L’uccisione di Roberto Bartolozzi.

Feliciano Bechelli - Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea in provincia di Lucca

29 giugno 1944: un giorno tragico nella storia della Resistenza armata a Lucca.

Lapide di Roberto Bartolozzi posta sul muro dell'ex Chiesa di San Quirico
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Sono le 15.30 del 29 giugno 1944. Ci sono sei uomini sul muretto del ponticello di via dei Fossi, davanti alla storica Porta San Gervasio, nel centro di Lucca. Appartengono alle squadre partigiane cittadine e stanno pianificando gli ultimi dettagli per un’azione contro i carabinieri che dovrà svolgersi quella stessa sera. Il loro capo è Roberto Bartolozzi, un operaio specializzato della compagnia telefonica Teti. Ha trent’anni, è di La Spezia, ma si è trasferito a Lucca da un anno, da quando la centrale spezzina è stata colpita da un bombardamento.

Bartolozzi è comunista. Il suo è stato un percorso ideologico maturato nel tempo: a diciannove anni è partito volontario per la Tripolitania e l’esperienza gli ha fatto capire tante cose sul regime fascista, tant’è che, quando nel 1937 è rientrato in Italia e iniziato a lavorare alla Teti, ha provato a sensibilizzare i colleghi sulle ingiustizie sociali cui sono sottoposti. Con scarso successo, però. Nel frattempo si è sposato con Linda Bessolo e la coppia ha avuto una figlia, Anna Maria. Trasferitosi a Lucca ha finalmente conosciute persone che la pensano come lui e dopo l’armistizio la prospettiva di fare qualcosa contro i tedeschi che hanno occupato la città e contro la neonata Repubblica Sociale Italiana lo ha spinto a un iperattivismo antifascista.

C’è da trafugare armi e nasconderle? Nessun problema, Bartolozzi le sottrae al picchetto armato della Teti e le nasconde nella sede di via Santa Croce.

C’è da aiutare ebrei a fuggire dalla città o ufficiali inglesi evasi dai campi di prigionia? Bartolozzi li traveste da operai della Teti, li carica sul furgone e li porta fuori città.

C’è da andare a prendere una macchina tipografica dalle parti di Firenze? Bartolozzi, ancora una volta sfruttando il suo impiego, va e procura.

C’è da organizzare squadre armate? Ecco, questo avviene a dicembre 1943, quando Bartolozzi – ormai acquisita tutta la fiducia dal CLN comunale – viene incaricato di tale missione. La prima squadra è quella di via dei Borghi, poi nei primi mesi del 1944 se ne costituiscono altre, in centro storico e in alcuni quartieri di periferia. Il riferimento è sempre lui, che cerca anche di stabilire contatti con formazioni operanti nel resto della provincia, in particolare con il Gruppo Valanga stanziato sulle Apuane.

E arriviamo così agli eventi del 29 giugno. Due settimane prima è venuto a Lucca Alessandro Pavolini e ha preannunciato la trasformazione del PFR in partito armato con la nascita delle Brigate nere. La prima di queste formazioni si costituirà proprio a Lucca e prima ancora che venga pubblicato il decreto istitutivo. Proprio quel 29 giugno il giornale del fascismo lucchese, “L’Artiglio”, chiama a raccolta i fascisti affinché ritirino l’equipaggiamento base per iniziare la loro attività nella Brigata nera. Insomma, c’è movimento in città. Ma i partigiani lucchesi, come accennato, non se ne curano: in base ad alcune informazioni fornite da un tenente dei carabinieri sembra che sia possibile disarmare due caserme, quella di Borgo Giannotti e quella di San Concordio. Viene deciso per la prima perché vi sono nascoste più armi automatiche. Il piano prevede che un gruppo si presenti all’ingresso principale e un altro entri da un piccolo portone che dà su una strada laterale: sarà un attacco simultaneo sfruttando il fatto che a quell’ora dovrebbero essere presenti soltanto un piantone e un carabiniere. Per la fuga verranno utilizzati due carretti dei netturbini. Uno dei patrioti, Vannuccio Vanni, non è convinto della segnalazione e va a Borgo Giannotti per capire meglio la situazione: vede una camionetta tedesca ferma sulla strada e riesce ad avvertire i compagni per sospendere l’azione.

Bartolozzi e gli altri sono perciò costretti a tornare alla palazzina Teti per riporre le armi nel nascondiglio. Stanno per uscire quando sentono bussare alla porta. Sono tre militi dell’Ufficio Politico Investigativo della Guardia Nazionale Repubblicana. Il giorno prima hanno arrestato un antifascista, Roberto Diena, e gli hanno trovato un biglietto firmato “Roberto”. Diena non fa nomi, ma è pure lui spezzino trapiantato a Lucca e le autorità fasciste sono risalite a Bartolozzi di cui fino a questo momento hanno ignorato l’attività clandestina. Così vanno alla Teti e quando si vedono di fronte i partigiani chiedono chi di loro è Roberto: la risposta arriva immediata con un paio di gomitate allo stomaco sferrate proprio dal comandante che poi, ancora in tuta da lavoro, scappa in direzione di piazza Bernardini, mentre gli altri che sono con lui fuggono dalla parte opposta, mettendosi in salvo. Infatti, i tre militi decidono di inseguire Bartolozzi e lo raggiungono in una piazzetta poco distante, di fianco al cinema “Littorio”. Inseguitori e fuggitivo combattono, richiamando alcuni avventori di un ristorante che si affaccia proprio sulla piazzetta. Tra di loro c’è un avvocato, Giulio Carignani, che, non sapendo e non capendo il motivo della colluttazione, interviene per placare gli animi:

Giunto all’altezza del ristorante “Passeggiero” vidi in distanza sull’angolo della piazza San Quirico un gruppo di persone che si accapigliava (…) avvicinatomi rapidamente al gruppo per vedere di intervenire e cercare di pacificare gli animi se fosse stato necessario, ebbi subito le spiegazioni di quello strano pugilato, in quanto vidi cadere in terra un oggetto nero, che non era altro che una rivoltella, la quale percuotendo sul selciato lasciò partire un colpo. Io mi precipitai subito sulla rivoltella e l’afferrai prima che quello dei contendenti a cui era sfuggita riuscisse a riprenderla.

C’è un altro avvocato nelle vicinanze che assiste alla scena ed è Mario Frezza, del CLN cittadino:

la colluttazione tra l’avvocato Carignani e lo sconosciuto terminò quasi subito e l’arma rimase in possesso di quest’ultimo il quale avvicinatosi rapidamente al gruppo dei tre sparava quasi a bruciapelo 3 colpi di pistola all’uomo in tuta che veniva mantenuto col viso contro il muro dagli altri due.

I tre aggressori fascisti fuggono, mentre Bartolozzi, pur gravemente ferito, in qualche modo si rialza ed entra nel cinema per rifugiarsi nella cabina di proiezione. Nel frattempo, un ufficiale della GNR, Giuseppe Natale Scacchiotti, che si trova a cena al ristorante “Il Passeggero”, sente i colpi di pistola: esce dal locale e si imbatte in due dei tre militi che gli spiegano quanto è successo. Insieme a loro torna in piazzetta, ma Bartolozzi non c’è più:

voltandomi indietro e non avendo più visto i due militi, per richiamarli e per richiamare l’attenzione eventualmente di altre persone ho sparato mentre mi trovavo proprio all’angolo in prossimità della “Tazza d’oro” tra via dell’Arancio e piazzetta S. Quirico una raffica di sten in aria di circa 7 od 8 colpi e forse anche più.

Gli spari di Scacchiotti inducono diverse persone a uscire dal cinema e qualcuno lo avverte che Bartolozzi si è rifugiato dentro. Prosegue il racconto dell’ufficiale:

Recatomi colà e senza salire nella cabina ho visto il ferito che aveva il volto imbrattato di sangue e ferite nel viso e che versava in gravissime condizioni, tanto che alle mie domande rivoltegli per apprendere l’accaduto rispose: “è finita, è finita!”.

Bartolozzi viene poi portato all’ospedale da un automezzo della Misericordia e lì muore alle 2.45 per «ferita d’arma da fuoco alla regione sacrale sinistra con foro di uscita alla coscia anteriore destra ed una ferita transfossa al terzo inferiore della stessa coscia con foro d’entrata lateralmente e foro d’uscita medialmente in basso». Prima di spirare, interrogato dal vicebrigadiere Ragonese, il capo partigiano dichiara di essere stato aggredito a scopo di rapina e derubato di mille lire.

L’episodio del 29 giugno è un punto di svolta per la resistenza armata a Lucca. Scriverà anni dopo Vannuccio Vanni:

Quel 29 giugno fu un giorno tragico per l’intera nostra organizzazione, anche perché il riconoscimento del Bartolozzi come partigiano da parte delle camicie nere poteva essere frutto solo di un tradimento. E questa consapevolezza impose serie riflessioni a tutti i livelli, dalla compagine direttiva del CLN al Comando militare, al movimento. Furono intensificate le verifiche per accertare che le norme della clandestinità fossero severamente applicate da tutti, per evitare infiltrazioni e provocazioni. Anche tutto l’apparato politico fu richiamato ad essere più preciso nel lavoro, sia durante i contatti con gruppi già organizzati, sia durante il reclutamento. Fu anche controllato che le decisioni prese dal Comando in merito alle armi venissero eseguite solo da uomini fidati.

Il Comitato militare affiderà a Mario Bonacchi l’obiettivo di riorganizzare i vari gruppi in uno solo comandato da lui.

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