo Co.Ra, nessuno escluso, a Villa Triste subirono per giorni incessanti interrogatori e brutali torture, i cui particolari raccapriccianti emersero nel corso dei procedimenti giudiziari cui nel dopoguerra furono sottoposti i membri della banda Carità presso le Corti straordinarie di Bologna e Lucca. I più martoriati, in tal senso, furono certamente Bocci e Piccagli, che con coraggio si assunsero tutta la responsabilità dell’attività di radio Co.Ra nel tentativo di scagionare i propri compagni. Oltre alle sevizie della tortura entrambi condivisero la stessa tragica sorte. Il 12 giugno, Piccagli venne infatti trasportato assieme ai quattro paracadutisti della missione “Nicky” (Fiorenzo Franco, Pietro Ghergo, Dante Romagnoli e Ferdinando Panerai) a Cercina, sulle pendici di Monte Morello, e qui fucilato sulle sponde del torrente Terzolle assieme ai primi, ad Anna Maria Enriquez Agnoletti (attivista cristiano sociale e sorella dell’azionista Enzo prelevata poco prima dalle carceri di Santa Verdiana) e a un partigiano cecoslovacco. L’agonia di Enrico Bocci in mano ai suoi carnefici si protrasse invece fino al 18 giugno, giorno in cui venne probabilmente finito a Villa Triste o altrimenti fucilato nei dintorni di Firenze, benché il suo corpo non fu mai ritrovato. I rimanenti del gruppo (Gilda Larocca, Ruth Weidenreich, Carlo Campolmi, Guido Focacci, Gianfranco Gilardini, Marcello Martini) dopo le torture subite vennero trasferiti a Fossoli di Carpi e da qui deportati in Germania: alcuni di essi riuscirono a fuggire durante il viaggio, gli altri fecero ritorno a casa solo a guerra finita.

Nonostante il duro colpo inflitto all’organizzazione Co.Ra dalla retata del 7 giugno – la cui portata aprì molti dubbi e sospetti sulla possibile delazione di una spia infiltratasi entro l’organizzazione clandestina del Partito d’Azione[18] – il servizio non cessò comunque di esistere e l’attività di radiocomunicazioni riprese con sorprendente rapidità. L’ufficiale Pasqualin, sfuggito alla cattura e rifugiatosi per qualche tempo in provincia di Arezzo, fatto ritorno a Firenze con «Pomero» attorno al 20 di giugno riprese subito i contatti col movimento clandestino incontrandosi con Carlo Lodovico Ragghianti, Presidente del CTLN. A quest’ultimo venne consegnato un apparecchio ricetrasmittente occultato dal «Pomero» prima della fuga che consentì di riprendere le trasmissioni, affidate stavolta al nuovo telegrafista indicato da Ragghianti: il capitano del Genio Giuseppe Campolmi “Spartaco”. Quest’ultimo, dopo diversi tentativi andati a vuoto, riuscì a stabilire un nuovo ponte radio col centro alleato di Bari-Monopoli trasmettendo dalla soffitta della clinica privata di via della Robbia, messa a disposizione dal dottor Bruno Gherardi. Al nuovo servizio radio Co.Ra coadiuvarono anche Ludovico De Renzis-Sonnino, il giovane studente d’ingegneria Lorenzo Rigutini – chiamato a collaborare alla rete informativa dal Ballario sin dalla fine di giugno[19] – e Adriano Milani Comparetti, membro delle squadre d’assalto del Partito d’Azione, fratello di don Lorenzo Milani e in seguito tra i più famosi neuropsichiatri infantili italiani[20]. Tra le sedi clandestine che ospitarono la rinnovata attività di trasmissione vi furono i locali della Società di cremazione al Mercato Nuovo, una soffitta in via del Pratellino, l’Istituto del Rinascimento in Palazzo Strozzi, la Villa Vittoria e l’abitazione dei Rigutini a Bellosguardo[21]. Con l’avvio dell’emergenza ai primi di luglio del 1944 e il distacco della rete elettrica cittadina, la possibilità di utilizzare gli apparati ricetrasmittenti venne garantita dall’impiego di alcuni accumulatori in dotazione della facoltà di Chimica messi a disposizione dal professor Giovanni Speroni per tramite di Carlo Ballario[22]. A questo modo, le trasmissioni del servizio Co.Ra poterono proseguire, di fatto spingendosi sino alle fasi imminenti la liberazione della città, l’11 agosto.

[1] Carlo Lodovico Ragghianti, Ecco che cosa fu «Radio Cora», «La Nazione», 11 agosto 1979, p. 3.

[2] Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea di Firenze (d’ora n poi ISRT), fondo Carlo Ballario, inserto 1, relazione dattiloscritta sull’attività della Commissione Radio del Partito d’Azione; l’originale manoscritto di Carlo Ballario della relazione è in: ivi, inserti 31-36. La relazione di Ballario è citata parzialmente anche in L. Tumiati Barbieri (a cura di), Enrico Bocci. Una vita per la libertà, G. Barbera Editore, Firenze 1969, p. 61.

[3] ISRT, fondo Piccagli Italo & Ruth, fasc. 1 Servizio radio Co.Ra, Relazione sull’attività svolta dal Capitano Italo Piccagli, Firenze 20 agosto 1944; Italo Piccagli: una scelta di libertà, a cura del Comitato regionale toscano per il 30° Anniversario della Resistenza e della Liberazione, Parretti, Firenze 1974.

[4] ISRT, fondo Carlo Ballario, inserto 1, relazione dattiloscritta sull’attività della Commissione Radio del Partito d’Azione; ivi, ins. 31, appunto manoscritto di Ballario.

[5] Andreina Morandi Michelozzi, Le foglie volano. Appunti per una storia di libertà, La Nuova Europa Editrice, Firenze 1984, pp. 31-33.

[6] Gilda La Rocca, La “Radio Cora” di Piazza d’Azzeglio e le altre due stazioni radio, Giuntina, Firenze 1985, p. 46.

[7] Carlo Lodovico Ragghianti, Ecco che cosa fu «Radio Cora», cit. Sull’Organizzazione “Otto”, cfr. Peter Tompkins, L’Altra Resistenza. Servizi segreti, partigiani e guerra di liberazione nel racconto di un protagonista, Il Saggiatore, Milano 2009, pp. 151-152.

[8] ISRT, fondo Carlo Ballario, inserto 1, relazione dattiloscritta sull’attività della Commissione Radio del Partito d’Azione;

[9] Carlo Lodovico Ragghianti, Ecco che cosa fu «Radio Cora», cit.; L. Tumiati Barbieri (a cura di), Enrico Bocci, cit., p. 80. Sulla missione Azzari cfr. Maurizio Fiorillo, Uomini alla macchia. Bande partigiane e guerra civile. Lunigiana 1943-1945, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 48-49. Sul lancio procurato su Monte Giovi cfr. Max Boris, Al tempo del fascismo e della guerra. racconto della vita mia e altrui, a cura di Simone Neri Serneri, Polistampa, Firenze 2006, pp. 56-61.

[10] Testimonianza di Giuseppe Cusmano citata in L. Tumiati Barbieri (a cura di), Enrico Bocci cit., p. 64.

[11] Gilda La Rocca, La “Radio Cora” di Piazza d’Azzeglio, cit., p. 50.

[12] Carlo Francovich, La Resistenza a Firenze, La Nuova Italia, Firenze 1975, pp. 155-157; Gilda La Rocca, La “Radio Cora” di Piazza d’Azzeglio, cit., pp. 59-60; Andreina Morandi Michelozzi, Le foglie volano, cit., pp. 41-43.

[13] L. Tumiati Barbieri (a cura di), Enrico Bocci cit., pp. 82-83.

[14] Gilda La Rocca, La “Radio Cora” di Piazza d’Azzeglio, cit., p. 52.

[15] ISRT, fondo Piccagli Italo & Ruth, fasc. 1 Servizio radio Co.Ra, deposizione di Gianfranco Gilardini, p. 1.

[16] Maria Luisa Guaita, Storie di un anno grande. Settembre 1943-agosto 944, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1975, pp. 56-58.

[17] Per una ricostruzione dell’irruzione e degli arresti, oltre alla bibliografia citata nelle note precedenti, si veda anche: ISRT, fondo Piccagli Italo & Ruth, fasc. 1 Servizio radio Co.Ra, deposizione di Gianfranco Gilardini, pp. 5 e sgg.

[18] ISRT, fondo Piccagli Italo & Ruth, fasc. 1 Servizio radio Co.Ra,, Partito d’Azione, Sezione di Firenze, Servizio Informazioni, Indagine intesa ad accertare come le SS abbiano scoperto la radio clandestina di Piazza d’Azeglio n. 12..

[19] Ivi, fondo Carlo Ballario, inserto 23, Relazione sull’attività Cora di Lorenzo Rigutini.

[20] Carlo Lodovico Ragghianti, Ecco che cosa fu «Radio Cora», cit.

[21] Ibidem. Per il riferimento delle trasmissioni effettuate presso l’abitazione dei Rigutini, cfr. Archivio Diaristico Nazionale di Pieve S Stefano, Diario di Beatrice Rigutini, a cura di Silvia Rigutini.

[22] Carlo Lodovico Ragghianti, Ecco che cosa fu «Radio Cora», cit.; Gilda La Rocca, La “Radio Cora” di Piazza d’Azzeglio, cit., pp. 97-98.