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Museo Comunale del Figurino Storico di Calenzano

roccahomeSede e contatti
Castello di Calenzano, via del Castello 7 – 50041 Calenzano (Firenze)
Telefono e fax: 055.0500234
E-mail: segreteria@atccalenzano.it
museofigurinostorico@atccalenzano.it
Sito web: http://www.museofigurinostorico.it/
Orari di apertura: giovedì 9-13; venerdì 14:30-18:30; sabato e domenica 9-13 e 14:30-18:30.

Organi dirigenti
Il Comune di Calenzano e l’Associazione Turistica Calenzano si occupano della  gestione delle strutture, coadiuvati da molti volontari e associazioni locali e  nazionali.
Direttore scientifico Museo: Cristina Cisternino

Breve storia e finalità
Il castello di Calenzano rappresenta una preziosa testimonianza storica e archeologica. Sorto nel XII secolo, è stato protagonista della vita toscana in tutto il Medioevo. Nel corso dei secoli è stato ampliato e ricostruito, assumendo la veste attuale di borgo fortificato che presenta ancora elementi risalenti al XIII e al XIV secolo.
Dopo un lungo e accurato restauro, nel 2004 una parte del castello è stata aperta al pubblico, allo scopo di offrire ai cittadini e ai visitatori numerose iniziative legate alla cultura e alla storia. Si è iniziato il 27 giugno con l’inaugurazione del Museo Comunale del Figurino Storico, dedicato a tutte le forme di modellismo statico e il cui allestimento è stato curato da numerose associazioni.
Negli anni successivi nel castello sono stati aperti il centro di documentazione storica e archeologica – in collaborazione con le Università di Firenze e di Siena e la Soprintendenza della Toscana –, la biblioteca tematica, il giardino, un laboratorio di restauro modellistico, una sala per conferenze e proiezioni, la cafeteria, un piccolo bookshop. Per il futuro sono previsti altri servizi e attività, anche via internet. I locali sono anche affittabili per incontri, cerimonie, corsi e seminari.
Nel complesso monumentale del castello di Calenzano ogni anno si tengono manifestazioni di vario genere, quali cerimonie in ricordo di personaggi o avvenimenti, rievocazioni storiche con figuranti e veicoli, mostre e concorsi modellistici, proiezioni di film, conferenze, nonché il celebre carnevale medioevale e la ricostruzione dell’incursione del condottiero Castruccio Castracani del 1325.

Patrimonio
Il museo comprende oltre tremila realizzazioni in scala, giocattoli d’epoca, reperti, documenti, manichini e pannelli esplicativi; in alcune vetrine vengono esposte a rotazione mostre modellistiche personali oppure a soggetto.
Il percorso museale prevede una sezione didattica (cos’è e come è nato il modellismo, cosa è possibile realizzare con esso, le tipologie, le implicazioni tecniche e storiche, come lavorano i produttori) e un percorso cronologico, che parte dall’Evo Antico, passa al Medioevo e poi all’Età Moderna e a quella Contemporanea, con particolare spazio dedicato all’Epoca Napoleonica, al Risorgimento italiano, alla Prima Guerra Mondiale.
Un’intera stanza è occupata dai pezzi – figurini, mezzi terrestri, navali e aerei, scenette e diorami – riferiti alla Seconda Guerra Mondiale, partendo dal periodo subito precedente e terminando con la guerra di Liberazione e la fine del conflitto sui vari fronti.





4 luglio 1944: le stragi di Cavriglia

Strage CavrigliaNel territorio di Cavriglia, fortemente caratterizzato dall’attività mineraria, operano le compagnie “Chiatti” e “Castellani” entrambe inquadrate all’interno della 22a bis brigata Sinigaglia. Nel periodo fra maggio e giugno 1944 l’attività partigiana nella zona è particolarmente intensa. Nel complesso i soldati tedeschi scomparsi sono una ventina. Qui il 4 luglio 1944 a Castelnuovo dei Sabbioni, Meleto, e successivamente Le Matole, tutti nel comune di Cavriglia, ha luogo un’orrenda strage nazista in cui verranno uccisi 189 civili.

Sulla vicenda il maggiore Crawley, dello Special Investigation Branch dell’esercito inglese, stese a poche settimane di distanza una dettagliata indagine che però andrà dimenticata fino a fine anni ’90 in seguito alle tristemente note vicende dell’armadio della vergogna. Sappiamo oggi grazie al suo rapporto che responsabili del massacro furono truppe d’élite dell’aeronautica tedesca: i paracadutisti del 76. Panzerkorps, la cui compagnia principale è la Hermann Göring che è stata responsabile delle stragi di Civitella e San Pancrazio del 29 giugno. Sono comandati dai generali Foster e Heidrich e dai colonnelli Bornscheuer e Kluge. A loro si aggiungono gli uomini della Alarmkompanie Vesuv di Wolf, specializzata nella caccia alle bande partigiane.

La strage viene preparata nei giorni precedenti. Il 29 giugno 1944 un operaio della miniera viene sequestrato e torturato. Alla fine cede. Conferma la presenza di partigiani sul luogo e fornisce informazioni sui boschi in cui sono rifugiati. Per l’esercito tedesco le informazioni ricevute sono una molla ulteriore per far scattare l’operazione contro i civili. Il 3 luglio le truppe si accampano nei pressi di Santa Barbara. I soldati coinvolti sono probabilmente fra i 500 e gli 800. Il comando tedesco divide l’azione su tre fronti. Wolf, Groener ed i loro uomini verso Castelnuovo e Massa Sabbioni; Danisch, Casuski verso San Martino; infine gli uomini di Fraulein avrebbero colpito Meleto.

Al mattino del 4, intorno alle 6, Meleto viene accerchiata con un movimento a tenaglia. I soldati iniziano a rastrellare indiscriminatamente civili di sesso maschile. Li conducono al monumento ai caduti della prima guerra mondiale, uno slargo in viale barberino, nel centro del paese. Nessuno dei civili ha chiaro cosa stia per succedere, in molti sono convinti di essere stati radunati per un controllo di documenti o tutt’60 persone intorno al monumento e altri civili continuano ad arrivare. L’assembramento diventa troppo vasto e ingestibile per i soldati tedeschi. Alle 10:30 viene deciso di dividere i civili in 4 gruppi per condurli in 4 aie, 2 all’estremità ovest e 2 all’estremità est del paese. L’esecuzione è rapidissima. Dei colpi di mitragliatrice fendono l’aria. In pochi minuti, senza un processo, senza una spiegazione, 93 civili perdono la vita. I soldati tedeschi incendiano i luoghi del massacro e velocemente si allontanano.

Sempre il 4 luglio 1944 quasi contemporaneamente, a 4 km, a Castelnuovo dei Sabbioni si consuma un altro massacro. Gli abitanti di Castelnuovo a differenza che a Meleto vengono radunati tutti nello stesso luogo: piazza 4 novembre, ai piedi di un alta muraglia sopra a cui la strada porta alla chiesa nella parte alta del paese. A Meleto in 4 civili erano riusciti a salvarsi o per l’età avanzata e le condizioni fisiche o perché in possesso di documenti che li qualificavano come collaboratori dell’esercito tedesco. A Castelnuovo invece non viene fatta alcuna distinzione. Il parroco del paese, don Ferrante Bagiardi, è fra i rastrellati. Nonostante la disperazione riesce però a trovare la lucidità per somministrare la comunione ai fedeli prima di essere ucciso. Vengono sistemate 2 mitragliatrici a 18 metri dai civili in fila contro il muro. In quegli attimi concitati in 4 riescono a salvarsi gettandosi dallo strapiombo a lato della piazza. Il soldato tedesco dietro alla mitragliatrice si rifiuta di sparare. Viene giustiziato sul posto e sostituito. Le mitragliatrici lasciano a terra 68 cadaveri a terra a cui si aggiungono altri 8 civili uccisi per aver tentato la fuga durante il rastrellamento. Dalle case vicine vengono requisiti mobili e gettati sui corpi dei cadaveri accendendo un falò il cui fumo si intravede a chilometri di distanza.

Perché le formazioni partigiane non hanno tentato un’azione per salvare i civili? Era bastato infatti che un aereo poche ore dopo sorvolasse Massa dei sabbioni sganciando delle bombe perché i soldati tedeschi corressero ai ripari permettendo a 12 civili  di salvarsi. La risposta probabilmente è nel piccolo borgo di San Martino situato a 3 km da Castelnuovo. Qui vengono infatti catturati 50 cittadini. Dieci di questi vengono liberati perché possano raccontare che gli altri sono tenuti ostaggi contro eventuali attacchi partigiani nella zona. La strategia ha perfettamente successo: le truppe Castellani vengono fermate dai civili. La stessa richiesta di non agire arriva anche all’altra formazione partigiana la “Chiatti” il cui commissario politico è in quei giorni gravemente ammalato rendendo ancora più difficile una decisione così delicata.

L’emergere di nuova documentazione negli archivi militari tedeschi ha aperto nuove ipotesi sulle motivazioni di questa strage che sembrerebbe non sia stata compiuta direttamente come rappresaglia per le azioni partigiane dei mesi precedenti. Il territorio di Cavriglia rientrava infatti lungo la linea di ritirata della Wehrmacht. Per questo per l’esercito tedesco era assolutamente necessario rendere sicuri quelle zone infestate di ribelli con un’operazione dal nome in codice “Seidenraupe”, baco da seta.




Rete Ecomuseale del Casentino. Mostra permanente sulla Guerra e la Resistenza

Sede e contatti
Via del Prato, 48, Loc. Moggiona, Poppi (AR).
Informazioni e aperture su richiesta: Pro Loco di Moggiona
Telefono: 334 3050985
E-mail ecomuseo@casentino.toscana.it
danilotassini@libero.it
Pagina web:
http://ecomuseodelcasentino.it/content/bottega-del-bigonaio-e-mostra-permanente-sulla-guerra-e-la-resistenza-casentino

Orari di apertura:
Aperto tutto l’anno su richiesta e in occasione di particolari iniziative.

Organi direttivi
La struttura, che rappresenta un’antenna dell’Ecomuseo del Casentino, è coordinata da un comitato composto da Unione dei Comuni del Casentino, Comune di Poppi e Pro Loco di Moggiona. La gestione è a cura della Pro Loco di Moggiona.

Breve storia e finalità
La struttura nasce con lo scopo di tutelare il patrimonio storico, politico e culturale dell’antifascismo e della resistenza promuovendo una cultura di libertà, democrazia, pace e collaborazione tra i popoli. Le motivazioni per l’ubicazione della mostra permanente nel paese di Moggiona sono dettate da precisi avvenimenti legati alla storia recente della comunità interessata dal passaggio della Linea Gotica e segnata da un eccidio nazifascista con l’uccisione di 18 persone tra anziani, donne e bambini avvenuto il 7 Settembre 1944.

La mostra di Moggiona è particolarmente attiva nel settore didattico-educativo, annualmente, infatti, attraverso operatori specializzati (ANPI Arezzo)  vengono svolti seminari, escursioni e incontri in classe rivolti principalmente alle scuole del comprensorio.

Direttamente collegata alla sede espositiva, in continuità con la filosofia ecomuseale, è anche il “Sentiero della Linea gotica” realizzato all’interno del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi. Un percorso suggestivo dal punto di vista naturalistico lungo il quale sono evidenziati i segni di alcune fortificazioni che ospitavano le postazioni tedesche in risposta all’avanzata degli alleati.

Patrimonio
Lo spazio, provvisto anche di piccola biblioteca tematica, espone pannelli didattico-informativi, disegni e documenti storici originali oltre ad alcune testimonianze materiali. Di particolare interesse la raccolta di avvisi e manifesti d’epoca riferiti alla Seconda Guerra Mondiale e al Regime Fascista. La struttura ospita anche mostre temporanee.
É possibile inoltre visionare materiale audiovisivo con interviste e testimonianze tratte dalla “Banca della Memoria” della Mediateca dell’Unione dei Comuni Montani del Casentino da anni impegnata in attività di documentazione e raccolta sulle “memorie di guerra” a livello locale e non.




Ponterosso: un bersaglio strategico per i bombardieri alleati

Proprio il giorno in cui riuscivano a spezzare la resistenza tedesca sulla Linea Gustav, il 18 maggio 1944, gli Alleati, in vista dell’imminente risalita dell’Italia centrale, decisero di scatenare una violenta offensiva aerea contro lo snodo stradale e ferroviario di Ponterosso, piccola frazione versiliese a metà strada fra Pietrasanta (Lu) e Querceta (Seravezza, Lu). In questo preciso punto, infatti, le principali vie di comunicazione della costa toscana settentrionale, la via Aurelia e la linea ferroviaria Genova-Pisa, attraversavano il fiume Versilia a pochi metri l’una dall’altra: considerate anche le scarse difese antiaeree della zona, per i comandi angloamericani si trattava dunque di un’occasione più che propizia per riuscire ad infliggere un duro colpo alla mobilità dei rifornimenti nazisti diretti a sud. Data la rilevanza strategica dell’obiettivo, nei mesi successivi gli aviatori alleati avrebbero tentato altre 14 volte di abbattere i due ponti, in un susseguirsi di massicce incursioni che si sarebbe protratto fino alla tarda estate del ’44, riportando sempre, tuttavia, inspiegabili insuccessi. La furia delle bombe, anzi, finì per accanirsi contro le popolose borgate vicine al bersaglio, distruggendo stalle, campi e canali d’irrigazione, devastando edifici pubblici, compresa la vecchia chiesa paesana di San Bartolomeo, e moltissime abitazioni civili, distanti anche diversi chilometri dall’obiettivo. Soprattutto, però, le incursioni alleate lasciarono sul campo numerosi morti e feriti versiliesi. La particolare posizione delle strutture da colpire, poste a ridosso delle ripide montagne retrostanti la piana, contribuì sicuramente al fallimento delle varie missioni. Ad inficiarne il risultato, tuttavia, furono anche le pressanti condizioni di stress psicologico in cui si ritrovarono a dover operare i piloti americani nell’ultima parte del conflitto, oltre, naturalmente, ai limiti oggettivi delle strumentazioni di tiro dell’epoca, che non permettevano certo di condurre operazioni di tipo “chirurgico”. A tal proposito, si pensi che i comandi alleati del tempo erano soliti considerare come “ottimo”, e dunque particolarmente riuscito, un bombardamento in cui il 50% degli ordigni fosse caduto entro un raggio di 1000 piedi (305 metri) dall’obiettivo designato. Per tutta la Versilia storica, il bombardamento di Ponterosso del 18 maggio 1944 rappresentò un vero e proprio shock, l’ingresso in una fase nuova del conflitto: dal 10 giugno 1940, infatti, era la prima volta che la guerra arrivava a coinvolgere direttamente e pesantemente il territorio, entrando letteralmente nelle case dei versiliesi. Nel giro di pochi minuti, i civili ebbero modo di realizzare non soltanto la totale vulnerabilità della zona agli attacchi aerei angloamericani, ma anche il preoccupante grado di pericolo cui la popolazione finiva per essere esposta in simili frangenti. Di fronte a minacce sempre più reali, che in un prossimo futuro si sarebbero certamente aggravate, alcune famiglie decisero di costruirsi un rifugio di fortuna nell’orto dietro casa, altre, al contrario, scelsero di raccogliere le cose più importanti e di abbandonare la propria casa, per cercare poi una sistemazione più sicura su per le montagne. Erano i primi sfollati versiliesi.




Il sentiero dei martiri d’Istia

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Il sentiero percorso corteo che accompagnò le salme degli 11 ragazzi da Maiano Lavacchio a Istia (cliccare sulla foto per ingrandire)

Nel febbraio 2008 Marco Grilli, ricercatore dell’ISGREC e autore del volume “Per noi il tempo s’è fermato all’alba. Storia dei martiri d’Istia” (Isgrec-Effigi, Arcidosso 2014), raccolse la preziosa testimonianza di Ernesto Simoni, all’epoca dei fatti adolescente di Istia d’Ombrone, che ha permesso di ricostruire il percorso compiuto da alcuni cittadini di Istia al seguito del parroco del paese, Don Omero Mugnaini, che si ribellò alla volontà delle autorità fasciste di seppellire i corpi sul luogo dell’uccisione, Maiano Lavacchio, in una fossa comune. Simoni fece parte del mesto e coraggioso corteo che accompagnò le salme degli 11 giovani, che avevano pagato con la vita la scelta di non prendere le armi al servizio della RSI.

Voi occupatevi dei vivi, che dei morti me ne occupo io”. Sono le parole con cui Don Mugnaini replicò seccamente ai fascisti: un gesto di umanità nell’Italia dilaniata dalla guerra civile. I ragazzi trucidati furono trasportati su 5 carri al cimitero di Istia e lì sepolti dopo una semplice cerimonia, strettamente vigilata.

Nell’aprile 2013, per la prima volta, la strada percorsa da quei 5 carri è divenuta un sentiero della memoria, grazie alla collaborazione dell’Isgrec con l’associazione FIAB-Grossetociclabile. L’iniziativa “Pedalare Resistere Pedalare! Percorsi di Liberazione”, finalizzata a tenere viva la memoria della Resistenza, ha visto ciclisti esperti e meno esperti ripercorrere l’itinerario compiuto da Don Mugnaini e da alcuni abitanti del paese, la sera del 22 marzo 1944 per portare in paese i corpi degli 11 martiri. Il percorso ciclistico è la prima tappa verso una riqualificazione ed una più ampia fruizione di questo prezioso sentiero della Memoria.

A Maiano Lavacchio è inoltre possibile visitare la cappella votiva che i genitori dei fratelli Matteini, 2 degli 11 martiri d’Istia, fecero costruire nel luogo della fucilazione in memoria degli 11 martiri e l’obelisco che il Comune di Magliano fece erigere nel ventesimo anniversario della strage.

Dati del percorso: Km totali 36 di cui circa il 5% su strada a fondo sterrato, dislivello 320 mt, bici consigliata mtb/city bike, itinerario medio facile. Da Maiano Lavacchio a Grosseto possibilità di itinerario che ripercorre sentieri e stradelli che si addentrano nella macchia di Montebottigli. La lunghezza sale a 42 km e il dislivello a 561 mt. Itinerario impegnativo riservato a mtb, per il fondo e il dislivello richiede un discreto allenamento e padronanza della bici.




Fondazione Museo e Centro di documentazione della Deportazione e Resistenza – Luoghi della Memoria Toscana

Sede e contatti
Via di Cantagallo 250, 59100 Prato (Loc. Figline)
Telefono: 0574.470728
0574.461655
Sito web: http://deportazione.po-net.prato.it/
Orari di apertura: Museo – da lunedì a venerdì 9.30-12.30; lunedì e giovedì, sabato e domenica 15-18. Centro di documentazione – lunedì e giovedì 15-18.

Organi direttivi
Soci fondatori: Comune di Cantagallo, Comune di Carmignano, Comune di Montemurlo, Comune di Poggio a Caiano, Comune di Prato, Comune di Vaiano, Comune di Vernio, ANED – Associazione Nazionale ex Deportati sez. Prato ANPI – Associazione Nazionale Partigiani sez. di Prato Comunità Ebraica di Firenze.
Presidente: Aurora Castellani
Direttore: Camilla Brunelli

Breve storia e finalità
Il Museo della Deportazione è stato inaugurato il 10 aprile 2002, alla presenza del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, grazie all’instancabile lavoro dell’ANED e dell’allora suo Presidente Roberto Castellani, e al Comune di Prato che decide di realizzarlo. È una delle poche strutture museali in Italia a essere dedicata alla conservazione della memoria della deportazione. Nel 2008 il Museo è diventato Fondazione con il nome di Fondazione Museo e Centro di documentazione della Deportazione e Resistenza – Luoghi della Memoria Toscana, nel 2012 è stato accreditato come museo di rilevanza regionale. La Fondazione ha tra le proprie finalità quella di avvicinare i visitatori, soprattutto le nuove generazioni, alle vicende storiche che hanno caratterizzato la prima metà del Novecento. Ogni anno sono migliaia gli studenti in visita provenienti perlopiù dalle Province di Firenze, Prato e Pistoia ma anche da altre località italiane ed estere. Attraverso la sua costante attività culturale, didattica, di documentazione e di ricerca la struttura permette, in particolare, di approfondire le tematiche legate alle persecuzioni e deportazioni nei campi di concentramento e di sterminio nazisti, ai movimenti di resistenza e di opposizione al fascismo e al nazismo.

Presso il Museo vengono organizzate visite guidate, proiezioni di film/documentari, laboratori di indagine sulle fonti storiche. Sono inoltre promosse iniziative e corsi di aggiornamento per insegnanti sui temi legati prevalentemente al periodo della Seconda guerra Mondiale e sono ospitati convegni, conferenze, presentazioni di libri e film, spettacoli teatrali e musicali, mostre temporanee, anche in collaborazione con i maggiori studiosi di storia contemporanea italiani e stranieri. La Fondazione cura iniziative dedicate alla memoria per conto dei fondatori, della Regione Toscana e di altri enti pubblici.

La Fondazione si occupa della progettazione di viaggi studio e di attività legate al “Giorno della Memoria”, istituito con la Legge dello Stato n. 211 del 20 luglio 2000, in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti. La struttura è stata inoltre incaricata per le edizioni 2009, 2011 e 2013 del coordinamento e dell’organizzazione del progetto “Treno della Memoria” della Regione Toscana, delle edizioni 2012 e 2014 del Meeting al Nelson Mandela Forum che ha coinvolto ogni anno oltre 8.000 studenti della Toscana e della realizzazione di altri eventi correlati come la mostra “Il processo. Adolf Eichmann a giudizio” in collaborazione con la Fondazione Topografia del Terrore di Berlino. Il Museo è un luogo vivo, di confronto, che lavora per la conservazione della memoria storica e per la sensibilizzazione dei giovani sui temi della Pace e dei diritti universali dell’uomo.

Patrimonio
Il percorso nel museo della Deportazione è concepito come un viaggio simbolico in un campo di concentramento e di sterminio nazista, quel percorso di sofferenza e di morte compiuto da milioni di donne e di uomini, arrestati per motivi razziali, politici o di “igiene sociale”, vittime del progetto nazista attuato durante il secondo conflitto mondiale.

In una prima sala sono esposti pannelli di carattere storico con schede, documenti e cartine sul sistema concentrazionario nazista, sull’organizzazione interna del lager, sulla deportazione dall’Italia, sulla persecuzione degli ebrei in Toscana, sulla vicenda regionale della deportazione politica e altri con testi, foto e cartine dedicate al campo di Ebensee. Tra gli autori di queste schede ci sono storici importanti come Enzo Collotti.

Nella seconda sala del Museo, con un suggestivo allestimento scuro di forte impatto realizzato dall’architetto Alessandro Pagliai, si introduce il visitatore al contatto con la realtà e i simboli del campo di concentramento (KZ). I vari oggetti esposti posseggono un indubbio valore di testimonianza e sono illustrati da didascalie con citazioni tratte dalla memorialistica, da interviste di superstiti prevalentemente toscani e anche dai libri di Primo Levi.

Nel settembre 2010 è stato inaugurato un nuovo e moderno percorso museale audiovisivo “CON I MIEI OCCHI – voci e volti di superstiti dei campi di concentramento e sterminio nazisti”, realizzato grazie al contributo dell’Unione Europea. Il percorso è composto da sette postazioni video, con trasmissione diretta nelle cuffie distribuite ai visitatori,  nelle quali  appaiono testimoni, ebrei sopravvissuti al genocidio e deportati politici prevalentemente  toscani, ma anche sinti e rom, omosessuali e testimoni di Geova che raccontano le loro esperienze secondo un percorso suddiviso a tappe tematiche in cui vengono narrati vari aspetti della deportazione come l’arrivo, la vita e la morte nel campo, le selezioni e lo sterminio.




Pian d’Albero

Casolare Cavicchi Pian d'AlberoQuello di Pian d’Albero è un casolare su un altipiano isolato nei boschi fra il Valdarno e il Chianti. Qui dal 1939 viveva  la famiglia Cavicchi. La loro è una famiglia numerosa di mezzadri contadini come tante in Toscana. Ma dall’ottobre del 1943, caduto il fascismo, hanno fatto una scelta: appoggiare la resistenza che iniziava ad organizzarsi.  Prima ospitano un piccolo gruppo di 12 uomini comandante partigiano Gino Garavaglia. Poi, con i mesi, il loro impegno cresce e arrivano a dar rifugio fino a un centinaio di persone. Pian d’Albero diventa una delle basi della XXII bis Brigata Garibaldi “Sinigaglia”, una formazione di matrice comunista che prende il suo nome da Alessandro Sinigaglia, “Vittorio”, il gappista fiorentino ucciso a febbraio del 1944.

A Pian d’Albero stazionano partigiani effettivi, feriti, ma soprattuto nuove reclute della brigata appena arrivate o ancora inesperte. Il quindicenne Aronne Cavicchi gli fa da sentinella. È un pastore e ad ogni movimento sospetto manda in fuga le sue pecore come segnale di pericolo. Ma con il suo carattere sveglio e loquace è anche la mascotte della brigata. Il 79enne Giuseppe Cavicchi, carattere forte e austero, è invece il “capoccia”, il vecchio che tutti temono, ed ammirano.

Il 19 giugno 1944 in seguito ad uno scontro a fuoco nei pressi di San Martino un tedesco viene ucciso e un altro riesce a fuggire, la fiat Topolino su cui viaggiavano i soldati viene sequestrata e portata a sera a Pian d’Albero. All’alba del mattino successivo, il 20 giugno, un reparto di paracadutisti tedeschi  giunge sul luogo dello scontro seguendo le tracce lasciate dalla Topolino sul terreno bagnato per le piogge dei giorni precedenti. Gli abitanti del luogo vengono sequestrati e minacciati, uno viene ucciso. Un piccolo gruppo viene obbligato ad accompagnare i tedeschi sul luogo del nascondiglio partigiano. Complice anche la nebbia, che ne nascondeva i movimenti, i soldati tedeschi riescono a salire lungo Carpignano, dividersi in due reparti e sistemarsi nei ridossi di Pian d’Albero uno alla sinistra e uno alla destra del casolare.

Quel mattino nel casolare dei Cavicchi ci sono quasi cento partigiani, ma quasi tutti sono nuove reclute. Solo quattordici fra i partigiani sono armati, ma non possono niente contro i paracadutisti tedeschi che sono in numero nettamente superiore e vengono immediatamente uccisi. Viene ucciso anche il vecchio Giuseppe Cavicchi. Sorpresi durante il sonno in pochi fra i partigiani riescono a fuggire e sono catturati. Vengono presi prigionieri anche Aronne ed il padre Norberto.  Solo le donne della famiglia Cavicchi e la piccola Giuseppina riescono a salvarsi.

Cosa ne è stato di tutto il sistema difensivo partigiano acquartierato intorno a Pian d’Albero? Sicuramente tutti vennero colti di sorpresa. Il commissario politico della brigata Sirio Ungherelli racconta di come in molti temettero che quello fosse solo l’inizio di una più vasta operazione di rappresaglia. Alla sorpresa e alla paura si aggiunse quel mattino, fra le file dei partigiani, anche la mancanza di comunicazioni a far si che si tardasse ad organizzare una pronta risposta. Solo una piccola squadra riesce  ad arrivare in tempo a Pian d’Albero. Sono sovietici, ex prigionieri di guerra nazisti, che si sono uniti alla Resistenza toscana. Cercano di spezzare il cerchio nazista intorno ai prigionieri e farne fuggire il maggior numero possibile. Ma il loro tentativo non riesce. I tedeschi scendono a valle con i prigionieri. Hanno fretta, sanno che quello potrebbe essere solo il primo di altri attacchi. Infatti poco oltre vengono intercettati dalla compagnia “Faliero Pucci” detta “Stella Rossa”. Nello scontro alcuni fra i prigionieri riescono a fuggire. Altri restano immobili terrorizzati.  Gli attacchi e le imboscate da parte delle compagnie partigiane si susseguono nel tentativo di far fuggire il maggior numero di prigionieri. Alla fine in mano dei tedeschi restano diciotto uomini. Dopo un processo farsa vengono impiccati uno a uno sugli alberi all’incrocio delle strade a S. Andrea di Campiglia. Non viene risparmiato neanche Norberto Cavicchi, né il giovane Aronne che viene impiccato, sembra, di fronte agli occhi del padre.

Monumento Pian d'AlberoA testimonianza della tragedia rimane il monumento ai caduti di Pian d’Albero, lungo la strada odierna che porta a Ponte agli Stolli, ai piedi dei gelsi usati allora per l’impiccagione. Rimane il casolare di Pian d’Albero visitabile percorrendo un sentiero CAI che parte da S.Martino. Quel casolare, è stato deciso nel Marzo 2008 con una bella iniziativa della Regione Toscana, diventerà un parco della Resistenza sul modello del Museo Cervi di Reggio Emilia.




Villa Triste

Oggi elegante condominio di un’ambita e tranquilla zona residenziale cittadina, la palazzina posta al n. 67 di via Bolognese dietro l’austerità dei suoi volumi e l’essenzialità tipica del razionalismo architettonico fascista cela ancora in parte le tracce di una pagina greve della storia nazionale e cittadina. Al tempo dell’occupazione tedesca e della Repubblica Sociale Italiana, questo fabbricato situato all’angolo tra via Bolognese e via Trieste servì infatti dal marzo 1944 sino alla liberazione di Firenze come sede della temibile SS-Sicherheintdienst, la polizia politica nazista, ma anche del comando della Banda Carità, il Reparto Servizi Speciali fascista agli ordini del comandante Mario Carità passato alla storia per l’efferatezza dei suoi metodi di interrogatorio. “Villa Triste” fu per l’appunto l’epiteto che la memoria antifascista assegnò a questo luogo, tetro scenario di torture e violenze a danni di resistenti e antifascisti cittadini.

20140319_100115 defIl gruppo di aguzzini diretto dal Carità, prima, e dal suo braccio destro Giuseppe Bernasconi, poi, dal settembre 1943 aveva cambiato più volte sede: una villetta requisita a una famiglia israelita al n. 22 di via Benedetto Varchi, la villa Malatesta di via Ugo Foscolo e dal dicembre 1943 alcune stanze di Villa Loria, proprietà confiscata ad un cittadino ebreo posta al n. 88 di via Bolognese. Fu da quest’ultima sede che nel marzo 1944 il Carità trasferì il proprio reparto al vicino numero civico 67 della stessa via, prendendo possesso di due appartamenti posti al piano terreno e degli scantinati del fabbricato, trasformati in celle detentive. Fu questa tra tutte la più nota “Villa Triste” fiorentina. Nei suoi locali furono condotti e interrogati esponenti di spicco dell’antifascismo fiorentino, perseguitati politici ed ebrei. Molti tra questi subirono violenze e sevizie: percosse fisiche, umiliazioni corporali, vere e proprie torture. Nel giugno 1944 i componenti il gruppo di radio CORA, emittente clandestina antifascista sgominata dagli uomini del Carità, furono portati al n. 67 di via Bolognese dove subirono efferati supplizi. Tra questi, Enrico Bocci e Italo Piccagli resistettero coraggiosamente alle sofferenze inflitte loro da tedeschi e fascisti, assumendosi la responsabilità dell’organizzazione e non lasciando trapelare informazione alcuna. Simile destino era toccato poco prima ad Anna Maria Enriques Agnoletti, giovane antifascista fiorentina, sottoposta a Villa Triste a torture fisiche e psicologiche: fu tenuta sveglia per una settimana intera senza possibilità di dormire e costretta a stare in piedi per ore ed ore. Tradotta in seguito agli interrogatori nelle carceri di Santa Verdiana, il 12 giugno 1944 sarebbe stata fucilata dai tedeschi in località Cercina assieme ai patrioti di radio CORA.

Ma nel lungo elenco dei torturati di Villa Triste va ricordato soprattutto il nome di Bruno Fanciullacci, gappista fiorentino protagonista di ardite azioni partigiane e al centro della discussa uccisione del filosofo Giovanni Gentile. Brutalmente torturato una prima volta dagli uomini del Carità, il Fanciullacci, dopo aver riconquistato la libertà, fu però di nuovo catturato il 4 luglio 1944. Condotto a Villa Triste, nel rocambolesco tentativo di darsi alla fuga Fanciullacci si gettò da una finestra del secondo piano sulla strada antistante, morendo l’indomani a seguito dei traumi riportati nella caduta.

Al suo nome l’amministrazione comunale di Firenze nel 2003 ha intitolato lo slargo antistante Villa Triste. Già dopo la guerra, d’altra parte, una epigrafe dettata da Piero Calamandrei posta sulla facciata dell’edificio aveva elevato questo triste luogo a simbolo dell’antifascismo e della memoria resistenziale cittadina in ricordo di coloro che pur sotto tortura non tradirono la causa della Resistenza: “languire soffrire morire” ma “non tradire” secondo la dedica stessa del Calamandrei.