Matteotti a Siena

Paolo Leoncini - Istituto storico della Resistenza senese e dell'età contemporanea

Breve cronaca di una visita e di un'aggressione

image_pdfimage_print

Nel fine settimana che precede il Natale 1920, si tiene a Siena il congresso provinciale del Partito socialista: le elezioni amministrative sono state vinte quasi ovunque (tranne che nel capoluogo) ed ora ci sono i Comuni da amministrare e dei compagni che nella gran parte dei casi non sono molto preparati.

Il Partito invia a Siena alcuni deputati e tra di loro c’è Giacomo Matteotti, uno che in tema di finanze e di istruzione non ha niente da imparare da nessuno.

Su quanto però i socialisti senesi abbiano ascoltato Matteotti è lecito nutrire dubbi, essendo l’attenzione di tutti rivolta all’ormai prossimo congresso di Livorno.

Non è la prima volta che Matteotti passa per Siena: lui e la moglie Velia, ambedue appassionati dell’arte senese, erano stati attratti non solo dal Palazzo comunale ma anche dalle tante botteghe artigianali, comprese quelle dei bravissimi falsari del tempo.

Quando due anni e mezzo dopo Matteotti tornerà a Siena, la sua vita e quella della sua famiglia saranno ormai completamente stravolte.

Giacomo arriva in città alla fine di giugno 1923, proprio nei giorni che precedono il Palio, reduce da un non facile viaggio tra i compagni siciliani, pesantemente sorvegliato dalla polizia. Rientrando a Roma in un momento in cui i lavori parlamentari sono sospesi, egli scrive a Velia proponendole qualche giorno da passare assieme “in Lucchesia o in Umbria”; poi si eclissa e lo vediamo spuntare in segreto a Siena. Lo ha preceduto Velia, arrivata da Milano con un gruppo di amici di cui fanno parte, quasi certamente, la sorella ed il cognato, anche loro consapevoli di quanto sia opportuno farsi notare il meno possibile.

A Siena è stato allertato il cavaliere del lavoro, Giovanni Romei, affermato industriale del ferro e forse grazie a lui il gruppo trova alloggio all’Hotel Royal, dalle cui finestre si possono scorgere i giardini della Lizza e la statua equestre di Garibaldi. Velia e Giacomo visitano di nuovo la città e di certo si recano al negozio di ferri battuti di Pasquale Franci, che si trova proprio dove si esce dalla Piazza del Campo per risalire via del Casato: lì acquistano una lumiera per la casa che stanno arredando a Roma.

Poi i due visitano certamente qualche palazzo o qualche chiesa ed ancora le botteghe artigiane: falegnami, pittori, decoratori i cui lavori riportano a secoli passati, quelli della grande arte senese. Ovunque essi si presentano come “signori Steiner”, usando il cognome del cognato milanese.

Sono giornate abbastanza convulse: in città, acclamato dal popolo, c’è il ministro dell’istruzione pubblica, Gentile, chiamato a garantire la sopravvivenza della locale università minacciata da possibili riforme.

Ci sono i deputati locali, a cominciare dall’avvocato liberale Gino Sarrocchi, protagonista alla Camera di duri scontri con Matteotti.

C’è Dario Lupi, sottosegretario di Gentile, l’uomo che ha inventato i parchi della rimembranza e che soprattutto ha riportato il crocifisso nelle aule scolastiche.

E poi Cesare Rossi, il segretario della presidenza del consiglio, che un anno dopo si sarebbe personalmente occupato del rapimento e dell’uccisione di Matteotti; con lui presumibilmente gente del mondo della milizia.

Probabilmente però nessuno di loro si accorge della scomoda presenza di Matteotti: del resto su quanto poi accadrà, ogni giornale ed anche il prefetto danno versioni diverse.

In ogni caso, nel pomeriggio del 2 luglio, mentre la comitiva si divide per trovare posti da cui assistere alla corsa, Matteotti viene individuato, aggredito e rapidamente allontanato da Siena.

Come era accaduto nel 1921, in occasione della clamorosa aggressione avvenuta a Castelguglielmo, nel Polesine, Matteotti non ama fare clamore sulla violenza subita, dunque non si sofferma sull’episodio senese. Pochi giorni dopo c’è però la visita del Romei a Montecitorio, per il desiderio di  stigmatizzare l’accaduto e portare solidarietà a Matteotti; ci sono soprattutto le lettere scambiate nei giorni seguenti con Velia a dimostrare come l’aggressione subita avesse aumentato i timori della donna.

In seguito, né Giacomo, che avrebbe comunque continuato ad affrontare con infinito coraggio il regime, né Velia che con un coraggio ancor maggiore avrebbe continuato ad amare e sostenere il marito, avrebbero potuto farsi illusioni sulla fine della loro storia. Basta scorrere i resoconti apparsi sui giornali, cominciando da quello sprezzante pubblicato sul «Popolo d’Italia», firmato con uno pseudonimo che può appartenere solo ad uno dei fratelli Mussolini.

Siena ricorrerà nelle vicende di Matteotti giusto il giorno seguente il rapimento: la prima notizia del fatto appare sull’edizione serale del «Corriere della sera», 12 giugno 1924, e riporta il disperato invito di Velia a cercare Giacomo o a Siena o dalla madre, a Fratta Polesine.

Oggi è comunque bello ricordare quanto Cesare Biondi, noto medico e professore dell’Università senese, scrisse in quei giorni a Filippo Turati: “Ricordo, guardando da una finestra del mio studio la Torre del Mangia e le ondulazioni cretacee della campagna senese, come proprio l’ultima volta che vidi Matteotti parlammo di Siena e del fascino mistico di questa campagna silenziosa… egli conosceva bene l’arte senese ed io gli avevo detto che in un momento più sereno gli avrei mostrato qualcosa che egli non conosceva, in qualche cantuccio inesplorato, e che avremmo goduto insieme”.

  • (will not be published)
  • Chi sei?

  • Titolo del tuo contributo*


  • Iscriviti alla newsletter di ToscanaNovecento
  • Puoi usare codice html: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>