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Oreste Ristori: una storia antifascista tra Toscana e Sudamerica

Oreste Ristori nasce il 12 agosto 1874 sulle colline del Pino, nei pressi di San Miniato. Suo padre fa il pastore, ma a causa della crisi agricola del 1878 la famiglia si deve trasferire a Empoli. Oreste cresce in un ambiente di grande povertà senza poter frequentare la scuola. La madre esegue lavori con la paglia e alleva animali che vengono poi venduti nei mercati di Empoli e San Miniato. Oreste accompagna spesso i genitori e ha occasione di conoscere vari giovani che “blasfemano contro la chiesa” e discutono di politica e anarchia. Inizia a frequentare il gruppo anarchico di Empoli, dove conosce Antonio Scardigli ed Enrico Petri. Con questo viene arrestato per la prima volta durante una manifestazione a San Miniato il 21 marzo del 1892. Nel maggio dello stesso anno muore il padre. Giudicato dalle autorità “anarchico esaltato, di pessimo carattere, contrario al lavoro capace di qualsiasi azione criminale”, negli anni successivi viene arrestato altre volte, e inviato in carcere o al domicilio coatto. Prima a Porto Ercole, da dove fugge assieme ad altri 6 compagni, ripreso finisce alle Tremiti. Qui le condizioni di vita provocano una rivolta, capeggiata dal gruppo degli anarchici, che viene repressa nel sangue e nella quale muore Argante Salucci, anarchico fiorentino del gruppo di Santa Croce sull’Arno. Ristori è processato per incitamento alla violenza e finisce a Pantelleria. Nel settembre ottiene la libertà e ritorna a Empoli, dove è sospettato di voler formare un gruppo per compiere attentati contro persone e cose. Entra in clandestinità ma viene rintracciato e mandato di nuovo al domicilio coatto, questa volta a Ventotene. Di nuovo liberato, ritorna a Empoli, dove fonda un gruppo e inizia a fare propaganda lungo la costa toscana tra Piombino e La Spezia. Siamo nel 1898 e, a seguito dei fatti di maggio a Milano, si succedono varie rivolte un po’ ovunque. Oreste passa clandestinamente a Marsiglia, dove si stabilisce nella folta colonia italiana con il nome di Gustavo Fulvi; identificato, a settembre è rimpatriato e poi inviato al domicilio coatto, a Favignana. Comincia a scrivere articoli per diversi giornali, nell’ottobre del 1899 viene trasferito a Ponza dove conosce Luigi Fabbri. Partecipa alla pubblicazione del numero unico «I Morti» e viene confinato nella fortezza di Gavi. Nel marzo del 1900 organizza una manifestazione in ricordo delle vittime della Comune di Parigi, ma è scoperto e trasferito a Ustica. Intanto, da giovane anarchico irrequieto e ribelle diventa, come segnala la polizia, un capace oratore, guadagnandosi il soprannome di Beccuto, propagandista e stimato giornalista: “Dal 1901 era già un noto corrispondente dei giornali anarchici «L’Agitazione» di Ancona, «Il Risveglio», di Ginevra, «Le Libertaire», di Parigi e «L’Avvenire», di Buenos Aires”. All’inizio del 1901, messo in libertà e rimandato a Empoli, comincia a maturare l’idea di emigrare in Argentina dove ci sono molti anarchici italiani coi quali è in corrispondenza. Dopo un primo vano tentativo riesce a salire come clandestino su una nave e raggiungere, nell’agosto del 1902, Buenos Aires.

Foto segnaletica di Oreste Ristori, anni Venti del '900

Foto segnaletica di Oreste Ristori, 1911

La sua vita in America Latina è degna di un romanzo. Costretto a spostarsi più volte tra Argentina, Uruguay e Brasile a causa delle persecuzioni poliziesche, nei primi trent’anni del nuovo secolo Ristori è un protagonista delle battaglie del movimento operaio. Per ben tre volte riesce a sfuggire, in modi sempre più rocamboleschi, ai rimpatrii forzati applicatigli dalle Autorità, durante l’ultima si frattura entrambe le gambe e ciò lo renderà zoppo per il resto della vita. Fonda due giornali di grande diffusione: «La Battaglia» a São Paulo e «El Burro» (L’Asino), a Buenos Aires. In Brasile, casa sua è frequentata da intellettuali come Oswald de Andrade, uno dei maggiori poeti brasiliani, e vi passa anche il giovane Jorge Amado, come racconta nel suo Anarchici grazie a dio Zelia Gattai, sua futura compagna e che all’epoca era una ragazzina la cui famiglia era amica di Ristori. Dagli anni Venti in poi è particolarmente importante il suo impegno unitario antifascista.

Nel giugno del 1936, a causa della sua attiva partecipazione alle agitazioni popolari che nei primi anni Trenta attraversano la città di São Paulo contro le formazioni paramilitari brasiliane che si ispirano al fascismo, le Autorità riescono infine rimpatriarlo. Pur essendo sorvegliato, poco più di un mese dopo essere arrivato in Italia, riesce a raggiungere la Spagna, ove collabora – vista l’età, probabilmente solo in veste di propagandista – con le forze antifasciste e tenta inutilmente di organizzare l’arrivo di Mecedes, l’amata compagna rimasta in Brasile; verso la fine della guerra raggiunge la Francia, sempre con l’obiettivo di riuscire a riunirsi con Mercedes. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, il governo francese lo confina e, nel marzo del 1940, lo rimpatria. Le Autorità lo obbligano a risiedere a Empoli, ma Oreste è indomito, cerca gli antichi compagni e in novembre si fa due settimane di carcere per avere diffuso notizie “allarmistiche” sulle sorti della guerra e del regime. Intanto anche lo scambio di corrispondenza con Mercedes termina perché la guerra determina l’interruzione dei contatti tra Italia e Brasile. Nel 1943, è uno dei primi a scendere in strada per festeggiare la deposizione di Mussolini. Nuovamente arrestato, è rinchiuso alle Murate a Firenze. Nella notte del primo dicembre i partigiani uccidono il capo del Comando militare Gino Gobbi. Al mattino seguente Ristori, l’anarchico Gino Manetti e i tre militanti comunisti, Armando Gualtieri, Luigi Pugi e Orlando Storai, vengono prelevati dalla milizia fascista, condotti al campo di tiro delle Cascine e fucilati per rappresaglia. Si dice che Ristori sia morto fumando la sua pipa e cantando l’Internazionale.




Le agitazioni mezzadrili “bianche” del 1919 in Val di Pesa e il “Patto di S. Casciano”

Tornati dalla guerra, avevamo domandato per noi e per le nostre famiglie, alcune modificazioni al vigente contratto di Mezzadria, che senza alterarlo nelle sue linee fondamentali, erano richieste per togliere alcune ingiustizie e per riconoscere un po’ le nostre maggiori fatiche. Era sperabile che i proprietari accettassero. Invece, (…) hanno dimostrato, con indugi, con negative, con ostruzionismi, di non volere accontentarci (…). Di fronte a questo contegno, i contadini hanno dovuto prendere delle decisioni radicali per ottenere il loro intento. [«La Libertà», 14 settembre 1919]

Così, in un manifesto del 12 settembre 1919, il consiglio direttivo dell’Unione Mezzadri di San Casciano Val di Pesa proclamava l’agitazione fra i coloni dell’omonimo mandamento in segno di protesta per la mancata risposta dei proprietari alle richieste di modifica del patto colonico loro avanzate. Al pari di quanto stava accadendo a partire dall’estate del 1919 nel resto della provincia fiorentina, anche i mezzadri della Val di Pesa, scossi dalle profonde trasformazioni che sul piano sociale, economico e mentale l’esperienza bellica aveva loro suscitato, avevano iniziato una serrata mobilitazione sindacale allo scopo di migliorare le proprie condizioni contrattuali di lavoro e di vita che la guerra aveva sicuramente peggiorato.

All’uscita dal primo conflitto mondiale, infatti, il mondo mezzadrile toscano, oltre che colpito dalle rilevanti perdite umane conseguenti alla chiamata alle armi dei contadini, era stato seriamente affetto dalle ripercussioni negative dell’economia di guerra. Se l’aumento generale dei prezzi sul mercato agricolo era sembrato portare alcuni vantaggi nei redditi dei mezzadri, questo miglioramento in realtà era parso più nominale che reale: al termine della guerra l’aumento del prezzo delle derrate prodotte dai contadini si mantenne infatti inferiore a quello dei beni che essi erano costretti ad acquistare (carne, filati, carburanti ecc), mentre gli effetti dell’aumento del prezzo del bestiame e del vino andarono a vantaggio esclusivo della classe padronale e proprietaria, già beneficiata dal buon andamento generale del mercato e dall’aumento del valore fondiario. Dopo la guerra, a rendere ancor più negative le condizioni economiche dei contadini toscani e più profondo lo squilibrio esistente tra capitale e lavoro contribuì anche il carattere capestro degli stessi contratti mezzadrili, dovuto in particolare alla sopravvivenza di clausole angariche (i cosiddetti “patti accessori” che addossavano alla manodopera contadina il costo e l’esecuzione di alcuni lavori nei campi) nonché dai non rari abusi compiuti dalla proprietà nella ripartizione delle percentuali di prodotto spettanti al mezzadro; abusi e vincoli spesso inaspritisi negli anni del conflitto e che adesso divenivano oggetto critico delle rivendicazioni contadine. E in effetti, almeno in una prima fase, anziché verso una radicale revisione del contratto colonico tout court, il movimento contadino puntò più alla modifica di alcune clausole coloniche in direzione dell’attenuazione o dell’abolizione integrale dei patti accessori e a favore di una più equa ripartizione delle spese di gestione dei fondi tra capitale e lavoro.

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L’aratura (Archivio “La Porticciola – S. Casciano)

Protagoniste di questa prima fase di agitazione in tutta la provincia di Firenze furono le organizzazioni cattoliche che si mobilitarono persino con qualche margine di anticipo sulla loro controparte socialista delle leghe rosse. Nell’alveo di una tendenza a federarsi in organismi sovralocali, anche le unioni e le leghe contadine cattoliche del fiorentino diedero vita ad un organo unitario: il 1° giugno 1919 a termine di un’assemblea tenutasi a Sesto Fiorentino si costituì infatti la Federazione Mezzadri e Piccoli Affittuari di Firenze, di ispirazione cattolica. Presieduta dal colono Felice Bacci, la Federazione risultò strettamente legata al Partito Popolare Italiano e alle sue strutture fiorentine, come segnala in particolare l’attività che vi svolse in qualità di consulente legale l’avvocato, poi deputato, Mario Augusto Martini, già presidente della Federazione Universitaria Cattolica Italiana, tra i fondatori e primo presidente della sezione fiorentina del partito, nonché referente della questione mezzadrile per l’intero movimento. Nell’estate del 1919, dopo che agitazioni di contadini si erano sollevate in alcuni comuni della provincia, fu appunto la Federazione Mezzadri che per prima cercò di porsi alla guida del movimento. Falliti i primi tentativi di interessare alle richieste di riforma del patto mezzadrile i singoli proprietari, la Federazione si rivolse alla neocostituita Associazione Agraria Toscana, organo di categoria degli agrari, intavolando con questa a partire dal 22 luglio 1919 una serie di colloqui attorno alla discussione di un memoriale contenente le principali richieste di parte colonica. I colloqui tra le due rappresentanze si protrassero sino al 7 agosto 1919, giorno nel quale fu raggiunto un accordo anche sugli ultimi due articoli maggiormente discussi, riguardanti l’indennità sulla solforazione e la frangitura delle olive. Il concordato così siglato, detto “Concordato di Firenze” composto di 19 articoli stabiliva tra l’altro: l’abolizione dei tanto invisi patti accessori (“e in genere di ogni prestazione di opera gratuita a favore del proprietario”, art. 8), la divisione a metà tra padrone e contadino delle spese per gli anticrittogamici e le solforazioni eseguite, il carico totale spettante al proprietario delle spese di frangitura e di trebbiatura a macchina e la definizione di un prezzo per tutte le opere prestate dal colono al proprietario “sia fuori del podere, sia, per scopi non derivanti dall’obbligo del contratto, nel podere” (art.12). Infine, all’articolo 1, si sanciva da parte padronale il “riconoscimento della Federazione Provinciale Mezzadri e Piccoli Affittuari e Unioni aggregate come rappresentanti della classe colonica da esse organizzata e riconosciuta”. Salutato con soddisfazione da parte della Federazione Mezzadri, il concordato di Firenze fu però presto disatteso dalla stessa Agraria che, poco dopo la ratifica, cominciò ad avanzare alla controparte nuove richieste e obiezioni, in modo tale che l’accordo fu di fatto inapplicato.

Venuto meno questo tentativo di contrattazione collettiva, la vertenza contadina ridiscese sul piano locale, nel tentativo di raggiungere con gli agrari accordi validi a livello municipale o mandamentale. Fu in questa fase che l’agitazione mezzadrile in Val di Pesa si distinse per portata e organizzazione. Si trattava di un’area a tradizionale vocazione rurale caratterizzata dalla generale preponderanza della manodopera mezzadrile ma anche dalla diffusa presenza di una grande possidenza terriera: a titolo d’esempio, nell’immediato primo dopoguerra nel comune di S. Casciano si potevano contare 971 famiglie contadine, delle quali 839 erano famiglie di mezzadri, a fronte di 117 famiglie di camporaioli e di 15 coltivatori diretti. Per di più, la gran parte di queste famiglie mezzadrili dipendevano dai grandi sistemi di fattoria locali: basti pensare che i 20 principali proprietari terrieri del comune (tra i quali le grandi famiglie nobiliari dei Corsini, Antinori, Mazzei, Ganucci Cancellieri, Serristori ecc) avevano alle loro dipendenze 512 famiglie mezzadrili delle 839 esistenti nel comune negli stessi anni. Una sensibile presenza mezzadrile, dunque, ma anche un significativo peso della classe padronale caratterizzavano queste campagne.

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Giovanni Chiostri rappresentante dei possidenti agrari della Val di Pesa (da “Il Giornale d’Italia” 12 novembre 1919)

Come nel resto della provincia, anche nella Val di Pesa e nel mandamento di San Casciano, la mobilitazione dei mezzadri a partire dall’estate del 1919 era stata portata avanti dal movimento delle leghe bianche legate al neonato Partito Popolare Italiano. Anche qui, in verità, in un primo tempo era stata percorsa la strada dell’accordo individuale tra contadini e padroni, senza successo. Il 16 luglio, ad esempio, intervenendo ad un’adunanza di un centinaio di mezzadri a Montagnana Val di Pesa, Enrico Frascatani, segretario della Federazione dei Mezzadri fiorentina, aveva spiegato che se sin lì l’agitazione nell’area era “abortita” lo si doveva appunto al fatto che le richieste ai padronati erano state presentate “dai singoli contadini disorganizzati e…disorientati”. Adesso, beneficiando delle nuove strutture del movimento cattolico, l’agitazione era in grado di darsi un’organizzazione più formale. A San Casciano, non a caso, la locale Unione Mezzadri nacque per iniziativa diretta della neonata sezione locale del Partito Popolare Italiano e in particolare grazie all’attività svolta in essa da Primo Calamandrei, un negoziante di “fantasie floreali” già consigliere comunale. Il 27 luglio la direzione del partito organizzò una prima riunione tra tutti i mezzadri del comune nella quale presero parola il colono Antonio Bazzani e il segretario della Federazione Mazzadri, Frascatani. All’occasione, fu letto, discusso e approvato il memoriale che in quei giorni la Federazione stava discutendo con l’Agraria; dopodiché allo scopo di costituire la locale Unione Mezzadri fu nominata una commissione composta da 15 coloni rappresentanti le principali frazioni del comune. L’Unione Comunale Mezzadri di San Casciano si costituì formalmente nell’adunanza successiva del 3 agosto, eleggendo i propri organismi nelle persone di Antonio Bazzani (Presidente), Corti Leopoldo (Vice Presidente), Secci Sestilio (Segretario), Alessandro Crociani (Cassiere). Dopo la mancata applicazione del Concordato di Firenze siglato il 7 agosto tra Federazione e Agraria, come detto la battaglia per l’accettazione del nuovo patto in tutta la provincia passò sul piano municipale. L’Unione Mezzadrile di San Casciano, preso contatto con alcuni proprietari del comune, convocò un’adunanza generale dei mezzadri per il 31 agosto alla quale intervennero Mario Augusto Martini e di nuovo Enrico Frascatani. Constatata però l’assenza dei proprietari del comune precedentemente invitati, fu approvato un ordine del giorno col quale si fissava al 5 settembre il termine ultimo perché questi facessero pervenire per iscritto la loro adesione alle richieste. Da parte padronale non vi furono però risposte, tanto che una successiva adunanza dei mezzadri sancascianesi fu convocata il 7 settembre, con la partecipazione dei soliti Martini e Frascatani e del deputato cattolico Tommaso Brunelli. Constatata ancora una volta l’assenza dei rappresentanti della controparte padronale, si decise a decorrere dall’11 settembre di iniziare l’agitazione fra i coloni come protesta per la mancata risposta dei proprietari.

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Primo Calamandrei, leader del PPI a San Casciano e promotore dell’agitazione mezzadrile nell’estate del 1919 (Archivio “La Porticciola” – S. Casciano)

Il 12 settembre, a sciopero iniziato, tutti i coloni del comune si riunirono presso il teatro Niccolini di San Casciano dove ancora Martini e Frascatani presero la parola. Considerata la tensione di quella seduta, dovuta in parte all’elevato numero degli intervenuti (circa 3.000) in parte ai reiterati silenzi degli agrari, non sorprende che venisse votato dall’assemblea un ordine del giorno piuttosto radicale col quale, rilevato che “il contegno del ceto proprietario offende e conduce a rendere impossibili nel frattempo i rapporti sociali del contratto di mezzadria”, si decideva di sospendere provvisoriamente la validità del contratto mezzadrile finché non fosse stato raggiunto un accordo. Quindi si stabiliva che a partire dal 14 settembre le famiglie coloniche avrebbero prestato la loro opera nei rispettivi poderi “a salario”, pagabile in contanti settimanalmente (15 lire al giorno per gli uomini, 10 per le donne) e secondo un orario di lavoro giornaliero di 8 ore (dalle 8 alle 12 e dalle 14 alle 18). A fronte di simili richieste e con il proseguire nei giorni seguenti di altre manifestazioni coloniche, i proprietari acconsentirono a una trattativa con l’Unione Mezzadri di S. Casciano.

Tra il 17 e il 18 settembre alla presenza del Prefetto di Firenze De Fabritiis e con la partecipazione dell’avvocato Giovanni Chiostri, consigliere provinciale per il mandamento di San Casciano e anch’esso grande possidente, si incontrarono così la Commissione dei proprietari sancascianesi (composta dal commerciante Guido Ciappi, dal conte Lorenzo Guicciardini, dal marchese Emanuele Corsini, dall’avvocato Ganucci Cancellieri, dal dottor Gino Ciofi, dai signori Zanobini e Squilloni e dal dottor Burroni) e quella dei contadini (composta da Felice Bacci, Enrico Frascani, Mario Augusto Martini per la Federazione Mezzadri, da Antonio Bazzani Presidente dell’Unione Mezzadri di San Casciano e dai coloni Vittorio Camiciotti, Liberato Giachi, Olinto Galanti, Raffaello Nardini, Luigi Callaioli, Fortunato Pecciolini, Matteuzzi). Dall’incontro uscì un concordato di 17 punti noto col nome di “Patto di San Casciano” (vedi in “documenti dalle fonti”). Si trattava di un testo che riprendeva espressamente il contenuto del concordato di Firenze al quale si richiamava negli articoli riguardanti l’abolizione dei patti accessori, la divisione a metà delle spese per gli anticrittogamici e il carico di quelle di frangitura e di trebbiatura sul proprietario. Unica differenza sostanziale risultava l’omissione del contenuto dell’articolo primo del concordato di Firenze che sanciva da parte padronale il formale riconoscimento della Federazione dei Mezzadri come rappresentante della classe colonica. Era questo il punto attorno al quale si erano concentrate le principali resistenze dei proprietari e a causa del quale forse lo stesso concordato di Firenze non era stato applicato da parte padronale. Al principio della contrattazione collettiva sostenuto dalla Federazione Mezzadri, i proprietari e l’Agraria contrapponevano infatti il diritto alla contrattazione individuale con ciascun colono. In effetti, anche durante l’agitazione dei mezzadri sancascianesi, i proprietari del comune avevano ripetutamente cercato di aggirare i propositi di risoluzione collettiva dello sciopero tentando di accordarsi con i propri coloni. Ciononostante, alla fine, il 20 settembre 1919 l’avvocato Giovanni Chiostri in rappresentanza dei proprietari del mandamento di San Casciano ed Enrico Frascatani per la Federazione Mezzadri firmarono il testo del Patto di San Casciano. L’avvenimento venne festeggiato nuovamente con una grande manifestazione pubblica al Teatro Niccolini di San Casciano nel corso della quale parlarono Felice Bacci, Mario Augusto Martini ed Enrico Frascatani.

Benché poi di fatto disatteso, anche a seguito dell’ulteriore evoluzione che l’agitazione mezzadrile assunse in tutta la provincia nel corso dell’anno successivo, il Patto di San Casciano avrebbe avuto ciononostante sensibili ripercussioni. Sul piano municipale anzitutto, esso rilanciò il peso del nascente movimento cattolico e del PPI, il quale a San Casciano, in occasione delle elezioni amministrative del 1920, ottenne la maggioranza ed espresse a sindaco del comune Primo Calamandrei, l’iniziatore dell’organizzazione cattolica contadina locale. In secondo luogo, sul piano delle rivendicazioni coloniche, il patto di San Casciano, benché in sostanza riproponesse il contenuto del concordato fiorentino del precedente agosto, in quanto scaturito da uno sciopero assunse una valenza di portata provinciale nella prima fase del movimento di riforma dei contratti colonici. Di fatto, come più tardi avrebbe ricordato lo stesso Mario Augusto Martini nel suo Le agitazioni dei mezzadri in provincia di Firenze (1921), il testo del patto di San Casciano formò la base di tutti gli altri concordati locali che in molti comuni della provincia fiorentina furono conclusi dall’organizzazione bianca nell’autunno del 1919, i quali, salvo poche eccezioni, ad esso si rifecero sostanzialmente.




Firenze, luglio ’45: il ritorno della bellezza

«Il San Giorgio di Donatello! Quale perdita più dolorosa poteva subire Firenze?», esclamò il “monument man” Frederick Hartt quando, nell’agosto del 1944, si scoprì che l’esercito tedesco, nella sua ritirata verso Nord, aveva requisito centinaia di opere d’arte custodite nelle ville toscane e provenienti dagli Uffizi, dal Bargello, da Palazzo Pitti.

Da quel momento iniziò un lavoro congiunto, almeno nelle fasi iniziali, tra Soprintendenza fiorentina e ufficiali della MFAA (Monuments Fine Art and Archives subcommission, la commissione dell’esercito alleato per la salvaguardia delle opere d’arte), per capire intanto la possibile ubicazione delle opere, in un’Italia divisa in due e con il Nord ancora molto lontano da una definitiva liberazione dalle truppe tedesche.

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Luglio 1944: soldati tedeschi trasportano a Nord il dipinto di Botticelli “Pallade e il Centauro” degli Uffizi, prelevato da villa Bossi Pucci a Montagnana (Montespertoli) [Archivio Museo Casa Siviero]

Con i tedeschi in ritarata, infatti, il più grande pericolo per le opere d’arte mobili non fu costituito solo dai bombardamenti alleati e dalle mine tedesche, ma anche dalle requisizioni che i nazifascisti iniziarono a compiere sistematicamente avanzando verso Nord: centinaia di opere furono prelevate dai vari rifugi e, lungo una rincorsa per tutta Italia, scortate in depositi in Alto Adige e in alcuni casi in Austria e Germania.

A tali ritiri, effettuati per motivi diversi (sincera protezione delle opere, tesaurizzazione di beni in vista della imminente fine della guerra, illecite sottrazioni destinate a singoli collezionisti), si aggiunsero furti di intere collezioni di famiglie ebree o “nemiche”.

Se nel senese e nel pisano si registrarono solo casi isolati di requisizioni o furti, nell’area fiorentina l’estate del 1944 fu un momento cruciale per i ritiri e le razzie di opere d’arte. Tra la fine di giugno e l’inizio del luglio 1944 dalla villa di Montagnana nel comune di Montespertoli furono sottratti centinaia di quadri della Galleria Palatina e degli Uffizi (come il Bacco di Caravaggio e Pallade e il centauro di Botticelli). A fine agosto fu la volta della villa medicea di Poggio a Caiano, dove furono prelevate in più giorni 58 casse contenenti sculture come la Venere dei Medici degli Uffizi e le più note sculture rinascimentali del Bargello, come il San Giorgio di Donatello e il Bacco di Michelangelo.

Già dall’agosto 1944, il soprintendente alle Gallerie fiorentine Giovanni Poggi e gli uomini della MFAA lavorarono senza sosta per capire dove potevano trovarsi le opere requisite: la ricerca comportò l’indispensabile azione diplomatica dell’arcivescovo di Firenze Elia Dalla Costa, e le sue indagini attraverso i canali del Vaticano. Nell’autunno del 1944 iniziarono a trapelare le prime informazioni sulla possibile presenza in Alto Adige dei depositi e finalmente nel maggio 1945 furono individuati i due rifugi: si

Alto Adige, Campo Tures, Castello di Neumelans. Filippo Rossi e Deane Keller davanti alle opere del Bargello, maggio-giugno 1945

Alto Adige, Campo Tures, Castello di Neumelans. Filippo Rossi e Deane Keller davanti alle opere del Bargello, maggio-giugno 1945

trovavano oltre Bolzano, uno a San Leonardo in Passiria e l’altro a Campo Tures a Neumelans. Al castello di Neumelans a Campo Tures furono ritrovate le opere asportate da Poggio a Caiano, Poppi, Dicomano e Soci, mentre nel deposito di San Leonardo in Passiria si trovavano i dipinti prelevati a Montagnana. La resa nazista era oramai già avvenuta quando gli ufficiali tedeschi consegnarono le chiavi e gli accurati inventari dei due depositi.

La settimana dopo arrivarono a Campo Tures da Firenze anche Frederick Hartt e Filippo Rossi, direttore della Galleria degli Uffizi, non solo per accertarsi dell’effettivo ritrovamento delle opere dei musei fiorentini, ma anche per organizzare le non semplici operazioni per il “ritorno a casa” delle opere. Dopo aver scartato la possibilità di un trasporto con autocarri, fu scelta la via del treno, nella speranza di un’imminente riattivazione dei collegamenti ferroviari tra Centro e Nord Italia.

Il 10 luglio 1945 il primo ministro sudafricano Jan Smuts scoprì finalmente all’imbocco nord della Grande Galleria dell’Appennino la targa commemorativa dell’opera di ricostruzione della Direttissima fatta dagli uomini del Railway Construction Engineers. Dieci giorni dopo, un convoglio ferroviario che trasportava, come stimò Filippo Rossi, «mezzo miliardo di opere d’arte», attraversò la Direttissima. Il 20 luglio 1945 da Bolzano erano partiti tredici vagoni con all’interno, tra gli altri capolavori, anche il San Giorgio; alle due di pomeriggio del 21 luglio il convoglio giunse a Firenze, alla stazione di Campo di Marte, accolto da Giovanni Poggi.

La cerimonia di restituzione delle opere d'arte a Firenze, 22 luglio 1945

La cerimonia di restituzione delle opere d’arte a Firenze, 22 luglio 1945

Il giorno seguente, il 22 luglio 1945, fu organizzata in piazza della Signoria la solenne cerimonia di restituzione delle opere, con la Loggia dei Lanzi stipata di dignitari alleati e italiani, il generale Edgar Hume e il sindaco di Firenze Gaetano Pieraccini. Insieme a loro, oltre alla folla esultante al passaggio del convoglio, che con le grida e gli applausi copriva il suono dei trombettisti in costume, si trovavano tutti coloro che, come Ugo Procacci, avevano trascorso gli anni della guerra a tutelare il patrimonio artistico e, gli ultimi mesi, con grande fatica, a ricollocare, ricostruire, restaurare. In vista di un’imminente riapertura di tutti i musei.

Sicuramente la cerimonia del luglio 1945 rimase un evento storico, e nella nota biografica che Procacci stilò, su richiesta di Pieraccini, per motivare la cittadinanza onoraria ad Hartt, ricordò con emozione quel giorno in cui «furono fatti i festeggiamenti per la riconsegna dei grandi tesori delle nostre gallerie», il giorno in cui Hartt «diceva, commosso fino alle lacrime, che quello era uno dei momenti più belli della sua vita».




Teresa Meroni e la marcia delle donne

Chi era Teresa Meroni? Quale fu il suo impegno di sindacalista e attivista per la pace durante il periodo della Grande Guerra? Rispondere a queste domande significa approfondire non solo la storia personale che la portò in Val di Bisenzio, ma anche indagare le condizioni socio-economiche che caratterizzavano quel territorio di precoce industrializzazione posto a Nord di Prato.

Legata al lombardo Battista Tettamanti da una “scandalosa” relazione che sarà sancita da matrimonio civile solo nel 1930 (tra l’altro dopo la nascita dell’unico figlio Vladimiro), la Meroni nacque a Milano nel 1885 da una famiglia operaia e subito, da giovanissima, si iscrisse al Partito Socialista da poco nato a Genova. L’attività politica e sindacale che svolse nel comasco accanto a Tettamanti, a cui nel 1915 fu affidata la segreteria della Lega Laniera di Vaiano,  avrebbe posto le premesse alle battaglie condotte successivamente in Val di Bisenzio. La sua vicinanza profonda al mondo contadino e operaio del comasco maturò in lei una forte consapevolezza del fatto che i diritti dei contadini e degli operai sarebbero stati conquistati solo grazie alla rivoluzione (Teresa era una seguace del socialismo rivoluzionario alla Sorel).

Giunta in vallata appena trentenne Teresa Meroni si trovò di fronte a una situazione socio-economica diversa da quella a cui era abituata nel comasco: in Val di Bisenzio le fabbriche tessili erano legate al ciclo della lana “meccanica” o rigenerata e le famiglie contadine seguivano il modello della mezzadria toscana. Erano tempi difficili, ma c’era la speranza di un miglioramento della vita quando si lasciava la campagna per andare a vivere in città. Speranza che andò esaurendosi con l’entrata in guerra dell’Italia, avvenuta il 24 maggio 1915.

All’inizio della Prima Guerra Mondiale Tettamanti fu richiamato alle armi nel 171° battaglione della milizia territoriale e Teresa Meroni si trovò a sostituirlo, assumendo la guida della Lega Laniera di Vaiano. Si trattò di un fatto epocale, perché la Meroni prima di allora non faceva parte nemmeno del Consiglio Direttivo della Lega, come del resto nessun’altra donna. Da allora si distinse per la sua strenua attività di pacifista, tant’è vero che il commissario Luigi Morelli, in una testimonianza del 19 luglio 1917, affermò che la donna per mesi cercò di “catechizzare le donne e i ragazzi, e indurli a fare una dimostrazione contro la guerra”.

In effetti i sospetti del commissario di pubblica sicurezza non erano infondati: il 2 luglio 1917 da Luicciana, piccola frazione di Cantagallo, partì una marcia di quattrocento donne alla volta di Prato. Il gruppo di protesta passò davanti ai principali stabilimenti produttivi di Vernio. Decisero di unirsi alla manifestazione le “fabbrichine” del tappetificio Peyron a Mercatale e anche quelle contadine per lo più provenienti da Gricigliana, che erano entrate in fabbrica per colmare l’assenza degli uomini richiamati al fronte. L’intenzione delle scioperanti era di raggiungere Prato, così da allargare anche alla città laniera la protesta sociale contro una guerra ritenuta ingiusta e per rivendicare condizioni di vita e di lavoro dignitose. La Prefettura decise di intervenire con un reparto di cavalleggeri, ma le donne scelsero di proseguire comunque, nonostante il pericolo delle cariche.

Il corteo, che si ingrossò nei pressi di Coiano, riuscì a superare lo sbarramento dei cavalleggeri nei pressi di San Martino, dove però una decina di donne fu arrestata. La marcia riuscì comunque a raggiungere le carceri, dove furono liberate alcune donne fermate. Una volta giunta in prossimità della stazione ferroviaria, la protesta fu bloccata dalla polizia e il corteo si disperse per le vie del centro. L’agitazione però non si fermò qui: fino al 9 luglio si protrassero episodi e sommosse diffuse dalla Val di Bisenzio sino alle porte di Pistoia, e infine tutto si concluse con l’arresto di 56 persone.

Prato '50 Teresa Meroni parla alle operaie tessiliTeresa Meroni fu ritenuta (a ragione) responsabile delle agitazioni avvenute. Rimase in carcere tre mesi ma, una volta uscita, riprese la sua propaganda politica, soprattutto in favore della conquista dei diritti femminili. Per questo motivo fu allontanata dalla Val di Bisenzio e spedita al confino in Garfagnana, dove sarebbe rimasta fino alla fine della guerra.

La protesta, prettamente di stampo politico, per le autorità fu allarmante per il fatto che a guidarla fosse stata una “rivoluzionaria di professione”, ritenuta pericolosa “per le sue idee socialistiche rivoluzionarie, antimilitaristiche, maniacali”. Come ricordano Annalisa Marchi e Alessandro Cintelli, l’idea mazziniana di donna paragonabile a un “angelo della famiglia” era quanto mai una sbiadita immagine rispetto a quella dipinta dalla vita della Meroni: “dal punto di vista delle autorità di polizia, a ragione Teresa risultava un’agitatrice estremamente pericolosa perché la sua opera di propaganda scardinava i punti fondanti della mentalità del tempo, giustificando nell’immaginario collettivo l’idea che le donne potessero mettersi a capo della rivolta contro la guerra” e pretendere un ruolo che non fosse subalterno come quello che le donne avevano avuto sino a quel momento.

Luisa Ciardi si è laureata in storia contemporanea all’Università di Firenze con una tesi sulla storia sociale d’impresa. Ha frequentato il master di archeologia industriale presso l’Università di Padova e attualmente lavora presso la Fondazione CDSE della Valdibisenzio e Montemurlo. Le sue ricerche spaziano dalla storia locale alla storia dell’industria, alla storia della seconda guerra mondiale, con un particolare interesse per la storia orale. è membro dal 2012 di AISO (Associazione Italiana di Storia Orale).

Tra le sue pubblicazioni si ricordano: 

Il lanificio Silvaianese. Un’azienda a misura di famiglia e di territorio (1945-1989) , Prato, Pentalinea, 2011.

La Spiga e la Spola: contadini e operai nella Vaiano degli anni ’50, in Alle origini del Comune di Vaiano (1949-1951), Catalogo della mostra, a cura di A. Cecconi, Prato, CDSE della Valdibisenzio, 2011.

I pratesi, contadini, operai, imprenditori. L’etica del lavoro a Prato nel passaggio fra agricoltura e industria, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Il fiuto dei Bardazzi per la lana. La famiglia vaianese e la rete di finanziamento informale alle industrie della Valle, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Letizia Magnolfi si è laureata in Scienze Storiche nel 2012, con una laurea magistrale in Storia delle Dottrine Politiche. Ha collaborato con la Fondazione CDSE di Vaiano per la realizzazione della mostra 1944: l’ultimo anno di guerra a Schignano (aprile 2011) e ha recentemente vinto un concorso fotografico intitolato Immaginare…ascoltare, ricreare il lavoro, sempre a cura della Fondazione. Attualmente sta svolgendo un tirocinio di formazione presso la Rete Civica del Comune di Prato.

Tra le sue pubblicazioni:
A  proposito dell’USIA. Il ruolo dei mezzi di comunicazione negli anni ’60 della guerra fredda, Instoria, N. 42, Giugno 2011 (LXXIII)
Dal movimento Demau al femminismo di Oggi. Cosa è rimasto?, Instoria, N.41, Maggio 2011 (LXXII)




L’VIII Armata britannica nel Chianti

Per l’VIII Armata di Sua Britannica Maestà, la traversata del Chianti venne subito dopo il ciclo di combattimento culminato con l’ingresso tra le rovine di Arezzo il 16 luglio 1944, e subito prima dell’altro ciclo, che portò alla liberazione di Firenze, iniziatosi il 13 agosto.

Nei cimiteri militari britannici di Arezzo e di Firenze sono sepolti – rispettivamente – 1.266 e 1.632 caduti: totale quasi 3.000 cadaveri di ragazzi biondicci di capelli e con la pelle chiara degli Inglesi e dei Neozelandesi, oppure con la pelle color oliva scuro e gli occhi nerissimi degli Indù e a volte anche con il barbone nero e il turbante dei Sikh. Si calcolava che i feriti fossero, in genere, tre volte più dei morti. In paragone, quel mesetto che durò l’avanzata da Arezzo a Firenze attraverso il Chianti fu come un respiro, relativamente ai giorni di bufera che l’avevano preceduto e l’avrebbero seguito. Anche se fu un respiro pagato con qualcosa come 10.000 “casualties”: il termine tecnico inglese per indicare il complesso dei morti accertati, degli scomparsi e dei feriti.

Neanche l’avanzata nel Chianti, però, fu una piacevole escursione. A parte qualche sparatoria nei boschi ogni tanto con le retroguardie nemiche, c’era l’incubo delle mine, che i tedeschi avevano seminato dappertutto: magari dietro l’uscio di una casa perché chi vi entrava saltasse in aria oppure, con lugubre umorismo teutonico, sotto un cadavere perché chi lo voleva seppellire, lo andasse a raggiungere nell’altro mondo. E ogni tanto le belle sventole delle granate, perché un osservatore nascosto chissà diavolo dove, aveva scorto col cannocchiale la polvere sollevata da una nostra colonna di automezzi.

Un’estate toscana è sempre bruciata dal sole e molto calda. Ma quella del 1944 fu ancora più rovente del solito: per quei poveri ragazzi biondicci e con la pelle chiara, in battle-dress khaki e con l’elmetto a bacinella degli inglesi, doveva essere un supplizio farsi arrostire da quel sole feroce.

Chi scrive era allora uno scalcinato 2nd Leutenent I.F. (sottotenente delle Forze Italiane) e gironzolava in jeep sul fronte, col suo diretto superiore: un capitano inglese di cittadinanza, ma ebreo egiziano di stirpe, e quindi scaltro come solo un ebreo levantino può esserlo. L’uomo giusto al posto giusto, insomma, visto che lui ed io appartenevamo a un’unità di Intelligence Service, camuffata col nome fasullo di Psychological Warfare Branch (forse per buttare un po’ di polvere negli occhi ai “servizi” dei cugini americani?). L’ordine per noi era di tallonare, con la nostra jeep, la prima avanguardia di carri armati per il caso che ci fosse da scoprire “a caldo” qualcosa di interessante abbandonato dai nemici nella fretta di ritirarsi. I cingoli dei carri armati sollevavano veri “geyser” di polverone e lo gettavano sulla faccia, ridotta a un mascherone di sudore e sudiciume. E quelle sventole maledette delle granate arrivavano sempre più fitte e vicine, a mano a mano che si andava avanti. Infine, come Dio volle, arrivammo a una cittadina, che assomigliava a Pompei, tanto era ridotta in rovine dai bombardamenti aerei e di artiglieria e tanto era spopolata di abitanti: San Casciano in Val di Pesa.

Acquattata dentro le rovine di un ristorante, che ancora oggi esiste, c’era una compagnia di neozelandesi, che aspettava buio per scendere a dare un assalto verso il Ponte dei Falciani. Il relativo respiro che avevamo avuto durante la traversata del Chianti era finito. Eravamo daccapo in ballo. E bisognava ballarlo, sperando nel buon Dio perché ci facesse arrivare alla fine della danza senza buchi nella pelle.

L’articolo, scritto nel 2005 dal prof. Giorgio Speni per la rivista “inChianti” n. 2 di quell’anno, è stato gentilmente concesso da Gabriella Congedo.




All’alba della Costituzione italiana

Il 2 giugno 1946, all’indomani del ventennio fascista ed a poco più di un anno dalla Liberazione e dalla conclusione del conflitto sul nostro suolo, il popolo italiano fu chiamato a scegliere tramite referendum tra la monarchia e la repubblica e contemporaneamente ad eleggere i deputati all’Assemblea Costituente.

Le cronache dell’epoca raccontano che gli italiani sfidando la calura di una domenica di fine primavera – inizio estate, in modo composto, disciplinato e tradendo emozione attendono pazientemente all’esterno dei seggi il loro turno.

L’affluenza alle urne sarà vicina al 90% e ciò testimonia la grande voglia di partecipazione e di esprimere il proprio voto in modo libero.

Il referendum fu favorevole all’istituto repubblicano che conseguì il 54% dei consensi contro il 46% raggiunto dalla monarchia. A sua volta le consultazioni per l’Assemblea Costituente si caratterizzarono per il successo dei cosiddetti “partiti di massa” (DC, PCI, PSIUP) che ottennero ben 426 seggi su 556 a disposizione, cioè i ¾ del totale.

Tra coloro che furono eletti in Assemblea ci furono anche Calogero Di Gloria, Palmiro Foresi, Abdon Maltagliati e Attilio Piccioni, tutti candidati nella circoscrizione elettorale Firenze – Pistoia la quale annoverò anche Sandro Pertini e Teresa Mattei.

Ma chi erano i costituenti eletti. Di che cosa si occuparono in Assemblea?

Di GloriaCalogero Di Gloria nasce a La Spezia nel 1917, uomo di raffinata cultura, professore di storia e materie letterarie nei principali istituti cittadini, autore di poesie e padre fondatore della “Brigata del Leoncino”, associazione culturale cittadina organizzatrice di eventi, manifestazioni, momenti di approfondimento su tutte le forme dell’arte e delle scienze. Con le elezioni del 2 giugno 1946 sarà eletto nelle liste del PSIUP nella circoscrizione elettorale Firenze – Pistoia

In sede assembleare intervenne in materia di rapporti civili, sull’ordinamento di Regioni, Province e Comuni ed infine sull’architettura istituzionale del futuro Stato repubblicano.

Rispetto all’ordinamento degli enti locali insisteva sulla necessità di rafforzare le province attraverso l’assegnazione di maggiori risorse economico – finanziarie ed espandendo i loro poteri di intervento, solo in questo modo avrebbero potuto rispondere efficacemente ai bisogni dei rispettivi territori.  In relazione all’architettura istituzionale evidenziava l’opportunità della creazione di un sistema bicamerale e la necessità di dare luogo ad un Senato elettivo, inoltre si dichiarava a favore dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica mentre l’esecutivo avrebbe dovuto distinguersi per efficacia, efficienza e la capacità di rispondere agli interessi del Paese. Il 10 agosto 1997 terminerà di vivere.

Pistoia 3Palmiro Foresi nasce a Livorno nel 1900 da padre di simpatie repubblicane mentre la madre morirà prima che lo stesso raggiungesse i due anni di vita. Si dedica agli studi liceali e universitari, conseguendo la laurea in fisica e giurisprudenza, insegnando matematica presso l’istituto privato “Giuseppe Guerrieri” con sede nella città labronica, assumendo successivamente l’incarico di assistente di diritto ecclesiastico presso l’università di Pisa.

In politica è ricordato tra l’altro per essere stato uno dei fondatori del PPI Livorno, mentre nell’ottobre 1944 è eletto segretario provinciale della DC pistoiese.  L’incarico di maggior prestigio sarà l’elezione alla Costituente con le consultazioni del 2 giugno 1946 con quasi 7000 preferenze. Nella medesima fece parte della Commissione per l’esame dei disegni di legge che vide la partecipazione di autorevoli personalità quali Piero Calamandrei e Nilde Jotti. Tra i suoi interventi e contributi si ricorda in particolare quello relativo alla stesura dell’articolo 45 che recita così: «La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità. La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato».  Con esso si intendeva disciplinare l’impresa cooperativa e l’impresa artigiana cercando di tutelare la cooperazione con finalità di mutualità.

Foresi sarà poi rieletto anche nelle prime due legislature del Parlamento repubblicano e svolgerà anche un ruolo importante relativamente a vicende locali quali quella che vide contrapposte la Lazzi e la SACA, aziende di trasporto pubblico della provincia di Pistoia, inoltre sarà determinante per la risoluzione del contrasto tra imprenditori agricoli e lavoratori delle aziende ortovivaistiche e che si concluse con la firma del “Lodo Foresi” nel dicembre 1954. In seguito sarà Presidente dell’Ente Nazionale Previdenza ed Assistenza Statali, consigliere al comune di Roma e capogruppo della DC. Si spegnerà nel dicembre 1980.

Abdon Maltagliati nasce a Vellano (Pescia) il 7 novembre 1894 da famiglia di contadini poveri, condannato a 22 anni di carcere per i fatti di Empoli (ingiustamente accusato) e dal quale vi uscì nel 1932. Si rifugia inizialmente in Francia e successivamente in Unione Sovietica dove svolse il ruolo di direttore della Radio Italiana di Mosca, per poi rientrare nel novembre 1945 a Pistoia, dopo aver effettuato un esperienza anche nell’esercito sovietico. Segretario della Camera del Lavoro di Pescia, il 2 giugno 1946 sarà eletto nelle liste del PCI deputato alla Costituente dove si occupò principalmente dei temi del lavoro e dei lavoratori e pur non contribuendo a scrivere materialmente gli articoli riconducibili al principio lavorista cioè a quel principio che considera il lavoro come strumento di realizzazione della personalità di ciascun individuo. Il suo impegno e la sua attività saranno alquanto importanti nell’affermazione di quei principi precedentemente elencati. Cesserà di vivere il 10 novembre 1957.

Pistoia 4Attilio Piccioni nasce a Poggio Bustone in provincia di Rieti il 14 giugno 1892. Di professione avvocato sarà eletto per la lista della D.C. alle elezioni del 2 giugno 1946. Farà parte della Commissione dei 75 cioè quella che contribuirà alla stesura materiale del dettato costituzionale. Egli interverrà sul tema delle autonomie locali e in particolare sull’istituzione dell’ente Regione per il quale dichiara di essere a favore della sua creazione giudicata dallo stesso come baluardo per le libertà dei cittadini e per le libertà democratiche del Paese, affidando loro anche una potestà legislativa rispettosa comunque dell’ordinamento statale. Oltre al tema illustrato interverrà anche sulla formazione e la composizione della seconda Camera cioè del Senato, auspicando che questi sia su base regionale.

Sarà poi ricordato per aver svolto il ruolo di Ministro degli Esteri dal quale si dimetterà nel settembre 1954 a seguito del coinvolgimento del figlio Piero nello scandalo “Montesi”.  In seguito sarà rieletto al Parlamento ininterrottamente fino alla legislatura che si conclude anticipatamente nel 1976, anno in cui viene a mancare.

Filippo Mazzoni nasce a Pistoia nel 1972. E’ laureato in Storia e Scienze Politiche. Collabora con l’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia di cui fa parte anche del Consiglio Direttivo. É autore della pubblicazione “La federazione comunista pistoiese dalla Liberazione al <<terribile>> 1956 (2003), ha collaborato assieme ad altri ricercatori alla stesura del volume “Pistoia fra guerra e pace” (2005) ed ha curato con P. L. Guastini e G. F. Marcucci “All’alba della costituzione italiana. I quattro costituenti pistoiesi (2008). É inoltre autore della pubblicazione “Una storia da non dimenticare. Ricostruzione storica dell’eccidio del 31 marzo 1944 alla Fortezza S. Barbara (2008 e ristampa 2015). Infine per conto della casa editrice Ibiskos ha pubblicato “Il terribile quindicennio (1969 – 1984). La storia delle stragi raccontate ai ragazzi” (2014). Con Stefano Bartolini ha curato il recupero dell’Archivio “Andrea Devoto” conservato presso il Polo delle Scienze Sociali dell’Università di Firenze, inoltra collabora con la rivista “QF – Quaderni di Farestoria” edita dall’Istituto.




Firenze davanti alla guerra

Dal 2 agosto 1914 al 24 maggio 1915 le manifestazioni a favore e contro la guerra si distinsero a Firenze per tre elementi: un progressivo intensificarsi della violenza, un continuo ripetersi e una larga diffusione nel tessuto cittadino.

Il fronte interventista era ben radicato tra la borghesia, una parte dell’aristocrazia e una folta schiera di intellettuali e personalità pubbliche. A dicembre il gruppo nazionalista rinunciò addirittura alla campagna elettorale delle elezioni comunali per dedicarsi esclusivamente alla propaganda interventista «per agitare e tener desto con comizi, conferenze, dimostrazioni lo spirito pubblico contro i neutralisti di ogni colore. […]”». Sul fronte opposto il neutralismo si radicò profondamente nelle zone popolari ad alta concentrazione operaia, come San Frediano, Porta alla Croce, S. Lorenzo, S. Spirito.

I loggiati di piazza Vittorio Emanuele (oggi piazza della Repubblica) divennero, secondo “Il Nuovo Giornale”, «la palestra più comoda per le diatribe fra neutralisti e interventisti».

1. Equilibrio_europeo_1914Nonostante l’imposizione salandrina di tenere comizi “privati” con invito in modo da evitare manifestazioni in luoghi pubblici e, dunque, disordini, questi scoppiavano lo stesso all’uscita di  tali ritrovi. Così accadde dopo una conferenza del professor Della Torre sul poeta e pubblicista dalmata Arturo Colautti. I partecipanti, in maggioranza studenti, si recarono in piazza Duomo cantando l’inno di Mameli e inneggiando alla guerra. L’urto con i socialisti «si tradusse in una vera e propria battaglia a colpi di bastone, pugni e calci». Dopo ripetute cariche, disposti i cordoni di truppa, e eseguiti alcuni arresti la situazione tornò lentamente alla normalità [ACS, MI, DGPS, DAGR, A5G, b. 94, f. 212 (Firenze), sf. 1, rapporto del Prefetto Cioja, 1-12-1914].

Talora furono i giornali oggetto di violenze popolari. All’uscita della conferenza dell’ex podestà di Fiume Icilio Baccich nel salone dell’Unione liberale a cui avevano partecipato circa 400 uditori, tra cui molte personalità pubbliche cittadine, alcuni di questi si recarono sotto «La Nazione», la cui redazione fu circondata e presa d’assalto, quasi in un improvviso chiarivari.  L’urto con la polizia e «plotoni di guardie e di carabinieri» si consumò in piazza Vittorio Emanuele, con numerose cariche delle forze dell’ordine e arresti di massa, tra cui quello di Francesco Giunta e Ezio Maria Gray, future personalità di spicco fasciste, e del giornalista del «Nuovo Giornale», Orazio Pedrazzi, che descrisse l’esperienza drammatica dell’arresto e della camera di sicurezza. Alla vista dei fermi, una signora plaudì all’azione della polizia provocando la reazione dell’avvocato Eugenio Coselschi – futuro creatore dei CAUR fascisti – che la accusò di essere tedesca, mentre la folla invase la birreria «Mucke» al suono dell’inno di Mameli causando altre colluttazioni e altri arresti fino a mezzanotte.

A partire dalla primavera gli scontri si fecero sempre più frequenti, spontanei e gravi (anche per la diffusa detenzione delle armi) e si allargarono ad altre parti della città. La commemorazione della partenza dei Mille fu un nuovo pretesto per altri disordini: il 6 maggio gli studenti dell’istituto tecnico Galileo Galilei imposero l’esposizione della bandiera e la sospensione delle lezioni prima nel loro istituto poi in altri.

3. cpc terzaghiIl 17 maggio «La Nazione» scriveva»: «[…] le dimostrazioni patriottiche non si contano più. Ad ogni momento echeggiano in piazza Vittorio Emanuele, che è affollatissima, applausi e grida entusiastiche. Vengono lanciati palloncini con appese bandierine tricolori». In quei giorni il ministro delle Colonie, Martini, annotava sul suo diario: «se non ci sarà la guerra esterna ci sarà la guerra civile» e la stampa si chiedeva: «si va dunque alla guerra contro lo straniero o alla guerra civile?».

Anche gli atti vandalici o offensivi nei confronti di cittadini tedeschi (o presunti tali) o contro tutto ciò che era riconducibile alla Germania e all’Austria vanno letti alla luce di un dissenso verso la guerra, anche trasversale ai due opposti schieramenti: fu danneggiata una farmacia di proprietà di tale Hans Klatzsch (o Klotzsch) [ACS, MI, DGPS, Ufficio riservato 1911-1915 C. 2, b. 83A, consultato in copia presso ISRT, Nota della prefettura di Firenze, 22-8-1914]; alla stazione alcune famiglie di tedeschi furono prese di mira da studenti che fecero una dimostrazione patriottica creando tafferugli bloccati dalle forze dell’ordine; il signor Carlo Strauss fu oggetto di un incidente e tacciato di essere una spia; il console tedesco Oswald fu inseguito da un gruppo di interventisti al grido «Va fuori d’Italia, va fuori straniero!»; alcuni studenti ruppero il vetro dell’ufficio Loyd germanico che esponeva nelle vetrine telegrammi provenienti da Berlino e fotografie di soldati tedeschi [ACS, MI, DGPS, DAGR, A5G, b. 96, f. 212 (Firenze), sf. 10, ins. 1, rapporto del prefetto Cioja, 21-3-1915].

Le autorità pubbliche controllarono in modo ferreo Firenze e la sua provincia, soprattutto i gruppi di socialisti (per esempio Michele Terzaghi o il giornale socialista «La Difesa») e gli anarchici (soprattutto a Empoli e Montelupo), ma la miccia era ormai innescata.

5. gambrinusIl musicista Castelnuovo-Tedesco, cui era stato dato l’incarico di scrivere il canto patriottico Fuori i barbari!, in un suo libro di memorie avrebbe ricordato la sera della vigilia così: «Quando lo suonai quella sera in casa Corcos, suscitò l’entusiasmo generale; Ugo e i Rotigliano mi trascinarono fuori, mi portarono in piazza Vittorio Emanuele; al Caffè Gambrinus, dove ogni sera si adunavano i dimostranti, cacciarono l’innocua orchestrina del caffè che stava suonando, e mi misero lì, sopra un palco, al pianoforte, ad insegnare il canto alla folla! Era il 23 maggio 1915, proprio alla vigilia della dichiarazione di guerra: il giorno dopo l’Italia entrava in guerra a fianco degli Alleati, e poche settimane dopo i soldati cantavano il mio inno marciando verso le trincee».

Camilla Poesio ha conseguito il dottorato di ricerca nel 2009 presso l’Università Ca’ Foscari Venezia. Ha ricevuto due premi per la tesi di dottorato e una segnalazione per il suo secondo libro. È attualmente ricercatrice post dottorato presso l’Università Ca’ Foscari Venezia in cooperazione con la Fritz Thyssen Stiftung fino al 2016. Ha svolto attività di ricerca presso enti di ricerca pubblici e privati sia in Italia sia all’estero (Università Ca’ Foscari, Universität Bielefeld, Frei Universität Berlin, Fondazione Salvatorelli, Deutsches Historisches Institut in Rom). I suoi ambiti di ricerca sono la storia dell’Italia e della Germania del XX secolo in prospettiva comparata e transnazionale, i rapporti fra fascismo italiano e nazismo, i diritti umani, l’uso della violenza, la memoria pubblica e privata. Ha scritto il capitolo su Firenze e Provincia nel volume curato da Fulvio Cammarano, Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia, Le Monnier, Firenze, 2015.




L’esame di maturità in tempo di guerra

Primavera-estate 1944. Una fanciulla sta preparando gli esami di maturità. Si chiama Maria Mazzei e non ha ancora diciott’anni. Appartiene a un’antica famiglia fiorentina, una famiglia di intellettuali e di studiosi. Maria invece non ha molta voglia di studiare, è vivace, romantica e sognatrice. E come tante ragazze della sua età si confida a un diario, dove il suo stato d’animo oscilla fra lo sgomento per quanto sta accadendo e un’incontenibile gioia di vivere. In sottofondo, sempre, la preoccupazione per l’esame che incombe.
Mentre lei si affanna sui libri il mondo sta andando a ferro e fuoco. La guerra travolge uomini e cose e Maria si rende conto che il suo tempo di bambina è finito.

14 aprile ‘44 Fonterutoli [Il borgo e la villa di Fonterutoli, antica proprietà della famiglia Mazzei, sono situati 5 km a sud di Castellina in Chianti.]
Sono tornata ora da Firenze in macchina perché ieri hanno fatto scendere i passeggeri dalla Sita per i mitragliamenti. Ho finito la scuola. Mi hanno interrogata, sono passata e ora mi accingo a provare a fare l’esame di III liceo.

23 aprile ‘44
Ieri c’è stato un gran passaggio di apparecchi per due ore. Ero in giardino, mamma era in terrazza con la Viola che le insegnava a filare la lana. Ho guardato in su, dal giardino verso casa, in terrazza una vecchina ricurva alzava le braccia “segnando” il cielo con una croce, era la Viola che “contraddiceva gli aeroplani”.

25 aprile ‘44
Mio fratello Lapo, andato a Firenze ieri sera, è stato rispedito da papà a tutto razzo. Ieri alle 5 ½ di mattina hanno perquisito tutta la casa, si sono confusi visto la conformazione di casa nostra e non sono andati né in dispensa né in camera della nonna. Cercavano le armi. Dunque naturalmente niente esame a Firenze, è pericoloso, non rimane che dare gli esami a Siena ma dicono che i professori sono pestiferi. La leggenda racconta che il prof. di Storia fa dire “tutti i Papi all’indietrina” da oggi al Medio Evo.

2 maggio ‘44
Hanno bombardato Firenze. È stato tremendo, il villino Passerini raso al suolo. Patrizia Passerini e la nonna sono morte, Giovannella ferita alle gambe. Il Teatro Comunale è in fiamme, tutta un’epoca della nostra vita felice che è passata. Tutto questo non finirà mai. Ogni giorno ce n’è una nuova! Devo studiare. Potessi passare ora, così alla scuola non ci penserei più!

4 maggio ‘44
Sto studiando Rousseau, devo leggere l’Émile. Fra una settimana a quest’ora avrò già fatto gli esami. Non so proprio come farò, non so niente, possibile in così pochi giorni!

21 maggio ‘44
Sono tornata ieri dal primo gruppo di esami. Greco e latino malissimo. Italiano e storia dell’arte molto bene. Ho dormito alla pensione Ravizza con Nanda Russo. Non ho punta voglia di studiare ancora fino a martedì.

27 maggio ‘44
C’è stato un mitragliamento al Trogolo [Fonte dell’acqua potabile]. Ero in giardino con la signora Foà che mi da ripetizioni di matematica. Eravamo sotto il pergolato alle scalette quando abbiamo visto degli aeroplani arrivare da dietro la Monsanese, in quel momento passavano due camion. “Vai, questi sono fritti” abbiamo detto la signora Foà ed io. Gli aerei giravano e uno è venuto proprio in linea diretta sul Trogolo. Ci siamo schiacciate per terra tra i due muriccioli, si sentiva “ta ta ta” fortissimo e secco secco. Appena finita la prima scarica siamo andate nella “stanza dei fiori”, poi c’è stata un’altra raffica.
I camion erano pieni di sfollati che hanno fatto in tempo a buttarsi giù nei cespugli. Nessun ferito. Pensare che c’erano due donne a prendere l’acqua, diversi bambini e gli uomini a lavorare nei campi. La gente urlava. Io ero piuttosto calma, poi vedendo la signora Foà agitata mi sono agitata anch’io.

4 giugno ‘44
Roma è stata liberata. Dopo Roma ci siamo noi. Allora, o è la tragedia, o la libertà!
Cosa succederà? Cos’è questa vita? Un susseguirsi di avvenimenti vuoti. Gente che si muove, che si accanisce per un capriccio, per egoismo. E io rimango qui muta a sognare. Oddio, sono partita per il fantastico paese dei castelli di Spagna! Anche col più grande temporale questi castelli non cadono, si affievoliscono forse, ma c’è un luogo della nostra mente dove, tra le nuvole, si erigono sempre guglie e torri altissime.

Congedo16 giugno ‘44
Gli alleati sono sbarcati in Francia ma non accenna per niente a finire. Non finirà mai e si sente una grande tristezza e stanchezza. É il tocco, a mezzanotte circa hanno mitragliato, qui alla strada di sopra. E due! Speriamo di passare la notte liscia.

8 giugno ‘44
Siamo tutti molto agitati. Non sappiamo se andare a Firenze o stare qui. Prepariamo bauli e bagagli. Mi sembra la partenza dei Rostov da Mosca [Il riferimento è al romanzo “Guerra e pace” di Lev Tolstoj]. I tedeschi requisiscono tutto. Tutti hanno un viso lungo e sconcertato. Noi tre meno. Io mi diverto, mi pare di leggere un libro di cui non posso leggere l’ultima pagina!

11 giugno ‘44
Siamo sfollati a Monteporcini con tutta Fonterutoli. Non si può uscire. Nei boschi ci sono prigionieri inglesi scappati e ronde tedesche.

13 giugno ‘44
Lapo è andato a Castellina a cavallo, a Malafrasca è stato fermato, gli hanno detto di tornare indietro perché i tedeschi facevano le retate, è tornato a tutto galoppo.

14 giugno ‘44
Sono tornata da Siena dove sono andata per gli esami. Storia e filosofia male, mi hanno chiesto tutto indietro! A matematica, fisica e chimica mi sono ritirata perché non ero abbastanza preparata, specialmente in meccanica e chimica.
Stamani sono andata in giardino come sempre quando lo studio è lontano mille miglia. Ho tagliato i fiori secchi e fatto i vasi in tavola. Dopo essere stata a contatto con la città, coi professori, con i fascisti, si apprezza cento volte di più una bella rosa e un bel cavallo sotto un cielo azzurro.
La cavalla nuova è realmente molto bella, si chiama Maila. Mi sento molto abbacchiata, come un senso di giovinezza che sfugge. Che stupida! Ho una gran voglia di rose, musica, primavera, cavalli. Tutto questo è molto romantico, ma chi è il giovane che non è romantico?

26 giugno ‘44 – Siena
Siamo sfollate la nonna, mamma, Fioretta e io, in casa Piccolomini in via del Capitano.

Congedo23 luglio ‘44
Stamani alle sette sono arrivati i “liberatori”. Eravamo a letto e abbiamo sentito un gran battimano, ci siamo affacciati alle finestre, abbiamo visto quattro carri armati con gli americani, poi i partigiani in borghese con una fascia tricolore al braccio. I senesi hanno tirato fuori le bandiere del Palio. Stanotte si era sentita una gran sparatoria di cannoni e proiettili che fischiavano sulla testa. È passato anche il famoso aeroplano che chiamano la Vedova, che ha ispezionato vicino al Duomo. Le truppe sono quasi tutte francesi e marocchine.

4 luglio ‘44
Le truppe aumentano, ce ne sono di tutti i colori, col turbante bianco, marocchini, negri.

16 luglio ‘44
Ieri finalmente sono venuti da Fonterutoli papà e Lapo. La casa è in buona parte distrutta. Non rimangono che il salotto verde e la cucina. La facciata è cascata e le camere sprofondate. Dall’ingresso si vede il cielo. La chiesa ha subito più o meno la stessa sorte, così la fattoria e le case intorno. Tutto il paese sfollato a Monteporcini è stato nel rifugio per 14 giorni con cannoneggiamento continuo. Ma il tremendo è che tutto è minato, non si può fare un passo. Il Bruni, marito della Leontina, alla Fonte vicino all’orto è uscito un attimo fuori strada e una mina gli ha portato via una gamba. Tullio, Nello e altri uomini sono stati portati via dai tedeschi. La cavalla Maila è stata portata via e Stellino è morto di fame. Lapo voleva cercarlo ma un ufficiale francese gliel’ha impedito per via delle mine.
La linea di resistenza era tra Fonterutoli – Vagliagli – Brolio. È tremenda l’idea di tornare lassù e dover ricostruire. Poter andare lontano, in un paese dove la guerra non esiste, dove tutto è calma e tranquillità. Dimenticare tutto, addormentarsi, svegliarsi e ritrovare tutto come prima.

18 luglio ‘44
Ieri sono venute a trovarmi la Lucia ed Enzina raccontandomi tutte le storie di Fonterutoli.
Ormai questa è una vita che bisogna prendere con coraggio, conservare la propria dignità mantenendosi nelle disgrazie allegri, calmi e sereni in barba a tutti. Solo così si riprendono energie. “Non bisogna rimanere dei pulcini quando ci vogliono delle aquile” (Padre Crawley).

28 luglio ‘44
Sono ancora a Siena in casa Piccolomini. Gira la voce che sia stato trovato vicino a Livorno il corpo di Franco Stucchi. Non è possibile che Franco sia morto, era così poco maturo per la morte! Prima o poi lo vedremo tornate in via Santa Monaca o a Fonterutoli. L’ultima volta che è venuto a Fonte ha detto, riguardo a non so cosa: “Ché, ho scampato anche questa, sono troppo pelle dura!”.
Con questo è finita la vita di bambina beata dalla testa ricciuta, tempo felice e spensierato!

1 agosto ‘44 – Petraglia
Sono qui da Carlo e Giulia, c’è tranquillità per… studiare. Ma naturalmente ne ho pochissima voglia.
11 agosto ’44
È passato Francesco Griccioli – partigiano. Ci ha detto che Giovannella Passerini è morta di setticemia per le ferite del bombardamento.

28 agosto ’44
Lapo è venuto a prendermi. Stasera torno a Fonterutoli. Non ho proprio voglia di studiare. Mercoledì devo andare a Siena per la lezione.

24 settembre ’44 – Fonterutoli
Ieri è tornato Lapo da Firenze. C’è una gran fame, non si trova niente.
Si comincia ad avere notizie degli amici. Anche Diamante deve dare gli esami. Come vorrei che questi giorni fossero passati, ancora due settimane, è un’agonia sempre più lenta ma poi farò zompi fino al soffitto se sarò passata.

9 ottobre ‘44
Stamani ho fatto l’esame. Filosofia benino. Scienze male, il prof. ha scritto col lapis 4, poi lo ha cancellato e ha detto: vedremo. Matematica appena appena la sufficienza. Giovedì ci sarà greco.
Abbiamo avuto finalmente notizie degli zii e cugini. Tutti salvi.

14 ottobre ‘44
Ieri ho finito i miei esami. Fossi passata! Chissà… Ho qualche speranza. Oggi comincio la mia vita di libertà!

18 ottobre ‘44
Ripenso alle persone care che questa guerra si è portata via. Hanno trovato il corpo di Franco fucilato vicino a Volterra [Franco Stucchi Prinetti, partigiano, è stato fucilato dai tedeschi a Castelnuovo Val di Cecina il 14 giugno 1944 insieme al cugino Gianluca Spinola e ai due ex soldati Vittorio Vargiu e Francesco Piredda]. Anche Sandra Settepassi, mia compagna di banco al ginnasio, è morta “proditoriamente uccisa dai tedeschi con altre donne e bambini per una rappresaglia” [Sandra Settepassi è una delle 174 vittime dell’eccidio del Padule di Fucecchio (23 agosto 1944)], così era scritto sul giornale. Giovannella Passerini quando era a Fonterutoli diceva sempre che aveva paura dei bombardamenti e scherzando diceva che se moriva sarebbe venuta a farci visita come fantasma, la sera. Mio cugino Franco Fabbricotti è morto pochi mesi dopo il ritorno dalla prigionia in Germania, per meningite tubercolare.

19 ottobre ‘44
Sono passata, sono matura! Io, non andare più a scuola. Compio diciotto anni tra due mesi. Sono libera! Sono qualcuno! Ma tutto questo si perde nel nulla, nel tran tran dell’universo.